RELAZIONE DELLA V COMMISSIONE PERMANENTE
(BILANCIO, TESORO E PROGRAMMAZIONE)

Presentata alla Presidenza il 1o ottobre 2015

(Relatore: MELILLA, di minoranza)

sulla

NOTA DI AGGIORNAMENTO DEL DOCUMENTO DI ECONOMIA E FINANZA 2015

(Articoli 7, comma 2, lettera b), e 10-bis della legge 31 dicembre 2009, n. 196, e successive modificazioni)

presentata dal presidente del consiglio dei ministri
(RENZI)

Trasmessa alla Presidenza il 19 settembre 2015

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  Onorevoli Colleghi ! — La presente relazione di minoranza è proposta dal gruppo SEL per illustrare la propria posizione sulla Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza 2015 e le relazioni sulle spese di investimento e sulle relative leggi pluriennali, previste dall'articolo 10-bis della legge 31 dicembre 2009, n. 196 (Allegato I), sul rapporto sui risultati conseguiti in materia di misure di contrasto dell'evasione fiscale, di cui all'articolo 2, comma 36.1, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148 (Allegato II), nonché sulla Relazione presentata ai sensi dell'articolo 6, comma 5, della legge 24 dicembre 2012, n. 243 (Allegato III).

Il quadro internazionale proietta seri rischi sulla crescita.

  Prospettive di crescita più deboli e visibile sofferenza sull'indirizzo della politica monetaria a tassi zero o comunque bassissimi che non aiuta a ridurre lo stock del debito: la crescita mondiale potrebbe indebolirsi senza forti politiche per la crescita. La previsione di una crescita del PIL pari all'1,6 per cento per il 2016 potrebbe risultare eccessivamente ottimista. Anche per il 2015, peraltro, l'OCSE prevede un incremento del PIL pari allo 0,7 per cento rispetto al 0,9 per cento della Nota di aggiornamento (mentre il Centro studi di Confindustria, per la verità, fa sua una previsione di un 1 per cento). Lo stesso Ufficio parlamentare di bilancio ha messo in guardia il Governo: «Nell'insieme evoluzioni delle variabili internazionali (commercio, cambio, petrolio) meno favorevoli di quelle ipotizzate potrebbero contribuire a indebolire il quadro macroeconomico stimato dal Ministero dell'economia e delle finanze nel 2016 per quanto riguarda la crescita (maggiore rallentamento del commercio globale) e negli anni successivi per quanto riguarda l'inflazione (eventuale apprezzamento dell'euro)». Questo rischia di avere delle conseguenze sulla regola del debito, che riguarda la diminuzione del rapporto tra stock del debito e PIL nominale. L'andamento del commercio mondiale viene rivisto al ribasso di un punto percentuale nel 2015 e dello 0,8 per cento nel 2016. Il rafforzamento della domanda interna dovrebbe compensare l'indebolimento della congiuntura internazionale, ma su questo è lecito avere più di un dubbio (poca redistribuzione del reddito, poca nuova occupazione, i consumi sono il traino soprattutto delle importazioni). In questo secondo semestre del 2015 la mini-crescita dell'economia si mantiene. Ma le prospettive per il futuro sono meno rosee e facili di quanto si pensasse fino a qualche mese fa. Per gran parte la mini-ripresa del 2015 dipende soprattutto dalla domanda interna. Ma per la crescita dei primi due trimestri stiamo parlando essenzialmente di accumulo di scorte. Si tratta dunque di una crescita ancora incerta. A confermare la moltiplicazione dei fattori di incertezza sono l'OCSE a livello internazionale e in Italia l'ultima comunicazione del Centro studi della Confindustria, in cui si ricorda addirittura la possibilità che il mondo sia di fronte a una stagnazione secolare. Secondo molti economisti essa sarebbe effetto, in particolare, di una carenza strutturale di domanda aggregata conseguente alle politiche distruttive del lavoro (precarizzazione, bassi salari, aumento del lavoro gratuito). L'analisi della Confindustria è netta: «le prospettive della crescita mondiale sono insoddisfacenti. Le previsioni di aumento del PIL globale sono state continuamente riviste al ribasso negli ultimi quattro anni: da un 4,8 per cento medio annuo atteso nel 2011 per i cinque anni successivi a un 3,9 Pag. 3per cento previsto nel 2015 (FMI). Per quest'anno nell'arco di 12 mesi le stime sono state abbassate dal 4,0 per cento al 3,3 per cento. Il rallentamento è generalizzato, ma maggiore nelle economie emergenti strutturalmente più dinamiche: dall'inizio della crisi le prospettive di crescita sono diminuite di mezzo punto percentuale nei Paesi avanzati (da 2,6 per cento medio annuo nel 2008 a 2,1 per cento nel 2015) e di quasi due punti in quelli emergenti (da 7,0 per cento a 5,1 per cento). Nelle stime del Centro studi della Confindustria, l'aumento del PIL mondiale è deludente: nel 2015 3,2 per cento e nel 2016 3,6 per cento. Rispetto al 5,1 per cento osservato nel periodo pre-crisi (media annua nel 2002-2007). Aumentano, inoltre, i rischi al ribasso, derivanti da un rallentamento più brusco della Cina e degli altri maggiori emergenti». Tutto questo, suggeriscono gli analisti della Confindustria, «abbassa il sentiero di crescita dell’output potenziale, verso cui il PIL tende nel lungo periodo. Tanto che alcuni economisti parlano di stagnazione secolare». È dunque decisiva l'adozione tempestiva di misure consistenti per rilanciare la crescita. L'OCSE nel Composite leading indicators (CLIs) conferma che la crescita è stabile in Europa, in particolare in Germania e in Italia. Sta consolidandosi anche in India. La crescita è moderata in Gran Bretagna e Canada. Ma Cina, Russia e Brasile presentano dati preoccupanti, con il rischio di ripercussioni sull'insieme dell'economia mondiale. BCE e G20 prevedono un rallentamento e invitano i Paesi avanzati a spingere sulle politiche per lo sviluppo. Lo staff di previsori della BCE ha in particolare tagliato le stime di crescita per l'Eurozona, rispetto a quelle redatte in giugno: quest'anno il PIL dovrebbe crescere dell'1,4 per cento, anziché dell'1,5; nel 2016 la crescita dell'economia dovrebbe essere dell'1,7 per cento invece dell'1,9; nel 2017 il PIL dovrebbe aumentare dell'1,8 per cento anziché del 2. «Sono emersi di recente nuovi rischi al ribasso per le prospettive di crescita e inflazione», ha spiegato Mario Draghi, governatore della BCE, nella conferenza stampa dopo la riunione del board di Francoforte. «Le informazioni disponibili indicano una continua, anche se più debole, ripresa economica e un aumento più lento dei tassi di inflazione rispetto alle aspettative». Ed è proprio da questa previsione che il consiglio direttivo della BCE ha preso le mosse per giudicare prematuro oggi «stabilire se questi sviluppi abbiano un impatto duraturo sulle previsioni sui prezzi e sul percorso per riportare l'inflazione verso il nostro obiettivo di medio termine, o se vadano considerati prevalentemente transitori». Ma ha anche annunciato, per evitare equivoci, resistenze, inutili dibattiti, «la volontà e la capacità di agire, se necessario, utilizzando tutti gli strumenti disponibili nell'ambito del suo mandato» usando se necessario tutta la flessibilità del programma di quantitative easing sufficiente in termini di quantità e di qualità per risvegliare l'economia europea. «Nel frattempo – ha detto Draghi – noi attueremo in pieno i nostri acquisti di asset mensili da 60 miliardi di euro. Tali acquisti hanno un impatto positivo sul costo e la disponibilità di credito per imprese e famiglie. Essi sono destinati a proseguire fino alla fine del settembre 2016 o oltre se necessario, e, in ogni caso fino a quando non vedremo che l'inflazione segua un percorso coerente con il nostro obiettivo di tassi inferiori ma prossimo al 2 per cento nel medio periodo». Nello stesso giorno della riunione della BCE, anzi nelle stesse ore in cui si svolgeva il vertice a Francoforte, i tecnici dei 20 Paesi più sviluppati hanno rilasciato il testo base per la riunione del 4 e 5 settembre. Con una previsione non diversa da quella della BCE. «La crescita globale rimane moderata, riflettendo un ulteriore rallentamento nelle economie emergenti e una debolezza della ripresa nelle economie avanzate. In un contesto di crescente volatilità dei mercati finanziari, con i prezzi delle materie prime in calo, un debole afflusso di capitali e un deprezzamento delle valute nei Paesi emergenti, i rischi al ribasso per le prospettive dell'economia mondiale sono aumentati, soprattutto per quanto riguarda i mercati emergenti e in via di sviluppo». L'anno venturo le cose potrebbero migliorare, ma i governi e i Parlamenti dovrebbero muoversi per ottenere questo risultato, Pag. 4con politiche più orientate allo sviluppo nei Paesi già sviluppati e con adeguate riforme nei Paesi emergenti. Una iniziativa non scontata, come dimostra la persistente resistenza della tecnocrazia europea, formatasi all'ombra dell'ideologia dell’austerity ad ogni costo, a imboccare una strada diversa dall'ordo-liberismo imposto per anni come l'unica strada possibile.

La Nota di aggiornamento.

  Con la Nota di aggiornamento del DEF il Governo ha rivisto al rialzo le stime di crescita per quest'anno (da 0,7 per cento di aprile a 0,9 per cento) e per il 2016 ( 1,6 per cento rispetto a 1,4 per cento). Nello stesso tempo, è stato aumentato il livello di indebitamento netto programmato per il 2016: ad aprile era stato definito a 1,8 per cento, adesso viene elevato al 2,2 per cento.
  È stato inoltre spostato in avanti di un altro anno, dunque al 2018, il target del pareggio strutturale, mentre nel 2017 l'indebitamento netto strutturale sarà dello 0,3 per cento con un rapporto deficit/PIL all'1,1 per cento. Questo aspetto della manovra dovrà essere votato – secondo quanto prevede il nuovo articolo 81 della Costituzione – a maggioranza assoluta dai due rami del Parlamento. Come d'altronde era accaduto l'anno scorso con una risoluzione ad hoc. Ma non solo, anche per il superamento del patto di stabilità interno, ci vuole un pronunciamento della maggioranza assoluta. Si ricorda, infatti che, oltre al decreto-legge n. 78 del 2015 menzionato dalla Nota, una ulteriore deroga al patto di stabilità interno, è stata introdotta dall'articolo 1, comma 164, della legge n. 107 del 2015 che prevede nel 2015 un'attenuazione delle sanzioni per mancato rispetto del patto per l'anno 2014 pari all'importo della spesa per edilizia scolastica sostenuta nel corso dell'anno 2014. Con riferimento al progressivo superamento dell'attuale assetto del patto di stabilità interno per gli enti locali con l'adozione della regola del pareggio di bilancio, andrebbero chiarito se l'estensione della regola sarà generalizzata per tutti gli enti o interesserà solo una parte degli stessi, come sembrerebbe presupporre il termine «progressivamente» citato nella Nota. Si rammenta che in caso di eventuali modifiche alla legge n. 243 del 2012 tali innovazioni richiedono di essere approvate con maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, in quanto trattasi di legge cosiddetta «rinforzata».

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  Più crescita prevista e più deficit (sperando che l'Europa ci conceda grande flessibilità), in modo da avere i margini per rispettare le diverse promesse fatte agli italiani. L'intenzione del Governo è quella di beneficiare quasi completamente dei margini di flessibilità previsti dalle regole europee:
   – uno 0,1 per cento ulteriore in virtù della clausola delle riforme strutturali (oltre allo 0,4 per cento già ottenuto);
   – e uno 0,5 per cento in più per la clausola degli investimenti sostenuti tramite il cofinanziamento europeo, un margine che sarebbe usato per lo 0,3 per cento;
   – l'Italia chiederà inoltre una flessibilità addizionale fino allo 0,2 per cento del PIL nel 2016 (3,3 miliardi) per i costi che si è assunta nella gestione dell'emergenza migranti.

  Se arriverà l’ok di Bruxelles, l'Italia potrà ricorrere a margini di flessibilità per un totale di più di un punto di PIL, fino a 17,9 miliardi di euro.
  Sul fronte della spesa si beneficerà del calo di quella per interessi sul debito: quest'anno sarà di circa 70 miliardi (4,3 per cento del PIL), con una riduzione di circa 0,4 punti sul 2014. Nel 2016 il rapporto dovrebbe rimanere stabile. L’output gap che misura la distanza tra crescita reale potenziale, passerebbe dal 4 per cento di quest'anno al 2,5 per cento del 2016 per poi quasi azzerarsi nel 2018. L'inflazione passa dallo 0,6 per cento del 2015 al l'1,1 per cento del 2016. Il tasso di disoccupazione scenderà quest'anno dal 12,7 per cento del 2014 al 12,2 per cento del 2015, per calare sotto il 12 per cento nel 2016. Con le privatizzazioni si punta ad incassare 6-7 miliardi quest'anno e 8 miliardi l'anno prossimo. Si prosegue nel programma previsto: Poste, Enav, StM e FS. L'attuazione delle operazioni «è in ogni caso condizionata alla presenza di condizioni di mercato favorevoli». Nonostante l'ennesimo slittamento, l'Italia ha confermato formalmente l'impegno a ridurre il debito pubblico dal 132,8 per cento di quest'anno (valore corretto al rialzo dello 0,3 per cento) al 131,4 per cento del 2016 (contro il 130,9 per cento previsto ad aprile), con un calo ancora più marcato negli anni successivi: 127,9 per cento del PIL nel 2017, 123,7 per cento nel 2018 e 119,8 per cento nel 2019. Il saldo Pag. 6primario dovrebbe passare dall'1,7 per cento di quest'anno al 2 per cento del 2016, fino al 3 per cento del 2017, per poi collocarsi tra il 3,9 per cento e il 4 per cento negli ultimi due anni di previsione. Il Governo sostiene di puntare alla crescita per aggredire da questo versante il rapporto con il debito e per dare nuova spinta al Paese. Il Presidente del Consiglio ha confermato la decisione di procedere al taglio delle imposte, cominciando dal togliere l'IMU e la TASI sulle prime case per tutti, anche per i più abbienti (ovviamente vengono lasciate su castelli e ville super, ma non su abitazioni di lusso anche nelle città dove gli immobili di questo genere valgono una fortuna). Non altrettanto certa è la consistenza delle risorse destinate a tagliare anche nel 2016 e per un triennio i contributi per le imprese che fanno nuove assunzioni a tempo indeterminato: è possibile che la ristrettezza dei numeri imponga di lasciare questa spinta all'occupazione non per tutte le imprese, ma solo per quelle che hanno sede nelle aree più disagiate del Paese, cioè nel Mezzogiorno.

Quadro programmatico sintetico di finanza pubblica (in percentuale del PIL)

Una manovra espansiva?

  L'alleggerimento della manovra per il 2016 grazie alla flessibilità riconosciuta (e/o da farsi riconoscere) da Bruxelles consentirebbe secondo il Governo di realizzare una manovra espansiva. Ma una parte delle risorse è già stata utilizzata nel 2015. Il resto è da acquisire. Alla fine – se ci saranno – si tratterebbe di 8-9 miliardi, che insieme ad un taglio delle spese di 8 miliardi dovrebbero servire ad diminuire l'impatto pro-ciclico delle clausole di salvaguardia (16,8 miliardi per il 2016 e 26,2 miliardi per il 2017). Quindi la manovra espansiva è parziale e, sostanzialmente, non vera (si riduce il danno). Secondo il Governo la riduzione delle tasse – l'unica politica economica del Governo – e l'equivalente taglio di spesa pubblica faranno Pag. 7crescere il PIL. Siamo ancora nel campo dell'austerità espansiva, teoria smentita dallo stesso FMI: la crescita del PIL legata alla riduzione delle tasse è inferiore al mantenimento della spesa pubblica in essere. La spesa pubblica ha infatti moltiplicatori più alti rispetto ai tagli delle tasse. È stato aumentato il livello di indebitamento netto programmato per il 2016 dell'0,4 per cento (da 1,8 per cento, a 2,2 per cento), ma invece di utilizzare questo 0,4 per cento in più per investimenti ed aumentare l'occupazione, lo si utilizza per ridurre le tasse.
  Dopo una crisi devastante in cui il sistema Italia ha perso 10 punti di Prodotto interno lordo e l'industria manifatturiera il 25 per cento della sua produzione, nel 2015 l'agognata ripresa è infatti tornata in pista. Però – ecco un dato che si ripete nel tempo, e da troppo tempo – lo fa ad una velocità ridotta rispetto altri paesi, primi fra tutti la Germania e la Francia (per non dire ora la Spagna oltre gli Stati Uniti ed il Regno Unito). Un simile gap, che affonda le sue radici nel declino della produttività, in un calo di tensione che ha investito un po’ tutta la società italiana e nei ritardi accumulati pressoché su ogni fronte, è stato fotografato più volte. L'ultima istantanea è quella recentissima del World economic forum con il rapporto 2015 su inclusione e sviluppo: su 112 paesi esaminati, l'Italia è penultima sopra la Grecia. Quindi, l'opzione è secca: o per il 2016 c’è un'accelerazione, sorprendente per qualità e quantità in termini di crescita, o l'Italia, che ancora oggi dispone di una manifattura seconda in Europa alle spalle della Germania, si condanna ad una linea di galleggiamento che non sarà in grado di arginare la pressione competitiva proveniente da tutti i lati del mondo, compreso quello interno europeo già in tensione per la drammatica vicenda dei migranti. La Corte dei conti nella sua Relazione sul Rendiconto generale dello Stato per il 2014 (giugno 2015), aveva affermato che: «Poca attenzione è stata rivolta al fatto che le condizioni di sostenibilità di lungo periodo della finanza pubblica richiedono, al nostro Paese, la costruzione di una traiettoria macroeconomica ambiziosa». La stessa agenzia di rating Standard & Poor's sostiene che in Italia nel prossimo futuro la domanda dei consumatori rimarrà bassa, e che per invertire in modo più deciso il trend servirà un forte aumento degli investimenti. Mentre per la Banca d'Italia, «il ritorno a tassi di crescita più elevati resta, nel medio periodo, una condizione per una significativa e duratura riduzione del debito. A tal fine è opportuno che la finanza pubblica e più in generale l'azione della politica economica privilegino gli investimenti, pubblici e privati, con l'obiettivo di innalzare in modo duraturo il potenziale di crescita della nostra economia». Non possiamo che concordare.

Rischio paralisi per gli investimenti di regioni ed enti locali.

  Che ci sia bisogno di un rilancio della politica degli investimenti è cosa nota, meno conosciuto è invece il rischio di blocco per questo genere di intervento pubblico a causa dell'obbligo del pareggio di bilancio per Regioni ed enti locali. Eppure l'ufficio di presidenza della Conferenza delle Regioni già ad agosto aveva segnalato questo pericolo, mettendosi anche a disposizione del Governo per proposte che consentissero di uscire dall’impasse. Il Sole 24 ore del 28 settembre ha lanciato in prima pagina un ampio servizio (dal titolo emblematico: «investimenti a rischio blocco»), corredato di dati e tabelle, da cui si evince, fra l'altro, che con il pareggio di bilancio si riducono ad un terzo i preventivi di spesa pubblica che nel 2016 supererebbero di poco i 4,5 miliardi, rispetto ai 15,8 del 2015. Insomma «rischiano la paralisi gli investimenti pubblici» e a frenare la spesa in conto capitale per le opere pubbliche non sono solo le coperture da trovare per la manovra. Sui conti di Regioni ed enti locali pesa appunto anche Pag. 8la legge sul pareggio di bilancio che verrà applicata proprio da gennaio 2016. «Nel DEF – scrive Il Sole 24 ore – è previsto un calo della spesa in conto capitale del 10 per cento per i prossimi 4 anni, mentre le Regioni a statuto ordinario hanno programmato solo 4,5 miliardi di investimenti». Nelle prospettive della finanza pubblica, sottolinea ancora l'articolo de Il Sole 24 ore, «si nasconde ancora una buona dose di austerità. La si incontra alla voce “investimenti”, ed è quindi tutt'altro che indifferente per le prospettive di crescita effettiva del reddito nazionale. Tradotta dal linguaggio dei conti, la “spesa in conto capitale” significa infatti infrastrutture, strade, edilizia, ma anche opere contro il dissesto idro-geologico e per il rinnovamento energetico, rinnovamento di strutture (per esempio sanitarie) e investimenti per la valorizzazione di immobili».
  Un problema ulteriore – ricorda ancora Il Sole 24 ore – è che l'obbligo di pareggio di bilancio «a livello nazionale è stato appena rinviato di un altro anno, al 2018, proprio in nome della flessibilità contrattata con Bruxelles per dare più spinta alla ripresa, ma per i conti di Regioni ed enti locali l'appuntamento è rimasto in agenda per l'anno prossimo e porta con sé parecchie conseguenze: una complessa griglia di regole ai saldi di bilancio, e una stretta al debito che impedisce ai territori di generare nuovo passivo in misura superiore a quello rimborsato nello stesso periodo». Certamente «una regola aurea per un Paese super-indebitato come il nostro», solo che «il 92 per cento del debito pubblico è scritto nei bilanci dell'amministrazione centrale» e quindi «la nuova austerità, per ora, si concentrerebbe quindi solo sull'altro 8 per cento, che pesa sui conti delle Regioni e, in misura minore, di Comuni e Province. Il rischio, evocato in modo corale da amministratori di ogni colore politico è il “blocco assoluto degli investimenti”, ma sarebbe sbagliato liquidare la questione come la solita cantilena anti-tagli: anche al Governo la preoccupazione è palpabile, soprattutto da parte dei tecnici, ed è intenso il lavorio per provare a smussare un po’ la novità in chiave attuativa». Nel Documento di economia e finanza (DEF) appena aggiornato dal Governo – prosegue l'articolo de Il Sole 24 ore – che nei prossimi quattro anni prevede una flessione del 10,4 per cento della spesa in conto capitale messa in campo da tutta la Pubblica amministrazione, centrale e locale.

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  Ma le cifre più allarmanti si leggono quando si stringe l'inquadratura sui soli conti regionali: il prossimo anno, stando ai bilanci di previsione 2015-2017 delle Regioni, la spesa in conto capitale nei territori a Statuto ordinario supererà di qualche spicciolo i 4,5 miliardi di euro, per scendere ancora di un miliardo abbondante nel 2017. «È un disastro, che può costarci anche oltre un punto di PIL» taglia corto Massimo Garavaglia, coordinatore della Commissione affari finanziari per la Conferenza delle Regioni e assessore al bilancio della Lombardia, sentito sempre da Il Sole 24 ore. «Senza gradualità nell'applicazione delle nuove regole si brucia ogni possibilità di investimento. Le Regioni accettano la sfida dei sacrifici, noi per esempio abbiamo ridotto da 16 a 3 le Asl e tagliato drasticamente organici dirigenziali e non, ma bisogna poter reinvestire per lo sviluppo».
  In sintesi, la manovra non mette in discussione i parametri del Fiscal compact e gioca su alcuni decimali di flessibilità, mentre servirebbe un allentamento per circa un punto percentuale (18 miliardi di euro all'anno) per un triennio (2016-2018) del deficit programmato poter operare una vera manovra espansiva e per finanziare un piano straordinario di interventi congiunturali per incrementare l'occupazione con un ingente programma di investimenti pubblici. Per questo proponiamo la realizzazione di un Piano straordinario per il lavoro.

Il numero assoluto dei disoccupati rimane elevatissimo.

  Con riferimento al dato occupazionale il Governo sembra «aver dato i numeri». Infatti lo stesso Ministro dell'economia e delle finanze Pier Carlo Padoan nel volgere di venti giorni è riuscito a divulgare tre diversi dati: il 1o ottobre scorso, con la Nota di aggiornamento del DEF, ha affermato che la disoccupazione raggiungerà il 12,6 per cento nel 2015, il 12,4 per cento nel 2016 e il 12,1 per cento nel 2017, grazie alla creazione di ben 127 mila nuovi posti di lavoro; successivamente nel corso della trasmissione televisiva In mezz'ora lo stesso Ministro ha affermato che le misure del Governo avranno vita, in soli tre anni, circa 800 mila posti di lavoro, portando così nel 2017 il tasso di disoccupazione al 9,4 per cento; nel frattempo però il 15 ottobre veniva pubblicata la legge di stabilità 2016 che nella relazione tecnica sottolinea che quale risultato delle norme sulla decontribuzione triennale sui neoassunti a tempo indeterminato, si realizzeranno un milione di posti di lavoro, portando stavolta la riduzione del tasso di disoccupazione nel 2017 al 8,7 per cento. In realtà, al leggero incremento dei posti di lavoro hanno contribuito la decontribuzione e la libertà di licenziare, provvedimenti che rischiano di rendere temporanee le assunzioni «a tempo indeterminato». I giovani restano sempre la fascia più sacrificata e per ora sono toccati solo marginalmente dall'aumento dell'occupazione. L'esercito di chi è senza lavoro resta numerosissimo: oltre ai disoccupati ufficiali bisogna calcolare gli scoraggiati, quelli cioè che un lavoro lo vorrebbero volentieri ma sono così rassegnati che nemmeno lo cercano più. Secondo l'ISTAT, questa forza lavoro potenziale nel secondo trimestre 2015 era di 3,6 milioni di persone (prima della crisi erano 2,2 milioni). Aggiungendo questa componente ai disoccupati – ammette la stessa Nota di aggiornamento del DEF 2015 – i deboli segnali di diminuzione dell'area della mancata occupazione dei primi due trimestri del 2015 vengono fortemente ridimensionati. L'ISTAT ha segnalato un leggero miglioramento sul versante dell'occupazione e della disoccupazione. In particolare, dopo il calo di maggio (-0,2 per cento) e la lieve crescita di giugno ( 0,1 per cento), a luglio 2015 il numero degli occupati stimato dall'Istituto di statistica è cresciuto dello 0,2 per cento ( 44 mila). Il tasso di occupazione è aumentato nel mese di 0,1 punti percentuali, arrivando al 56,3 per cento. Nell'anno l'occupazione è cresciuta dell'1,1 per cento ( 235 mila persone occupate) e il tasso di occupazione di 0,7 punti. Il numero dei disoccupati Pag. 10stimato dall'Istat è diminuito del 4,4 per cento (-143 mila) su base mensile. Dopo la crescita degli ultimi due mesi, a luglio il tasso di disoccupazione è calato di 0,5 punti percentuali, arrivando al 12,0 per cento. Resta che il numero assoluto dei disoccupati è elevatissimo (oltre tre milioni di persone). La crisi ha distrutto circa un milione di posti di lavoro, ma dalla fine del 2013 l'occupazione totale ha ricominciato a salire, prima sotto Letta (2013), poi sotto Renzi-1 (2014), poi sotto Renzi-2 (2015, vigente la decontribuzione). Del milione di posti di lavoro bruciati nel quinquennio 2008-2013 ne abbiamo recuperati 351 mila (più di un terzo), di cui 139 mila sotto il Governo Letta, 88 mila sotto il Governo Renzi-1, e altri 124 mila sotto il Governo Renzi-2. Difficile dire se i 124 mila posti di lavoro creati dall'inizio del 2015, prima sotto la spinta della decontribuzione, poi (dal 7 marzo) sotto la spinta del Jobs Act, siano merito delle nuove regole, o costituiscano un semplice rimbalzo, che compensa il rallentamento di fine 2014 (presumibilmente dovuto all'attesa degli sgravi).
  Quello che sembrerebbe è che, da circa 2 anni, il trend dell'occupazione totale è tornato ad essere positivo, e il suo ritmo medio è stato di 40-50 mila posti a trimestre. Ma il nostro tasso di occupazione resta, nonostante i modesti progressi degli ultimi due anni, uno dei più bassi fra i 34 Paesi OCSE. Il quadro si fa decisamente ancora meno confortante se, dalla quantità di posti di lavoro, passiamo a considerare la loro qualità. Il peso dei contratti a termine era del 13-14 per cento prima della crisi, era al medesimo livello sotto Monti e sotto Letta, e tale è rimasto sotto Renzi. Gli ultimi dati (2o semestre 2015, vigente il Jobs Act) segnalano semmai una leggera tendenza all'aumento rispetto a un anno prima. Quanto all'altro indicatore di precarietà, il peso del part-time involontario sul part-time totale, la situazione è semplicemente drammatica. Prima della crisi i lavoratori dipendenti che lavoravano a orario ridotto per necessità e non per propria scelta erano circa il 40 per cento del totale, oggi sfiorano il 70 per cento. Il loro peso sull'insieme dei lavoratori dipendenti era già in aumento prima del 2007-2008, è cresciuto smisuratamente durante gli anni della crisi, e ha continuato a farlo sotto Letta e sotto Renzi, sia prima sia dopo il Jobs Act. Dunque: il numero di occupati sta aumentando, ma la qualità dei contratti di lavoro no.
  Contemporaneamente, la domanda di lavoro sembra avere cambiato radicalmente le proprie preferenze. Nel corso della crisi i lavoratori italiani hanno perso colpi rispetto agli stranieri, i giovani rispetto agli anziani, gli uomini rispetto alle donne, i meno istruiti rispetto ai più istruiti, gli occupati del Sud rispetto a quelli del Centro-Nord. Questa profonda ristrutturazione della domanda di lavoro, tuttavia, si è accompagnata ad una marcata riduzione degli investimenti, quasi che il rilancio dell'economia italiana potesse poggiare esclusivamente su una diversa selezione della forza lavoro, più attenta alle doti di preparazione, esperienza, affidabilità, disponibilità al sacrificio. Diversamente che in passato (anni Sessanta), la ricetta non ha funzionato. E la prova è molto semplice, anzi impietosa: comunque la si misuri, la produttività del lavoro è sostanzialmente ferma da una quindicina di anni. Cambiare drasticamente la composizione della forza lavoro e ridurre la quota di PIL destinata agli investimenti hanno avuto il solo effetto di allargare drammaticamente il divario di produttività fra l'Italia e gli altri paesi. È inaccettabile che su temi così drammatici quali lavoro e disoccupazione si continuino a dare numeri falsi ed illusori che nascondono solo l'intento propagandistico di misure, come il Jobs Act, incapaci di combattere la disoccupazione, ma orientate ad alimentare la precarietà, a legittimare forme di licenziamento selvagge ed a distruggere sistematicamente quell'universo di diritti che i lavoratori si erano conquistati con tenaci battaglie sindacali: tutte iniziative che nel limitare la forza negoziale ai lavoratori individuano risposte sbagliate ad una crisi occupazionale che trova la sua causa principale non tanto nelle supposte rigidità del mercato Pag. 11del lavoro quanto piuttosto nel perdurante calo della domanda interna. Tutti gli indicatori economici insegnano che non esiste una correlazione univoca e positiva tra la flessibilizzazione del mercato del lavoro e la crescita occupazionale. Quest'ultima, infatti, è strettamente legata ad una domanda di lavoro che, a sua volta, non dipende dalle condizioni dell'offerta, anche se precarie e a basso costo, del lavoro, ma dalle prospettive di vendita e di allocazione della produzione industriale. L'unico effetto ascrivibile al Jobs Act è semmai quello di incentivare il turn over e non già la stabilità dei rapporti di lavoro, che se non corroborato da una reale ripresa economica, moltiplicherà la quantità di esclusi dal mercato.
  Il DEF 2015 aveva fissato un cronoprogramma per l'attuazione del Jobs Act e di tutte le misure contenute nel cosiddetto «Sblocca Italia» o nel pacchetto Investment Compact (compresa la riforma delle banche popolari), confermando la scelta del Governo di favorire le imprese e creare l’«ambiente» per gli investimenti privati, ovvero il contesto giuridico e istituzionale favorevole, anche all'attrazione di quei capitali che avessero apprezzato la deregolazione dei mercati e, in particolare, quella del mercato del lavoro. Ma non esiste alcuna evidenza empirica a sostegno di questa scelta. Al contrario, numerosi studi ormai dimostrano che tutte le riduzioni della protezione del lavoro, sia a tempo indeterminato che a termine, avvenute per via legislativa non abbiano portato aumenti dell'occupazione o della produttività. Anzi, ad una diminuzione delle tutele e dei diritti, così come del tasso di sindacalizzazione o di copertura contrattuale, corrisponde sempre una flessione della produttività e una riduzione di occupazione e investimenti, perciò una perdita di competitività. Invero, la cura per la riqualificazione e la ripresa robusta e sostenibile della nostra economia sono gli investimenti, innanzitutto pubblici, e le politiche industriali. Al contrario, la Nota di aggiornamento del DEF, nonostante l'utilizzo della clausola degli investimenti, prospetta una riduzione degli investimenti pubblici, a partire dal livello minimo attuale.
  Con riferimento alle retribuzioni ed ai contratti del pubblico impiego, dal 2008 al 2015 le retribuzioni dei lavoratori privati e pubblici di fatto hanno avuto un incremento cumulato solo del 12,8 per cento, a fronte di un aumento complessivo dei prezzi del 13,7 per cento. Insomma, niente pagamento degli straordinari, niente bonus e indennità varie. Tanti hanno dovuto accettare il part-time involontario. Dopo la sentenza della Corte costituzionale di maggio che ha di fatto ripristinato il diritto agli «scatti» salariali per il pubblico impiego dopo sette anni di blocco si farà nuovamente il contratto. Il DEF non fa cifre ma prevede esplicitamente «specifici appostamenti di bilancio». Il che non ci rassicura affatto, anche perché la stampa riferisce di voci di blocco totale del turn over per i pubblici dipendenti.

La crisi del settore delle costruzioni.

  Rilevanti settori produttivi per la nostra economia come quello delle costruzioni a luglio 2015 registra, al netto della stagionalità, un incremento dello 0,3 per cento rispetto al mese precedente, che segue due mesi consecutivi di calo; la crescita congiunturale è più contenuta della media UEM ( 1,0 per cento). In Italia persiste un calo della produzione dell'1,5 per cento nella media del trimestre maggio-luglio 2015 rispetto ai tre mesi precedenti. L'indice corretto per gli effetti di calendario a luglio 2015 è diminuito in termini tendenziali dello 0,6 per cento mentre in Eurozona si registra una crescita dell'1,8 per cento; in Italia nei primi sette mesi del 2015 la produzione delle costruzioni è in calo del 2,3 per cento rispetto allo stesso periodo del 2014. Il debole segnale di inversione della congiuntura deve consolidarsi prima di poter parlare di ripresa in un settore che dallo scoppio della crisi del debito sovrano – a cui è seguito l'innalzamento dei tassi di interesse e della tassazione immobiliare e una pesante riduzione della domanda immobiliare Pag. 12– ha perso 330.600 occupati; nello stesso periodo (2011-2015) il resto dell'economia ha registrato una crescita dell'occupazione di 114.500 unità. Il quadro tendenziale della finanza pubblica pubblicato nella Nota di aggiornamento del DEF 2015 varata venerdì scorso indica il persistere del basso profilo della domanda pubblica, con investimenti fissi lordi che rimangono costanti al 2,3 per cento del PIL nel triennio 2015-2016 per scendere al 2,2 per cento del PIL nel biennio 2018-2019; la media 2014-2019 è del 2,3 per cento del PIL, oltre mezzo punto in meno del 2,9 per cento medio del periodo 2000-2013. I dati analizzati evidenziano la necessità e urgenza di politiche fiscali espansive capaci di sostenere la domanda nelle costruzioni, un comparto che ha registrato una crisi senza precedenti per intensità e durata: a tal proposito va ricordato che – proprio mentre si profila una abolizione di IMU e IRAP agricola – si calcola che i 330.600 occupati persi dalle costruzioni in soli 4 anni equivale agli occupati persi dall'agricoltura in 20 anni.

Promesse generiche per il Mezzogiorno.

  Nelle previsioni della legge di stabilità rientra anche l'intervento per la «rivitalizzazione dell'economia meridionale». Sul tavolo varie opzioni: dal taglio dell'IRES nel Mezzogiorno agli sconti contributivi per i nuovi assunti. Siamo ancora sul generico. Dopo la presentazione del rapporto Svimez, il 30 luglio 2015, si è sviluppato, dopo anni di silenzio e di rimozione del problema, un dibattito sulla situazione del Mezzogiorno. In realtà, la Camera aveva nelle sedute del 23 marzo e del 14 aprile 2015 già condotto un dibattito sul tema con l'approvazione di diverse mozioni tra le quali quella Scotto (1-00680). Che fine hanno fatto gli impegni presi il 14 aprile scorso? La CGIL lanciava da Potenza, il 6 settembre 2015, una vertenza nazionale sul Mezzogiorno chiamata «Laboratorio Sud – Idee per il Paese». Il Governo ha promesso che nella legge di stabilità per il 2016 ci sarà un masterplan, non meglio precisato, relativo al Sud d'Italia. Il 7 agosto si è svolta nella direzione del PD una lunghissima discussione sul tema senza neppure l'annuncio di qualche misura choc. È stato annunciato un masterplan a settembre per il Sud, cercando di sbrogliare anche la complicata matassa dei quasi 100 miliardi di fondi UE da spendere. Solo alcuni accenni ai contenuti: la TAV fino a Bari e Reggio Calabria, investimenti per i cantieri e per le infrastrutture portuali, gli stanziamenti per la rete stradale e gli interventi per fronteggiare le crisi industriali non risolte. Tra le ipotesi di decontribuzione per i nuovi assunti si considera l'ipotesi di estendere tale beneficio anche nel 2016 limitandolo ai soli nuovi assunti nel Mezzogiorno (costo: 1,8 miliardi annui). Fa davvero paura il quadro descritto nell'ultimo rapporto Svimez. Che spiega come, negli anni compresi tra il 2000 e il 2013, nel Sud italiano l'attività produttiva sia cresciuta del 13 per cento, circa la metà della Grecia, dove il PIL è aumentato del 24 per cento (mentre l'area dell'euro saliva del 37,3). Questa perdita di crescita, rilevante anche verso le altre regioni deboli dell'euro (verso le quali il gap è stato pari a 25 punti percentuali) è avvenuta, spiega la Svimez, prima e durante la grande crisi. Dunque, si osserva «ai fattori che pongono non solo il Mezzogiorno ma l'intero Paese su un sentiero di bassa crescita, la lunga crisi ha aggiunto un depauperamento permanente di ricchezza e di risorse produttive, con conseguenze difficilmente recuperabili in un periodo breve». Bisogna aprire un confronto sui meccanismi compensativi degli squilibri interni alla periferia della UE, predisponendo adeguati strumenti di fiscalità di compensazione da usare nell'ottica di un'armonizzazione delle politiche fiscali nel medio periodo.
  In sintonia con i presidenti delle Regioni meridionali, proponiamo cinque punti d'azione:
   1) orientare gli investimenti dei gruppi industriali pubblici, a cominciare da Fincantieri e Finmeccanica, verso il Sud riequilibrando per il Meridione le Pag. 13quote di produzione industriale con particolare riguardo per i comparti dell'aerospaziale, dell’automotive, dell'agroalimentare;
   2) un programma stringente d'investimenti per le infrastrutture: banda larga, sistemi idrici, trasporto su ferro ed assi viari, portualità e sistema aeroportuale;
   3) l'innovazione profonda nella gestione dei fondi europei con la creazione, altresì, di un fondo di rotazione per sostenere le progettazioni esecutive;
   4) investimenti sulla ricerca, negli atenei e nelle agenzie private, per l'innovazione in ambito industriale, aerospaziale, agroalimentare;
   5) un piano di sicurezza per il Sud.

Serve una vera politica industriale.

  Una politica industriale efficace si dovrebbe fondare sui seguenti fattori:
   – attuare un'efficace lotta alla contraffazione nelle dogane e sul territorio, in difesa dei consumatori e della produzione nazionale, nonché a tutela del made in Italy;
   – velocizzare il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione nei confronti delle imprese anche ai fini della compensazione con i relativi crediti fiscali da parte delle imprese, adottando apposite sanzioni nei confronti degli enti inadempienti;
   – presentare un programma nazionale di politica industriale per la selezione dei grandi progetti di innovazione industriale che serva ad individuare le traiettorie della crescita economica su cui concentrare gli investimenti di parte capitale finalizzati allo sviluppo sostenibile, all'incremento della produttività e competitività del sistema produttivo, all'innovazione industriale ed all'internazionalizzazione delle imprese e abbia ad oggetto interventi di agevolazione fiscale, di promozione di strumenti finanziari e di accesso al credito, di incentivazione alle imprese, di investimento in infrastrutture e di domanda pubblica innovativa e la selezione dei grandi progetti che deve riguardare alcune traiettorie specifiche di sviluppo industriale, quali:
    a) l'industria integralmente ecologica;
    b) l'aerospazio;
    c) il turismo, la creatività e il patrimonio culturale;
    d) il sostegno alle start-up e agli strumenti di finanziamento delle stesse;
    e) il rilancio dell'attività manifatturiera attraverso l'implementazione di nuovi progetti di innovazione di processo e di prodotto;
   – costituire una Agenzia nazionale dello Sviluppo sul modello «Fraunhofer» al fine di incrementare l'innovazione di processo e di prodotto ed aumentare la competitività del nostro apparato produttivo anche attraverso l'ausilio della Cassa Depositi e Prestiti che potrebbe finanziarla attraverso il Fondo strategico italiano adeguandone la mission;
   – implementare l'applicazione dello strumento del crowdfunding anche per le crisi aziendali al fine di valorizzare il capitale umano attraverso l'implementazione di progetti di innovazione di processo e prodotto;
   – adottare un piano straordinario di contrasto alla delocalizzazione delle attività produttive sia in Paesi appartenenti all'Unione europea, sia a quelli non aderenti all'Unione europea, con particolare riferimento ai Paesi balcanici;
   – raddoppiare gli stanziamenti attualmente previsti a legislazione vigente per il riconoscimento di agevolazioni fiscali per i soggetti privati che investono in ricerca e sviluppo, compresi gli spin off accademici, al fine di sviluppare processi di ricerca comuni tra imprese, università e centri di ricerca pubblici nei settori:
    a) delle energie rinnovabili, del risparmio energetico e dei servizi collettivi Pag. 14ad alto contenuto tecnologico, nonché nell'ideazione di nuovi prodotti che realizzano un significativo miglioramento della protezione dell'ambiente per la salvaguardia dell'assetto idrogeologico e le bonifiche ambientali, nonché nella prevenzione del rischio sismico;
    b) dell'incremento dell'efficienza negli usi finali dell'energia nei settori civile, industriale e terziario;
    c) dei processi di produzione o di valorizzazione di prodotti, processi produttivi od organizzativi ovvero servizi che, rispetto alle alternative disponibili, comportino una riduzione dell'inquinamento e dell'uso delle risorse nell'arco dell'intero ciclo di vita;
    d) della pianificazione di interventi nell'ambito della gestione energetica, attraverso lo sviluppo di soluzioni hardware e software che consentano di ottimizzare i consumi;
    e) dello sviluppo di soluzioni per la gestione del ciclo dei rifiuti, con particolare riferimento ai modelli di raccolta, trattamento e recupero, e per la gestione idrica, attraverso la progettazione di strumenti che garantiscano un monitoraggio più attento della rete idrica;
    f) della progettazione di nuovi sistemi di mobilità ecologici e sostenibili, anche attraverso la definizione di processi che possano ottimizzare la logistica dell'ultimo miglio e le attività di trasporto proprie delle compagnie private in aree urbane, tenendo in considerazione il traffico generato la congestione, l'inquinamento e il dispendio energetico.

Altre spese per i sistemi d'arma.

  Nella Relazione sulle spese di investimento e sulle relative leggi pluriennali, allegata alla Nota di aggiornamento del DEF (Doc. LVII, n. 3-bis, allegato I), in particolare, nella parte della Relazione in questione riguardante l'attuazione delle spese di investimento previste nell'ambito della missione n. 5 (Sicurezza e difesa del territorio), nella parte relativa agli investimenti del Ministero dello sviluppo economico, si ricorda gli interventi attuati in relazione a diversi programmi di sviluppo e realizzazione per le Forze Armate di sistemi ad alta tecnologia funzionali alla sicurezza nazionale. La Relazione ricorda, in particolare, il contributo del Ministero dello sviluppo economico ai Programmi EFA (European Fighter), FREMM (Fregate europee multi-missione) e VBM (veicoli blindati medi 8X8 Freccia). Con specifico riferimento al programma European Fighter la Relazione rende noto che sono state avviate tre tranche di produzione destinate all'Italia, di cui le prime due sono concluse, mentre la terza, che dovrebbe portare alla consegna di 21 velivoli entro il 2017, è in fase di realizzazione. Per quanto concerne, invece, gli stanziamenti previsti per i programmi di acquisizione delle unità navali FREMM, la Relazione in questione segnala che per la prosecuzione e il completamento delle acquisizioni programmate occorreranno ulteriori finanziamenti già dalla prossima legge di stabilità. Siamo di fronte ad una richiesta generica della quale non viene indicata l'entità né viene specificato se si auspica un incremento per il solo 2016 o per più anni. La Relazione elenca poi una serie di ulteriori programmi di interesse della Difesa valutati dal Ministero della difesa come urgenti e prioritari e importanti sul piano tecnologico e produttivo. Si tratta, in particolare, dei programmi Forza NEC, SICRAL 2, M346, SICOTE e Combat SAR, in relazione ai quali la Difesa auspica un rifinanziamento in sede di prossima legge di stabilità attraverso:
   • stanziamenti quindicennali di 40 milioni a partire dal 2016;
   • altri 40 milioni dal 2017.

  Al fine di portare a termine i programmi già finanziati e di avviarne di nuovi strategicamente importanti.
  Vale la pena osservare che queste richieste prefigurano due piani poliennali di risorse aggiuntive per una serie di sistemi Pag. 15d'arma senza indicarne la ripartizione per ciascuno dei sistemi indicati e comunque per un totale di:
   • 600 milioni nel periodo 2016-2031;
   • altri 600 milioni nel periodo dal 2017-2032.

  Per un totale complessivo, quindi, di 1,2 miliardi di euro.
  La Relazione del Ministero dello sviluppo economico evidenzia che, in assenza di risorse aggiuntive, non potrebbero essere portati a termine nuovi progetti. Per evitarlo, la Relazione riferisce che sarebbe «sufficiente un rifinanziamento della legge n. 808 del 1985 attraverso uno stanziamento di 100 milioni di euro per anno a partire dal 2016 e fino al 2022 o, in alternativa due contributi decennali di 50 milioni, il primo dal 2016 e il al 2017. In questo modo si assicurerebbe continuità ai progetti di ricerca e sviluppo delle imprese del settore che hanno grande rilievo sul piano tecnologico e quindi della competitività e della salvaguardia/incremento occupazionale». Non è noto al Parlamento quali siano questi nuovi progetti. Inoltre, anche in questo caso è bene chiarire che, in sostanza, viene ritenuto necessario un piano di investimenti poliennale, aggiuntivi a quelli già previsti, che nella:
   • prima ipotesi dal 2016-2022 ammonta a 700 milioni di euro;
   • seconda ipotesi dal 2016-2026 ammonta 500 milioni di euro e dal 2017-2027 ammonta a 500 milioni di euro.

  La seconda ipotesi in totale ritiene necessario l'investimento di un miliardo di euro in un periodo più lungo.
  Il Parlamento, e la stessa Commissione difesa della Camera, sono già intervenuti più volte sul bilancio della Difesa. Da ultimo la scorsa settimana in sede di valutazione dell'assestamento del Bilancio per l'anno in corso. Ma prima ancora si è espressa con l'approvazione della legge 244 del 31 dicembre 2012 ed anche attraverso le conclusioni dell'indagine conoscitiva sui sistemi d'arma e con l'approvazione di mozioni in Aula. In tutte queste situazioni la Commissione difesa ha indicato la necessità di riequilibrare la spesa per i sistemi d'arma ritenendola eccessiva, ed ha più volte rilevato l'esigenza di incrementare le risorse per l'esercizio, ritenendo però che ciò sia possibile soltanto attraverso un ridimensionamento delle altre due principali fonti di spesa (personale e investimenti). In conclusione, siamo dell'avviso che devono essere drasticamente ridimensionate le spese per i sistemi d'arma già programmate, e che vada rifiutata ogni ipotesi di ulteriori investimenti, mentre vanno incrementate le spese per l'esercizio con i risparmi che ne deriverebbero.

Investimenti per superare il digital divide e per una mobilità sostenibile.

  È necessario adottare, innanzitutto, a livello nazionale tutte le iniziative necessarie per dare nuovo impulso all'attuazione dell'Agenda digitale, in particolare per quanto concerne la realizzazione degli interventi infrastrutturali necessari per dotare il Paese di una rete idonea a consentire il raggiungimento degli obiettivi di accesso a Internet, semplificando i centri decisionali e destinando risorse finanziarie sufficienti al raggiungimento degli obiettivi proposti nella strategia Europa 2020.
  Occorre dare finalmente attuazione al Piano strategico banda ultralarga, prevedendo l'adozione dei più elevati standard di sicurezza nella fissazione dei limiti in materia di elettromagnetismo in ossequio al principio di precauzione. Servono interventi volti a migliorare la sostenibilità ambientale ed economica dei trasporti, in linea con altri Paesi europei, in modo da contribuire in modo significativo ad incrementare il livello di occupazione nazionale, il livello di coesione territoriale, la sicurezza dei cittadini, il contrasto allo spopolamento del territorio e, ancora, a ridurre i livelli di emissione di inquinanti nel territorio. Proponiamo di rivedere completamente se non addirittura annullare, Pag. 16poiché risulta essere totalmente inutile in assenza di una politica credibile mirante all'abbattimento del debito pubblico, gli interventi di cosiddetta privatizzazione messi in campo dal Governo, soprattutto per quanto concerne Poste Spa, Enav e Ferrovie dello Stato. Vanno incrementate le risorse destinate al trasporto pubblico locale e adottare le opportune iniziative per favorire una maggiore efficienza del servizio di trasporto ferroviario regionale esercitato sulla rete tradizionale, superando le criticità che lo caratterizzano in termini di carenze della rete, inefficienza del servizio e vetustà del materiale rotabile. Così come si deve definire un quadro generale multimodale in grado di potenziare, in particolare, i sistemi di collegamento marittimi, ferroviari e intermodali del Mezzogiorno in modo da assicurare l'eguaglianza sostanziale dei cittadini. Ricordiamo inoltre al Governo che deve attuare gli impegni approvati dal Parlamento in materia di razionalizzazione degli uffici postali contenuti nella nozione n. 1-00818, presentata dal Gruppo SEL.

La politica agricola come Cenerentola.

  L'Allegato I della Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza 2015 nella relazione programmatica per missioni di spesa del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali (MIPAAF), vengono riportate le missioni e i relativi programmi di intervento, specificatamente la missione n. 9 «Agricoltura, politiche agroalimentari e pesca», interessa le attività di tre diversi centri di responsabilità amministrativa del Ministero e costituisce il core business della mission del MIPAAF. La suddetta missione è suddivisa in programmi di intervento, di cui:
   – il programma n. 2 denominato: «Politiche europee e internazionali e dello sviluppo rurale», il quale prevede interventi contributivi per la spesa assicurativa agevolata a copertura dei rischi delle imprese agricole e somme per garantire l'avvio della realizzazione delle opere previste dal Piano irriguo nazionale;
   – il programma n. 5 denominato: «Vigilanza e repressione nel settore agricolo, agroalimentare, agroindustriale e forestale», il quale prevede l'acquisizione di apparecchiature di laboratorio ed informatiche necessarie a sostituire alcuni strumenti non più in uso o che occorre eliminare per vetustà;
   – il programma n. 6 denominato: «Politiche competitive, della qualità agroalimentare, ippiche e della pesca», il quale attiene alla qualità agroalimentare, alla tracciabilità, alle certificazioni delle attività agricole ecocompatibili, alle politiche di sviluppo delle imprese agricole, alla cooperazione, alla trasformazione, allo sviluppo settoriale, di filiera, di distretto, agli incentivi del settore agricolo e agroalimentare, allo sviluppo delle fonti rinnovabili, alla promozione della produzione agroalimentare italiana in ambito UE e internazionale, all'attività, in sede UE e internazionale, della ricerca scientifica su pesca ed acquacoltura; alla conservazione delle risorse ittiche, il Piano triennale pesca e legislazione nazionale; alla gestione, erogazione e vigilanza relative ai fondi UE; al potenziamento IT; alla comunicazione e all'informazione della qualità dei prodotti agricoli, agroalimentari e della pesca.

  Il programma n. 2, «Politiche europee e internazionali e dello sviluppo rurale», prevede risorse disponibili nel triennio 2015-2017 per un totale di 167,08 milioni di euro, di cui per la spesa assicurativa 120 milioni di euro per il 2015 e per il Piano irriguo nazionale 47.075.441 milioni di euro. Lo stesso Allegato I della Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza 2015, sottolinea l'importanza che riveste il sistema assicurativo in agricoltura quale strumento efficiente: «... per il miglioramento della competitività delle imprese agricole italiane, in quanto con una spesa pubblica di 300 milioni di euro (tra risorse comunitarie e nazionali) si riesce a coprire un valore complessivo tra Pag. 17produzioni agricole e strutture aziendali, di circa 7 miliardi di euro e ad erogare in caso di sinistro i risarcimenti agli agricoltori in tempi brevi...».
  Per il 2016, a fronte di un fabbisogno di 170 milioni di euro, il documento non prevede risorse nonostante vi è l'esigenza di un adeguato stanziamento economico per consentire di intervenire con le medesime modalità finora adottate con cui far fronte al finanziamento delle polizze assicurative agevolate non finanziabili con le risorse comunitarie, quali quelle che attengono lo smaltimento delle carcasse animali e per quelle senza soglia di danno a copertura dei rischi sulle coltivazioni, nonché per integrare i plafond di spesa delle misure di intervento comunitarie che risultano insufficienti a coprire il fabbisogno. Per il Piano irriguo nazionale sono previste risorse annue per un importo di 47.075.441 milioni di euro per il triennio 2015-2017, a seguito di tagli disposti dalla legge n. 133 del 2008, dal decreto-legge n. 78 del 2010 e dalla legge di stabilità 2015, a fronte dei 100 milioni all'anno per 15 anni che prevedeva la legge finanziaria n. 244 del 2007 (articolo 2, comma 133, punto b)). Le predette risorse sono destinate a finanziare il Programma di completamento al Piano irriguo nazionale e al programma di opere del Sud d'Italia, approvati, rispettivamente, dalle delibere CIPE n. 69/10 e n. 92/10. A tale riguardo, è indispensabile rifinanziare il Piano irriguo nazionale e il programma di opere del Sud d'Italia, perché con l'attuazione delle due delibere CIPE si esauriscono le risorse destinate ad interventi infrastrutturali di rilevanza nazionale per l'irrigazione e, le uniche risorse stanziate sono pari a 300 milioni grazie all'approvazione della misura Piano irriguo nazionale su fondi FEASR, le cui risorse sono del tutto insufficienti per soddisfare la domanda di tali opere.
  Il programma n. 6, «Politiche competitive, della qualità agroalimentare, ippiche e della pesca», prevede risorse disponibili per un totale di 20,1 milioni di euro, di cui «spese per l'informatica» 4,5 milioni di euro nel 2015, 4,3 milioni di euro nel 2016 e nel 2017 e 7 milioni di euro saranno i «contributi per la ricerca scientifica e tecnologica applicata alla pesca marittima»; le altre misure verranno finanziate attraverso la ripartizione dei fondi di cui alla legge n. 499 del 1999, allocati nella missione n. 33. Lo stesso Allegato I della Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza 2015 a pagina 703 afferma che: «... nel settore della pesca si evidenzia la forte criticità costituita dai rilevanti tagli apportati ai capitoli di investimento del Piano Pesca che hanno comportato il completo definanziamento nel triennio 2015-2017 dei capitoli 7080 e 7094. L'attività di programmazione risente evidentemente di tali pesanti contrazioni degli stanziamenti e allo stato attuale si concentra essenzialmente sullo sviluppo della ricerca scientifica applicata alla pesca e all'acquacoltura finalizzata alla gestione e alla produzione normativa in coerenza con gli obblighi internazionali e di programmazione nazionale ed europea. Per quanto concerne i capitoli 7080 o 7094 afferenti la promozione della cooperazione, dell'associazionismo e delle iniziative in favore dei lavoratori dipendenti, la tutela della concorrenza sui mercati internazionali nonché la tutela del consumatore in termini di tracciabilità dei prodotti ittici e di valorizzazione della qualità della produzione nazionale, si evidenzia la necessità di un rifinanziamento in quanto le risorse destinate ai suddetti capitoli rappresentano uno strumento indispensabile per permettere lo svolgimento di importanti attività economiche attraverso misure nazionali, necessarie altresì a garantire una compliance normativa con i regolamenti comunitari...». Per quanto concerne il capitolo 7080 «Contributi alle imprese che esercitano la pesca» e il capitolo 7094 «Spese per specifiche iniziative volte alla realizzazione di centri di servizi promosse dalle organizzazioni sindacali nazionali compreso l'adeguamento ed il potenziamento delle strutture immobiliari», non sono previste risorse per il triennio 2015-2017. Pag. 18Per cambiare radicalmente rotta nelle politica agricola è necessario rivedere il Documento di economia e finanza 2015 e i suoi Allegati prevedendo:
   – per il 2016, a fronte di una necessità di 170 milioni di euro, il finanziamento del fabbisogno necessario per consentire di intervenire con le medesime modalità finora adottate con cui far fronte al finanziamento delle polizze assicurative agevolate non finanziabili con le risorse comunitarie, nonché per integrare i plafond di spesa delle misure di intervento comunitarie che risultano insufficienti a coprire il fabbisogno;
   – il rifinanziamento del Piano irriguo nazionale – settore strategico non solo per l'agricoltura ma per tutto l'indotto che tali investimenti sviluppano – del programma di opere del Sud d'Italia, quanto mai necessario in un periodo di recessione quale l'attuale e per il vero rilancio del Mezzogiorno quale geografia socio-produttiva del sistema Paese che, di fatto, è scomparso dall'agenda del Governo Renzi come tema di vera sfida per il rilancio dell'economia italiana;
   – adeguate risorse finanziarie per il Piano Pesca – Programma nazionale triennale della pesca e dell'acquacoltura 2013-2015 adottato con decreto ministeriale del 31 gennaio 2013 – con lo scopo di restituire carattere di effettiva pluriannualità della spesa per il programma nazionale della pesca e dell'acquacoltura, ed inoltre, così come recita tra l'altro a pagina 706 l'Allegato I della Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza 2015: «... al fine di consentire la definizione di piani e programmi almeno di medio periodo che determinano in maniera rilevante l'economia e la gestione della pesca e dell'acquacoltura anche a motivo di precisi obblighi europei od internazionali...» ed anche: «... la necessità di finanziare adeguatamente ed in modo mirato l'acquisizione di apparecchiature di laboratorio ed informatiche necessarie alla tutela della qualità e della repressione frodi dei prodotti agroalimentari che permettano un adeguato contrasto agli illeciti e sofisticazioni dei prodotti, per mantenere l'elevato livello di specializzazione raggiunto dal personale in grado di ottenere un elevato output analitico...».

Tagliare le tasse, ma come?

  La pressione fiscale dovrebbe tornare a scendere passando dal 43,1 per cento del 2014 e del 2015 al 42,6 per cento del 2016 grazie sia alla disattivazione delle clausole di salvaguardia che al bonus di 80 euro (che peraltro appare tecnicamente come una spesa assistenziale e non come riduzione fiscale). Non è ancora inclusa peraltro la promessa abolizione della tassa sulla prima casa; inoltre, va considerato che la soppressione delle agevolazioni fiscali per un totale di 7-10 miliardi corrisponde ad un pari incremento della pressione fiscale.
  Le linee guida della manovra per quanto concerne il fisco tracciate nei giorni scorsi sono confermate dalla Nota di aggiornamento del DEF:
   a) eliminazione dell'imposizione fiscale su prima casa (IMU e TASI), terreni agricoli e macchinari «imbullonati» (l'eliminazione del prelievo su tali categorie di immobili comporterebbe un minore gettito dell'ordine di 4-5 miliardi l'anno);
   b) alleviamento della povertà;
   c) stimolo all'occupazione, agli investimenti privati, all'innovazione, all'efficienza energetica e alla rivitalizzazione del Sud (per il 2017, si conferma il taglio dell'imposizione sugli utili d'impresa per allineare maggiormente l'Italia con gli standard europei);
   d) azzeramento delle clausole di salvaguardia su IVA e accise.

  Ma non vengono fornite specifiche indicazioni riguardo agli effetti attesi dalle predette misure. La Banca d'Italia ha avanzato diversi dubbi sul taglio delle tasse sulla prima casa. L'esenzione della prima casa determinerebbe un risparmio Pag. 19d'imposta crescente con la rendita catastale dell'abitazione.
  Il disallineamento fra basi imponibili e valori di mercato genera dei fenomeni di iniquità, sia verticale sia orizzontale, che potrebbero essere rimossi con l'aggiornamento del catasto.
  L'invito a procedere speditamente in questa direzione è stato più volte ribadito dalle istituzioni europee, da ultimo nelle raccomandazioni rivolte all'Italia lo scorso luglio nell'ambito del Semestre europeo. Una simulazione condotta sulle famiglie dell'indagine della Banca d'Italia mostra che la rivalutazione delle rendite catastali potrebbe rendere disponibili risorse da utilizzare, a parità di gettito, per il ripristino di un sistema di detrazioni analogo a quello applicato nel 2012; ne conseguirebbe, come risulta da studi della Banca d'Italia, un livello di progressività superiore sia a quello dell'IMU applicata nel 2012 sia a quello della TASI nel 2014. Va posta attenzione al fatto che le frequenti modifiche alla fiscalità immobiliare degli ultimi anni potrebbero indurre le famiglie a non reputare lo sgravio ora programmato come permanente, limitando significativamente gli effetti della misura sulle scelte di consumo. Si tratterebbe del quinto intervento negli ultimi sette anni: l'imposta sulla proprietà della prima casa è stata abrogata dal 2008, reintrodotta nel 2012 con l'IMU, sostanzialmente eliminata nel 2013 e ripristinata dal 2014 con la TASI. Inoltre, per l'Istituto di via Nazionale, per produrre un effetto reale sulla crescita è necessario il taglio del costo del lavoro. Una misura prevista dal Governo ma solo nel 2018! Il tutto all'interno di una strategia di avvicinamento alle elezioni politiche: prima vengono gli sgravi fiscali sulla proprietà immobiliare, poi quelli sugli utili dell'impresa (nel 2017), infine sull'IRPEF. Semmai questo programma andrebbe rovesciato, tenendo conto che alle imprese è stato già dato il beneficio degli sgravi contributivi per i neo-assunti.
  Nel confronto internazionale è in particolare elevata nel nostro Paese la tassazione sui redditi da lavoro dipendente. In base ai dati OCSE – per un lavoratore single senza figli che percepisce la retribuzione media – il peso dell'IRPEF (incluse le addizionali) è pari al 22 per cento della retribuzione, un valore significativamente più elevato di quello rilevato nei principali Paesi europei (19,1 per cento in Germania, 16,6 per cento in Spagna, intorno al 14,5 per cento in Francia e nel Regno Unito). Una pressione fiscale così alta indubbiamente ostacola la crescita economica. Anche l'Unione europea è favorevole agli sgravi fiscali sul costo del lavoro e non su quelli della casa. Ma secondo il Governo la crescita dipende dall'aumento dei consumi generato dal taglio delle tasse sulla prima casa. Questo taglio rischia di produrre un problema di sostenibilità dei servizi degli enti locali e delle Regioni. Secondo Bankitalia, inoltre, «l'evidenza empirica suggerisce che i consumi direttamente influenzati dallo sgravio potrebbero essere circoscritti alle famiglie soggette a vincoli di liquidità». La Banca centrale sollecita, infine, l'esecutivo a varare la riforma del catasto. Il suo aggiornamento «potrebbe rendere disponibili risorse da utilizzare a parità di gettito».
  Tempi più lunghi o intervento in versione «mini» almeno nella prima fase per la revisione delle tax expenditures (gli sconti e le agevolazioni fiscali).
  Il possibile ridimensionamento, seppure soltanto per la parte iniziale del percorso di attuazione, del piano di riordino degli sconti fiscali potrebbe contribuire ad abbassare l'asticella della spending review che ad aprile era stata fissata a quota 10 miliardi nel 2016. Un obiettivo che da diversi giorni non è più considerato «rigido» dal Governo. E a confermarlo indirettamente è la stessa Nota di aggiornamento del DEF approvata dal Consiglio dei ministri di venerdì dove si fa esplicito riferimento all'adozione «di un profilo più graduale» del nuovo programma di tagli alla spesa rispetto «a quello ipotizzato» nel Documento di economia e finanza della scorsa primavera. Non a caso nella Nota di Pag. 20aggiornamento non si cita più espressamente l'obiettivo di una revisione della spesa per 0,6 punti di PIL (10 miliardi) nel 2016 indicata nel DEF varato ad aprile. La «spending 2.0», alla quale sta lavorando il commissario Yoram Gutgeld insieme a Roberto Perotti, non dovrebbe in ogni caso essere inferiore ai 7,5-8,5 miliardi e manterrà una fisionomia precisa: sarà organica, strutturale e pluriennale assicurando risparmi certi fino al 2019, come si sottolinea nella stessa Nota di aggiornamento del DEF. L'orientamento a rendere più flessibile e graduale la nuova spending deriva anche dalla necessità di ridurre l'impatto recessivo prodotto da un marcato taglio della spesa che mal si sposerebbe con la manovra espansiva all'insegna del taglio delle tasse annunciata dal Governo. E a confermarlo è sempre la Nota di aggiornamento. In ogni caso la Nota di aggiornamento conferma che la spesa primaria in rapporto al PIL si ridurrà del 3,4 per cento passando dal 46,6 per cento del 2015 al 43,2 per cento del 2019 (43,3 per cento la stima del DEF). E, in particolare, la spesa corrente al netto degli interessi scenderà dal 42,6 per cento del 2015 al 40,1 per cento del 2019. La spending servirà per garantire «gran parte della copertura dei tagli d'imposta», ovvero dello stop a TASI e IMU su prima casa, IMU agricola e tassa imbullonati. Una fetta consistente delle risorse necessarie per sterilizzare le clausole di salvaguardia fiscali da 16,4 miliardi nel 2016 arriverà invece dalla maggiore flessibilità riconosciuta in sede europea. Il riordino delle tax expenditures resta inserito nel capitolo della nuova spending ma sembra essere destinato a procedere con tempi un po’ più lunghi di quelli originariamente previsti o, quanto meno, in una versione soft. L'orientamento del Governo di non premere troppo sull'acceleratore deriverebbe anzitutto dall'esigenza di mettere a punto un intervento calibrato senza ricadute negative sulle famiglie e sulle fasce più povere ma pure dalla necessità di non varare misure che possano rischiare di entrare in conflitto con l'obiettivo di un costante alleggerimento della pressione fiscale, che resta prioritario per Palazzo Chigi.
  Due sono al momento le opzioni sul tappeto:
   1) stop all'inserimento del riordino degli sconti fiscali nella legge di Stabilità convogliando il provvedimento su un provvedimento ad hoc sulla falsariga di quanto già previsto dalla delega fiscale;
   2) anticipo con la manovra di una sola fetta del piano, con il taglio limitato ad alcune specifiche agevolazioni non più giustificabili ad esempio nei settori dell'agricoltura e dei trasporti per poi far scattare il resto delle misure con più calma.

  In questo secondo caso verrebbe dato il via a un intervento «mini», con un recupero di risorse probabilmente di meno di 1 miliardo, comunque al di sotto degli 1,5-2 miliardi ipotizzati originariamente. Resta un punto fermo: i tagli alle tax expenditures non interesseranno le agevolazioni fiscali per la famiglia o ricollegabili al sistema di welfare. Il Governo prova ad accelerare sulla digital tax. Inizialmente sembrava che la misura potesse scattare nei confronti dei giganti del web solo dal 2017, anche a causa delle difficoltà del meccanismo da far entrare in funzione. Ma da alcuni giorni i tecnici del ministeri dell'Economia stanno valutando la possibilità di anticipare il decollo della digital tax già nel 2016, facendola confluire nella legge di stabilità da varare entro metà ottobre. Si stima in 2-3 miliardi annui il gettito ricavabile da un intervento di questa natura. Che anche sulla falsariga della proposta di legge presentata da Scelta Civica nel maggio scorso alla Camera potrebbe essere imperniato su una ritenuta del 25 per cento su tutte le transazioni online. O in alternativa sull'individuazione nel nostro Paese di una stabile organizzazione delle società che operano sulla rete e con la tassazione IRES applicata in Italia. Sul tavolo ci sarebbe anche l'ipotesi di un intervento più limitato (da 1,5-2 miliardi l'anno).Pag. 21
  L'Italia attende alcune indicazioni proprio dall'Unione europea che da tempo sta portando avanti il suo progetto per creare un mercato unico sul settore del digitale. Un progetto che interesserà anche l'aspetto della tassazione. Renzi nei giorni scorsi ha affermato che dopo aver aspettato per due anni una legge europea, dal 1o gennaio 2017 il Governo immagina una tassazione che vada a colpire i giganti del web con meccanismi diversi per far pagare tasse nei luoghi in cui sono fatte transazioni e accordi. Lo stesso premier, come Zanetti, non ha escluso un decollo dell'intervento già dal 2016. Sulla base della proposta Zanetti, ma non solo, le società coinvolte dovrebbero essere quelle che per un periodo di tempo superiore ai 6 mesi hanno superato i 5 milioni di entrate provenienti dall'Italia. Un chiaro cambiamento di rotta rispetto a quanto accade oggi dato che nel 2014 le tre sedi italiane dei colossi Google, Facebook e Twitter hanno corrisposto al fisco – come risulta dai loro ultimi bilanci consultabili (per Google il 2013) – rispettivamente 1,8 milioni, 305mila euro e 49mila euro. Un esborso assai limitato soprattutto rispetto ai redditi reali prodotti in Italia e che oggi invece sono «dirottati» in toto sulla sede sociale in Paesi a fiscalità privilegiata.
  Con riferimento al contrasto all'evasione, il tax gap misurato dall'ultima versione del rapporto sull'evasione fiscale allegata alla nota di aggiornamento al DEF ripropone il problema dell'evasione fiscale in Italia in tutte le sue enormi proporzioni. Il valore medio delle imposte sottratte a tassazione (IVA, IRPEF e IRES su imprese e lavoro autonomo e IRAP) nel periodo 2007-2013 ammonta a circa 91,4 miliardi. A guardare il bicchiere mezzo pieno è riscontrabile un miglioramento rispetto al precedente periodo 2001-2006 quando la «distanza» era quasi di 93,6 miliardi. Se però si fa riferimento al rapporto con il PIL (sterilizzando l'impatto delle pubbliche amministrazioni) stiamo parlando di una quota del 6,6 per cento. Una stima un po’ rozza ma che comunque fa capire gli ordini di grandezza in campo è che, proiettando il dato delle riscossioni da lotta all'evasione da tributi erariali 2014 (11,7 miliardi) sull'ultimo tax gap, la quota recuperata si ferma intorno al 13 per cento, nonostante il trend in aumento degli ultimi anni. Questo dimostra quanto il problema sia radicato e tutt'altro che facile da superare. Del resto, la distribuzione regionale «sia in termini di assoluti che in intensità – come ammette l'ultima release del rapporto predisposto dal Ministero dell'economia e delle finanze – si presenta fortemente eterogenea». E se nelle regioni settentrionali si registrano i valori assoluti più elevati, in quelle meridionali si manifestano livelli di intensità che sfiorano il 60 per cento. Il monitoraggio effettuato dalla Commissione europea mette in evidenza come la media 2012-2013 del gap IVA rapportato all'IVA potenziale oscilli tra il 4 per cento di Finlandia e Paesi Bassi a un massimo del 42 per cento della Romania. L'Italia è, purtroppo, subito a ridosso dei valori top, preceduta solo da Romania, appunto, Lituania, Slovacchia e Grecia. Ancor più preoccupante il dato in valore assoluto che per il nostro Paese è di 26 miliardi di euro con tutti gli altri partner europei nettamente distaccati: Germania (24 miliardi), Regno Unito (16 miliardi) e Francia (19,5 miliardi). Ma la questione non riguarda solo le imposte «connesse» alla produzione. Nel 2013 il tax gap IMU (differenza tra imposta teorica e imposta effettiva senza considerare terreni, fabbricati rurali strumentali e aree fabbricabili) è stato del 28,1 per cento, ossia pari a 5,5 miliardi di euro, con un picco massimo in Calabria del 40,6 per cento.

La povertà cresce.

  Si conferma l'assenza, come nel DEF di aprile, di una efficace e credibile politica di reale contrasto alla povertà nel nostro Paese. Una vera emergenza che dura ormai da più di sette anni, e che colpisce fasce sempre più larghe della popolazione. Le politiche del Governo continuano a privilegiare i trasferimenti monetari rispetto ad azioni strutturali e stabili e Pag. 22all'incremento dei fondi per le politiche sociali, laddove sarebbe indispensabile avviare un vero Programma straordinario di contrasto alla povertà. Nella relazione al Parlamento sulla Nota il Governo pone tra le priorità della legge di stabilità del 2016 le «misure di alleviamento della povertà». Con l'ISTAT che segnala 4,1 milioni di poveri in Italia la questione è considerata un'emergenza. Sul tavolo dell'esecutivo c’è il cosiddetto RIA, reddito di inclusione attiva: si tratterebbe di un assegno di 400 euro mensili per le famiglie che, in base ai parametri ISEE, dimostrino di trovarsi sotto una certa soglia. In cambio chi riceve il sussidio dovrebbe impegnarsi ad accettare di partecipare a percorsi formativi. La misura costerebbe 1,5 miliardi. Il rapporto Caritas dice testualmente che gli interventi del Governo Renzi a proposito della povertà costituiscono degli «avanzamenti marginali». Nel documento ci sono anche parole di apprezzamento per i 5 Stelle, SEL, la Lega Nord o deputati del PD. Il ministro Poletti sottolinea la «consapevolezza» dell'esecutivo sulle misure da realizzare e la volontà di farlo. Misure che, però, finora non sono state «adeguate», dice la Caritas, confermando la «tradizionale disattenzione» dei governi verso questi temi. Dopo una disamina della politica sociale del Governo, l'organismo della Conferenza episcopale italiana, ne ricava che non «c’è stato alcun intervento di rilievo» e che anche i timidi interventi hanno riguardato solo il 20 per cento delle famiglie in povertà. A Renzi viene riconosciuto solo l'aumento dello stanziamento per i tre fondi principali – Fondo nazionale politiche sociali, Fondo non autosufficienze e Fondo nidi – da 667 a 800 milioni. Ma «si rimane comunque lontani dai 1.070 milioni destinati a tali fondi nel 2008 dall'allora Governo Prodi» comunque «inadeguati». Eppure, dal 2007 al 2014 la povertà è raddoppiata, dal 3,1 al 6,8 per cento della popolazione e i poveri hanno visto ridurre del 27 per cento il proprio reddito.
  L'Italia, però, stanzia solo lo 0,1 per cento del PIL contro lo 0,5 per cento della media Ue e resta l'unico paese, insieme alla Grecia, privo di un sistema di interventi adeguato.
  L'Alleanza contro la povertà giudica in modo negativo l'impianto strategico delineato nel Documento del Governo «Verso un Piano nazionale per la lotta alla povertà e all'esclusione sociale». Vi si esplicita, infatti, l'intenzione di non avviare nel triennio 2016-2018 – cioè sino alla scadenza attesa della legislatura – un percorso di riforma che introduca gradualmente la necessaria misura nazionale a sostegno della popolazione in povertà assoluta.
  La lettura del testo non permette di comprendere – secondo l'Alleanza – quale sia il nome della nuova prestazione prospettata perché in alcune parti si parla di un'estensione della sperimentazione del sostegno per l'inclusione attiva (SIA), nella prospettiva della graduale introduzione del reddito per l'inclusione attiva (RIA), mentre in altre di vero e proprio RIA. È chiaro, invece, che il percorso delineato per introdurla non rispetta i tre principi fondanti di quello che dovrebbe essere – a parere dell'Alleanza – il necessario Piano contro la povertà:
   a) gradualismo in un orizzonte definito: non sono indicati né un punto di arrivo certo del percorso nel 2018 (la somma di 1,5 miliardi viene definita «eventualmente come obiettivo a tendere nel triennio di programmazione finanziaria se le esigenze di finanza pubblica lo consentiranno») né le tappe intermedie previste per il 2016 e il 2017;
   b) stabilità: non viene fornita alcuna indicazione che la prestazione prevista sarà introdotta stabilmente a regime;
   c) universalismo: il documento afferma che – qualora venisse realizzato l'obiettivo massimo, cioè il reperimento di 1,5 miliardi – si potrebbe integrare il reddito delle famiglie fino al 50 per cento della soglia Istat di povertà assoluta. Ciò significa raggiungere esclusivamente le famiglie con un reddito non superiore alla metà della soglia di povertà assoluta, fornendo loro una prestazione che consenta Pag. 23di elevarlo solo sino a tale soglia. Il documento purtroppo non indica la percentuale di famiglia povere che si pensa così di raggiungere.

Il reddito di dignità – La manifestazione del 17 ottobre.

  Lo scorso 30 giugno la campagna per il reddito di dignità ha tenuto in Parlamento, nella sala dei Gruppi, un incontro con tutte le forze politiche firmatarie della piattaforma lanciata lo scorso 13 marzo da Libera e Gruppo Abele, con la partecipazione del BIN Italia, del Cilap, della Rete della conoscenza, dell'ARCI, della rete Tilt ed Act, delle Chiese evangeliche, del Laboratorio per lo sciopero sociale, della Fiom e di tantissime altre realtà sociali di base, laiche e cattoliche. L'obiettivo è quello di introdurre anche nel nostro Paese una misura presente ormai ovunque: il reddito minimo garantito o reddito di cittadinanza. Una misura urgente quanto necessaria per contrastare l'aumento delle diseguaglianze ed allo stesso tempo dare battaglia con strumenti efficaci e concreti a mafie e corruzione. Durante l'incontro sono state consegnate ai rappresentanti della Commissione lavoro al Senato le 100 mila firme raccolte nei 100 giorni della petizione per il reddito di dignità. Ma soprattutto si è fatto con grande concretezza e trasparenza un bilancio sulla prima parte della campagna e sul suo sviluppo nei prossimi mesi. Nei primi 100 giorni sono state centinaia le iniziative che hanno visto l'impegno di decine di migliaia di attivisti. È stata promossa la giornata nazionale della dignità e del reddito lo scorso 6 giugno coinvolgendo più di 200 piazze, andando oltre le più rosee aspettative, a dimostrazione di come a partire dai temi cruciali per la democrazia si possa intercettare nel paese un sentimento diffuso pronto ad essere canalizzato ed agito per il bene comune. Decine di comuni hanno in questi primi 100 giorni aderito alla campagna attraverso delibere di giunta. Un segnale importantissimo della vicinanza degli amministratori locali alle nostre proposte. Tra questi anche Napoli e Palermo, le due più grandi e popolose città del sud, a dimostrazione di un consenso maggioritario che non potrà essere eluso, nonostante sia stato ignorato sino ad ora. Siamo infatti consapevoli che nonostante tutto, nell'attuale quadro istituzionale e politico sarà difficile arrivare ad una maggioranza con un Governo sempre più chiuso all'ascolto e che ha definito, compiendo l'ennesimo errore, addirittura incostituzionale ed assistenziale il reddito di cittadinanza, nonostante proprio l'Europa abbia «costituzionalizzato» il reddito minimo garantito attraverso la Carta di Nizza e la Costituzione italiana lo legittimi negli articoli 3-36 e 41. Il motivo per il quale il reddito di dignità non sia un provvedimento assistenzialistico lo ha ricordato don Luigi Ciotti durante la conferenza dicendo che «il reddito di dignità è una misura di giustizia sociale e, dunque, un investimento di speranza». L'ostilità del Governo e l'indifferenza attuale di una parte cospicua del parlamento non significano che la partita sia finita, anzi è per tutti noi appena iniziata. Durante la conferenza del 30 è stato chiesto al M5S, a SEL, alla Sinistra riformista del PD ed a Possibile di Civati, le forze che hanno sino ad ora firmato la piattaforma per il reddito di dignità, di arrivare ad un unico testo di legge da presentare in votazione in Commissione lavoro al Senato, così da poter successivamente calendarizzazione la discussione in Aula della proposta.
  È condizione indispensabile per proseguire che si passi dai tre disegni di legge presentati ad un unico testo condiviso che contenga le caratteristiche essenziali indicate nella nostra piattaforma. E visto che tutti si riconoscono in quella piattaforma non dovrebbe essere difficile, anzi. Sarebbe il segnale concreto della disponibilità di tutti a lavorare per il bene comune, senza distinguo e primogeniture su un tema che non ci consente ne tatticismi, ne egocentrismi. Su questo passaggio si sono impegnati tutti. Da questo punto di unità e sintesi si ripartirà per far conoscere un testo che sarà condiviso dentro e fuori dal Pag. 24Parlamento da un vasto arco di forze sociali e politiche, consentendoci di sommarne di altre con l'unico obiettivo, per una volta, di far vincere il paese attraverso i diritti e la democrazia. La Coalizione sociale darà il suo contributo, di idee, proposte, insieme a Libera, alla manifestazione che si svolgerà a Roma il 17 ottobre: «Miseria ladra, salario di dignità, uguaglianza, diritti». Questo slogan risuonerà in tante città italiane, nei luoghi di lavoro mentre si prepara una grande giornata di lotta, di popolo, che porterà a Roma la protesta per le politiche del Governo e le proposte per cambiare strada. Un altro capitolo su cui si stanno concentrando i tecnici è quello della casa e non solo per lo stop di IMU e TASI. «Abbiamo bisogno di un mercato di affitti che funzioni bene, soprattutto per favorire la mobilità del lavoro. Per questo valutiamo con attenzione le proposte di detassazione degli immobili locati», ha affermato il Viceministro dell'economia e delle finanze, Enrico Morando, intervenendo a un convegno di Confedilizia.

Coperture incerte.

  I problemi, investono la praticabilità di una manovra che, pur presentando target di crescita inferiori ai paesi amici-concorrenti, comporta una difficilissima quadratura dei conti in termini di copertura. Per quanto riguarda l'esplicitazione delle finalità alle quali destinare le risorse disponibili si osserva che, ancorché queste siano definite in maniera puntuale da un punto di vista qualitativo, la relazione non fornisce alcun tipo di informazione circa la composizione quantitativa delle misure, limitandosi a indicare l'entità complessiva della manovra in termini di scostamento tra l'indebitamento tendenziale e quello programmatico. Il Governo afferma che al finanziamento delle misure descritte e al miglioramento qualitativo della spesa contribuiranno in misura prevalente la riduzione e razionalizzazione della spesa pubblica. Sarebbe opportuno che tale affermazione fosse supportata da indicazioni qualitative e quantitative in ordine alla tipologia e all'entità delle misure di revisione della spesa e alla fonte delle ulteriori risorse necessarie al finanziamento complessivo delle misure descritte. Nella manovra da 27 miliardi indicata dal Governo, 16 miliardi – di cui 10 come frutto della revisione della spesa pubblica (ma forse meno ) – sono impegnati solo per evitare che dal 2016 scattino le «clausole di salvaguardia» fiscali per garantire all'Europa il rispetto degli obiettivi (altre clausole per circa 54 miliardi sono previste per il 2017 ed il 2018, vere mine a tempo). Escluso il ricorso a nuova tassazione e previsto al contrario l'ampio piano di detassazione (a cominciare da quello per la casa, su cui Bruxelles, Fondo monetario e molti altri storcono il naso e per il quale i comuni chiedono paralleli fondi compensativi a fronte del calo del gettito), quanta spesa potrà alla fine essere fatta in deficit e quanti altri tagli di spesa dovranno essere messi in conto? E a quanto ammonteranno le risorse per continuare a ridurre la tassazione sul lavoro, ricetta sollecitata dall'Europa ?
  Le clausole di salvaguardia dovrebbero comprendere:
   – sia quelle della legge di stabilità 2015 (aumento aliquote IVA e aumento accise oli minerali per la mancata autorizzazione della Commissione europea sul reverse charge al settore della grande distribuzione);
   – che quelle dalla legge di stabilità 2014 (legge n. 147 del 2013 – variazione di aliquote d'imposta e detrazioni vigenti).

  Si tratta di 12,8 miliardi nel 2016, 19,2 miliardi nel 2017 e di 22 miliardi nel 2018. Se si sommano anche gli effetti delle precedenti clausole, il totale complessivo sale a 16,1 miliardi per il 2016, 25,4 miliardi per 2017 e 28,2 miliardi per il 2018. Il problema è che l'azzeramento delle clausole di salvaguardia su IVA e accise per ora è limitato al 2016. Se ne può dedurre che nel 2017 si procederà probabilmente a una neutralizzazione parziale. Potrà scattare l'aumento dell'IVA e Pag. 25delle accise, anche se in misura minore rispetto a quanto previsto per il 2016 nel quadro a legislazione vigente. Lo stesso Ufficio parlamentare di bilancio ha osservato che si potrebbe verosimilmente prefigurare una minore disattivazione delle clausole di salvaguardia a partire dal 2017 rispetto a quanto implicito nel DEF.

Tabella 1 – Clausole di salvaguardia contenute nella legge di stabilità 2015
(importi in milioni di euro)

  Quanto alla spending review, qualora – come sembra – l'asticella si attestasse al di sotto dei 10 miliardi indicati finora dal Governo, occorrerebbe individuare coperture aggiuntive per il taglio delle tasse e delle altre misure in cantiere.
  Si rimarca che il documento dovrebbe chiarire:
   1) il «nuovo profilo» delle misure di revisione della spesa, sia in termini qualitativi che in particolare quantitativi;
   2) l'impatto di tale revisione in termini di minori risparmi conseguiti;
   3) le conseguenti misure di copertura che si prevede di utilizzare.

  La carta di riserva potrebbe derivare dagli incassi attesi dalla voluntary disclosure (forse 3-4 miliardi). Nella Nota la stima ufficiale è in realtà di 671 milioni, ma le entrate dovrebbero superare i 3 miliardi. Entrate comunque una tantum, che non dovrebbero essere utilizzate a copertura di nuove spese correnti. La Nota indica, nel prospetto delle entrate una tantum, la stima del gettito previsto per la emersione dei capitali detenuti all'estero (voluntary disclousure) che risulta pari a 671 milioni nel 2015 e a 18 milioni nel 2016. La legge n. 186 del 2014 ha introdotto una procedura volontaria finalizzata all'emersione e al rientro di capitali detenuti all'estero (c.d. volontary disclousure). Il provvedimento stabilisce che gli effetti finanziari positivi, non scontati ai fini dei saldi di finanza pubblica, devono essere versati ad apposito capitolo dell'entrata del bilancio dello Stato. Il decreto-legge n. 192 del 2014, intervenendo su specifiche clausole di salvaguardia, ha stabilito l'utilizzo prioritario di una quota delle risorse attese dalla disciplina sul rientro dei capitali. Tale quota, in particolare, risulta pari a 671,1 milioni per l'anno 2015 e 17,8 milioni per l'anno 2016. In proposito sarebbe utile chiarire se la quota di risorse utilizzata dal decreto-legge n. 192 del 2014 esaurisca o meno l'ammontare complessivo delle entrate che si stima di realizzare per effetto delle disposizioni in materia di voluntary disclosure introdotte dalla legge n. 186 del 2014. Inoltre, nel decreto-legge approvato dal Consiglio dei ministri, pare che venga cancellata anche la sanzione amministrativa che la legge prevede per chi fa uso «in qualunque forma di conti o libretti di risparmio in forma anonima o con intestazione fittizia aperti presso Stati esteri», pari al 10-40 per cento dei fondi detenuti. Se dovesse essere confermato, non siamo più di fronte ad un salvacondotto penale. Pare infatti che venga cancellata anche la sanzione amministrativa che la legge prevede per chi fa uso «in qualunque forma di conti o libretti di risparmio in forma Pag. 26anonima o con intestazione fittizia aperti presso Stati esteri», pari al 10-40 per cento dei fondi detenuti.

Quale flessibilità di bilancio?

  È chiaro che sulla «flessibilità» di bilancio (per Renzi e Padoan significa in totale lo 0,8 per cento del PIL – di cui lo 0,4 per cento già accordato – pari a circa 12 miliardi, più un ulteriore 0,2 per cento da ottenere a titolo di emergenza-immigrazione) si giocherà nelle prossime settimane una partita tutta politica tra il Governo italiano – che conta di mettere all'attivo anche la riforma del Senato come prova del suo impegno a cambiare passo – e Commissione europea. L'incognita maggiore riguarda l'ulteriore 0,2 per cento del PIL (3,3 miliardi) richiesto per fare fronte all'emergenza migranti. Non è certo che lo sconto venga accolto in toto dalla Commissione. Quanto allo 0,3 per cento (4,9-5 miliardi) che il Governo conta di ottenere per effetto della clausola sugli investimenti, l'istruttoria va perfezionata nelle prossime settimane. Si tratta di uno sconto a valere sulla quota nazionale dei progetti cofinanziati dall'Unione, che presuppone dunque la rapida attivazione della relativa procedura (una lista dettagliata di opere cantierabili in tempi brevi) se si vuole utilizzare queste somme nel 2016. E sappiamo che sugli investimenti dei fondi europei, le performance italiane sono tutt'altro che esaltanti. Se si indica a tale proposito una cifra nella legge di stabilità dobbiamo sapere che essa sarà da ritenersi valida solo se i progetti saranno poi effettivamente realizzati. Meno problematico si presenterebbe l'ulteriore sconto di 1,6-1,7 miliardi (dallo 0,4 allo 0,5 per cento del PIL) da ottenere grazie alla clausola sulle riforme; anche se questo significa indicare nuove riforme evidenziandone gli effetti positivi sulla crescita di medio periodo. Servirebbe dunque qualche ulteriore indicazione che nella Nota di aggiornamento non troviamo.

E quale flessibilità per le pensioni ?

  Tre i problemi concernenti le pensioni non risolti:
   a) La flessibilità in uscita – La proposta in discussione nella Commissione Lavoro della Camera prevede di poter anticipare a 62 anni, invece che agli attuali 66 anni e tre mesi (66 e sette mesi nel 2016) l'uscita in pensione. L'opzione per la flessibilità costerebbe il 2 per cento per ogni anno e dunque qualora fosse esercitata per quattro anni comporterebbe una penalizzazione dell'8 per cento. Sul costo si discute, ma si dovrebbe andare, secondo i proponenti, sotto i 4 miliardi (tenendo conto solo dei pensionati che aderiranno). Un po’ troppo, e allora si guarda all'altro progetto sul campo, nato dagli ambienti tecnici e che viene definita proposta-Boeri. Si tratterebbe, nella versione che circola, di estendere a chi va in pensione anticipata un calcolo interamente contributivo invece che il più generoso retributivo anche se mitigato dal sistema pro-rata. In questo caso il taglio dell'assegno potrebbe arrivare complessivamente fino al 30 per cento. Il costo sarebbe vicino allo zero. L'impatto immediato tuttavia non sarebbe indolore: il primo anno potrebbero essere molti coloro che potrebbero approfittare della opportunità e il peso per le finanze pubbliche si farebbe sentire. La coperta è corta, tant’è che il DEF non fa cenno alla questione della flessibilità in uscita. Tuttavia i tecnici del Governo sono al lavoro per una soluzione di compromesso che potrebbe conciliare l'esigenza di «costo zero», sulla quale sembra siano attestati Palazzo Chigi e via XX settembre. L'idea è quella di lavorare sulla percentuale di penalizzazione: dal 2 per cento di cui si è parlato fino ad oggi si potrebbe salire il 3-4 per cento l'anno raggiungendo una penalizzazione massima su quattro anni del 12-15 per cento. L'età rimarrebbe a 62 anni e in questo modo – ma si stanno facendo i conti – si potrebbe raggiungere un punto di equilibrio tra costi e risparmi;Pag. 27
   b) Tutto è comunque legato alla partita degli esodati che forse sarà trattata all'interno della legge di stabilità. Fino ad oggi sono stati salvaguardati 125 mila lavoratori rimasti nel «limbo», senza stipendio e senza pensione, della legge Fornero per una spesa di 12 miliardi nel corso di due anni e mezzo. Ora sul tavolo ci sono, secondo le ultime stime, circa 49 mila esodati ancora da salvare. Si cerca dunque di fare il possibile per trovare le risorse che sono al vaglio della Ragioneria generale dello Stato;
   c) In tandem c’è anche il rinnovo della cosiddetta opzione donna: il meccanismo, in scadenza fine anno, consente alle lavoratrici di andare in pensione anticipata a 57 anni e 35 di contributi accentando il solo metodo contributivo ma con una perdita del 20-30 per cento.

Meno risorse alla sanità rispetto a quanto promesso.

  Si confermano le minori risorse, rispetto a quanto promesso a favore del Servizio sanitario nazionale (SSN). Dietro la cortina delle polemiche che hanno stravolto e un po’ annebbiato in questi giorni il sistema sanitario, impegnandolo a discutere del decreto sulle prestazioni inappropriate, si nascondeva un problema ben più grosso per la sanità italiana. Si è capito, mercoledì 30 settembre scorso, quando alla Camera il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha spiegato il suo piano per finanziare il settore l'anno prossimo. Il fondo sanitario nazionale sarà di 111 miliardi di euro e non, come atteso e previsto negli accordi con le Regioni di oltre 113,4. Dopo due anni consecutivi a 110 miliardi e quindi senza incrementi, il 2014 e il 2015, arriverà un aumento esiguo, che equivale a meno di un terzo di quanto previsto. Di questo si dovranno preoccupare da ora in poi le Regioni ma anche i medici, il ministero della Sanità e ovviamente i pazienti. C’è solo un miliardo in più per la sanità, malgrado che il settore segni ogni anno un aumento tendenziale di spesa del 3 o 4 per cento.
  Bastano un paio di dati per far capire che questi soldi non basteranno e alcune Regioni l'anno prossimo finiranno per andare in rosso. Il primo riguarda i farmaci super costosi che stanno arrivando nel sistema (non solo quello dell'epatite C ma anche nuove molecole per cancro, alzheimer, colesterolo alto). Già quelli da soli sono in grado di assorbire una parte dell'aumento. Inoltre, ci sono da rinnovare i contratti del settore, ormai fermi da anni. Giusto due esempi, ma se ne potrebbero fare molti altri. Le previsioni della Nota di aggiornamento del DEF, riguardo alla spesa sanitaria, confermano una crescita inferiore a quella del PIL, con un calo dal 6,8 per cento del 2015, al 6,7 per cento nel 2016 e 2017, al 6,6 per cento per il 2018, fino al 6,5 per cento per l'anno 2019, nel rapporto fra spesa sanitaria e PIL. Il Governo persevera con la politica dei tagli al Servizio sanitario nazionale, senza ricordare che la spesa sanitaria pubblica italiana risulta inferiore a quella dei principali Paesi europei: poco meno di 2.500 dollari pro capite nel 2012, a fronte degli oltre 3.000 spesi in Francia e Germania.
  Anche il recentissimo Rapporto sullo stato sociale 2015, del Dipartimento di economia e diritto «Sapienza», Università di Roma, ha confermato come i dati della nostra spesa sanitaria, sia in rapporto al PIL (7 per cento) che pro capite, indichino che siamo sotto la media dei rispettivi valori della UE a 15 (8,7 per cento); dopo di noi ci sono solo Spagna, Grecia e Portogallo. Per raggiungere la media UE, l'Italia dovrebbe dunque aumentare la spesa sanitaria di circa 30 miliardi. La Nota di aggiornamento in esame, conferma come si sia lontani dall'uscire dal paradigma dei tagli ed entrare in quello della qualità. In questi ultimi anni, il nostro Paese è diventato più diseguale sul piano della garanzia delle cure, con territori periferici che negli anni si sono visti sottrarre servizi, tagliare prestazioni sanitarie e sociali, depauperare il sistema di protezione sociale. Con un sistema di Pag. 28prevenzione sempre più impoverito. Nonostante il nostro basso livello di spesa sanitaria rispetto agli altri Paesi, già si annunciano ulteriori riduzioni per il 2016 delle risorse che erano state garantire per il SSN. È lo stesso Presidente del Consiglio Renzi, che in questi giorni, ha espressamente dichiarato che il Fondo sanitario nazionale arriverà a 111 miliardi nel 2016. Con questa dichiarazione, il premier anticipa, di fatto, che si avrà un taglio al comparto salute di circa 2 miliardi. L'aumento programmato frutto dell'accordo in Stato Regioni del 2 luglio 2015, prevedeva, infatti, per il 2016 uno stanziamento di circa 113 miliardi. E questa cifra di 113 miliardi di euro nel 2016, è esattamente quella indicata proprio nella Nota di aggiornamento del DEF ora al nostro esame. Le dichiarazioni del Premier contrastano quindi anche con quanto contemporaneamente scritto nella Nota di aggiornamento del DEF, e con quanto la stessa ministra Lorenzin, solo pochi giorni fa, ha affermato, ossia che per il 2016 sotto i 112 miliardi non si può andare.
  Ma le minori risorse per il Servizio sanitario nazionale salgono – alla luce dei 111 miliardi per il 2016 indicati dal Premier – a oltre 4 miliardi di euro, se confrontati con i 115,4 miliardi di euro previsti sempre per il 2016, dalla legge di stabilità 2015 (legge n. 190 del 2014). Tutto ciò fa capire come la imminente legge di stabilità porterà ad ulteriori riduzioni di risorse a danno del Servizio sanitario del nostro Paese. Insomma, il recente taglio di 2,352 miliardi all'anno a decorrere dal 2015, non è stato sufficiente. Non si può non evidenziare come peraltro l'esame della Nota di aggiornamento del DEF, si svolga mentre è in via di approvazione il decreto del Ministero della Salute, attuativo dell'articolo 9-quater del decreto-legge n. 78 del 2015, che prevede una serie di misure volte alla riduzione delle prestazioni sanitarie inappropriate. In pratica si interviene su prestazioni specialistiche e riabilitative ritenute non necessarie ma prescritte ugualmente dai medici, con misure penalizzanti (riduzione della retribuzione), per i medici stessi qualora questi non rispettino le condizioni di erogabilità e le indicazioni per la prescrizione appropriata delle prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale, e penalizzanti – ancora una volta – per i cittadini che si vedranno «scaricare» la responsabilità di una prestazione sanitaria che gli è stata prescritta ma che si giudica non appropriata. Al di fuori delle condizioni di erogabilità consentite, le prestazioni saranno infatti poste a totale carico dell'assistito, che si vedrà posto nella condizione di rivolgersi al privato, accollandosi così il relativo costo. Si tratta di misure che volendo affrontare il problema reale della medicina difensiva, finiscono per tradursi in disposizioni sostanzialmente punitive nei confronti dei cittadini e dei medici.

Le risorse per la scuola rimangono ben al di sotto della media europea.

  La spesa per l'istruzione in Italia, come è noto e nonostante le risorse previste dalla legge di stabilità 2015, resta al di sotto della media europea, per allinearsi alla quale occorrerebbero impegni e investimenti maggiori. Nel DEF 2015 la partecipazione della scuola alla crescita del PIL è stimata da qui al 2020 dello 0,3 per cento, e su una proiezione di medio-lungo periodo la previsione di spesa in istruzione cala drasticamente, fino ad una riduzione di circa 10 miliardi. Per colmare l'enorme gap formativo col resto d'Europa servirebbero risorse certe e adeguate. Il Governo Renzi, invece, tenta di supplire all'insufficienza degli investimenti pubblici con le sponsorizzazioni, con la concessione di crediti d'imposta a cittadini e imprese per donazioni alle scuole, e con la destinazione del 5 per mille nella dichiarazione dei redditi. In questo modo l'intervento dei privati dovrebbe sostituirsi alla scarsità degli investimenti dello Stato, con il rischio di creare e accrescere le forti diseguaglianze tra scuole di aree economico-sociali diverse, con buona pace dell'uguaglianza d'accesso di tutti i cittadini al Pag. 29diritto allo studio e del carattere nazionale e unitario del sistema d'istruzione.

Un piano straordinario per il lavoro.

  Il 2016 deve essere l'anno di svolta per la ripresa dell'Italia. Non possiamo andare avanti, dopo una caduta di quasi 10 punti percentuali del PIL, rassegnati a obiettivi di crescita di zero virgola e una disoccupazione sostanzialmente immutata dietro la sistematica propaganda sui numeri dei contratti a tempo indeterminato. Continuare con tagli di tasse, principalmente definiti per scopi elettorali, indifferenziati e regressivi e finanziati da tagli di spesa vuol dire determinare effetti negativi sull'economia reale, nonostante le favole liberiste. La manovra di finanza pubblica per il triennio 2016-18 non solo non ha segno espansivo, come racconta il Governo Renzi, ma dopo il primo anno di sostanziale neutralità, diventa pesantemente restrittiva con obiettivi di saldo primario irrealistici a partire dal 2017, anche in considerazione dei moltiplicatori fiscali applicati per stimare gli effetti delle riduzioni di entrate e spese.
  La cura per la riqualificazione e la ripresa robusta e sostenibile della nostra economia sono gli investimenti, innanzitutto pubblici, e le politiche industriali. Al contrario, la Nota di aggiornamento del DEF, nonostante l'utilizzo della clausola degli investimenti, prospetta una riduzione degli investimenti pubblici, a partire dal livello minimo attuale. A partire dagli investimenti, proponiamo di cambiare radicalmente rotta e di prevedere nella Nota di aggiornamento del DEF gli spazi finanziari necessari per poter inserire nel disegno di legge di stabilità un «Piano per il lavoro», inteso come insieme di interventi coordinati, orientati a promuovere, direttamente o indirettamente, il lavoro di qualità lungo un sentiero di sviluppo sostenibile sul versante sociale e ambientale.
  Il Piano dovrebbe avere due principali fonti di finanziamento:
   1. un allentamento per circa un punto percentuale di PIL (18 miliardi di euro all'anno) per un triennio (2016-18) del deficit programmato per finanziare gli interventi congiunturali (ossia non permanenti);
   2. misure anti-evasione per gli interventi strutturali (ossia permanenti).

  Il Piano dovrebbe essere indirizzato prioritariamente al Mezzogiorno attraverso un vincolo di destinazione del 45 per cento del totale delle risorse individuate per gli investimenti (criterio distributivo introdotto da Ciampi durante il primo Governo Prodi e mai rispettato).
  I principali punti del «Piano per il Lavoro» sono i seguenti:

A. Misure «congiunturali» da finanziare attraverso l'allentamento una tantum del deficit:
  1. Programma di investimenti in piccole opere affidati ai comuni attraverso l'allentamento del Patto di stabilità interno (circa 8 miliardi di euro all'anno) per la messa in sicurezza del territorio, per il miglioramento delle periferie, per investimenti per l'efficienza energetica negli immobili della Pubblica Amministrazione, per la costruzione di asili nido (per il raggiungimento di quota minima del 25 per cento di presa in carica per regione, in particolare per redditi bassi e medi).
  2. Programma per la mobilità sostenibile per il rinnovo e l'integrazione dello stock di treni per i pendolari e di autobus urbani e extraurbani (4 miliardi di euro all'anno);
  3. Programma straordinario di contrasto alla povertà e inserimento al lavoro in uno schema di reddito minimo per l'inclusione attiva, nonché finanziamento di un settimo intervento di salvaguardia di lavoratrici e lavoratori dall'applicazione dei requisiti pensionistici introdotti dalla riforma Fornero (3 miliardi di euro all'anno);
  4. Programma straordinario di contrasto alla povertà e inserimento al lavoro in uno schema di reddito minimo per l'inclusione Pag. 30attiva e finanziamento della settima salvaguardia dei lavoratori e lavoratrici esodati (3 miliardi di euro all'anno).
  5. Programma di politiche industriali (in senso lato al fine di includere anche i servizi e l'agro-industria) da affidare al Fondo Strategico o al Fondo di turn-over della Cassa Depositi e Prestiti (2 miliardi di euro all'anno) in intesa con le aziende.
  6. Fondo per la redistribuzione dei tempi di lavoro (un miliardo di euro all'anno) per:
   – l'anticipo del pensionamento dei lavoratori e lavoratrici impegnati in attività usuranti;
   – il part time pensionistico e l'ingresso part time di giovani al lavoro;
   – i contratti di solidarietà difensivi e, sopratutto, espansivi;
   – il finanziamento dei congedi parentali.

  Gli investimenti proposti, oltre a riqualificare i territori e migliorare la qualità della vita e il reddito delle persone, hanno elevato impatto (anti-ciclico) sull'economia reale, impatto minimo sulle importazioni e sono labour intensive (in particolare, nell'edilizia e nell'artigianato). Gli investimenti sulla mobilità sostenibile consentono di innalzare la produzione degli impianti in Italia (dalla Irisbus di Avellino, alle officine dell'Ansaldo Breda).

B. Misure «strutturali», da finanziare attraverso interventi anti-evasione:
  1. Intervento selettivo su TASI (con detrazione fissa e detrazioni aggiuntive in base alla numerosità del nucleo familiare) e contestuale approvazione del decreto legislativo di revisione del catasto, eliminazione IMU agricola e IMU su impianti (cosiddetti «imbullonati») e detrazioni per affitti per redditi bassi e medi; detrazione abbonamenti al trasporto pubblico.
  2. Eliminazione innalzamento contribuzione previdenziale per le partite IVA iscritte alla gestione separata INPS.
  3. Superamento del blocco imposto dall'attuale legge di stabilità e dalla cosiddetta Buona Scuola:
   – alla sostituzione del personale assente nelle scuole;
   – al taglio degli organici e sblocco delle assunzioni dei precari amministrativi, tecnici e ausiliari e dei docenti della scuola dell'infanzia esclusi e ignorati dal piano straordinario di immissioni in ruolo;
   – fine delle costose proroghe delle esternalizzazioni dei servizi nelle scuole e salvaguardia delle lavoratrici e lavoratori ex LSU ed co.co.co., per non mettere a rischio il regolare svolgimento del servizio scolastico e l'incolumità stessa degli alunni, nonché evitare gravi ripercussioni e la paralisi dell'operatività delle scuole;
   – ad avviare un piano generale di stabilizzazione del personale della scuola riguardante tutte le professionalità esistenti, docenti e ATA;
   – ad avviare e sbloccare i concorsi, alcuni già banditi e mai effettuati, per la copertura delle centinaia di posti vacanti di Direttori dei servizi generali e amministrativi delle scuole;
   – ad avviare un piano di re-internalizzazione dei servizi attualmente in atto nelle scuole e in regime di prorogatio dall'anno 2000;
   – ad aumentare le risorse assegnate al Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo al livello della media europea: 1 per cento del bilancio dello Stato.

  4. Revisione normativa per i contribuenti minimi al fine di allargare la platea dei beneficiari e semplificare gli adempimenti.
  5. Il finanziamento delle misure di carattere permanente deriva dalle seguenti misure anti-evasione: a regime, la comunicazione Pag. 31telematica all'amministrazione fiscale dei dati relativi alle fatturazioni. Tale sistema consentirebbe di verificare automaticamente e in tempo reale le posizioni a debito e quelle a credito, consentendo di intervenire con efficacia nei casi di incongruenze. In riferimento a uno studio NENS, una stima prudenziale indica un recupero di gettito superiore ai 10 miliardi all'anno (in considerazione del recupero Iva e imposte sui redditi). Poiché l'introduzione della comunicazione telematica delle fatturazioni richiede tempo per essere generalizzata, nell'immediato va introdotta la trasmissione telematica dei dati delle fatture ai fornitori. Si tratta di una misura più circoscritta. L'obbligatorietà della comunicazione telematica dei dati delle fatture potrebbe inizialmente essere richiesta soltanto ad una parte dei contribuenti, come la grande distribuzione. In questo modo, senza ricorrere al reverse charge, la cui estensione alla grande distribuzione è stata bocciata dalla Commissione europea, se ne seguirebbe la logica. Infine, si propone di introdurre, nei settori a maggiore rischio di evasione, l'obbligo di pagamento elettronico. Gli effetti di gettito, già a partire dal primo anno, consentono di coprire le misure strutturali descritte nei punti 1-4.

C. Spending review
  La spending review va portata avanti ma, contrariamente alla linea del Governo, i risparmi raggiungibili grazie a maggiore efficienza e eliminazione di corruzione, devono essere riallocati su programmi di spesa carenti, colpiti dai tagli orizzontali degli scorsi anni. In particolare, vanno ridimensionati i programmi di spesa per i sistemi d'arma, e va rifiutata ogni ipotesi di ulteriori piani pluriennali di spesa come viene richiesto nell'allegato I alla Nota di aggiornamento del DEF (Doc. LVII, n. 3-bis, allegato I); così come va respinta ogni ipotesi di grandi opere costose ed inutili come la TAV Torino-Lione e il Ponte sulle stretto di Messina. Tagliare altri 30 miliardi all'anno dalla spesa corrente, vuol dire tagliare ulteriormente servizi essenziali.
  L'integrazione dovrebbe arrivare, in particolare:
   – alla sanità;
   – al Fondo di finanziamento ordinario delle università;
   – ai servizi sociali dei comuni;
   – al diritto allo studio;
   – alla salvaguardia e promozione del patrimonio storico-artistico;
   – alla riduzione dei costi energia per famiglia e imprese e alla accelerazione degli obiettivi della road map 2050 nel quadro di un aggiornamento della Strategia energetica nazionale;
   – al potenziamento dell'Agenzia per la coesione territoriale.

Gianni MELILLA,
Relatore di minoranza.