Doc. LVII, n. 3-A-bis

RELAZIONE DELLA V COMMISSIONE PERMANENTE
(BILANCIO, TESORO E PROGRAMMAZIONE)

Presentata alla Presidenza il 22 aprile 2015

(Relatore: D'INCÀ, di minoranza)

sul

DOCUMENTO DI ECONOMIA E FINANZA 2015

(Articoli 7, comma 2, lettera a), e 10 della legge 31 dicembre 2009, n. 196, e successive modificazioni)

presentato dal presidente del consiglio dei ministri
(RENZI)

Trasmesso alla Presidenza il 10 aprile 2015

I N D I C E

RELAZIONE   Pag. 5

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  Onorevoli Colleghi ! – In data 10 aprile 2015 il governo ha presentato alle Camere il Documento di economia e finanza (DEF), ai sensi dell'articolo 7, comma 2, lettera a), della legge n. 196 del 31 dicembre 2009 e successive modificazioni, al fine di consentire alle Camere di esprimersi sugli obiettivi programmatici di politica economica in tempo utile per l'invio al Consiglio dell'Unione europea e alla Commissione europea entro il 30 aprile, nonché il Programma di Stabilità e il Programma Nazionale di Riforma (PNR). Le previsioni macroeconomiche del documento in esame sono state sottoposte alla validazione dell'Ufficio parlamentare di bilancio (UPB), così come richiesto dai regolamenti europei. Dal DEF si evince la volontà di raggiungere l'obiettivo di pareggio di bilancio, già rinviato nel DEF precedente dal 2015 al 2016, nell'anno 2017.
  Il debito pubblico è aumentato nel 2015 passando dal 132,1 per cento al 132,5 per cento del PIL. È prevista per il futuro una riduzione del debito pubblico, benché a supporto di ciò vi è l'oramai classica previsione aumento del PIL, che si è sempre rivelata errata negli ultimi anni. Questo Governo, come i precedenti, continua a giocare con i numeri raccontando fantasiosi improbabili scenari, pur di non assumersi l'onere di affrontare i reali problemi e la reale situazione, ben cosciente che ciò poco coinciderebbe con le loro «campagne elettorali», che mirano a illudere il paese pur di dare la possibilità all'attuale «casta politica» di conservare i loro privilegi... tutto ciò a discapito dei cittadini !
  Dal DEF si evince che il Governo si impegna a disattivare l'aumento dell'IVA inserito dal Governo stesso nella precedente legge di stabilità e fonda la possibilità di disattivare il suddetto aumento grazie sostanzialmente a due fattori che sono:
   1) potenziale crescita economica del Paese;
   2) potenziale capacità di riduzione degli sprechi della pubblica amministrazione.

  Per quanto attiene la crescita economica del Paese, il documento utilizza il prodotto interno lordo (PIL) quale parametro di riferimento per misurarne la portata. Ribadiamo in questa sede quanto già espresso in precedenza dal M5S, tra le altre anche attraverso le mozioni a prima firma Castelli n. 1-00610 del 9 ottobre 2014 e n. 1-00348 del 26 marzo 2014, ovvero che da un lato la riclassificazione del PIL utilizzando il SEC 2010 altro non fa che inserire elementi distorsivi nel calcolarlo, rendendo antieconomico il debellamento di fenomeni quali la criminalità organizzata e lo sfruttamento della prostituzione e dall'altro l'indice PIL in quanto tale non è indicativo «del benessere» di uno Stato e dei suoi cittadini, così come esaustivamente espresso dall'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) nel rapporto How's Live 2013, il quale afferma come ci sia il bisogno di tener conto anche di indicatori alternativi al PIL, quali la qualità e il costo delle abitazioni, i salari, la sicurezza dell'impiego, la disoccupazione, l'educazione, la coesione sociale, la qualità dell'ambiente, la salute, la sicurezza e altri.Pag. 6
  Anche quest'anno, come lo scorso anno, il Governo è costretto dal M5S ad ammettere quanto precedentemente occultato. L'anno scorso è successo con la «procedura per squilibri macroeconomici eccessivi», omessa nel DEF 2014, per poi essere da noi svelata nella nostra relazione di minoranza e quindi «ammessa» nella Nota di aggiornamento.
  Quest'anno finalmente anche il Governo ammette, quanto precedentemente espresso dal M5S sull'inutilità del PIL e fa un focus sui rapporti ISTAT del progetto Benessere Equo e Sostenibile (BES), ovvero degli indici più mirati nelle rispettive tematiche, da affiancare al PIL. Purtroppo tale approccio resta relegato a una mera citazione, mentre invece andrebbe fattivamente perseguita questa direzione e quindi finalmente usare indici alternativi al PIL per delineare le politiche macroeconomiche che facciano evolvere il Paese in una situazione di benessere dei cittadini. Peccato che invece il Governo faccia la solita pantomima relegando tali indici a un mero «focus» ! Ribadiamo anche in questa sede che è l'ora di farla finita con la strada finora perseguita di riferirsi a uno strumento inutile quale il PIL e di usare indici realmente utili per programmare la direzione del Paese al fine di migliorare il benessere di tutti i cittadini.
  Il Governo prosegue la strada già intrapresa in passato di individuare scenari di crescita quantomeno spropositatamente ottimistici se non addirittura del tutto sbagliati. Infatti benché come afferma la Commissione Europea, il PIL reale dell'Italia nel 2014 è sceso a livelli di inizio secolo, in netto contrasto con il PIL della zona euro che vede mediamente una crescita del 10 per cento rispetto al 2000, come ogni anno, anche quest'anno le previsioni vedono un PIL in crescita per gli anni a partire dal 2015, dove raggiungerà una variazione positiva dello 0,4 per cento sino a arrivare a una variazione positiva del 1,3 per cento nel 2019, con un picco di 1,5 per cento nel 2017.
  Lo stesso UPB, nella sua validazione, rimarca come il suo parere di «plausibilità» delle stime effettuate dal Governo, sia legato all'incertezza delle previsioni macroeconomiche in quanto tali e che in ogni caso le stime effettuate appaiono ottimistiche e basate su variabili esogene incerte, quindi inaffidabili, come quelle internazionali relative alla presunta invarianza del prezzo del petrolio, che non tiene conto delle effettive tensioni geopolitiche dei Paesi produttori. Per quanto attiene alla previsione programmatica, non è ancora pervenuta la validazione dell'UPB. Tale validazione deve arrivare entro il 30 aprile, ovvero per la presentazione del DEF 2015 alla Commissione europea.
  Già nei precedenti DEF, tali previsioni si sono rivelate del tutto aleatorie, a mero titolo di esempio ricordiamo come lo scorso DEF vedeva una previsione di PIL reale pari al 0,8 per cento per poi essere corretto nella Nota di aggiornamento con un -0,3 per cento.
  Fermo restando quanto sopra, si evidenzia come la relazione della Commissione EU sulla prevenzione e la correzione degli squilibri macroeconomici relativa al paese Italia individui le mancate sinergie tra i fattori di produzione tra le cause della mancata crescita dell'Italia, oltre che la debole partecipazione al mercato del lavoro, condizioni che rimangono persistenti.
  In merito alla riduzione degli sprechi della pubblica amministrazione, una riduzione come prospettata dal documento in esame, ovvero lo 0,6 per cento del PIL tramite la revisione della spesa pubblica, sembra quantomeno poco prudenziale vista la poca credibilità del Governo nell'operare in tal senso anche alla luce delle recenti vicende di sprechi di denaro pubblico, cattiva gestione e corruzione, che hanno portato, giusto per citarne una tra le tante, alle dimissioni del Ministro Lupi.
  Dall'audizione della Corte dei conti del 21 aprile emergono chiare le critiche agli effetti della clausola di salvaguardia introdotta dal comma 718 della legge di stabilità 2015. Infatti, come indica la relazione della Corte dei conti, nel valutare la dimensione di tale manovra, si fa riferimento al mero valore facciale, dimenticandosi come l'IVA sia una delle imposte Pag. 7su cui l'evasione incide in maniera preponderante e quindi un aumento delle aliquote potrebbe facilmente tradursi in un ingiusto aggravio fiscale per quella parte di popolazione, composta soprattutto da pensionati e dipendenti, ligia ai propri obblighi fiscali e notoriamente tartassata dalle varie manovre fiscali, mentre si tradurrebbe in un deterioramento ulteriore della produttività dell'imposta – quindi minor gettito – causato dall'evasione e l'elusione della stessa da chi solitamente è familiare con tali ignobili pratiche.
  Denunciamo in modo netto la pericolosità di affidare la disattivazione dell'aumento dell'IVA, introdotto da questo Governo, a previsioni di crescita che, come già accaduto in passato, si riveleranno false nei fatti e revisione della spesa pubblica ad opera di chi è causa costante di sprechi, corruzione e disservizi in merito alla spesa pubblica.
  Inoltre viene ripreso quanto già indicato in passato dal Movimento 5 Stelle, ovvero che durante una crisi prolungata della domanda aggregata i moltiplicatori di bilancio tendono ad assumere valori più elevati, nonché che l'Italia è tra Paesi europei in cui è maggiore il bisogno di un sostenuto rilancio degli investimenti sia pubblici che privati.
  Alla luce di ciò, dobbiamo purtroppo condividere quanto emerge dalla relazione della Commissione Europea sugli squilibri macroeconomici dell'Italia, ovvero che dallo scoppio della crisi gli investimenti produttivi in Italia, sia pubblici che privati, sono diminuiti significativamente rispetto alla media europea.
  Non ultimo, nella relazione della Commissione europea, si rimarca che la disoccupazione di lunga durata è in aumento. La povertà e l'esclusione sociale hanno continuato a crescere, come rimarcano anche gli indicatori BES 2014 dell'ISTAT.
  Restiamo basiti di come il Governo accolga in maniera favorevole il «Piano Juncker», quale volano per il rilancio degli investimenti in Italia, quasi come se fosse una soluzione salvifica dei problemi italiani, rimarcando persino un «decisivo impulso» per l'attivazione del Piano durante il Semestre di Presidenza italiana del Consiglio UE. Sfugge però al Governo che, per come è strutturato il Piano, non vi è alcuna previsione che tali fondi ricadano in Italia o comunque li dove servano, in quanto, benché non siano stati ancora chiariti i principi – e sarebbe il caso di pressare per averli – con i quali verranno accettati i progetti, è chiaro che non vi saranno né principi di carattere «regionale», né di carattere «sociale», bensì verteranno su principi di convenienza economica e quindi saranno i progetti dei Paesi più «economicamente redditizi», come la Germania, ad avvantaggiarsene !

Riforme costituzionali.

  Il Governo della riforma costituzionale esalta, in particolare, l'eliminazione delle province, ma nei fatti si è meramente proceduto alla loro sostituzione con una nuova articolazione territoriale, l'ente di area vasta, del quale non sono ancora chiari confini e destini.
  Per ciò che riguarda la riforma della legge elettorale sono ascritti, nel presente Documento, indubitabili effetti sulla governabilità, asserita e garantita quinquennale, assunto che però appare non condivisibile ed infondato, al pari dell'asserita garanzia della rappresentatività democratica, assunto, questo, falso, non corroborato, anzi del tutto smentito, dalle simulazioni applicative.
  La razionalizzazione della spesa pubblica, ai fini della sua riduzione, di cui al piano del Commissario Cottarelli – ultimo, in ordine di tempo, dei Commissari che negli anni hanno consegnato i relativi dossier – non ha avuto larga attuazione fino ad oggi, se non in misura prevalente a carico degli enti locali e territoriali, che hanno contribuito al miglioramento dei saldi di finanza pubblica con circa 7 miliardi nel 2014 e ulteriori 8,5 miliardi nel 2015, consentendo al Governo di finanziare il «bonus fiscale». Tale scelta ha ridotto sensibilmente le risorse delle autonomie locali, incidendo negativamente Pag. 8sulla erogazione dei servizi sociali ed assistenziali forniti a livello territoriale dai comuni ai cittadini, in particolare quelli, in aumento, in condizione di maggior disagio e bisogno.
  Nella programmazione economica del prossimo triennio, la realizzazione della riduzione della spesa pubblica diventa necessaria, non per aumentare le risorse da destinare agli investimenti produttivi e per ridurre la pressione fiscale, ma per evitare l'ulteriore aggravio delle aliquote Iva.
  Dunque, non solo la programmazione per il triennio 2016-2018 non include un percorso di riduzione della pressione fiscale, fondamentale sia per sostenere la domanda di beni e servizi, sia per incentivare gli investimenti nel nostro paese, soprattutto di imprese estere, ma dal Documento in esame si rileva che la pressione fiscale è prevista in aumento dal 43,5 per cento del PIL nel 2014 al 43,7 per cento nel 2019, con un picco del 44,1 per cento nel 2016 e 2017.
  La gran parte delle azioni di riforma indicate nel DEF 2015, queste ricalcano pedissequamente quelle dei recenti DEF e dei più vecchi DPEF; le incerte prospettive indicate ed il conseguente disegno complessivo, ordinamentale, finanziario ed economico, che si evincono dal Documento in titolo non appaiono condivisibili.

Giustizia.

  Nell'ambito delle riforme strutturali, tra gli obiettivi del governo è prevista la riduzione dei margini di incertezza dell'assetto giuridico per alcuni settori, sia dal punto di vista della disciplina generale, sia dal punto di vista degli strumenti che ne assicurano l'efficacia (nuova disciplina del licenziamento, riforma della giustizia civile).
  Gli interventi programmati fanno riferimento a una tabella di marcia che tiene scarsamente conto della attuale realtà e che sono volti a:
   contrastare fenomeni di corruzione nel settore pubblico e aumentare la trasparenza anche per favorire investimenti delle imprese in Italia e che, a tal fine, si è scelto di specializzare maggiormente l'attività degli uffici giudiziari istituendo il tribunale delle imprese;
   attuare un piano di digitalizzazione della giustizia, in particolare per accelerare il completamento del processo telematico;
   introdurre nuove modalità di risoluzione delle controversie esterne ai tribunali e nuove formule di determinazione degli onorari degli avvocati al dichiarato scopo di snellire l'attività processuale.

Difesa.

  Il documento altro non è che una riproposizione di provvedimenti già in essere o in discussione, come, il richiamo al Libro Bianco che dovrebbe finalmente essere posto alla conoscenza e al parere del Parlamento, nonché la razionalizzazione del Parco infrastrutturale non residenziale. Manca totalmente una visione tesa a ridimensionare sul serio le spese militari a partire dalla totale assenza di ogni taglio nei sistemi d'arma più costosi (come gli F35).
  Si ravvisa la necessità di riformare il settore raggiungendo l'obiettivo di realizzare un sistema nazionale di difesa efficace e sostenibile che assicuri i necessari livelli di operatività e la piena integrabilità dello strumento militare nei contesti internazionali, all'interno di una prospettiva di una politica di difesa comune europea e nella cornice delle Nazioni Unite, prevedendo un ruolo attivo nella direzione di una efficace prevenzione dei conflitti e di un mantenimento della pace, con l'esclusione di ogni ipotesi e sotterfugio di interventismo militare.
  Si fa presente che dal combinato disposto del DEF 2015 in particolare con la legge n. 244 del 2012 e i suoi decreti attuativi, si evince che:
   a) si continua a non indicare come il bilancio debba essere ridotto, ma solo come ripartire lo stesso;
   b) non sono toccati gli investimenti sui sistemi d'arma, il cui costo è incompatibile Pag. 9con l'attuale fase di recessione. Si prosegue nell'anacronistico acquisto degli F35 e nell'implementazione di acquisizione di sistemi d'arma di natura offensiva che sono incompatibili con un modello di difesa difensivo che deriva da una corretta attuazione dell'articolo 11 della Costituzione;
   c) è prevista una preoccupante la messa in vendita, ovvero una preoccupante svendita, di immobili ed aree del demanio pubblico attraverso la Società «Investimenti Immobiliari Italiani Società di Gestione del Risparmio Società per Azioni» (Invimlt SGR) unicamente per far cassa. Tenendo conto che sovente caserme dismesse ed aree un tempo sottoposte a servitù militari sono collocate nei centri storici o in aree di alto pregio ambientale, va da prima tutelata la destinazione pubblica e quella dell'uso per la nostra comunità.

Finanze.

  Le misure indicate dal governo in merito alla delega fiscale appaiono del tutto insufficienti e, soprattutto, incompatibili con l'obiettivo principale da perseguire quale l'urgente e improcrastinabile abbassamento della pressione fiscale. Come reso noto dall'ISTAT, il 2014 si conferma l'annus horribilis delle imprese e delle famiglie con un innalzamento della pressione fiscale già record in Italia. Nel quarto trimestre dell'anno scorso è risultata pari al 50,3 per cento, in aumento di 0,1 punti percentuali sull'ultimo scorcio del 2013 (50,2 per cento). Nell'intero 2014 è risultata pari al 43,5 per cento, in aumento anche in questo caso di 0,1 punti percentuali rispetto all'anno precedente (quando si era attestata al 43,4 per cento). Si attendevano dunque misure volte ad una riduzione della pressione fiscale e che invece il Governo, con le scelte programmate, mira a stabilizzare se non addirittura ad elevare ulteriormente. Al riguardo, si rammentano le preoccupazioni espresse dalla Corte dei conti sulla manovra varata a fine 2014 dal Governo. Nel suo documento Le prospettive della finanza pubblica dopo la legge di stabilità la Corte solleva non pochi dubbi sugli obiettivi di revisione della spesa fissati dalla legge di stabilità: «l'effettiva realizzazione di risparmi consistenti appare un traguardo molto difficile» perché le categorie di spesa «realisticamente aggredibili» sono limitate e sono già state oggetto di «ripetuti interventi di contenimento negli ultimi anni». Il che concretizza il serio rischio di far scattare la clausola di salvaguardia sull'aumento delle aliquote Iva previsto per il prossimo anno. Inoltre, è chiaramente contraddittoria la scelta di reperire risorse per la progressiva riduzione fiscale attraverso la revisione del sistema delle agevolazioni fiscali. Insomma, si riduce la pressione fiscale attraverso la soppressione delle agevolazioni fiscali.
  Quanto alla semplificazione fiscale in materia di tributi locali, l'introduzione di un tributo unico sarebbe auspicabile a condizione che esso di fatto realizzi una riduzione della pressione fiscale locale e non si trasformi nell'ennesimo strumento di compensazione del minor gettito erariale nazionale. Pur condividendo lo spirito di unificazione e semplificazione, sembra assai arduo affermare che nel corso del 2015 verrà introdotta la nuova «local tax» che a detta del Governo dovrebbe rendere più equo e trasparente il sistema fiscale. Basta pensare al riguardo che la sola soppressione dell'esenzione dell'IMU agricola ha creato difficoltà operative per i Comuni che hanno richiesto oltre due anni di continui interventi normativi e proroghe (ed il quadro applicativo risulta tuttora incerto ed in corso di evoluzione).
  Contrariamente alle scelte programmate dal Governo, ci si aspettava una programmazione fiscale più incisiva, soprattutto a favore delle piccole e medie imprese nonché per le nuove iniziative imprenditoriali per le quali resta tuttora da capire il regime di favore applicabile una volta terminato il regime speciale con imposta sostitutiva del 5 per cento (si ricorda infatti che il nuovo regime forfettario introdotto con la stabilità 2015 è Pag. 10stato oggetto di critiche da parte dello stesso Governo che ha di fatto prorogato per un altro anno il regime speciale vigente). Anche in merito alla semplificazione fiscale ed in particolare alla fatturazione elettronica, non vengono indicate misure volte ad incentivare i contribuenti all'esercizio dell'opzione per la digitalizzazione della contabilità (quali, ad esempio, la riduzione della pressione fiscale attraverso aliquote ridotte).
  In sostanza, il DEF 2015 non prevede alcun miglioramento rispetto agli obiettivi programmati e non raggiunti nel precedente anno. L'obiettivo principale resta sempre l'attuazione della delega fiscale, prorogata al 26 settembre 2015. Tuttavia, le riforme fiscali di questo Governo appaiono lente, sempre più cupe e poco trasparenti. Significativa al riguardo è stata proprio la proroga al 26 settembre 2015 della delega fiscale, dopo aver bloccato per mesi i lavori sui decreti delegati, e per di più a causa di una norma introdotta all'ultimo minuto che avrebbe favorito alcuni cittadini tra cui ex membri del parlamento (come peraltro ammesso dallo stesso Presidente del Consiglio con conseguente ritiro dello schema di decreto già annunciato).

Cultura.

  Le politiche di riforma indicate nel Programma nazionale di riforma (PNR) 2015 con riferimento alla scuola, università e ricerca rappresentano uno degli asset principali delle riforme strutturali che il Governo intende compiere. Solo che, come conferma la relazione sugli squilibri macroeconomici dell'Italia redatta dalla Commissione europea, sono evidenziati dei forti limiti sui progressi relativi al collegamento tra scuola e mondo del lavoro, nonché delle criticità non risolte riguardanti la mancanza di un sistema funzionale di orientamento per gli studenti, la scarsa capacità di accrescere le competenze degli adulti, nonché la scarsa spesa globale per l'istruzione terziaria, che in termini di percentuale di PIL, risulta inferiore alla media europea.
  Secondo quanto riportato all'interno del Documento di economia e finanza 2015, tra le principali esigenze del sistema universitario italiano vi sarebbe l'attuazione puntuale di un sistema funzionante di valutazione che favorisca una sempre più stretta interrelazione fra valutazione e ripartizione delle risorse. Se una tale relazione non comportasse, così come prevista, una forte riduzione dei finanziamenti cosiddetti ordinari, e cioè quei finanziamenti che di fatto risultano essenziali per garantire il normale funzionamento degli atenei italiani, il ragionamento sulla premialità potrebbe anche essere condiviso.
  Peccato, infatti, che di premiale nello stanziamento di una quota che verrà di fatto sottratta al Fondo di finanziamento ordinario delle università, per una quota addirittura pari al 30 per cento, di premiale vi sia ben poco. Pensare che gli atenei che oggi versano in una situazione di difficoltà economica e organizzativa, soprattutto in considerazione di quelli con una posizione territoriale svantaggiata, potranno mai garantire il loro ordinario funzionamento, ovvero una qualità dell'offerta formativa adeguata alla loro funzione, è assolutamente impossibile.
  Con il DEF 2015, infatti, la quota «premiale» da sottrarre all'FFO subisce un ulteriore aumento percentuale. Risulta sempre più chiara, quindi, la volontà di creare un distaccamento tra atenei, affinché solo alcuni di essi possano raggiungere livelli di eccellenza, a danno di tutti gli altri che regrediranno economicamente e qualitativamente fino a raggiungere un punto di non ritorno. Il MoVimento 5 stelle chiede, piuttosto, che l'eccellenza debba poter essere sì raggiunta da ogni ateneo, ma partendo e mirando, tuttavia, ad una standardizzazione della qualità nell'offerta formativa universitaria, che sia omogenea in tutto il territorio dello Stato.
  Ogni università, infatti, si basa su docenti e ricercatori che svolgono con abnegazione il proprio lavoro e che, attraverso la didattica e la ricerca, trasmettono il Pag. 11proprio sapere proprio a quei giovani che un giorno, grazie ad esso, potranno emergere e raggiungere l'eccellenza. Ma ogni ateneo deve poter avere, attraverso fondi adeguati al suo funzionamento, la possibilità di creare questa eccellenza. Altrimenti uno sterile ragionamento basato sulla necessità far progredire solo pochi atenei di riferimento finirebbe per impedire che il sistema della ricerca italiana possa mai svilupparsi, aumentando piuttosto le disuguaglianze sociali ed economiche nel nostro Paese.
  Analoghe procedure valgono per il fondo premiale, a valere sul FOE degli enti di ricerca, il quale prevede una ripartizione di circa l'8 per cento delle risorse sulla base dei risultati della ricerca (VQR) e su specifici progetti innovativi. Anche qui pochi rilievi, se non di natura assolutamente negativa, possono essere fatti. Anche il FOE, infatti, perde una quota di ordinario funzionamento per una redistribuzione delle risorse sulla base di una Valutazione della Qualità della Ricerca datata di almeno 5 anni, quindi sulla base di progetti e risultati ormai superati.
  Peccato, quindi, che all'esigenza di premialità non si dia poi una concreta corrispondenza tra le previsioni finanziarie che il Governo ha inserito all'interno del Documento di economia e finanza 2015. Neanche quest'anno, infatti, l'Esecutivo ha inteso rimodulare l'attuale sistema, attraverso la previsione di una quota che fosse realmente premiale, e che fosse quindi ulteriore e diversa rispetto all'ammontare dei finanziamenti destinati all'ordinario ed essenziale funzionamento di atenei ed enti di ricerca. Si ricordi che tale riforma è stata richiesta all'unanimità da tutti i rappresentanti della Commissione VII, proprio in sede di parere per l'erogazione della quota premiale per l'anno 2013.
  Ma mentre le misure che hanno una evidente connotazione negativa vengono ben specificate nel Documento di economia e finanza, attraverso la loro specifica e puntuale definizione fin nelle quote percentuali, quelle che dovrebbero essere largamente condivise non vengono affrontate se non attraverso dichiarazioni d'intenti e meri auspici.
  Come si intende garantire, ad esempio, il diritto allo studio, il quale, così come riporta il Documento di economia e finanza «non è solo un dovere dello Stato nei confronti dei suoi cittadini ma un suo preciso interesse» ? Attraverso prestiti d'onore, è una forma di finanziamento agevolato a favore degli universitari che non hanno mezzi finanziari disponibili per affrontare gli studi accademici. Insomma, quando c’è da intervenire in maniera seria, con previsioni di spesa da destinare al diritto allo studio il Governo sceglie la via del «prestito», dimenticandosi della lettura combinata degli articoli 2 e 34 della Costituzione italiana.
  Altro fondamentale obiettivo del Documento è quello di attuare una «sempre più decisa internazionalizzazione del sistema dell'università e della ricerca, per favorire l'allineamento con le migliori pratiche internazionali e per rendere l'Italia sempre più attrattiva per studenti, docenti e ricercatori stranieri».
  Bene, quali misure si sono intraprese per garantire il raggiungimento di tali fini ? L'Esecutivo ha deciso di potenziare il programma universitario Erasmus e, contestualmente, ha quindi previsto un aumento del numero degli studenti che parteciperanno alla mobilità internazionale. Risulta difficile comprendere come mai un Paese che da sempre è stato punto di riferimento in tutto il panorama della ricerca italiana debba oggi decidere di mandare i propri ragazzi all'estero per «apprendere» da altri Stati le metodologie necessarie per allineare l'Italia agli altri sistemi di ricerca, rendendola così «attrattiva».
  Si ritiene, piuttosto, che la mancata attrazione da parte di studenti, docenti e ricercatori, che decidono oggi di sviluppare all'estero i propri progetti, sia dovuta piuttosto al progressivo allontanamento dello Stato dal mondo della ricerca, il quale ha progressivamente subito notevoli tagli ai fondi di finanziamento. Tali riduzioni di spesa hanno, inevitabilmente, ridotto la possibilità per il nostro Paese di Pag. 12reggere il confronto con altri Stati europei, sempre più progrediti sia dal punto di vista delle strutture che dei mezzi da mettere a disposizione di ricercatori e docenti, i quali possono portare avanti i propri studi e progetti con tutti gli strumenti necessari.
  Il DEF parla di coinvolgimento delle regioni tra le possibili soluzioni ai ritardi strutturali. Tuttavia risulta difficile capire come queste, dopo gli ingenti tagli degli ultimi anni, potranno mai risultare risolutive. Questo sembra, piuttosto, uno scaricare ad altro ente un problema la cui soluzione dovrebbe essere esclusivamente di competenza statale, a meno che non si voglia continuare con quel programma di allontanamento tra atenei ed enti di ricerca già affrontato in tema di premialità.
  Il Documento prevede, infine, la futura pubblicazione del Programma Nazionale per la Ricerca 2014-2020 e ne sarà avviata l'implementazione. Anche in questo caso si propongono precise scelte che rispondono a sei obiettivi: forte coordinamento tra le politiche europee e nazionali per la ricerca e innovazione; rafforzamento dell'investimento sul capitale umano; sostegno selettivo alle infrastrutture di ricerca; strutturazione di una stabile collaborazione pubblico-privato con imprese e società civile; efficienza e qualità della spesa; sostegno specifico al Mezzogiorno.
  Nessuno di questi obiettivi, naturalmente, è affrontato nel Documento in maniera chiara nel documento, risultando ancora una volta impossibile stabilire quali saranno i metodi con cui si intenderà raggiungerli.
  In conclusione, quindi, ciò che a oggi risulta è la chiara volontà di creare un crescente gap tra università, facendo progredire i pochi atenei virtuosi e, contestualmente, abbandonando quelli che versano in condizioni di difficoltà, economiche e territoriali. Le restanti generiche e astratte finalità restano invece sospese, e in attesa di futuro approfondimento, senza la previsione né di alcun investimento né di alcuna riforma strutturale, gli unici due elementi che invece ci saremmo aspettati di trovare all'interno di un Documento di economia e finanza, che anche per quest'anno non ha riservato sorprese per il mondo dell'università e della ricerca. Se non tristemente negative.

Ambiente.

  Sotto il profilo ambientale una particolare importanza del DEF sono l'allegato III, il quale, sulla base di quanto disposto dall'articolo 2, comma 9, della legge n. 39 del 2011, riporta lo stato di attuazione degli impegni per la riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, e l'allegato VI, il quale, ai sensi della legge 21 dicembre 2001, n. 443 (la legge obiettivo voluta dal Governo Berlusconi con la finalità di accelerare e semplificare l'iter procedurale per la realizzazione delle grandi opere pubbliche), contiene il programma delle infrastrutture strategiche e lo stato di avanzamento delle singole opere, predisposto dal Ministro delle infrastrutture e dei trasporti.
  Il Documento di economia e finanza 2015 è il secondo predisposto dal Governo Renzi ed ha quindi il non facile compito di abbandonare l'impostazione propagandista di un governo appena insediato – che poteva limitarsi a sottolineare il «cambio di passo» rispetto ai governi precedenti e a lanciare la «stagione delle riforme» – ma deve fare i conti con i risultati ottenuti dopo oltre un anno di attività.
  Per quanto concerne i temi di interesse ambientale si segnalano i seguenti ambiti di intervento del Documento di economia e finanza:
   Codice appalti. Nel DEF 2015 si evidenzia l'esigenza di recepire le direttive in materia di appalti e concessioni (2014/23/UE, 2014/24/UE, 2014/23/UE) attraverso l'approvazione di un disegno di legge delega che riformi il quadro normativo;
   Partnership pubblico/privato. Il DEF 2015 mantiene il proposito – già espresso nel precedente documento – di rafforzare la cooperazione tra pubblico e privato per Pag. 13la realizzazione di opere pubbliche ed infrastrutture;
   Enti locali. Viene evidenziato il finanziamento degli interventi territoriali previsti dal programma 6.000 campanili e altri interventi di carattere locale, il tutto per il modesto importo di 400 milioni di euro complessivi.
   Immobili demaniali e dissesto idrogeologico. Un'azione fa riferimento al completamento di beni immobili demaniali e ad interventi urgenti in materia di dissesto idrogeologico, senza alcuna quantificazione sulle risorse messe a disposizione.
   Infrastrutture. È previsto il finanziamento dei progetti infrastrutturali legati alla rete comunitaria (bandi TEN-T 2014), con una richiesta di contributo comunitario pari a 2,5 miliardi di euro.
   Emergenza abitativa. È previsto il completamento del piano per l'emergenza abitativa, anche in questo caso senza specificare con quali risorse.
   Sistema della mobilità. Attuazione di un programma strutturale triennale per la gestione dei sistemi di trasporto e della mobilità sostenibile, con il dichiarato obiettivo (apprezzabile, ma è lo stesso dell'anno precedente) di superare la «logica di erogazione annuale di risorse al settore dell'autotrasporto» (che non ha mai consentito il superamento dello squilibrio modale del nostro paese).
   Trasporto pubblico locale e ferroviario. Il Governo, come già aveva fatto nel precedente DEF, annuncia interventi a favore del trasporto pubblico, locale e ferroviario. Anche in questo documento la descrizione degli interventi è molto vaga e si parla solamente di una riorganizzazione, ma non vengono indicate risorse disponibili e risultati attesi.
   Piano nazionale per le città. Per il piano nazionale per le città sono previsti 318 milioni di finanziamento, di cui 224 milioni di fondi nazionali e 94 di fondi PAC.
   La distonia tra le dichiarazioni di intenti del Governo in materia ambientale e la sua effettiva sensibilità è misurata dal breve paragrafo su «Economia verde e uso efficiente delle risorse», in cui si elencano le criticità ambientali (dissesto idrogeologico, cambiamenti climatici, inquinamento, ecc.), per affrontare le quali il Governo ripropone le misure di un disegno di legge proposto dal Governo Letta, l'ormai ex collegato ambientale alla legge di stabilità del 2014, sottolineandone gli aspetti positivi sotto il profilo ambientale (protezione della natura, valutazione d'impatto ambientale, acquisti e appalti verdi, etichettatura ecologica, gestione dei rifiuti, difesa del suolo, strategia per lo sviluppo della Green Community, servizio idrico, acqua pubblica, mobilità sostenibile, capitale naturale, catalogo dei sussidi dannosi per l'ambiente), ma che, dopo un lungo iter alla Camera – con alcune apprezzabili migliorie – è ancora fermo in commissione ambiente al Senato.
  Anche sul consumo di suolo si registra la contraddizione tra la dichiarata esigenza di approvare una norma per garantirne il contenimento e l'effettivo impegno in questa direzione; nel DEF il tema è appena accennato con un blando riferimento al disegno di legge d'iniziativa governativa «in via di perfezionamento».
  Nel DEF vengono elencati altri ambiti di intervento, tra cui si segnala: fiscalità ambientale, su cui si propone l'istituzione di un comitato per una riforma fiscale ecologica con l'obiettivo di spostare il carico fiscale dal lavoro e dalle imprese all'inquinamento e all'utilizzo di risorse naturali, nonché l'ipotesi di facilitare la transizione verso un'economia a basse emissioni di carbonio, resiliente al cambiamento climatico; green act, il provvedimento legislativo contenente misure finalizzate a: efficienza e risparmio energetico; sviluppo delle fonti rinnovabili; incentivazione della mobilità sostenibile, con particolare riferimento alle città sostenibili e alla rigenerazione urbana; misure per la gestione ed uso efficiente del capitale naturale; agricoltura sostenibile, strumenti finanziari e fiscali per lo sviluppo dell'economia Pag. 14verde; protezione civile, una delle priorità del Governo è l'approvazione del disegno di legge delega sulla protezione civile, il cui quadro normativo ha subito continue e a volte incoerenti modifiche, che ne hanno stravolto l'impianto complessivo.
  Per quanto concerne le aree interne, Il Governo conferma – almeno sul piano programmatico – l'intenzione di voler valorizzare e tutelare quella parte del territorio, denominata «aree interne» che costituisce il 60 per cento dell'estensione complessiva e abitato dal 20 per cento della popolazione, ma che vive notevoli problemi di collegamenti e di servizi; purtroppo mancano i riferimenti alle proposte di legge sui piccoli comuni attualmente all'esame della commissione ambiente.
  Il DEF 2015, come il precedente, conferma la prosecuzione del processo, avviato da tempo, di svendita del patrimonio immobiliare pubblico.
  Il documento contiene le risposte alle raccomandazioni – CSR, Country Specific Recommendation – rivolte all'Italia dal Consiglio UE l'8 luglio 2014, tra cui si sottolineano quelle relative a: efficienza degli appalti pubblici, in cui si descrivono alcuni interventi effettuati – tra cui il rafforzamento dell'attività dell'Autorità anti corruzione, attraverso il «precontenzioso», l'individuazione dei prezzi di riferimento e l'attuazione della c.d. «vigilanza collaborativa», sulla base di protocolli di intesa con le stazioni appaltanti; edilizia scolastica, in cui si ricorda lo stanziamento complessivo di 2 miliardi di euro disposto dal Governo per la messa in sicurezza e l'ammodernamento degli edifici scolastici esistenti e per la creazione di nuovi istituti; semplificazione e concorrenza, con ulteriore previsione di interventi di alleggerimento degli oneri amministrativi in materia edilizia, in materia di interventi per contrastare il dissesto idrogeologico, in materia di servizi pubblici locali e per la gestione del settore idrico e dei rifiuti; infrastrutture, con la descrizione delle presunte migliorie procedurali adottate con il decreto-legge n. 133 del 2014, c.d. «Sblocca Italia» e altri interventi legati alla messa in sicurezza del territorio.
  Nell'affrontare i target nazionali della Strategia Europa 2020, il Governo ha espresso, sotto il profilo ambientale, l'esigenza di: proseguire l'azione per la riduzione delle emissioni di gas serra – individuando una serie di nuove misure, tra cui l'approvazione della Strategia per l'adattamento al cambiamento climatico, il potenziamento delle attività di vigilanza e accertamento sullo sostanze che riducono lo strato d'ozono, la raccolta dei dati sulle emissioni di gas fluorurati ad effetto serra, nonché la definizione di un Programma Sperimentale Nazionale di Mobilità Sostenibile casa-scuola e casa-lavoro; rispettare l'obiettivo stabilito dalla direttiva 2009/28/CE sul potenziamento delle fonti rinnovabili; migliorare l'efficienza energetica, attraverso la riqualificazione energetica degli edifici della pubblica amministrazione, la costituzione del Fondo nazionale per l'efficienza energetica; lo sviluppo del meccanismo dei certificati bianchi, la proroga al 31 dicembre 2015 delle detrazioni del 65 per cento per gli interventi di riqualificazione energetica degli edifici, l'imposizione di requisiti minimi di efficienza energetica per gli edifici nuovi e per quelli ristrutturati, il finanziamento di interventi di riqualificazione energetica degli edifici destinati all'istruzione e la predisposizione del piano di azione per l'efficienza energetiche.
  La principale novità dell'allegato infrastrutture 2015 consiste nella drastica riduzione del numero delle opere contenute nel piano delle infrastrutture strategiche, confermando la sensazione di una «presa di coscienza» del Governo in merito alla politica infrastrutturale, anche se, al momento, il Governo si è limitato a rinviare, con molta cautela, le proprie indicazioni all'allegato infrastrutture della nota di aggiornamento al DEF.
  Da una lettura delle analisi sul sistema dei trasporti in Italia emerge la consapevolezza che in Italia c’è un forte squilibrio modale rispetto ad altri Paesi europei, con Pag. 15l'automobile che rappresenta il mezzo di trasporto principale (quasi il 60 per cento degli spostamenti), distanziando notevolmente sia l'aereo (meno del 18 per cento) che il treno (meno dell'11 per cento); inoltre da una lettura incrociata dei dati su autostrade e ferrovie emerge in modo chiaro che servirebbe il potenziamento delle linee ferroviarie – soprattutto quelle locali, legate agli spostamenti dei pendolari – mentre appare difficilmente giustificabile la propensione a realizzare nuovi (e costosi) tratti autostradali, nel paese che vanta una delle più estese (anche in rapporto alla superficie) reti autostradali d'Europa; uno degli aspetti evidenziati nell'allegato VI del DEF è che – più che ulteriori strade – sarebbe necessaria un'adeguata manutenzione e messa in sicurezza della rete attuale, come dimostrato dai recenti cedimenti; il dato fornito è emblematico: solo nelle strade di competenza ANAS ci sono 11 mila ponti tra ponti e viadotti, 4 mila dei quali con lunghezza superiore a 100 metri, nonché 1.200 gallerie, 842 delle quali superiori a 500 metri. Il documento sottolinea inoltre che «oltre il 40 per cento di queste opere sono state realizzate in periodi antecedenti il 1970 e hanno, quindi, raggiunto o superato la vita utile di progetto».
  Il documento del Governo spiega anche che sarebbe necessario un adeguamento della rete ferroviaria, decisamente al di sotto, sotto il profilo qualitativo, rispetto agli standard dei principali partner europei. Le linee a doppio binario sono appena il 45 per cento e c’è uno scarso equilibrio nella distribuzione territoriale (circa il 76 per cento delle linee a doppio binario ed elettrificate si trova nelle regioni più sviluppate).
  Ancora più preoccupante è il quadro del sistema di trasporto delle merci, caratterizzato da una prevalenza quasi assoluta del trasporto su gomma, dalla mancanza di competitività del sistema ferroviario e del cabotaggio, dovuti sia alle scelte politiche, sia ai problemi infrastrutturali delle interconnessioni tra porti e ferrovie.
  Per quanto riguarda la mobilità nelle aree urbane, il trasporto pubblico locale e la mobilità sostenibile, nel documento del Governo si conferma l'esigenza di interventi radicali di revisione dei sistemi di mobilità, ma non sembra che le misure adottate e previste forniscano una soluzione soddisfacente ai problemi.

Trasporti, poste e infrastrutture.

  L'allegato infrastrutture 2015 indica 25 opere definite prioritarie, sulle quali il Governo intende puntare per l'adeguamento infrastrutturale del sistema Paese; il pur apprezzabile segnale di disponibilità a rivedere il faraonico piano delle opere pubbliche non tiene conto di una visione basata sulle reali necessità del paese e contiene ancora opere inutili e costose, che andrebbero espunte dall'elenco individuato, ovvero di tali opere se ne evidenziano alcune dalla dubbia strategicità oltre che utilità sociale e dal rilevante impatto ambientale quali, ad esempio: il nuovo collegamento ferroviario Torino – Lione; la linea AV/AC Milano Venezia; il Terzo Valico di Giovi; l'Autostrada A4 Venezia – Trieste; la Pedemontana veneta; la Pedemontana lombarda; la Tangenziale esterna di Milano, nonché il Mo.S.E, il cui costo complessivo ammonta a 16.344 milioni di euro. È necessario valutare un diverso e più utile utilizzo delle risorse che si libererebbero evitando il cieco e sterile perseguimento di tali opere.
  Per superare i limiti di finanza pubblica e far fronte alla realizzazione di opere infrastrutturali il governo continua ad assumere decisioni che favoriscono un maggior coinvolgimento del capitale privato. Un'implementazione del modello di partenariato pubblico privato avrebbe certamente come conseguenza diretta l'immediata cantierizzazione di nuove opere anche di piccola o media grandezza senza però adeguate garanzie per quanto concerne la realizzazione definitiva delle opere e la loro gestione. Spesso, infatti, gli interlocutori privilegiati di tali accordi sono società di costruzioni con scarse capacità gestionali nonché finalizzate al Pag. 16mero lucro e non alla valorizzazione culturale e sociale del patrimonio.
  Il documento contiene dei riferimenti al percorso di privatizzazioni messe in essere dal Governo. Tra le società a partecipazione diretta interessate da questa manovra rientrano Poste Italiane con l'alienazione del 40 per cento ed Enav con il 49 per cento, oltre che del gruppo Ferrovie dello Stato e Grandi Stazioni. In riferimento al primo, non è ancora dato sapere, tra i settori in cui opera Poste Italiane S.p.A., ovvero tra i servizi postali, finanziari e assicurativi, quale di questi sarà maggiormente interessato dalle operazioni di vendita. Non essendo tutti i settori egualmente produttivi, si ravvisa il rischio che l'operazione arrivi a riguardare solo gli ultimi due, lasciando quello maggiormente in perdita di proprietà dello Stato. Per quanto concerne Enav, le stime dei proventi derivanti dall'alienazione del capitale della società, da versare al fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato di cui all'articolo 2 della legge 27 ottobre 1993, n. 432, per la riduzione del debito pubblico, sono di importo così modesto da non giustificare i rischi di una sua privatizzazione. A tale proposito, è sufficiente ricordare che Enav Spa in un contesto particolarmente difficile in ambito domestico, con la perdurante crisi della compagnia Alitalia, con un traffico domestico perso nell'ordine del 35 per cento dal 2008 in avanti è riuscita a conseguire un utile netto di 46 milioni di euro di cui 23 per rimborso Ires anni precedenti, che, sommato agli ammortamenti finanziari sostenuti per la mancata erogazione da parte dello Stato degli oneri derivanti dal Contratto di Servizio e ai crediti divenuti inesigibili per il fallimento di due vettori italiani, avrebbe significato un utile di quasi 50 milioni di euro in piena crisi. Non risulta difficile quindi immaginare la capacità della società, con un mercato in ripresa, di generare profitto, con il possibile introito della stessa cifra senza doversi privare della totalità del capitale sociale.
  Dubbi sorgono inoltre sulle modalità di privatizzazione del gruppo Ferrovie dello Stato, soprattutto alla luce degli antitetici progetti che avrebbero illustrato l'amministratore delegato di Ferrovie dello Stato, Michele Elia, e il presidente, Marcello Messori, ovvero l'uno favorevole a cedere una quota della holding Fsi, l'altro, più complesso, mirante a lasciare la rete ferroviaria in mano pubblica, privatizzando solo alcune attività giudicate contendibili quali il trasporto merci e l'alta velocità.
  Poiché risulta essere totalmente assente una politica seria di lungo periodo mirante all'abbattimento del debito pubblico, tali interventi di c.d. privatizzazione rischiano di non essere risolutivi ed essere, piuttosto, controproducenti, raggiungendo risultati effimeri e assolutamente limitati temporalmente.
  Inoltre, nel mentre che l'Italia persegue le suddette scellerate privatizzazioni, come si evince dal report «Re-municipalising municipal services in Europe» dell'università di Greenwich, negli altri Stati europei, in particolare Francia, Germania e Inghilterra, emerge un trend di riappropriamento da parte del pubblico di asset importanti e strategici, come la gestione dell'acqua, dell'elettricità, del trasporto pubblico e dei rifiuti, motivati per la maggior parte dalla fallimentare gestione privata e dalla riduzione dei costi, nonché che da un miglioramento dei servizi per i cittadini.
  Per quanto attiene il trasporto stradale si segnala come all'interno del documento venga riconosciuta, quale punto di forza del sistema stradale, l'elevata densità della rete autostradale, evidenziandone la superiorità rispetto alla media europea e di paesi quali la Francia e il Regno Unito. Al contempo, però, viene rimarcato, quale punto debole, l'elevato numero di vetture che rende la densità di suddetta rete al di sotto della media europea. Quanto appena detto a riprova della predilezione in questo paese del trasporto su gomma sia per quanto concerne le persone che le merci, a scapito di quello su ferro, e dell'assenza di serie politiche di razionalizzazione del trasporto miranti ad un abbattimento delle emissioni.
  A fronte di elevatissimi investimenti, inoltre, viene sottolineato come la rete autostradale, oggi, sia sostanzialmente Pag. 17identica a quella esistente nel 1980 palesando, dunque, l'impellente necessità di intervenire sui procedimenti amministrativi e autorizzativi che precedono la realizzazione delle opere, oltre che rivedere il sistema dei controlli al fine di ridurre le infiltrazioni criminali e gli sprechi economici in fase di realizzazione degli interventi.
  Dal contratto di programma con ANAS si evince la volontà di spendere ulteriori 20 miliardi di euro nel prossimo quinquennio dei quali 17,5 per nuovi interventi e solo 2,5 per manutenzione. Quest'ultimo importo, a fronte anche delle recenti frane che hanno interessato strategici tratti autostradali, risulta del tutto inadeguato.
  Per quanto concerne il trasporto ferroviario, si segnala come all'interno del documento vengano evidenziate, senza che vengano prese adeguate misure e stanziate necessarie risorse per farvi fronte, numerose criticità quali: diffuse limitazioni per il trasporto merci con particolare riferimento ai valichi alpini e al Mezzogiorno; quota del trasporto ferroviario delle merci sensibilmente inferiore rispetto alla media europea; costi eccessivi di manovra nel terminali intermodali; una percentuale di linee a doppio binario inferiore rispetto alla media europea; significative differenze nella qualità dell'infrastruttura ferroviaria tra le diverse macro aree del paese.
  Relativamente al trasporto pubblico locale e alla mobilità urbana, a fronte di una domanda in crescita e ad un aumento del fenomeno del c.d. pendolarismo, si segnala come siano del tutto assenti politiche volte a mitigare la frammentazione del servizio e a favorire l'integrazione e l'intermodalità e siano del tutto esigue le risorse destinate al rinnovo del parco veicolare caratterizzato da un indice di vetustà dei mezzi sensibilmente superiore rispetto alla media europea, oltre che una latitanza totale da parte dell'esecutivo nel rivedere, aggiornare e armonizzare il quadro normativo tutt'oggi caratterizzato da incertezze che si traducono inevitabilmente in inefficienze e sprechi all'interno del comparto.
  A distanza di un anno si è ancora in attesa del varo di un Piano strategico nazionale della portualità e della logistica che deve necessariamente tenere conto della necessità di rivedere, adoperando una razionalizzazione, l'attuale modello di governance portuale oltre che i meccanismi di nomina delle Autorità portuali.
  In riferimento al sistema aeroportuale permangono elementi di criticità dovuti anche all'elevato numero di piccoli aeroporti che seppure indirizzati ad una potenziale vocazione turistica, potrebbero non raggiungere gli obiettivi prefissati e scaricare i potenziali deficit di gestione sugli enti locali proprietari delle società di gestione aeroportuale. È necessario definire degli obiettivi chiari e perseguibili che permettano una valutazione politica immediata capace di scongiurare il rischio di uno sviluppo disarticolato ed economicamente insostenibile della nostra rete aeroportuale.
  In termini generali emerge la mancanza di una strategia chiara del Governo sul versante del digitale nell'ottica del raggiungimento degli obiettivi dell'Agenda digitale. Vengono, infatti, svolti costanti riferimenti al Piano strategico Banda Ultralarga nonché alla Strategia per la Crescita Digitale di recente licenziati dal Governo senza indicare da dove attingere le risorse necessarie per la realizzazione dei piani stessi se non un generico riferimento a 6 miliardi di euro da far valere sulla programmazione dei fondi strutturali europei.
  Quanto al Piano strategico Banda Ultralarga è da rilevare come lo stesso non chiarisca un nodo centrale per lo sviluppo dell'infrastruttura a banda ultralarga nel nostro Paese. Non si chiarisce infatti il ruolo dell'intervento pubblico e il Governo continua a non assumersi la responsabilità, eventualmente anche attraverso l'intervento di Cassa depositi e prestiti, di costituire una società della rete a capitale prevalentemente pubblico che riesca a dotare il Paese di un'infrastruttura omogenea a livello nazionale.
  Quanto alla Strategia per la Crescita Digitale, pur apprezzabile nelle finalità, è da rilevare come la stessa sia focalizzata in via esclusiva sulla pubblica amministrazione Pag. 18senza considerare piccole e medie imprese (PMI) e realtà produttive che possono fare da traino per lo sviluppo della domanda oltre che dell'offerta di servizi digitali. Inoltre proprio le PMI risultano fortemente penalizzate dall'inattività del Governo su questo fronte se solo si considera che gli incentivi e le forme di sgravio fiscale, pur insufficienti, previste nel decreto-legge c.d. «Sblocca Italia» sono ancora in attesa dei decreti attuativi da parte dei ministeri competenti.
  Relativamente alla governance dell'agenda digitale appare evidente la continuità con le gestioni passate nel fallimentare dialogo tra più soggetti coinvolti: Presidenza del Consiglio dei Ministri, Agenzia per l'Italia Digitale (Agid) attualmente con un DG dimissionario per concorrere alla campagna elettorale per le regionali in Veneto a sostegno della candidata presidente del PD; vari organi di indirizzo di Agid; Ministero per la semplificazione e la pubblica amministrazione; Ministero dello Sviluppo economico; regioni e altri enti quali Consip che giocano un ruolo centrale nell'attuazione degli obiettivi dell'agenda digitale. Occorrerebbe spingere sulla semplificazione dei ruoli e delle competenze per una rapida attuazione dell'agenda e tale obiettivo appare sconosciuto al DEF.

Attività produttive.

  Il Governo sul turismo punta molto sull'assetto organizzativo dell'amministrazione MiBACT sviluppata nel solco degli adempimenti della spending review, e divenuta occasione per affrontare nodi e problematiche rilevanti per il comparto dei beni culturali e del turismo in Italia però il documento non prevede risorse per il rilancio del turismo sapendo bene delle potenzialità enormi a livello occupazionale per l'Italia. Inoltre si rileva che mancano ancora alcuni decreti attuativi del decreto-turismo n. 83 del 2014.
  Il DEF 2015 afferma che al 30 gennaio 2015 le risorse erogate per consentire alla pubblica amministrazione di smaltire i debiti commerciali arretrati risultano pari a 42,8 miliardi e che i pagamenti effettuati ai creditori ammontano a 36,5 miliardi (ossia 65 per cento delle risorse stanziate). Si fa presente che il ritardo nei pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni italiane rappresenta da tempo una delle principali disfunzioni del sistema economico italiano imputabile a ragioni di diversa natura tra le quali le inefficienze amministrative nella gestione della contabilità pubblica e nei processi di verifica dei crediti e i ritardi nei trasferimenti di fondi dalle amministrazioni centrali a quelle periferiche che spesso interessano più livelli di pubbliche amministrazioni (si pensi, ad esempio, al passaggio di fondi Stato-Regione-ASL nel settore sanitario) determinando una cronica carenza di liquidità degli enti debitori solo in parte sanata dall'introduzione del c.d. federalismo fiscale.
  Ciò che sorprende è che sino ad oggi non sia stato possibile quantificare con certezza la consistenza dello stock di debito accumulato dalle pubbliche amministrazioni. Non esistono infatti ancora dati certi sull'esatto ammontare di debito e non sono concordanti i dati al riguardo forniti dal Ministero dell'economia e delle finanze, dalla Banca d'Italia o da associazioni di categoria: sino allo scorso anno si stimava che lo stock di debito delle pubbliche amministrazioni oscillasse tra i 60 e i 90 miliardi di euro. La difficoltà nel fornire dati esatti può imputarsi alla difformità di principi contabili adottati dalle pubbliche amministrazioni, all'assenza di chiari obblighi o regole di rendicontazione periodica soprattutto in capo alle amministrazioni periferiche o, sovente, al mancato rispetto di dette regole.
  Nonostante l'introduzione di termini inderogabili di pagamento dei crediti commerciali sin dal 2002, i tempi medi di pagamento delle pubbliche amministrazioni non sono sostanzialmente migliorati e l'effetto principale della normativa comunitaria è stato piuttosto quello di causare un significativo incremento degli oneri finanziari dovuti all'elevato tasso di mora previsto dalla legge (BCE 8 per Pag. 19cento). Sulla base di recenti notizie apparse sulla stampa stima che l'ammontare per interessi moratori dovuto dalle pubbliche amministrazioni ammonti a non meno 20 miliardi di euro, debito certo da un punto di vista giuridico per il quale le pubbliche amministrazioni non avrebbero effettuato alcuna iscrizione nei propri bilanci. Da ciò è naturalmente scaturito un incremento esponenziale delle azioni legali di recupero dei crediti che operatori più «speculativi» avviano con crescente frequenza per il recupero della vantaggiosa componente di interessi moratori.
  Per i rappresentanti della micro, piccole e medie imprese (Unioneimprese) il DEF varato dal Governo Renzi è una stangata fiscale da oltre 100 miliardi di euro nei prossimi 5 anni: dal 2015 al 2019, secondo un'analisi del Centro studi di Unimpresa le entrate tributarie dello Stato cresceranno costantemente e arriveranno fino agli 881 miliardi del 2019; complessivamente nel prossimo quinquennio i contribuenti italiani dovranno versare nelle casse pubbliche 104,1 miliardi in più rispetto allo scorso anno ( 13 per cento). Sulle imposte dirette e indirette – principalmente Irpef, Ires e Iva – ci sarà una stretta da quasi 80 miliardi. E la pressione fiscale salirà oltre il 44 per cento.
  Per il periodo 2015-2017 Matteo Renzi, al netto delle misure messe in cantiere nel 2014, appalta la crescita degli investimenti pubblici al Piano Juncker. Un intervento salvifico che dovrebbe rilanciare la crescita del PIL e permettere l'uscita da una disoccupazione stagnante che in alcuni Paesi del Sud Europa ha raggiunto livelli drammatici (soprattutto fra i giovani), ma che appare insufficiente per competere con aree come Usa e Cina. Eppure nel Documento di economia e finanza che delinea il quadro macroeconomico futuro e che contiene le linee di politica economica del governo, l'Esecutivo Renzi, dopo aver riservato un capitolo a tre scarne «disposizioni urgenti per il sistema bancario e gli investimenti» (riforma delle banche Popolari, istituzione della categoria delle «Pmi innovative» e della «patent box») a cui destinare praticamente bruscolini (circa 200 milioni nel 2015 e 300 l'anno dal 2016 in poi), affida il rilancio degli investimenti pubblici a pag. 118-119 al piano elaborato dal presidente della Commissione europea. Progetto che prevede la «creazione di un fondo ad hoc, il Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici (FEIS), che avrà un capitale iniziale di 21 miliardi» (ricorda il DEF) ma che poi agirà a leva, mobilitando «investimenti aggiuntivi, pubblici e privati, per 315 miliardi in tre anni» che dovrebbero costituire il volano per il rilancio della crescita, colmando i deficit di investimento esistenti nell'Unione europea».
  Il DEF passa subito al salvifico Piano Juncker, introducendolo con la «promozione di azioni coordinate a livello sovranazionale per favorire il ritorno alla crescita e all'occupazione».
  E qui scatta lo scoramento, perché nel periodo della lunga crisi (dal 2007 al 2014), la peggiore degli ultimi 100 anni, gli investimenti in Italia sono crollati del 30 per cento e già la legge di stabilità 2015 era iper-deficitaria al capitolo investimenti pubblici (sembra che l'Esecutivo ignori completamente l'insegnamento dell'economista John Maynard Keynes). E dire che nel capitolo 5, nell’incipit del paragrafo sugli «Interventi sugli investimenti pubblici», il DEF ricorda che «l'Italia è tra i Paesi europei in cui è maggiore il bisogno di un sostenuto rilancio degli investimenti, sia pubblici che privati». Peccato che poi si fa molto poco per farli ripartire.

Lavoro.

  Contrariamente a quanto annunciato a più riprese e finanche indicato con la denominazione della tipologia contrattuale «a tutele crescenti», il provvedimento non definisce alcun tipo di tutela, di fatto esso non solo non tipizza un nuovo contratto di lavoro che offra un'idea di, pur progressiva, stabilizzazione del lavoratore, bensì disciplina esclusivamente il nuovo regime dei licenziamenti illegittimi individuali e collettivi, di fatto liberalizzandoli.Pag. 20
  Nei confronti dei nuovi assunti, ai quali avrebbe dovuto trovare applicazione la tutela prevista dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, la linea fatta propria dal legislatore delegato, nella prosecuzione del cammino già avviato dalla legge n. 92 del 2012 (c.d. legge Fornero), è diretta verso la progressiva eliminazione della reintegrazione, introducendo un sistema di tutela economica, crescente in base all'anzianità del lavoratore, e comunque modificato in peius rispetto alla precedente disciplina.
  Il percorso intrapreso non pare quello diretto alla creazione di concrete e realistiche opportunità occupazionali ma piuttosto un provvedimento utile alla facilitazione dei licenziamenti e alla completa liberalizzazione del mercato del lavoro. Né gli incentivi occupazionali, pur promossi dal Governo, paiono poter risultare determinanti, in quanto essi risultano molto limitati nel tempo. Piuttosto gli stessi incentivi paiono commisurati ad un periodo di tempo che potrà consentire alle imprese di coprire i costi del licenziamento per poi assumere a costi più bassi, oltretutto conteggiando tali ingressi come nuova occupazione.
  Del pari non sembrano efficaci le misure annunciate dal Governo in tema di disboscamento delle molteplici tipologie contrattuali esistenti. L'azione del Governo si è concentrata nella eliminazione dei contratti di collaborazione a progetto, che però, a partire dal primo gennaio 2016, si trasformeranno in contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti, dunque nell'ennesima forma contrattuale priva di alcuna caratteristica tutelante per il lavoratore, oltretutto restano in piedi alcuni tipi di collaborazione coordinata e continuativa, legati a particolari settori (ad esempio i call center) o tipologie professionali (i professionisti iscritti agli ordini). L'eliminazione del contratto di associazione in partecipazione con apporto di lavoro e l'eliminazione del job sharing appaiono misure residuali, non determinanti ai fini della semplificazione e valorizzazione del mercato del lavoro mentre desta preoccupazioni l'ampliamento del contratto di somministrazione a tempo indeterminato (staff leasing) che non necessiterà più di causali.
  Le scelte del governo, in punto di tipologie contrattuali destano quindi grave preoccupazione, soprattutto se si guarda ai dati macroeconomici che prevedono al 2018 la disoccupazione all'11,2 per cento.
  L'opportunità di regolare il mercato del lavoro poteva e doveva essere certamente usata diversamente, puntando su redistribuzione e innovazione, dunque su un'idea diversa di stimolo alla domanda e non sulla svalutazione competitiva di lavoro e diritti.
  Nel DEF ampio spazio nell'ambito delle riforme strutturali illustrate viene dato ai provvedimenti in tema di lavoro.
  Il Documento enfatizza le politiche in materia del lavoro, richiamando una serie di deleghe governative che sono orientati ad una riforma strutturale del mercato del lavoro, che, oltre a contenere palesi profili di illegittimità costituzionale, rappresentano, di fatto, l'istituzionalizzazione, come nel caso del contratto a tutele crescenti, della discriminazione su base generazionale dei lavoratori, ed aumentano il potere dei datori di lavoro, attraverso la cancellazione dall'ordinamento giuridico di tutele e diritti che appartengono, e non solo simbolicamente, alla civiltà europea del lavoro.
  In particolare, il documento richiama le cinque deleghe, previste dalla legge n. 183 del 2014. In attuazione della delega sul jobs act, sono stati fin qui approvati due decreti legislativi, relativi al contratto a tutele crescenti e all'introduzione di nuovi ammortizzatori sociali.
  Il DEF prevede inoltre la presentazione, entro il 2015, di un disegno di legge governativo «per consentire, attraverso la contrattazione aziendale (o territoriale), l'adozione di modelli di partecipazione dei lavoratori nella vita delle imprese e per favorire l'evoluzione nelle relazioni industriali, con il superamento della conflittualità attraverso la ricerca di obiettivi condivisi».
  In materia pensionistica il Documento (nella I sezione, dedicata al Programma di Pag. 21stabilità dell'Italia) osserva che il rapporto fra spesa pensionistica e PIL, il cui valore per il 2015 è previsto pari al 15,8 per cento, tenderà a ridursi fino al 2030 (quando si attesterà intorno al 15 per cento), in presenza di un andamento di crescita più favorevole, nonché in virtù del processo di elevamento dei requisiti per la pensione e del progressivo passaggio al metodo di calcolo contributivo. Successivamente, la misura del rapporto percentuale tornerebbe a crescere, a causa dell'ampliamento delle tendenze negative delle dinamiche demografiche ed in ragione degli effetti derivanti dal precedente posticipo del collocamento in quiescenza sull'importo delle pensioni. Il rapporto dovrebbe raggiungere un valore massimo pari a circa il 15,5 per cento, intorno al 2044, per poi decrescere nuovamente nel successivo periodo fino al 2060.
  Per quanto concerne il personale pubblico, il Documento stima che le riforme proposte determineranno un incremento pari allo 0,4 per cento del PIL nel 2020 e all'1,2 per cento nel lungo periodo, osservando che l'incremento atteso nel 2015 è dovuto sia al venir meno di alcune delle misure di contenimento della spesa per redditi per il pubblico impiego disposte dalle precedenti manovre di finanza pubblica, sia all'effetto di disposizioni di spesa contenute nella legge n. 190 del 2014 (legge di stabilità 2015).
  Riguardo al settore dell'assistenza sociale, nel Documento in esame si dà ampio rilievo, tra le misure per il contrasto alla povertà, al cosiddetto SIA e si ribadisce, come strumento per l'attuazione del medesimo programma, la cosiddetta social card, con cui «sono stati effettuati i primi pagamenti, nel secondo bimestre 2014, nelle 12 maggiori città italiane connessi al programma sperimentale di sostegno per l'inclusione attiva (SIA), che, secondo il Governo avrebbe dovuto costituire un primo passo verso la definizione di misure universali per il sostegno delle persone in stato di povertà». Tuttavia su quasi 18.000 domande presentate nel 2014, oltre il 60 per cento non è stata ammessa per il mancato possesso dei requisiti auto-dichiarati. Il programma sarà esteso anche al Mezzogiorno, con criteri simili a quelli delle 12 città in sperimentazione, sulla base delle risorse già stanziate nell'ambito del PAC (167 milioni).
  A fronte di una blanda misura sulle partite IVA, i liberi professionisti, che si pagano la pensione in via esclusiva con i propri contributi ed i connessi investimenti di tipo cautelativo, dopo anni di iniqua sovra-tassazione rispetto ai fondi pensione ed un improvviso aumento dell'aliquota dal luglio scorso (mitigato da un farraginoso meccanismo di credito di imposta a termine), si vedranno – l'anno prossimo – «armonizzare il regime fiscale» al rialzo, invece di avvicinarsi all'11,5 per cento oggi vigente per i Fondi e le Casse.
  Per quanto riguarda il cosiddetto «tesoretto», il modo in cui l'operazione è stata congegnata appare come un mero artificio contabile dal quale non è affatto detto che discenda una reale dote di 1,6 miliardi di euro come il Governo vorrebbe far credere. Il calcolo delle risorse è stato fatto sulla base del rapporto deficit-PIL, previsto quest'anno al 2,5 per cento e che viene innalzato, con un tratto di penna, al 2,6 per cento. Non risulta peraltro chiaro quale dovrebbe essere la destinazione di queste presunte risorse, poiché sulla base delle dichiarazioni del Ministro del lavoro si starebbe predisponendo un piano anti-povertà, ma non si capisce se per darne attuazione il Governo preferirà percorrere la via fiscale, allargando l'attuale bonus ai redditi sotto gli ottomila euro, oppure se valuterà più opportuno destinarlo ad altre misure di sostegno socio – economico diverse, quali, ad esempio la sopra citata social card.
  In materia di mercato del lavoro è stato istituito un fondo davvero insufficiente di 7, 9 miliardi per il periodo 2015-2019, considerati i settori che necessitano di essere sostenuti, ovvero: l'attuazione di riforma degli ammortizzatori sociali, il rifinanziamento degli ammortizzatori sociali in deroga, i servizi per la conciliazione di vita e lavoro, la stipula dei contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti.Pag. 22
  I decreti legislativi n. 22 e 23 del 2015, in materia di NASPI e contratti di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, utilizzano, ai fini della copertura degli oneri, la quota parte delle risorse stanziate sull'apposito fondo istituito dalla legge di stabilità per il 2015 e destinato a finanziare provvedimenti normativi in materia di mercato del lavoro:
   le risorse destinate alla NASPI sono pari a circa 5,9 miliardi nel periodo 2015 – 2019 in termini di indebitamento netto. Le risorse per l'assegno sperimentale ASDI per i lavoratori che, pur avendo usufruito entro il 31 dicembre 2015 della NASPI, non abbiano trovato un'occupazione e si trovino in una condizione di disagio, ammonta a 0,4 miliardi per il biennio 2015 – 2016;
   la misura della prestazione di natura temporanea (Dis – Coll) a titolo d'indennità per la cessazione del rapporto di lavoro ammonta a circa 0,23 miliardi nel biennio 2015-2016 e sarà erogata, a decorrere dal 1 gennaio 2015.

  Alla luce delle insufficienti risorse già stanziate, eventuali coperture finanziarie per l'attuazione dei restanti decreti legislativi, sembrerebbero aleatorie. Difatti, l'inserimento nello schema di decreto legislativo sul riordino dei contratti (atto del Governo n. 158), appena trasmesso al Parlamento, dell'ennesima clausola di salvaguardia, volta a coprire il fabbisogno di risorse eccedenti 1,886 miliardi già appostati, e finalizzate alla decontribuzione dei contratti a tempo indeterminato, stipulati nell'anno in corso potrebbe creare squilibri nell'ambito dei conti pubblici. Ciò potrebbe accadere, ad esempio, in caso trasformazioni di massa dei contratti di collaborazione (che pagano robusti contributi, anche quasi del 30 per cento) rispetto alle stime dal Governo (37.000 trasformazioni originarie più altre 20.000 aggiuntive, con retribuzione media stimata sui 15.000 euro). Tale clausola prevede «l'introduzione di un contributo aggiuntivo di solidarietà a favore delle gestioni previdenziali a carico dei datori di lavoro del settore privato e dei lavoratori autonomi». Ciò significa che si arriverà al paradosso di «pagare contributi (pur se nominalmente “di solidarietà”) per avere un taglio di contributi». Se si considera il fatto che i collaboratori a progetto in monocommittenza (quelli che hanno caratteristiche di operatività non distanti dalla subordinazione) in Italia sarebbero circa 370.000, si coglie il suddetto potenziale rischio per i conti pubblici.
  Si fa presente che la Raccomandazione della Commissione europea, evidenziata nella Nota di aggiornamento al DEF 2014 ha sottolineato che la riforma del mercato del lavoro debba tendere a rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro, a riordinare i contratti di lavoro vigenti, a garantire la fruizione dei servizi essenziali in materia di politica attiva del lavoro, a definire un sistema di garanzia universale per tutti i lavoratori, a ridurre l'elevato divario con i tassi di attività femminili «prevalenti» in Europa, mediante l'elevamento dell'offerta e della fruibilità dei «servizi di conciliazione» dei tempi di vita e di lavoro.
  Inoltre la NASPI non appare rispondente al dettato della legge delega, la quale reca quale criterio di esercizio della delega stessa la creazione di uno strumento unico, da estendere a tutte le categorie di lavoratori in stato di disoccupazione, indipendentemente dalla tipologia contrattuale di provenienza e che il sussidio si applichi a prescindere da qualunque requisito di anzianità contributiva e assicurativa. L'estensione dell'ASPI ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa per i quali è stato creato un apposito strumento, peraltro solo a livello sperimentale, non rappresenta un intervento universalistico, poiché esclude tutte le tipologie di lavoro precarie, parasubordinate o falsamente autonome, che non hanno alcuna copertura né sostitutiva né integrativa; inoltre la copertura parziale quanto a tipologie di contratti o per altri requisiti sarebbe in contrasto con principi costituzionali, in particolare con quanto deriva dal combinato disposto degli articoli 3, 4 e 38 della Costituzione. La NASPI Pag. 23ha esteso lo strumento, in via sperimentale, ai soli collaboratori coordinati e continuativi, incrementando la durata massima della prestazione, ovvero introducendo massimali per le prestazioni in funzione della contribuzione figurativa, limitando quindi le erogazioni a tutti quei lavoratori per i quali non siano stati versati dei contributi sociali effettivi, ma solo figurativi, circostanza che si verifica in caso di interruzione o riduzione dell'attività lavorativa dovuta a determinate fattispecie quali cassa integrazione guadagni, contratti di solidarietà, ma anche disoccupazione e mobilità.
  Relativamente all'ASDI, il riferimento alla quota dell'assegno sociale, pari a 447,61 euro mensili, circa 5.800 annui, significa scegliere di rimanere al di sotto del livello della soglia di povertà relativa, dati ISTAT, che per il 2014 è pari a 7.200 euro. Tale livello, definito anno per anno, deve pertanto rappresentare il termine di riferimento in merito alla copertura finanziaria, dato che gli oneri complessivi del provvedimento sono stati individuati tramite un «tetto di spesa» e non come «previsione di spesa». Considerata la natura dei diritti soggettivi, appare paradossale che tale strumento risulti privo di una clausola di salvaguardia, ancorché aggravata dalla motivazione della Ragioneria di Stato secondo cui «le valutazioni finanziarie risultano caratterizzate da adeguati elementi di prudenzialità». Il sistema di calcolo dell'indennità, cui si unisce la progressiva riduzione della stessa con il passare del tempo, finisce per essere penalizzante rispetto alla previgente disciplina in particolare per alcune categorie di lavoratori come gli stagionali. La NASPI appare svantaggiosa per i lavoratori stagionali che dal 1o maggio 2015 non potranno più coprire il proprio reddito per tutto l'anno, in quanto percepiranno l'indennità per la metà dei mesi lavorati (quindi solo per 3 mesi), con grave pregiudizio per miriadi di famiglie che vivono di turismo Non sono inoltre previste salvaguardie a favore dei 2,6 milioni di lavoratori dipendenti del settore artigiano, che attualmente risulterebbero privi di tutela del reddito in costanza di rapporto di lavoro.
  In merito al decreto legislativo del 23 marzo 2015, n. 23, il provvedimento, contrariamente a quanto annunciato a più riprese e finanche indicato con la denominazione della tipologia contrattuale «a tutele crescenti», non definisce alcun tipo di tutela. Di fatto esso non solo non tipizza un nuovo contratto di lavoro che offra un'idea di, pur progressiva, stabilizzazione del lavoratore, bensì disciplina esclusivamente il nuovo regime dei licenziamenti illegittimi individuali e collettivi, liberalizzandoli.
  Il percorso intrapreso non pare quello diretto alla creazione di concrete e realistiche opportunità occupazionali ma piuttosto un provvedimento utile alla facilitazione dei licenziamenti e alla completa liberalizzazione del mercato del lavoro. Né gli incentivi occupazionali, pur promossi dal Governo, paiono poter risultare determinanti, in quanto essi risultano molto limitati nel tempo. Piuttosto gli stessi incentivi paiono commisurati ad un periodo di tempo che potrà consentire alle imprese di coprire i costi del licenziamento per poi assumere a costi più bassi, oltretutto conteggiando tali ingressi come nuova occupazione. Del pari non sembrano efficaci le misure che il Governo sta ponendo in essere in tema di disboscamento delle tipologie contrattuali esistenti. Le scelte del governo, in punto di tipologie contrattuali destano quindi grave preoccupazione, soprattutto se si guarda ai recentissimi dati ISTAT del mese di febbraio ultimo scorso che hanno già rilevato un aumento del tasso di disoccupazione tornato a salire fino al 12,7 per cento, dopo l'ulteriore «forte calo» già intervenuto nel mese di dicembre e la diminuzione di gennaio. I disoccupati sono, dunque, 23 mila in più. A febbraio diminuisce il numero di occupati di 44 mila unità che quindi aumenta di 93 mila unità rispetto a febbraio 2014. L'opportunità di regolare il mercato del lavoro poteva e doveva essere certamente usata diversamente, puntando su redistribuzione e innovazione, dunque su un'idea diversa di stimolo alla domanda e non Pag. 24sulla svalutazione competitiva di lavoro e diritti. Sarebbe viceversa di vitale importanza rivedere la legislazione sul lavoro degli ultimi quindici anni.
  Il programma comunitario Garanzia Giovani ha stanziato risorse in favore dell'Italia pari a 1,5 miliardi di euro per il periodo 2014-2015, allo scopo di promuovere offerte di lavoro, tirocini, formazione, anche alla luce del fenomeno dei NET. I risultati ottenuti, a un anno dell'adozione del regolamento FSE, non appaiono soddisfacenti, in quanto né l'anticipo degli impegni in quanto tale, né le altre misure specifiche hanno indotto a una rapida mobilizzazione delle risorse. Le principali ragioni di tale insuccesso sembrano essere: la complessità del processo negoziale sui programmi operativi, cui deve seguire l'introduzione delle rispettive modalità di attuazione negli Stati membri; la limitata capacità delle autorità nel pubblicare inviti a presentare progetti e a trattare rapidamente le domande; l'insufficienza del prefinanziamento per avviare le misure necessarie. Quest'ultimo fattore di insuccesso è stato segnalato a livello politico dagli Stati membri, molti dei quali, anche in sede di Consiglio EPSCO (Occupazione, politica sociale, salute e consumatori), hanno denunciato la mancanza di finanziamenti sufficienti per versare anticipi ai beneficiari. Va altresì segnalato come siano proprio gli Stati membri con livelli di disoccupazione giovanile più elevati a incontrare le maggiori difficoltà, essendo anche quelli con maggiori vincoli di bilancio e scarsità di finanziamenti nazionali.
  A tale riguardo il DEF fa presente, in primo luogo, che a febbraio 2015 la Commissione europea ha proposto di aumentare dall'1 per cento al 30 per cento il tasso di prefinanziamento dell'iniziativa, con la conseguenza che si renderebbe disponibile una somma complessiva nel 2015 per l'Italia 170 milioni (invece dei 5,6 milioni previsti); inoltre, ricorda che tra le azioni previste dal Programma italiano volte a dare attuazione alla Garanzia giovani, vi è anche la previsione del cosiddetto «bonus occupazione», un incentivo per le assunzioni di giovani con specifici requisiti. In conseguenza di ciò, anche se la proposta di aumento del prefinanziamento da versare agli Stati membri non altera il profilo finanziario globale delle dotazioni nazionali già concordato, limitandosi ad anticiparne la fruibilità e flessibilizzarne l'accesso, la disomogeneità dei vari piani regionali, potrebbe impedire la fruizione del vantaggio in parola. Inoltre, come rilevato in sede di discussione del provvedimento in Commissione lavoro, qualora a dodici mesi dall'entrata in vigore del regolamento la Commissione europea non avrà ricevuto domande di pagamenti intermedi per i progetti in cui il contributo dell'Unione a titolo dell'IOG ammonta ad almeno il 50 per cento del prefinanziamento supplementare, quest'ultimo dovrà essere rimborsato alla Commissione medesima. A ciò si aggiunge l'obbligo di restituire i pagamenti intermedi, essendo versabili solo in base alle spese certificate già sostenute dai beneficiari e coperte dallo Stato membro, non possono essere destinati alla corresponsione di anticipi.
  Il suddetto programma comunitario nelle intenzioni avrebbe dovuto offrire un lavoro o un percorso ai circa 2 milioni di beneficiari. Da dati forniti dalle direzioni competenti del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, i soggetti a cui sarebbe stata proposta un'opportunità sarebbero appena 69.811, e su un totale di 502.000 registrati, secondo stime non definitive, più della metà sarebbe ancora in attesa di effettuare il colloquio conoscitivo in agenzie o centri per l'impiego. Le regioni meridionali sono quelle con maggiori difficoltà anche a far partire i programmi. Durante la recente audizione dei rappresentanti delle Regioni, in Commissione Lavoro, è stata ribadita, da parte di quest'ultimi, la scarsa operatività dei centri per l'impiego, che rappresentano lo snodo principale delle misure della Garanzia Giovani. A tal proposito si deve rilevare come i provvedimenti illustrati nel Documento in esame siano in gran parte ancora da attuare, in particolare per quanto attiene alle disposizioni di cui alla legge n. 183 del 2014, le quali peraltro scontano Pag. 25un'impostazione di fondo non pienamente convincente a partire dall'istituzione dell'Agenzia nazionale per l'impiego e il ruolo non chiaramente prevalente che dovrebbe essere affidato riconosciuto alle strutture pubbliche.
  Con riferimento al principio di parità di genere nel mondo del lavoro, si osserva che la perdurante carenza di effettive politiche di conciliazione tra vita familiare e lavoro ha concorso all'aumento della disoccupazione femminile con effetti negativi per lo sviluppo e la competitività del nostro Paese.
  La legge di stabilità per il 2015 ha abrogato le agevolazioni strutturali per l'assunzione dei disoccupati di lunga durata, previste dalla legge n. 407 del 1990, con cui si consentiva alle aziende di risparmiare il 50 per cento dei contributi INPS e INAIL per trentasei mesi. Il risparmio si elevava al 100 per cento per le aziende collocate in una delle regioni del Sud, o che svolgono attività artigianale.

Affari sociali.

  Dal Documento economico e finanziario si evince che il Fondo sanitario nazionale passa dai 112,062 miliardi di euro indicati nel Patto di soli 8 mesi fa, ai 109,7 miliardi di euro indicati nel DEF 2015, una riduzione che si rileva anche nel 2016 in quanto i previsti 115,444 miliardi di euro previsti dal Patto per la salute 2014-2016, diventano 113,1 miliardi di euro.
  Peggiora persino i livelli di risorse previste dal Patto per la salute 2014 – 2016 che era stato salutato come l'evento che, grazie all'individuazione di risorse certe, avrebbe finalmente permesso alle regioni di programmare correttamente le funzioni di assistenza evitando situazioni paradossali di approvazioni di bilanci con oltre due anni di ritardo; avrebbe reso la sanità efficace ed efficiente mantenendo livelli di prevenzione, assistenza e cura elevati. Non a caso nel Patto per la salute si era affermato, in pratica in ogni articolo, che le risorse per gli stanziamenti e le iniziative previste, per qualificare il Servizio Sanitario Nazionale, erano soggette al quadro macro economico e quindi di fatto non solo il Patto per la salute non sarà occasione di qualificazione del Servizio sanitario in termini in particolare di prevenzione, deospedalizzazione e di servizi territoriali, ma si assisterà ad un peggioramento della qualità del servizio.
  In relazione all'invecchiamento della popolazione e della ricaduta di questo sull'intero assetto socio sanitario nazionale e dei servizi, nel Documento economico e finanziario si prevede un aumento della speranza di vita da qui al 2060, si afferma anche che dal 2015 al 2060 la spesa media prevista per affrontare l'invecchiamento della popolazione si assesta ad una media del 28 per cento ma in realtà la previsione dal 2015 fino al 2020 è di una riduzione dell'1 per cento del Pil e solo nel 2043 tornerà a crescere, di fatto anche qui si assiste una riduzione della spesa. Questi numeri non lasciano presagire nulla di buono soprattutto se confrontati con i dati presenti nel rapporto OCSE del 2015. gli anni in buona salute per gli italiani over 65 sono circa 7 per gli uomini e 8 per le donne. Si tratta dei livelli tra i più bassi d'Europa, ben al di sotto della media europea (9,5) e la metà rispetto ai paesi del nordici (14 anni). Dunque, con queste miopi politiche, il rapido invecchiamento della popolazione sarà accompagnato da un alto numero di malati cronici bisognosi di cure per un lungo numero di anni.
  Una recente ricerca della Caritas insieme al Banco farmaceutico dimostra che la povertà incide gravemente sulla salute dei cittadini. Tra il 2006 ed il 2013 sono aumentate del 97 per cento le persone che hanno avuto difficoltà ad acquistare i farmaci per potersi curare, compresi quelli con prescrizione medica.
  Nel Programma Nazionale di Riforma si afferma che il Servizio sanitario nazionale deve rispondere ad una sfida assistenziale, ovvero far coincidere il mantenimento degli standard, non certo il loro miglioramento, con il taglio delle risorse, che viene chiamato eufemisticamente «razionalizzazione della spesa pubblica», ma tutto questo non è vero ! Già in passato il Pag. 26Governo Monti aveva adottato un'azione simile e la FIASO (Federazione delle aziende sanitarie) aveva denunciato come i tagli su beni e servizi non solo non erano praticabili nella misura richiesta (5 per cento il primo anno; 10 per cento il secondo) ma le regioni con le maggiori difficoltà ad applicarli erano proprio quelle più virtuose (tagli non oltre il 2 per cento). Insomma, il DEF 2015 avanza ancora ipotesi sulla lotta agli sprechi ma si riafferma una governance che ripensa l'attuale modello di assistenza con il solo obiettivo di garantire le prestazioni a chi ne ha davvero bisogno il che significa la progressiva riduzione della popolazione che ha diritto all'assistenza.
  Il DEF propone, nel Programma Nazionale delle Riforme, il perfezionamento del Patto della salute, definendo gli aspetti finanziari e prevedendo una sua riscrittura dettata non dai bisogni dei cittadini ma dalle compatibilità economiche. In proposito occorre ricordare che ancora una volta l'applicazione dei costi e dei fabbisogni standard, che la legge di stabilità 2015 ipotizza per il 30 di aprile di quest'anno, restano una chimera.
  Il Patto della salute 2014-2016 prevedeva anche l'aggiornamento delle procedure di rivalutazione dei prezzi e/o rimborsabilità dei farmaci. A distanza di circa un anno non si hanno ancora informazioni certe sebbene, anche questa misura, rischia di danneggiare seriamente le persone più fragili. Infatti, si ipotizza di non rimborsare più i farmaci sotto la soglia dei 10 euro. Questo significherebbe che gran parte delle persone anziane, che spesso presenta pluripatologie, dovrà pagarsi di tasca propria tutti i farmaci. In questo modo il governo taglierebbe la propria spesa per circa 450 milioni che ricadrebbe per intero sui malati.
  Altra azione prevista nel Programma nazionale è ridisegnare il perimetro dei LEA, adottando l’health technology assessment e prevedendo che l'assistenza sia aggiornata con le innovazioni cliniche e tecnologiche. Anche queste affermazioni sono la dimostrazione che si tratta di un vero e proprio libro dei sogni dal momento che la legge di stabilità taglia 2,35 miliardi di euro l'anno mentre la bozza dei nuovi LEA, presentata dal Ministro Lorenzin, presuppone una maggiore spesa di 450 milioni (in realtà, a conti fatti, circa 1 miliardo).
  La proposta sull'autismo, inserita nel DEF, è troppo vaga e sembra destinata a non trovare reale applicazione, anche alla luce del fatto che molti aspetti vengono delegati alle Regioni, quelle Regioni che hanno subito tagli nei trasferimenti da parte dello Stato centrale, che si trovano in una situazione economica talmente critica da rendere difficile garantire i servizi fondamentali. È impensabile che si preveda di attuarla senza oneri per lo Stato. Il timore è che servirà ad agevolare tutta una serie di strutture private. Forse bisognerebbe lavorare sulla reale applicazione delle leggi esistenti, basti pensare alla legge n. 104 del 1992. Il problema, come già sottolineato, è il futuro incerto dei soggetti autistici una volta raggiunta l'età adulta.
  Per il 2014 la legge di stabilità ha previsto la conferma del finanziamento di 275 milioni di euro per gli interventi originari del Fondo per la non autosufficienza e cioè l'attuazione «dei livelli essenziali delle prestazioni assistenziali da garantire su tutto il territorio nazionale con riguardo alle persone non autosufficienti», «ivi inclusi quelli a sostegno delle persone affette da sclerosi laterale amiotrofica».
  Ma sul Fondo sono confluiti anche ulteriori 75 milioni vincolati però a «interventi di assistenza domiciliare per le persone affette da disabilità gravi e gravissime, ivi incluse quelle affette da sclerosi laterale amiotrofica», per un totale di 350 milioni. Ciò a discapito degli interventi a favore della famiglia, che per il 2015 hanno subito una riduzione di ben 150 milioni così da coprire l'aumento delle risorse per il fondo per le non autosufficienze, arrivato quest'anno a 400 milioni.
  La legge di stabilità 2015 ha stanziato 400 milioni per il solo 2015 e solo perché la sollevazione popolare e mediatica è stata molto forte fin dall'estate 2014 grazie all'iniziativa «Ice Bucket Challenge» che Pag. 27ha visto il Premier e il Ministro per la salute protagonisti in Italia. Dal 2016, tuttavia, la stessa legge di stabilità 2015 riconduce il Fondo al regime di 250 milioni annui, come conferma drammaticamente questo DEF. Inoltre non vi è alcuna misura prevista per razionalizzare il riparto del fondo prevedendo criteri più adeguati come l'incidenza di pazienti non autosufficienti per ogni regione (e non più per popolazione) e sistemi di tracciabilità che possano rendere rapido il controllo dallo Stato centrale agli utilizzatori finali del fondo erogato.
  In circa dieci anni il Fondo nazionale per le politiche sociali si è ridotto ad oggi di circa l'80 per cento.
  Nel 2004 lo stanziamento complessivo è stato di 1,884 miliardi di euro. E questa cifra rappresenta il massimo mai investito nel Fondo. Da quel momento le cifre stanziate si sono ridotte fino al minimo registrato nel 2012 (43,7 milioni di euro) per poi risalire fino alla quota del 2013 di 344,17 milioni di euro, ovvero il 77,8 per cento in meno rispetto a quanto stanziato nel 2004.
  Per il 2014 è stata prevista un'ulteriore riduzione della destinazione al FNPS pari che è ammontato a 317 milioni di euro.
  La legge di stabilità 2015 riduce ulteriormente a 300 milioni di euro annui per il periodo 2015 – 2019, come conferma ancora drammaticamente questo DEF, con una sempre più crescente compartecipazione delle Regioni.
  Infine, viene indicata tra le 5 azioni del Programma Nazionale di Riforma la legge sull'autismo che ha appena iniziato il suo iter nella XII Commissione affari sociali, sul testo approvato al Senato, una legge che reca al momento solo princìpi che non dispone di risorse ma che pone questioni rilevanti in materia di diagnosi precoce, di trattamento individualizzato e di qualificazione degli operatori; dall'altro canto invece manca ancora una volta, e da oramai 15 anni, il finanziamento e quindi la definizione dei LEPS, i livelli essenziali delle prestazioni sociali ai sensi dell'articolo 22, comma 2, della legge n. 328 del 2000, cuore, tra l'altro, di una proposta di legge in esame nella XII Commissione della Camera dei deputati che individua, invece, stanziamenti economici ben precisi e ingenti.
  Per gli indennizzi da emotrasfusioni, i problemi sono principalmente due: dal prospetto non si capisce se le somme stanziate riguardano solo gli indennizzi corrisposti direttamente dal Ministero della Salute agli emodanneggiati oppure se includono anche le somme che sarà poi compito delle Regioni e delle Asl corrispondere. Se così fosse, sarebbe stato più opportuno computare quest'ultime in apposite sezioni delle tavole economiche pubbliche. La previsione di spesa del presente DEF non è congrua, in nessuno dei due casi su esposti.
  Servirebbero, almeno, 950.000.000 euro annui. Non è poi ben chiaro nel Documento se tali somme si riferiscano agli arretrati da corrispondere, alla spesa corrente o ad entrambe.
  Sarebbe stato opportuno, pertanto, che il Ministero avesse fatto una quantificazione esatta dei percettori, possibilmente divisi per categorie.
  Sarebbe, altresì, necessario stabilire una norma ponte per il fabbisogno economico delle regioni e delle ASL, enti erogatori dell'indennizzo previsto dalla legge 25 febbraio 1992, n. 210.
  Il Governo è ben consapevole che le somme previste sono assolutamente insufficienti a soddisfare il pagamento degli arretrati e la spesa corrente. Ne è dimostrazione il fatto che dal 2012 lo Stato ha maturato nei confronti degli emodanneggiati di alcune Regioni un debito di circa 735 milioni di euro; vi sono state Regioni che sono riuscite ad anticipare le somme non corrisposte dallo Stato, ma altre, come la Calabria, non hanno avuto tale capacità. Il problema è stato affrontato più volte dal M5S, che non ha mai mancato di dimostrarlo attraverso gli atti presentati, le continue richieste di chiarimenti al ministero della Salute, e ultimamente anche nella legge di stabilità. I nostri emendamenti avrebbero permesso di risolvere il problema degli arretrati, ma Pag. 28sono stati tutti bocciati dalla maggioranza di Governo.
  Il Patto per la sanità digitale è contenuto nell'articolo 14 del più ampio progetto del Patto per la salute.
  Ad oggi risulta un ritardo da parte del Ministero competente nel ciclo di lavori sul patto per la sanità digitale, entro la fine del 2014, il suddetto Ministero si impegnava ad avviare e concludere una ricognizione dei fondi disponibili e/o attivabili, utilizzando parte dei fondi strutturali destinati all'asse Agenda Digitale e ad eventuali fondi pubblici o privati.
  Altresì, era previsto che il Comitato predisponesse, sempre entro la fine del 2014, un primo master plan di proposte relative a iniziative di partenariato pubblico-privato, da avviare secondo le norme vigenti attraverso procedure a evidenza pubblica, con il compito di monitorare costantemente le singole iniziative avviate all'interno del medesimo master plan, per misurarne i ritorni in termini di efficientamento e di risparmi conseguiti; ed ancora, dovevano essere avviate già nel corso del 2014, in base alla disponibilità delle amministrazioni coinvolte, iniziative sperimentali, quali il proof of concept, volte a verificare la validità dei modelli teorici sviluppati, iniziative cofinanziate dal Ministero della salute, in collaborazione col Ministero dello sviluppo economico.
  Un ciclo di lavori, dunque, che sarebbe dovuto terminare entro la fine 2014, con la produzione di un rapporto conclusivo da presentare ufficialmente al Ministro della salute e a tutte le istituzioni coinvolte, contenente il master plan per le iniziative di sanità digitale, comprese le indicazioni prioritarie, i cronoprogrammi attuativi e i modelli di copertura finanziaria previsti, nonché i risultati delle iniziative sperimentali avviate, il tutto disponibile in rete attraverso uno strumento che dovrebbe essere costantemente aggiornato: il «Cruscotto del Patto». Uno strumento, che attualmente non è reperibile, pertanto da parte dei cittadini o soggetti interessati non è possibile effettuare alcun aggiornamento sul lavoro svolto, non è possibile verificare se vi sia stata coerenza e tempestività delle attività descritte nel patto per la sanità digitale.
  Non viene fatta, altresì, chiarezza sulle intenzioni del governo circa il cosiddetto progetto «Ecosistema digitale» avanzato, già lo scorso maggio, al Ministro della salute, onorevole Beatrice Lorenzin, con la presentazione di un Position Paper da parte dell'Associazione Nova, presieduta dall'on. Federico Gelli (PD) e dalle maggiori aziende ICT in sanità italiane che fanno capo a tale associazione, e su cui lo stesso Ministro ha affermato che «il progetto di ecosistema digitale che mi ha proposto l'Associazione Nova, grazie all'impegno di 8 imprese è un primo passo importante in questa direzione e i nostri uffici stanno lavorando per implementare questo progetto». A distanza di quasi un anno quindi il citato progetto «Ecosistema digitale» risulta ancor oggi irreperibile, né si conosce con esattezza la sua qualifica e natura.
  La legge di stabilità per l'anno 2015 ha previsto la costituzione di un fondo ad hoc, per i farmaci per la cura dell'epatite C per un miliardo di euro per gli anni 2015-2016, finalizzato al finanziamento delle Regioni, al fine di consentire la terapia ai pazienti, e l'acquisto dei farmaci innovativi nella cura dell'Epatite C già autorizzati dall'AIFA.
  Di questi fondi solo 100 milioni per il 2015 provengono da un contributo statale, gli altri 400 milioni per il 2015 e 500 per il 2016 provengono da risorse destinate alla realizzazione di specifici obbiettivi del piano sanitario nazionale ai sensi dell'articolo 1, comma 34, legge n. 662 del 1996 ciò comporterà una sottrazione di risorse destinate ad altre finalità e patologie.
  La cura con i nuovi medicinali che permettono la guarigione dalla patologia in dodici settimane con un successo per oltre il 90 per cento porterà a medio termine ad un risparmio economico per il SSN (infatti si potranno evitare i trattamenti tradizionali molto più lunghi e meno efficaci ed eventuali trapianti). Questo risparmio non sarà però immediato quindi sarebbe necessario almeno per il 2015 prevedere che l'intero investimento Pag. 29avvenga con nuove risorse per non creare di fatto un nuovo taglio al SSN.
  Da segnalare la mancanza dei decreti attuativi per il riparto dei soldi alle regioni che per ora sono costrette ad anticipare con mezzi propri queste cure costosissime causando così forti ritardi nell'avvio delle cure con rischi per la salute e la vita dei pazienti critici e con differenti trattamenti tra regioni e regioni.
  C’è poi da sottolineare che i conti presentati dal Governo dovranno comunque passare al vaglio del Parlamento attraverso il riordino di tutta la disciplina dei giochi: e sarà solo alla fine della discussione che si potrà capire la reale portata dell'intervento che finora è solo sulla carta. L'unico provvedimento per ora approvato è quello riguardante la riduzione di aggi e compensi per un valore di 300 milioni nel 2015, con l'intenzione di portarlo al regime di 500 milioni annui a partire dal 2016. Il tutto in una situazione comunque di stabilità in termini di raccolta del settore.
  Noi proponiamo una riarmonizzazione del regime fiscale dei giochi, data l'enorme differenziazione che tuttora sussiste fra alcuni giochi ed altri, con un aumento della tassazione del 4 per cento su AWP e VLT come indicato dal Governo nella prima versione della Legge di Stabilità depositata alla Camera e successivamente da lui stesso abrogata nel passaggio al Senato.

Agricoltura.

  La strategia delineata dal Governo nel Documento di economia e finanza per il 2015 con riferimento al comparto primario appare del tutto insufficiente ad incidere in modo significativo sul processo di riforma di cui necessita il settore. L'aumento continuo dei costi di produzione, la riduzione dei prezzi delle materie prime agricole, le conseguenze del cambiamento climatico in atto, la concorrenza sleale, la contraffazione e l'aumento della tassazione sono le criticità più evidenti per le aziende agricole e della pesca.
  Alcuni interventi previsti dal disegno di legge recante «Disposizioni in materia di semplificazione, razionalizzazione e competitività agricole, del settore agricolo, agroalimentare e della pesca» (collegato alla manovra di finanza pubblica 2014) sono ancora lontani dall'essere adottati posto che il provvedimento, collegato alla manovra di finanza pubblica 2014, è ancora all'esame del Senato. L'elevata pressione fiscale sui terreni ed immobili rurali frena la crescita di un settore che oltre all'aumento dei costi di produzione (non solo energetici, ma anche quelli imposti dall'adeguamento ai sempre più pressanti obblighi connessi alla sostenibilità ambientale) deve fronteggiare la stretta creditizia e la riduzione dei prezzi delle materie prime con conseguenze estremamente penalizzanti per i redditi degli agricoltori. È quindi indispensabile operare una revisione della fiscalità rurale e, in particolare, procedere con urgenza alla soppressione dell'imposta municipale propria IMU sui terreni agricoli posto che, tale tassazione, oltreché iniqua con riferimento ai criteri di esenzione è del tutto inopportuna nei confronti di milioni di agricoltori italiani che con rese sempre meno redditizie a causa della crisi economica continuano a lavorare la terra e contribuiscono a produrre una parte considerevole di PIL nazionale.
  Come è noto, i settori dell'agricoltura e della pesca risultano interessati solo in via marginale dagli interventi a favore delle attività produttive normalmente varati. Al fine di rilanciare il settore si richiedono azioni strutturali integrate miranti a introdurre adeguate misure di semplificazione e sburocratizzazione, a riordinare il sistema dei controlli, a ridurre i termini dei procedimenti amministrativi, a potenziare i servizi di rete nelle aree rurali, a rafforzare i canali di penetrazione commerciale all'estero.
  In materia di semplificazione e riduzione degli adempimenti burocratici è quanto mai opportuno procedere ad una revisione complessiva del cosiddetto «spesometro» relativo ai produttori agricoli che realizzano un volume d'affari non Pag. 30superiore a 7 mila euro annui e che sono soggetti all'obbligo delle comunicazioni rilevanti ai fini IVA. Tale prescrizione è contraddittoria nella misura in cui una categoria di soggetti che non è tenuta per legge a registrare le operazioni IVA è obbligata tuttavia a comunicare le operazioni rilevanti ai fini dell'accertamento fiscale.
  Nell'attuale fase economica, risulta inoltre cruciale, per le imprese agroalimentari, ricercare un incremento dei ricavi sui mercati, specialmente internazionali, e quindi superare i fattori di debolezza che tradizionalmente le caratterizzano in tale azione (dimensioni inadeguate, inadeguatezza finanziaria, frammentazione, insufficiente aggregazione dell'offerta, inesistenza di canali commerciali e di distribuzione capaci di veicolare le produzioni nazionali all'estero); non si ravvisano a tale proposito interventi significativi del Governo volti a facilitare l'accesso al credito da parte delle aziende del comparto primario né si registrano risultati significativi con riferimento alle azioni intraprese in sede comunitaria per favorire l'evoluzione della normativa europea in materia di etichettatura d'origine (unico strumento in grado di contrastare la contraffazione e l’italian sounding che costano miliardi di euro l'anno alla nostra economia).
  Con riferimento alla politica agricola comune e alla politica comune della pesca è necessario che l'Amministrazione competente provveda ad adottare nel più breve tempo possibile le norme attuative nazionali secondo quanto disposto dai regolamenti comunitari e con particolare attenzione ad evitare complicazioni burocratiche e procedurali a carico degli operatori del settore. Al medesimo fine risulta altresì urgente la razionalizzazione e la riforma complessiva degli enti partecipati dal ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, in particolare dell'organismo pagatore AGEA.
  Come previsto dalla riforma comunitaria, il sostegno allo sviluppo dell'interprofessione, segnatamente in alcuni settori, e l'incentivazione al ricorso a strumenti di gestione del rischio devono costituire punti programmatici fondamentali dell'azione di governo.
  Al fine di gestire la liberalizzazione che segue la cessazione del regime delle quote è indispensabile assicurare il più ampio sostegno al settore lattiero caseario anche attraverso l'introduzione dell'obbligo di indicare in etichetta il luogo dello stabilimento di produzione e confezionamento, la promozione dell'interprofessione e l'applicazione dell'articolo 62 del decreto-legge n. 1 del 2012 relativo ai contratti di cessione dei prodotti agricoli e alimentari.
  In considerazione dei continui danni agricoli provocati dalla fauna selvatica, la cui entità è da considerare una vera e propria emergenza, non si ravvisano interventi significativi volti ad assicurare risorse aggiuntive alla legge n. 157 del 1992.
  La gestione delle fitopatie e delle infestazioni che hanno colpito importanti produzioni nazionali quali la cinipide del castagno, la Xylella fastidiosa e la mosca dell'olio è apparsa estremamente critica e i ritardi con cui sono stati avviati i dovuti interventi stanno provocando danni irreversibili ad alcuni comparti eccellenti del nostro agroalimentare nazionale quali quello olivicolo-oleario.

  In conclusione, per i rilievi e le criticità suesposti si ritiene che il presente Documento necessita di molteplici aggiustamenti e impellenti integrazioni, che il Gruppo M5S provvederà a proporre in sede di esame della risoluzione.

Federico D'INCÀ
Relatore di minoranza.