Doc. XXIII, N. 23

COMMISSIONE PARLAMENTARE DI INCHIESTA SUL RAPIMENTO E SULLA MORTE DI ALDO MORO

(istituita con legge 30 maggio 2014, n. 82)

(composta dai deputati: Fioroni Giuseppe, Presidente; Bazoli Alfredo, Bolognesi Paolo, Carra Marco, Cominardi Claudio, Cozzolino Emanuele, D'Alessandro Luca, Distaso Antonio, Epifani Ettore Guglielmo, Galli Carlo, Garofalo Vincenzo, Garofani Francesco Saverio, Grande Marta, Grassi Gero, Guerini Lorenzo, Kronbichler Florian, Segretario, La Russa Ignazio, Lavagno Fabio, Minnucci Emiliano, Palladino Giovanni, Pastorelli Oreste, Pes Caterina, Piepoli Gaetano, Vicepresidente, Pini Gianluca, Pisicchio Pino, Pizzolante Sergio, Preziosi Ernesto, Sisto Francesco Paolo, Spessotto Arianna, Squeri Luca; e dai senatori: Bencini Alessandra, Buemi Enrico, Caliendo Giacomo, Cervellini Massimo, Compagna Luigi, Corsini Paolo, Cucca Giuseppe Luigi Salvatore, D'Ambrosio Lettieri Luigi, Di Biagio Aldo, Di Giorgi Rosa Maria, Fornaro Federico, Segretario, Gasparri Maurizio, Giovanardi Carlo, Gotor Miguel, Lanzillotta Linda, Lepri Stefano, Liuzzi Pietro, Lucidi Stefano, Manconi Luigi, Mangili Giovanna, Maturani Giuseppina, Migliavacca Maurizio, Montevecchi Michela, Morra Nicola, Naccarato Paolo, Pagliari Giorgio, Sposetti Ugo, Stefani Erika, Tarquinio Lucio Rosario Filippo, Vicepresidente, Tronti Mario).

RELAZIONE SULL'ATTIVITÀ SVOLTA

(Relatore: Giuseppe Fioroni, Presidente)

Approvata dalla Commissione nella seduta del 20 dicembre 2016

Comunicata alle Presidenze il 21 dicembre 2016

INDICE

I. Istituzione, costituzione e attività istruttorie della Commissione Pag. 7
1. La proroga della durata della Commissione » 7
2. Assetto organizzativo » 7
3. Le modalità di svolgimento dell'inchiesta » 8
4. Le acquisizioni documentali » 10
5. Gli accertamenti affidati ai collaboratori della Commissione o a strutture di polizia » 12
6. Le audizioni » 14
6.1. Il programma delle audizioni » 14
6.2. Le audizioni di testimoni della strage di via Fani » 15
6.3. Le audizioni di magistrati, funzionari di polizia e dei servizi » 25
6.4. Le audizioni di familiari e collaboratori di Moro » 33
6.5. Le audizioni relative al tema delle trattative » 38
6.6. Le audizioni relative alla scuola di lingue Hypérion » 45
6.7. Le audizioni relative alla scoperta della base di viale Giulio Cesare » 50
6.8. Le audizioni di studiosi » 52
II. I principali filoni di indagine sviluppati e le prime risultanze » 56
7. Premessa » 56
8. Le indagini su un possibile covo nell'area della Balduina » 56
8.1. La fuga da via Fani e l'abbandono delle auto » 57
8.2. Il furgone in via Savoia » 60
8.3. Le tracce ematiche » 60
8.4. L'edificio della Balduina » 63
8.5. Gli accertamenti nel periodo del sequestro » 64
8.6. Gli accertamenti successivi » 66
8.7. Le ipotesi della Commissione » 68
9. La vicenda Moro e i rapporti con i movimenti palestinesi » 68
9.1. L'allarme del colonnello Giovannone e la sua sottovalutazione » 69
9.2. La documentazione sul messaggio successiva al rapimento Moro » 72
9.3. La negazione dei rapporti tra BR e palestinesi dopo il sequestro Moro » 74
9.4. L'avvio di una trattativa durante il sequestro » 76
9.5. La decisiva fase di fine aprile » 78
9.6. Le lettere di Moro e il fallimento della trattativa » 80
9.7. I traffici di armi tra Italia e Medio Oriente » 87
9.8. Le indagini della Commissione » 89
10. Il Superclan e la scuola di lingue Hypérion » 93
10.1. Premessa » 93
10.2. La nascita del Superclan o «ditta» » 95
10.3. La rete estera di Hypérion » 102
10.4. La rete italiana del Superclan – Hypérion » 105
10.5. Conclusioni » 107
11. Morucci e Faranda dal sequestro Moro a viale Giulio Cesare » 109
11.1. La posizione di Morucci e Faranda e il loro «Memoriale » 109
11.2. Le trattative e il ruolo di Piperno » 110
11.3. L'assassinio di Moro » 115
11.4. L'uscita di Morucci e Faranda dalle Brigate rosse e la latitanza » 117
11.5. Le acquisizioni della Commissione sulla scoperta del rifugio di viale Giulio Cesare » 123
11.6. L'individuazione della fonte di polizia » 126
11.7. Giuliana Conforto e il suo arresto » 130
11.8. Giorgio Conforto » 133
11.9. Il possibile legame tra i covi di via Gradoli e viale Giulio Cesare » 135
11.10. Le ipotesi di un doppio livello e il nodo dell'Autonomia » 136
12. Gli approfondimenti sul bar Olivetti » 137
12.1. Lo stato degli approfondimenti » 137
12.2. L'inchiesta sul traffico internazionale di armi » 138
12.3. La vicenda processuale » 140
12.4. Gli accertamenti della Commissione e della Procura generale presso la Corte d'appello di Roma » 142
12.5. I rapporti tra Aldo Pascucci, Vinicio Avegnano e Tullio Olivetti » 144
12.6. La nota del SISMI del 30 maggio 1978 » 147
12.7. Gli incroci tra la ’ndrangheta e il traffico di armi » 149
12.8. Ipotesi di approfondimento » 153
13. Altri filoni oggetto di indagine » 154
13.1. La RAF e i rapporti con il terrorismo tedesco » 154
13.2. La criminalità organizzata » 157
14. Conclusioni » 161
Pag. 7

I. Istituzione, costituzione e attività istruttorie della Commissione

1. La proroga della durata della Commissione.

  1.1. La legge istitutiva della Commissione (legge 30 maggio 2014, n. 82) ha assegnato alla stessa il compito di accertare (articolo 1):
   a) eventuali nuovi elementi che possono integrare le conoscenze acquisite dalle precedenti Commissioni parlamentari di inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e sull'assassinio di Aldo Moro;
   b) eventuali responsabilità sui fatti di cui alla lettera a) riconducibili ad apparati, strutture e organizzazioni comunque denominati ovvero a persone a essi appartenenti o appartenute.

  La medesima legge ha stabilito per la Commissione un termine di ventiquattro mesi dalla propria costituzione, termine entro il quale è chiamata a presentare al Parlamento una relazione sulle risultanze delle indagini condotte (articolo 2, comma 1).
  Tale termine è stato prorogato al termine della XVII legislatura dall'articolo 12-bis del decreto-legge 30 dicembre 2015, n. 210, coordinato con la legge di conversione 25 febbraio 2016, n. 21.
  Anche se la norma di proroga non ha esplicitamente previsto una relazione sulle risultanze delle indagini condotte, è parso opportuno e doveroso dare conto delle numerose attività compiute e presentare un nuovo documento sull'attività svolta al Parlamento, analogamente a quanto era previsto dalla legge istitutiva per il primo anno di attività della Commissione.

  1.2. Nulla è stato innovato in relazione alla disciplina relativa all'organizzazione dei lavori, contenuta nella citata legge n. 82 del 2014. Tale disciplina, del resto, si allinea su quella generalmente prevista per le Commissioni parlamentari d'inchiesta, in ossequio all'articolo 82 della Costituzione.
  La dotazione finanziaria della Commissione è pari a 17.500 euro per gli anni 2014 e 2016 e a 35.000 euro per l'anno 2015. La Commissione ha improntato la sua attività a una linea di assoluta sobrietà, che ha consentito di disporre di significativi avanzi. Questi consentiranno di procedere ad alcune indagini specifiche e di compiere le missioni strettamente necessarie allo svolgimento dell'inchiesta parlamentare.

2. Assetto organizzativo.

  2.1. Con riferimento alle collaborazioni esterne, la legge istitutiva (articolo 7, comma 3) affida al regolamento interno anche il compito di stabilire il numero massimo di collaborazioni di cui la Commissione può avvalersi.
  La Commissione ha ritenuto di adeguarsi alla ratio della norma avvalendosi esclusivamente di collaborazioni a titolo gratuito, senza fissare un tetto e adeguando il numero delle collaborazioni esterne alla consistenza della documentazione da acquisire e alle competenze professionali che via via si rendono necessarie.Pag. 8
  Sino alla data di presentazione del presente documento sono stati conferiti venticinque incarichi di collaborazione, tutti a titolo gratuito: tre ufficiali di collegamento con le forze di polizia (Laura Tintisona, primo dirigente della Polizia di Stato, Leonardo Pinnelli, colonnello dei Carabinieri, Paolo Occhipinti, colonnello della Guardia di finanza), sette magistrati (Gianfranco Donadio, Guido Salvini, Antonietta Picardi, Massimiliano Siddi, Antonia Giammaria; Paolo D'Ovidio e Carlo Mastelloni, la cui collaborazione si è perfezionata nell'ultimo anno di attività) e quindici tra esperti in discipline di interesse e ufficiali di polizia giudiziaria (i generali dei Carabinieri in quiescenza Giovanni Bonzano, Pellegrino Costa e Paolo Scriccia; il tenente colonnello dei Carabinieri Massimo Giraudo; i marescialli Marco Mezzetti e Danilo Pinna, appartenenti all'Arma dei carabinieri; i sostituti commissari della Polizia di Stato Maurizio Sensi e Cinzia Ferrante; il sovrintendente della Polizia di Stato in quiescenza Pier Salvatore Marratzu; il dottor Angelo Allegrini; il professor Sabino Aldo Giannuli; l'avvocato Nunzio Raimondi; il maggiore Paride Minervini e il sottufficiale dei Carabinieri Pasquale Cicalese, la cui collaborazione si è perfezionata nell'anno in corso).
  Tutti i suddetti incarichi sono a tempo parziale, ad eccezione degli incarichi affidati ai tre ufficiali di collegamento e al dottor Donadio, che sono a tempo pieno.
  A tutti i collaboratori si applicano i criteri stabiliti nella riunione dell'Ufficio di presidenza, integrata dai rappresentanti dei gruppi, del 15 aprile 2015, in esecuzione delle disposizioni dell'articolo 23, comma 2, del Regolamento interno della Commissione.

  2.2. La deliberazione sul regime di divulgazione degli atti e dei documenti acquisiti o prodotti, approvata nella riunione dell'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, del 14 ottobre 2014, individua tre tipologie di atti: gli atti segreti, che non possano essere riprodotti e sono consultabili solo dai componenti e dai collaboratori all'interno dell'archivio (articolo 1); gli atti riservati, che possono essere riprodotti solo a beneficio dei componenti e dei collaboratori della Commissione, previa autorizzazione del presidente (articolo 2); gli atti liberi, che possono essere riprodotti, previa richiesta scritta (articolo 3).
  L'intero archivio della Commissione è digitalizzato e gli atti richiesti, se riservati, sono consegnati in formato digitale e vengono numerati, cifrati e protetti da un certificato informatico, in modo da consentire l'identificazione del soggetto al quale essi sono destinati.
  La disponibilità degli atti, anche più risalenti, in formato elettronico consentirà, al termine delle procedure di declassifica, di mettere a disposizione gli atti formati dalla Commissione che non siano in relazione a indagini in corso o per la quale non si ravvisino persistenti motivi di riservatezza.

3. Le modalità di svolgimento dell'inchiesta.

  3.1. Come è stato evidenziato nel primo documento sull'attività svolta, la Commissione ha assunto come primo punto di riferimento per la sua attività di inchiesta il complesso di accertamenti ed indagini Pag. 9già svolte dall'autorità giudiziaria e dalle precedenti Commissioni parlamentari di inchiesta: la Commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia («prima Commissione Moro»), istituita nella VIII Legislatura con legge 23 novembre 1979, n. 597; la Commissione parlamentare d'inchiesta sui risultati della lotta al terrorismo e sulle cause che hanno impedito l'individuazione dei responsabili delle stragi, istituita nella IX Legislatura con deliberazioni della Camera dei deputati del 16 e del 23 ottobre 1986; la Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi «Commissione Stragi»), istituita nella X Legislatura con legge 17 maggio 1988, n. 172, e successivamente ricostituita nella XI Legislatura con legge 23 dicembre 1992, n. 499, prorogata nella XII Legislatura con legge 19 dicembre 1995, n. 538 e ulteriormente prorogata nella XIII Legislatura con legge 20 dicembre 1996, n. 646; la Commissione parlamentare d'inchiesta sulla loggia massonica P2, istituita nella VIII Legislatura con legge 23 settembre 1981, n. 527, e prorogata nella IX Legislatura con legge 1o ottobre 1983, n. 522; la Commissione parlamentare d'inchiesta concernente il « dossier Mitrokhin» e l'attività d’intelligence italiana, istituita nella XIV Legislatura con legge 7 maggio 2002, n. 90.
  L'attività delle precedenti Commissioni è stata sottoposta a un complessivo riesame, che si è sostanzialmente concluso nell'anno in corso.
  Tale riesame ha consentito di individuare la presenza di piste investigative non adeguatamente valorizzate nelle indagini svolte a suo tempo e di avviare una complessiva riconsiderazione della vicenda Moro, sia attraverso approfondimenti di tipo documentale sia tramite l'acquisizione di nuove testimonianze sia anche tramite l'impiego, nelle indagini, di moderne tecnologie e nuove tecniche di indagine, non disponibili in precedenza.
  Gli elementi acquisiti non consentono ancora una rilettura complessiva della vicenda Moro, ma evidenziano importanti novità rispetto a numerose tematiche, che saranno illustrate nel presente documento. Al termine di questo secondo anno di attività (001), la Commissione intende dunque procedere con la maggiore rapidità possibile alle ulteriori acquisizioni e indagini in modo da presentare, al termine dei lavori, un riesame completo del complesso delle questioni legate al rapimento e all'omicidio di Aldo Moro.

  3.2. Nello svolgimento della propria attività, la Commissione ha mantenuto un rapporto di collaborazione con l'autorità giudiziaria. In diverse occasioni ha ritenuto di segnalare tempestivamente – in ossequio al principio costituzionale di leale cooperazione tra poteri dello Stato – a diversi uffici giudiziari, per l'eventuale seguito di competenza, elementi emersi nello svolgimento dell'inchiesta parlamentare. Pag. 10In altri casi, l'autorità giudiziaria ha trasmesso alla Commissione le risultanze di indagini compiute.
  Tale collaborazione si è realizzata soprattutto con la Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Roma e con la Procura generale presso la Corte d'appello di Roma – ciascuna delle quali è tuttora titolare di indagini concernenti il caso Moro – e con la Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Reggio Calabria, per i temi relativi a un possibile ruolo della ’ndrangheta nella vicenda Moro.

  3.3. In questa seconda fase della sua attività la Commissione ha affiancato la ricerca e individuazione di elementi giuridicamente apprezzabili anche in sede giudiziaria – tramite l'acquisizione di sommarie informazioni testimoniali e l'esecuzione di accertamenti irripetibili – con un attento lavoro di ricomposizione delle molte e diverse fonti documentali, di natura sia libera sia classificata, conservate in una pluralità di strutture. Ciò nella convinzione che solo l'incrocio tra le attività di indagine propriamente dette e la sistematica rilettura di documentazione dispersa tra una pluralità di soggetti di conservazione e spesso priva di sufficienti strumenti di corredo possa produrre un reale avanzamento delle conoscenze sulla vicenda Moro.

  3.4. Le attività istruttorie svolte dalla Commissione possono ricondursi a tre principali tipologie:
   a) acquisizioni documentali;
   b) accertamenti affidati ai collaboratori della Commissione o a strutture di polizia;
   c) libere audizioni.

  Nei paragrafi 4, 5 e 6 si esporrà una sintetica panoramica delle attività istruttorie realizzate. Nella seconda parte si esporranno le risultanze emerse in alcuni specifici e più significativi filoni di inchiesta.

4. Le acquisizioni documentali.

  4.1. L'articolo 5 della legge istitutiva attribuisce alla Commissione la facoltà di disporre l'acquisizione di atti e documenti:
   a) relativi a procedimenti e inchieste in corso presso l'autorità giudiziaria o altri organi inquirenti, anche in deroga al divieto stabilito dall'articolo 329 del codice di procedura penale (comma 3);
   b) relativi a indagini e inchieste parlamentari (comma 3);
   c) custoditi, prodotti o comunque acquisiti da organi e uffici della pubblica amministrazione (comma 5).

  Sulla documentazione così acquisita la Commissione garantisce il mantenimento del regime di segretezza fino a quando gli atti e i documenti trasmessi siano coperti da segreto (comma 4).
  La Commissione, avvalendosi dei poteri dell'autorità giudiziaria che le sono attribuiti dall'articolo 82 della Costituzione e confermati Pag. 11dall'articolo 5, comma 1, della legge istitutiva può, infine, disporre l'esibizione e l'acquisizione di documenti formati o custoditi da soggetti privati.
  Occorre a questo proposito sottolineare che la situazione della documentazione è estremamente complessa, sia per la pluralità di istituzioni che detengono documenti di interesse, sia per la natura della documentazione stessa, che è stata interessata negli ultimi anni da significativi processi di declassifica e versamento agli Archivi di Stato. Di conseguenza, per ogni tematica affrontata si è fatto ricorso sia a documentazione ormai declassificata e comunemente consultabile sia a complessi documentari che mantengono classifiche di riservatezza o di segretezza.

  4.2. Mentre nel corso del primo anno di attività la Commissione ha acquisito integralmente interi complessi documentali di interesse, tra i quali i documenti acquisiti o formati dalle precedenti Commissioni di inchiesta, nel secondo anno di attività si è proceduto a acquisizioni mirate di documentazione di interesse sia da organi dello Stato sia da enti pubblici e privati, sulla base delle tematiche e delle questioni che via via sono emerse nel corso dell'inchiesta. Nel complesso la documentazione acquisita tra il 4 novembre 2015 e il 1o dicembre 2016 ammonta a circa 100.000 pagine.
  Tale patrimonio documentale – sulla base di quanto disposto al n. 2) della deliberazione di acquisizione e informatizzazione di atti e documenti approvata dall'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, nella riunione del 21 ottobre 2014 – è stato integralmente digitalizzato e indicizzato a cura del personale del Nucleo delle Commissioni parlamentari di inchiesta della Guardia di finanza addetto alla tenuta dell'archivio della Commissione, nonché del personale del medesimo Nucleo addetto all'archivio informatico delle Commissioni parlamentari d'inchiesta.
  Grazie a questa rilevante e impegnativa attività è possibile disporre di un cospicuo patrimonio documentale, ricercabile attraverso il semplice uso di chiavi testuali, che potrà essere progressivamente messo a disposizione dei cittadini, ove non ostino vincoli di riservatezza o segretezza. A seguito della presentazione del presente documento si procederà a una prima declassificazione di atti formati dalla Commissione utilizzati o richiamati nello stesso.

  4.3. Un primo ambito di acquisizioni documentali ha riguardato materiali già acquisiti da precedenti Commissioni parlamentari, non strettamente appartenenti a filoni di indagine relativi alla vicenda Moro. Si tratta, in particolare, di documenti già acquisiti dalla Commissione Mitrokhin e dalla Commissione Stragi conservati presso l'Archivio storico del Senato della Repubblica, che integrano le acquisizioni già compiute nel primo anno di attività.

  4.4. Particolare rilievo ha avuto l'acquisizione in copia digitale di documentazione classificata degli archivi dell'AISE, dell'AISI e del DIS, relativa a numerosi filoni di ricerca. La Commissione ha potuto in questo ambito, grazie alla collaborazione delle strutture incaricate della sicurezza della Repubblica, visionare e acquisire cospicua documentazione che integra quella già oggetto di procedure di Pag. 12declassifica e versamento all'Archivio centrale dello Stato. In un caso, la Commissione ha visionato documentazione classificata come «segretissima» che ha ritenuto di non acquisire in quanto non rilevante per l'oggetto dell'inchiesta parlamentare.

  4.5. Un terzo importante ambito di acquisizioni ha riguardato gli atti giudiziari concernenti le indagini svolte con diretto riferimento al sequestro e all'omicidio di Aldo Moro o a vicende connesse o comunque di interesse.
  In questo ambito la principale acquisizione documentale è stata, dal punto di vista quantitativo, un'ampia selezione degli atti del cosiddetto «processo Pecorelli», selezionata da consulenti della Commissione. Ulteriori acquisizioni hanno riguardato documentazione di interesse già emersa nei processi sulla strage di Bologna e sulla strage di Brescia, la documentazione relativa alle Brigate rosse reperita nel luglio 2016 presso il Policlinico di Milano. Sebbene deliberata e avviata, non è stato possibile portare a termine l'acquisizione degli atti del cosiddetto processo «Abu Ayad», conservati presso gli archivi del Tribunale di Venezia, a causa delle condizioni di conservazione degli stessi.

  4.6. Oltre agli atti parlamentari e giudiziari, altre attività di acquisizione hanno interessato documenti detenuti da organi e uffici della pubblica amministrazione, nonché da privati.
  In questo ambito si segnala l'acquisizione in copia, a seguito di versamento da parte del Ministero della difesa, della documentazione riguardante il rapimento e la morte di Aldo Moro prodotta dal Comando generale dell'Arma dei carabinieri e di quella inoltrata da diversi comandi interregionali. È stata inoltre acquisita la documentazione sulla tipografia di via Pio Foà reperita nel deposito Appio, nonché altra documentazione di Polizia relativa a diversi temi.

  4.7. Quanto ai soggetti privati, si ricorda, tra le altre:
   a) l'acquisizione di documentazione presso l'Istituto Luigi Sturzo (Fondo Piccoli, Fondo Granelli, Archivio Andreotti) e la Fondazione Gramsci (Fondo Pecchioli);
   b) l'acquisizione, tuttora in corso di esecuzione, di materiale fotografico relativo alla strage di via Fani e all'omicidio di Aldo Moro custodito negli archivi di giornali o di agenzie di stampa (ANSA, AGI e Associated Press). Si ricorda, in particolare, l'acquisizione di documentazione fotografica del quotidiano «Il Tempo» e di 395 reperti fotografici dell'AGI;
   c) l'acquisizione del materiale audio e video sul caso Moro prodotto o acquisito dalla RAI, tra cui i filmati dei telegiornali del periodo di interesse.

5. Gli accertamenti affidati ai collaboratori della Commissione o a strutture di polizia.

  5.1. Una seconda, tipologia di attività istruttorie si è basata nell'affidamento di accertamenti di varia natura a collaboratori della Commissione o a strutture di polizia.Pag. 13
  Complessivamente, sino alla data di approvazione della presente relazione sono stati affidati oltre 230 incarichi.
  Gli accertamenti delegati sono di varia natura. Statisticamente il maggior numero di essi ha riguardato l'assunzione di sommarie informazioni testimoniali da persone al corrente dei fatti o approfondimenti documentali, anche finalizzati all'acquisizione di atti. A queste due tipologie si aggiunge l'esecuzione di accertamenti tecnici, anche irripetibili, delegati alla Polizia scientifica o al RIS di Roma.
  Complessivamente, tra il 5 novembre 2015 e il 1o dicembre 2016, sono state realizzate 96 escussioni, che hanno riguardato numerose tematiche: la dinamica della strage di via Fani e gli eventi legati alla fuga dei brigatisti e all'abbandono delle automobili da essi usate in via Licinio Calvo; gli approfondimenti relativi alla possibile presenza di un covo brigatista nell'area della Balduina; la verifica, attraverso l'incrocio delle testimonianze, di affermazioni rese in audizione da diversi soggetti; l'approfondimento della tematica relativa ai contatti operativi tra Brigate rosse e RAF; il riesame della figura e del ruolo di Toni Chichiarelli; gli approfondimenti relativi alle modalità di scoperta dell'appartamento di viale Giulio Cesare in cui trovarono rifugio Valerio Morucci e Adriana Faranda; l'escussione di soggetti coinvolti, a vario titolo, nei tentativi di trattativa con i brigatisti e nella circolazione delle lettere di Moro; il presunto coinvolgimento di organizzazioni criminali nei tentativi di individuare il luogo di prigionia di Aldo Moro; l'approfondimento delle tematiche relative alle armi in uso alle Brigate rosse.
  Va sottolineato che anche nel secondo anno di attività della Commissione alcune delle persone escusse non erano mai state ascoltate in precedenza dall'autorità giudiziaria o in sede parlamentare.

  5.2. Sono stati disposti accertamenti tecnici, mirati, delegati alla Polizia scientifica o al RIS di Roma, sia su reperti relativi alla scena del crimine di via Fani, sia su reperti relativi all'omicidio di Aldo Moro, nonché su materiale sequestrato nel corso delle indagini – quali ad esempio quello del covo di via Gradoli – al fine di ricavare, avvalendosi delle più recenti tecnologie, elementi utili alle indagini in precedenza non acquisibili.
  In particolare, è in corso un'attività volta alla attribuzione dei profili genetici che sono stati isolati da mozziconi di sigaretta che erano stati sequestrati all'interno della Fiat 128 familiare con targa CD, utilizzata dagli attentatori per arrestare la marcia dell'auto che ospitava l'onorevole Aldo Moro.
  Allo stato, si è accertato, tramite l'estrapolazione del profilo genetico dei figli del proprietario dell'autovettura in questione e la successiva comparazione, che uno degli otto profili è certamente riconducibile al signor Aldo Miconi, originario proprietario dell'autovettura.
  Anche dai reperti del covo di via Gradoli sono stati estrapolati quattro profili genetici: due riconducibili a persone di sesso maschile e due di sesso femminile.
  La Commissione, quindi, ha individuato alcuni soggetti coinvolti nei fatti ed ha delegato la Polizia ad interpellarli per verificarne ladisponibilità Pag. 14a sottoporsi ad un prelievo biologico, da cui ricavare i profili genetici da comparare.
  I brigatisti individuati e, in caso di latitanti o deceduti, i loro prossimi congiunti sono stati tutti rintracciati; alcuni hanno prestato il loro consenso a sottoporsi al prelievo.
  È stata inoltre effettuata, sempre con l'ausilio delle più moderne tecnologie, una attività finalizzata a rilevare eventuali tracce genetiche nella Rénault 4 che fu utilizzata dai brigatisti per trasportare il corpo del Presidente Aldo Moro in via Caetani.
  Come è noto, l'autovettura in questione ha subito nel corso degli anni pesanti interventi di pulitura, ristrutturazione e restauro, anche con la sostituzione di alcune parti. È stato possibile estrapolare alcune tracce di profilo DNA, delle quali, tuttavia, non è stato possibile stabilire l'origine ematica, né, a causa del decorso del tempo e degli interventi esterni, avere certezza della non riconducibilità a eventi esterni di inquinamento.
  Un altro reperto oggetto di accertamenti è una pistola semiautomatica marca Beretta, modello 70, calibro 7.65 Browning, che fu sequestrata nel covo di via Gradoli e non risulta essere mai stata sottoposta a perizia balistica. Sono state quindi disposte dalla Commissione le opportune comparazioni con bossoli e proiettili del medesimo calibro rinvenuti in via Fani, ma gli accertamenti hanno avuto esito negativo.
  Sono in corso inoltre accertamenti di natura balistica relativi alle modalità dell'uccisione di Moro, le cui risultanze saranno rese disponibili a breve.
  Sono state delegate al RIS di Roma attività di comparazione antroposomatica relative a persone che compaiono in fotografie scattate a via Fani a breve distanza dall'attacco brigatista, allo scopo di verificare la eventuale presenza, sulla scena del crimine, di esponenti della criminalità organizzata.
  Infine, sono stati affidati allo SCICO della Guardia di finanza accertamenti relativi a persone e società immobiliari o finanziarie di interesse dell'inchiesta.

6. Le audizioni.

6.1. Il programma delle audizioni.

  Nel definire il programma delle audizioni svolte nel periodo di riferimento, la Commissione ha ritenuto di concentrare la propria attenzione su sei principali aree di interesse:
   a) l'approfondimento delle testimonianze relative alla dinamica dell'agguato di via Fani già oggetto di escussioni effettuate da collaboratori della Commissione;
   b) l'audizione di magistrati, dirigenti di forze di polizia e dei Servizi, in relazione alle attività compiute nel corso della vicenda Moro;
   c) l'acquisizione di testimonianze di persone particolarmente vicine ad Aldo Moro;
   d) l'approfondimento del tema delle trattative tentate per ottenere il rilascio di Aldo Moro;Pag. 15
   e) la scuola di lingua Hypérion e le indagini svolte al riguardo;
   f) l'approfondimento della vicenda di Valerio Morucci e Adriana Faranda e del loro arresto;
   g) l'analisi dei risultati di ricerche e approfondimenti condotti da alcuni studiosi del caso Moro.

  In diversi casi, persone che l'Ufficio di presidenza aveva convenuto di ascoltare in audizione hanno preferito declinare l'invito della Commissione, ritenendo di non poter aggiungere nulla a quanto già in atti o comunicando di non essere in condizioni fisiche tali da poter partecipare ad un'audizione.

6.2. Le audizioni di testimoni della strage di via Fani

  6.2.1. La Commissione ha proceduto all'audizione di numerose persone, in prevalenza agenti di Polizia, che furono, per ragioni di servizio o casualmente, in via Fani durante la strage o nei momenti immediatamente successivi. Molte di esse erano state già escusse su delega della Commissione, ma si è ritenuto preferibile assumere nuovamente le loro dichiarazioni in audizione, allo scopo di approfondire una serie di temi già affrontati nella prima relazione: il numero dei terroristi presenti e la dinamica dell'agguato; l'arrivo delle forze di polizia; la scomparsa di rullini fotografici; le vie di fuga usate dai brigatisti e l'abbandono delle auto in via Licinio Calvo.
  Il 6 aprile 2016 si è svolta l'audizione di Emidio Biancone, ex agente di polizia che nel 1978 svolgeva la funzione di autista del capo della DIGOS di Roma, Domenico Spinella, e che era già stato sentito da consulenti della Commissione. L'audizione ha riguardato soprattutto gli orari di partenza e di arrivo di Spinella in via Fani.
  Rispondendo a quesiti del Presidente e di altri commissari, Biancone ha ricordato che il 16 marzo 1978 giunse, come di consueto, in Questura, per poi recarsi a prelevare Spinella presso l'abitazione di quest'ultimo e rientrare in Questura alle 8-8.15. Biancone ha poi dichiarato che, mentre si trovava nel cortile della Questura insieme a altri colleghi, Enrico Correale, segretario di Spinella, lo chiamò a gran voce da una finestra per dirgli di preparare in fretta l'automobile di servizio per un'immediata partenza. Nel corso dell'audizione Biancone ha manifestato diverse incertezze sull'orario di partenza dalla Questura, tendendo a collocarlo «dopo le 8.40-8.45», e sulla durata del tragitto. Ha comunque chiarito che fu necessario utilizzare l'Alfasud di colore giallo assegnata al dottor Giancristofaro poiché quella di Spinella era bloccata da altri veicoli della Polizia. Ha dichiarato che sull'automobile salirono Spinella e Giancristofaro e ha aggiunto di non ricordare la presenza di Correale.
  Ha affermato che inizialmente Spinella gli diede indicazione di dirigersi in direzione Trionfale e che, dopo aver percorso qualche centinaio di metri da via di San Vitale, ascoltò dalla radio di servizio che la Sala operativa della Questura aveva disposto l'intervento di alcune autoradio in via Fani, disciplinando l'afflusso in zona, per non saturare l'area. Biancone ha dichiarato che, dopo questa comunicazione, si diresse in via Fani, su disposizione di Spinella, percorrendo Pag. 16via Nazionale, piazza Venezia, corso Vittorio Emanuele, via della Traspontina, piazzale Clodio, via Trionfale, via Igea, via Fani. Nel tragitto, compiuto a tratti con l'uso della sirena, non ascoltò nessun commento formulato dai funzionari che erano con lui.
  Per quanto riguarda la scena del crimine di via Fani, Biancone ha ricordato che, appena giunto nella strada, notò una volante della Polizia all'incrocio tra via Fani e via Stresa, fermò l'autovettura nei pressi del bar Olivetti e rimase poi in via Fani per molto tempo poiché il suo automezzo rimase bloccato dalle operazioni di sopralluogo dell'area svolte dalla Polizia scientifica. Ha riferito di non ricordare l'orario di arrivo del questore De Francesco, né la presenza di un'autoambulanza, né se il bar Olivetti fosse aperto; ha aggiunto di aver appreso, dopo un certo tempo, che un collega ferito era stato prelevato da un'autoambulanza. Ha riferito inoltre di aver notato la presenza di un ciclomotore davanti alla sua autovettura, parcheggiata a pochi metri da una Mini Minor.
  A fronte di numerosi quesiti sugli orari di partenza dalla Questura, Biancone ha ribadito che la comunicazione dalla Sala operativa che indicava precisamente via Fani come luogo dell'attacco terroristico giunse non molto dopo che l'automobile da lui guidata aveva lasciato la Questura, quando era all'altezza della caserma dei vigili del fuoco di via Nazionale. Ha inoltre precisato che, anche se Spinella non gradiva l'uso della sirena, quella mattina fu utilizzata – di sua iniziativa o, come ha successivamente affermato, forse su indicazione di Spinella – dopo aver percorso una parte del tragitto.
  Rispondendo a ulteriori quesiti, Biancone ha infine precisato che parcheggiò l'Alfasud sul lato di via Fani per non ostacolare i soccorsi e che in quell'occasione egli vestiva in abiti borghesi.

  6.2.2. Nella seduta del 13 aprile 2016 si è svolta l'audizione dell'ex agente Giovanni Intrevado, all'epoca dei fatti in servizio presso il I Reparto Celere della Polizia di Stato, che fu casuale testimone degli avvenimenti del 16 marzo 1978 a via Fani.
  Come aveva già affermato in sede di escussione, Intrevado ha dichiarato che, nel momento in cui si svolgeva l'attacco brigatista, egli giunse casualmente con la sua automobile all'incrocio tra via Fani e via Stresa dove notò una donna che imbracciava un'arma automatica, impedendo l'accesso dei mezzi a via Fani. Pur avendo una pistola in automobile, non riuscì a intervenire e rimase fermo fino alla fine dell'attacco.
  Poté vedere il momento in cui Aldo Moro fu fatto salire da due persone in divisa dell'Aeronautica o dell'Alitalia sull'autovettura impiegata nella fuga, nonché il sopraggiungere di una motocicletta con due giovani armati a bordo, che transitò a bassa velocità e girò poi in via Stresa, dove pochissimi minuti prima si erano dirette le auto dei brigatisti.
  Rispondendo ai quesiti dei commissari, Intrevado ha fornito alcuni dettagli sulla corporatura delle due persone in moto, pur dichiarando di non avere ricordi precisi sulle loro fisionomie, ha precisato di non aver visto sopraggiungere alcuna Alfasud di colore giallo e di aver assistito all'arrivo di un'auto della Polizia con due agenti, ai quali Intrevado manifestò la volontà di cooperare, facendosi consegnare una Pag. 17paletta da segnalazione per regolare il traffico. Nel complesso, Intrevado rimase, secondo le sue dichiarazioni, circa 10-15 minuti sulla scena del crimine, prima di allontanarsi con la paletta che gli era stata consegnata. Quando egli lasciò via Fani, la strada non era ancora affollata, ma si registrava solo la presenza della citata auto della Polizia e di alcuni curiosi. Solo dopo diversi giorni, all'inizio di aprile, Intrevado confidò questo episodio al suo comandante, Gaudenzio Truzzi, che stese una relazione di servizio. In tale occasione non menzionò di aver asportato la paletta, circostanza che tacque e che ha rivelato per la prima volta nell'audizione.

  6.2.3. Nella seduta del 21 aprile 2016 si è svolta l'audizione di Renato Di Leva, ex agente di Polizia, che giunse in via Fani nei minuti immediatamente successivi all'attacco brigatista, quando Moro era stato ormai portato via.
  Riprendendo le dichiarazioni testimoniali rese a collaboratori della Commissione – che hanno modificato in punti non secondari quanto riferito nella relazione di servizio che egli sottoscrisse nel 1978 – Di Leva ha riferito che il 16 marzo 1978, mentre era fuori servizio, si trovò casualmente a transitare in via Stresa su un'autovettura che gli era stata prestata da un conoscente di cui non ricorda il nome, quando fu superato da una volante della Polizia con tre uomini a bordo, che, per la velocità sostenuta e i segnali acustici inseriti, riteneva fosse impegnata in un intervento. Tale affermazione modifica quanto Di Leva aveva affermato nella relazione di servizio sottoscritta nel 1978, nella quale si parlava di una volante con solo due poliziotti a bordo.
  Di Leva ha dichiarato di essersi posto dunque in scia per prestare supporto ai colleghi e di aver potuto osservare, una volta sceso dall'autovettura all'incrocio tra via Fani e via Stresa, la scena del crimine. Ha affermato di non aver visto motociclette, ma di aver notato alcune persone che salivano su una Fiat 128 che si allontanava rapidamente. Rispetto alla relazione di servizio del 1978 ha inoltre aggiunto di aver visto una seconda auto della Polizia, che si allontanò rapidamente, dopo che l'equipaggio ebbe conferito con i colleghi giunti in precedenza.
  Di Leva ha riferito di essere stato avvicinato – in una fase temporalmente non molto lontana dal suo arrivo in via Fani, prima cioè che l'ambulanza soccorresse il brigadiere Zizzi – da due colleghi, che gli comunicarono l'indicazione di recarsi in Questura per ordine del dottor Spinella. Ha dichiarato di aver ottenuto invece di recarsi al policlinico Gemelli – forse con l'ambulanza che portava Zizzi o forse con altro mezzo – e di essere stato lì visitato per lo choc subito. Solo dopo, secondo quanto ha affermato, si recò in Questura dove sottoscrisse la relazione poi messa agli atti della prima Commissione Moro. Su tutti questi elementi, peraltro, Di Leva ha, nel corso dell'audizione, rettificato più volte il suo ricordo.
  Numerose domande hanno riguardato le difformità tra la relazione di servizio del 1978 e quanto successivamente dichiarato, nonché la presenza agli atti di più copie con identico testo della relazione, tra le quali una di cui Di Leva ha – nel corso dell'audizione – disconosciuto la firma. In proposito Di Leva ha richiamato le Pag. 18condizioni di nervosismo in cui si trovava e ha dichiarato che la relazione fu scritta dai colleghi della DIGOS e che egli la firmò praticamente senza rileggerla. Di Leva ha infine chiarito che non vide, sulla scena del crimine, una persona con una paletta, né la presenza di un'Alfasud né notò se il bar Olivetti fosse aperto o chiuso.

  6.2.4. Il 17 maggio 2016 si è svolta l'audizione di Marco Liberato Di Berardino, sostituto commissario della Polizia di Stato, che, come risulta dalle precedenti inchieste, è stato insieme al suo collega Nunzio Sapuppo il primo appartenente alle forze di polizia a intervenire in via Fani.
  Di Berardino ha ricostruito la sequenza degli avvenimenti, sin da quando, intorno alle ore 9, la sua autoradio, appartenente al commissariato di Monte Mario e in servizio di vigilanza all'abitazione del giudice Celentano in via Bitossi, ricevette l'indicazione di intervenire prontamente in via Fani. Di Berardino ha riferito di aver visto una ventina di curiosi, raccolti intorno alla scena del crimine. Ha invece dichiarato di non ricordare la presenza di un altro poliziotto, in borghese, in lacrime, del quale invece aveva parlato in dichiarazioni rese al giudice Imposimato nel 1978.
  Rispondendo alle domande del Presidente, Di Berardino ha precisato che lui e il suo collega acquisirono immediatamente le informazioni sulle auto utilizzate dai brigatisti e sulla loro via di fuga e le trasmisero alla Sala operativa della Questura, precisando che non notò la presenza di altre auto della Polizia postesi all'inseguimento dei fuggitivi.
  L'audito ha poi ricordato di aver tentato di prestare soccorso al brigadiere Zizzi e, resosi conto delle condizioni del collega, di aver chiesto l'intervento di un'ambulanza; ha rievocato il rapido sopraggiungere in via Fani di più autoradio dei Carabinieri, di una volante della Polizia, nonché l'intervento del dirigente del Commissariato Monte Mario, Enrico Marinelli. Ha dichiarato di non avere alcuna memoria della presenza di personale della DIGOS, né della presenza – riferita da Gherardo Nucci – di un giovane con una paletta in mano che impediva alle vetture in circolazione la svolta in via Fani, né della presenza – riferita da Bruno Barbaro – di una persona di bassa statura con soprabito chiaro che, scesa da un'Alfa Romeo di vecchio tipo, aveva fatto allontanare i presenti.
  Di Berardino ha poi dichiarato di ricordare che il bar Olivetti era chiuso e ha precisato che la richiesta dell'intervento dell'autoambulanza fatta alla Sala operativa venne da lui effettuata utilizzando la radio collocata davanti al sedile in cui si trovava Zizzi. Ha infine affermato di non aver ricevuto il 16 marzo o nei giorni precedenti particolari attivazioni di allarme per un possibile sequestro, di non ricordare di essere stato avvicinato da colleghi della DIGOS, di non aver notato una Mini Minor parcheggiata dinanzi al bar Olivetti e di non aver mai commentato, né nel corso di riunioni operative né tra colleghi, la circostanza dei ritrovamenti, a poche ore di distanza l'uno dall'altro, delle autovetture utilizzate dai brigatisti in via Licinio Calvo.

  6.2.5. Il 25 maggio 2016 è stato audito Nunzio Sapuppo, capoequipaggio e autista dell'auto del commissariato Monte Mario, che, Pag. 19insieme al suo collega Marco Liberato Di Berardino, fu il primo agente a intervenire in via Fani. Anche in questo caso, oggetto della dinamica è stata la ricostruzione della scena di via Fani.
  Sapuppo ha confermato di essere intervenuto in via Fani intorno alle 9, su indicazione della Sala operativa della Questura di Roma, mentre svolgeva un servizio di vigilanza radiocollegata alle abitazioni di alcune personalità residenti in zona, in particolare il giudice Celentano, residente in via Bitossi. In proposito ha precisato che il commissariato Monte Mario impiegava una volante in servizio durante l'intera giornata e che talvolta il personale del commissariato svolgeva attività anche a bordo di autovetture con colori civili, assegnate alla sezione giudiziaria. La zona di Monte Mario era inoltre controllata da un'altra volante, direttamente dipendente dalla Questura, attiva su un'area più vasta, che abbracciava i territori anche di più commissariati. Per gli interventi, tutte le autoradio, comunque, venivano gestite dalla Sala operativa della Questura.
  Sapuppo ha poi fornito numerose indicazioni sulle sue azioni in via Fani. Ha ricordato che, dopo aver raggiunto la strada in pochi minuti, azionando i segnali acustici e luminosi, e dopo essere sceso dall'auto, notò il sopraggiungere, quasi immediato, di un'auto dei Carabinieri, di cui non ricorda la direzione di provenienza. Ha riferito di essersi soffermato sugli agenti caduti e di aver notato che il caposcorta, all'interno dell'Alfetta, ancora respirava.
  Ha anche osservato che, in quelle fasi concitate, dopo una momentanea incertezza su come prestare aiuto ai feriti, si collegò con la Sala operativa e chiese l'intervento di un'autoambulanza, utilizzando la radio in dotazione all'automobile con cui era giunto in via Fani. Nessun ricordo ha invece circa le azioni del collega Di Berardino.
  Rispondendo a quesiti del Presidente e di alcuni commissari, Sapuppo ha fornito ulteriori precisazioni. Ha detto che, anche se la relazione di servizio – come gli è stato comunicato – reca solo la firma di Di Berardino, erano comunque presenti tutti e due.
  Ha affermato che la scena del crimine era gremita da curiosi, certamente più di una ventina di persone; che non ricorda di aver notato i particolari descritti nella dichiarazioni di Giovanni Intrevado e di Renato Di Leva, ma che rammenta che conosceva il figlio del giornalaio di via Fani, Paolo Pistolesi. Nessun ricordo ha espresso su quanto dichiarato nel 1978 circa la presenza in via Fani di un agente di polizia in borghese, in forte stato di agitazione. Quanto alla vicenda della possibile cessione della paletta segnaletica in dotazione, Sapuppo ha escluso che la stessa sia stata consegnata a qualche collega ovvero sia stata dichiarata smarrita.
  Sapuppo ha, in particolare, ribadito che, dopo essersi accertato che uno degli agenti della scorta di Moro, il brigadiere Zizzi, era ancora vivo, tornò alla volante per chiamare la Sala operativa e far intervenire un'ambulanza, mentre Di Berardino rimaneva nei pressi dell'Alfetta e teneva lontano i curiosi fino all'arrivo del personale sanitario, consentendo solo ai colleghi via via sopraggiunti di avvicinarsi a Zizzi. Sapuppo ha inoltre dichiarato di non ricordare la presenza di alcuna Alfasud di colore chiaro e di non conoscere il dirigente della DIGOS, Domenico Spinella.Pag. 20
  Ha infine dichiarato di non ricordare nulla in merito al bar Olivetti e di non avere memoria di quanto riferito a suo tempo da Gherardo Nucci, circa la presenza di un giovane con una paletta in mano che impediva alle vetture in circolazione la svolta in via Fani, né di quanto riferito da Bruno Barbaro, circa la presenza di una persona di bassa statura con soprabito chiaro che, scesa da un'Alfa Romeo di vecchio tipo, aveva fatto allontanare i presenti.

  6.2.6. Il 9 giugno 2016 si è svolta l'audizione di Enrico Correale, ex ispettore della Polizia di Stato, che, all'epoca del sequestro Moro, era in servizio presso la DIGOS della Questura di Roma e svolgeva le funzioni di segretario del dirigente, Domenico Spinella. L'audizione ha riguardato soprattutto le attività svolte da Spinella nei giorni immediatamente precedenti e nel giorno della strage di via Fani.
  Correale ha dichiarato di non essere a conoscenza di una visita compiuta allo studio di Aldo Moro il 15 marzo 1978 da parte di Spinella, e di non sapere se lo stesso fosse stato interessato dai suoi superiori del problema della sicurezza di Moro nel periodo antecedente il rapimento. Ha poi riferito i suoi ricordi in ordine alla giornata del 16 marzo 1978. Secondo quanto da lui dichiarato, quel giorno giunse in Questura intorno alle 8 e trovò già in ufficio il dottor Spinella. Ha affermato di non avere elementi di certezza in merito all'orario in cui la Sala operativa comunicò la notizia di un sequestro e di non ricordare il nominativo di chi rispose al citofono che collegava l'ufficio con la Sala operativa.
  Correale ha poi dichiarato di essere salito in automobile con Spinella – elemento che non è invece ricordato dall'autista Emidio Biancone – e di non ricordare quale destinazione iniziale fu indicata, né il tempo impiegato nel tragitto e l'orario di arrivo in via Fani. Analoga incertezza ha manifestato dapprima anche in merito alla circostanza che Emidio Biancone fosse l'autista a cui egli si era rivolto per ordinare di preparare un'autovettura di servizio che consentisse al dottor Spinella di raggiungere il luogo dell'agguato.
  A fronte di ulteriori quesiti, Correale ha aggiunto che, quando arrivò insieme a Spinella in via Fani, erano già presenti già molti operatori delle forze dell'ordine e l'autovettura di servizio si fermò dietro l'Alfetta della scorta del Presidente Moro. Questo posizionamento, che non è documentato nelle foto disponibili di via Fani, ha suscitato rilievi del senatore Federico Fornaro e del deputato Gero Grassi, che hanno formulato l'ipotesi che Correale si sia recato in via Fani con un'automobile diversa da quella utilizzata da Spinella. In proposito, Correale ha rettificato quanto affermato poco prima, riferendo che l'Alfasud usata da Spinella era stata guidata da Emidio Biancone e che la stessa fu parcheggiata nei pressi del bar Olivetti.
  Rispondendo a ulteriori quesiti, Correale ha infine ricostruito la sua carriera nella Polizia di Stato, ha precisato di non aver alcun elemento relativo alla presunta sparizione di un rullino dalla scrivania di Spinella e di non ricordare alcuna frequentazione tra Spinella e Umberto Federico D'Amato, capo dell'ufficio affari riservati del Ministero dell'interno.

  6.2.7. Nella stessa seduta del 9 giugno 2016 si è svolta anche l'audizione di Adelmo Saba, che, all'epoca del sequestro Moro, era Pag. 21agente in servizio presso il commissariato di Monte Mario. Fu inoltre uno dei componenti dell'equipaggio che, il 17 marzo 1978, rinvenne in via Licinio Calvo la 128 bianca abbandonata dai brigatisti.
  L'audizione di Saba ha consentito di approfondire le dichiarazioni da lui rese in sede di acquisizione di sommarie informazioni testimoniali a consulenti della Commissione. Saba ha riferito che il 16 marzo 1978, pur essendo di riposo, si stava recando a portare a riparare un'auto di servizio, che aveva problemi di freni, quando, intorno alle 9, da prime frammentarie notizie apprese in commissariato, seppe che Moro era stato rapito in via Trionfale e poi che in via Fani vi era stata una sparatoria. Insieme a altri colleghi si diresse quindi, su un'autovettura di servizio, verso l'abitazione di Moro e, successivamente, come da disposizioni ricevute dalla Sala operativa, in via Fani.
  Saba ha dichiarato di ricordare che, quando vi giunse, via Fani era ormai bloccata al traffico e già occupata da molte persone, tra cui diversi funzionari di Polizia, dei quali alcuni in abiti civili, e ufficiali dei Carabinieri. Ha aggiunto che, essendosi avvicinato, non ha notato la Fiat 128 bianca di Moretti che avrebbe poi rinvenuto il giorno successivo. Al riguardo, il senatore Federico Fornaro e il deputato Gero Grassi hanno osservato che il ricordo non appare preciso in quanto la Fiat 128 giardinetta, utilizzata per bloccare il corteo presidenziale, fu rimossa da via Fani il giorno successivo e non si identifica con l'auto rinvenuta da Saba il 17 marzo.
  Rispondendo a una domanda del Presidente relativa a precedenti dichiarazioni rese da Saba ai consulenti della Commissione, in cui aveva sottolineato il suo stupore perché il 16 marzo 1978 non era stata svolta la usuale «bonifica» dell'area in cui Moro transitava, Saba ha ricordato che, in quel periodo, egli svolgeva funzioni di vigilanza e protezione di obiettivi sensibili del territorio. Tale attività, come precisato in risposta a quesiti dei commissari, si svolgeva prima che le auto di Moro e della scorta, che transitavano abitualmente in via Fani, percorressero la strada. In nessun caso Saba aveva notato persone sospette e non aveva osservato se il bar Olivetti fosse aperto o chiuso.
  Saba ha poi dichiarato che la mattina del 16 marzo, giorno del suo compleanno, fu messo a riposo, senza alcuna apparente motivazione, né su sua richiesta. Rispondendo a quesiti del Presidente, ha poi aggiunto che il servizio di «bonifica» era svolto da due poliziotti, in abiti civili, che avevano il compito di controllare autovetture e persone sospette nelle immediate vicinanze delle abitazioni delle personalità residenti in zona e in contemporanea all'orario di uscita e di entrata delle stesse.
  Per quanto attiene alla vicenda del rinvenimento delle auto abbandonate dei brigatisti, Saba ha dichiarato che, intorno alle 3.30 circa del 17 marzo, insieme all'agente Antonio Pinna, rinvenne, in via Licinio Calvo, la Fiat 128 utilizzata dai brigatisti e da loro stessi non notata durante un antecedente passaggio nella stessa strada, avvenuto intorno alle 2. Modificando le dichiarazioni rese al magistrato il 9 novembre 1978, Saba ha sottolineato il particolare che il lunotto posteriore del veicolo fosse stato coperto da fogli di giornale applicati con nastro adesivo. Ha inoltre confermato di aver notato, sul sedile Pag. 22della Fiat 128 bianca, un'abbondante pozza di sangue, come dichiarato in sede di sommarie informazioni testimoniali rese nel 2015. Tale particolare, secondo quanto affermato Saba, corrisponde alla notizia che Moro sarebbe stato ferito a un gluteo nel corso dell'azione brigatista. A tale proposito il senatore Federico Fornaro e il deputato Gero Grassi hanno obiettato che tale particolare non fu riscontrato in sede di autopsia.
  Saba ha poi dichiarato di ricordare delle dichiarazioni confidenziali rese da un collega – di cui non ha saputo menzionare il nome – appartenente alla scorta di Moro, che gli disse di essere stato «salvato» perché messo, d'ufficio, in licenza il giorno della strage, e sostituito nel servizio di scorta a Moro da un altro agente.
  L'audito ha anche espresso una serie di valutazioni. Ha affermato che la sparatoria di via Fani dovette implicare la presenza di killer professionisti e una regia politica. Ha affermato che le comunicazioni radio venivano «ascoltate» dai Servizi e che egli stesso fu oggetto d'interesse del SISDE, tanto che il suo dirigente venne informato di un probabile attentato alla sua persona, simulato da incidente stradale, allo scopo di intimidirlo. Ha inoltre ricordato che, nel periodo del sequestro Moro, mentre percorreva via Dandolo, a Roma, e pedinava, per sua personale iniziativa, una Renault 4, condotta, asseritamente, da Anna Laura Braghetti, fu costretto ad abbandonare tale servizio e a far rientro in commissariato, dove un funzionario, con toni energici, lo esentava dal prosieguo dei servizi automontati. In proposito, il Presidente ha osservato che in quel periodo la Braghetti non era ricercata, né erano state diffuse sue fotografie, e che un collega di Saba, il maresciallo Antonio Pugliese, non ha ricordato questo episodio.

  6.2.8. Il 14 settembre 2016 si è svolta l'audizione di Paolo Pistolesi, all'epoca diciannovenne, che è uno principali testimoni dell'agguato, essendosi trovato, il 16 marzo 1978, all'interno dell'edicola del padre, sita in via Fani, a circa cento metri dall'incrocio tra via Fani e via Stresa.
  Pistolesi, che fu oggetto di minacce nei giorni successivi alla strage, rese le prime dichiarazioni alle 10.15 del 16 marzo 1978 alla DIGOS, e, successivamente, il 23 marzo, ai Carabinieri della Compagnia di Roma Trionfale; fu poi ascoltato, nel giugno del 1994, dal Sostituto Procuratore della Repubblica Antonio Marini e infine, l'11 novembre 2015, da consulenti della Commissione.
  Le dichiarazioni rese nel corso dell'audizione hanno affrontato molteplici aspetti della ricostruzione della strage di via Fani. Secondo quanto ha riferito Pistolesi, quel giorno egli vide dall'interno dell'edicola transitare le automobili di Aldo Moro e della scorta. Sentì poi alcuni colpi isolati e, successivamente, alcune raffiche di mitra. Direttosi verso le auto, notò due persone: una sul marciapiede sinistro di via Fani, che indossava una uniforme di tipo militare con berretto, con lo sguardo rivolto verso l'incrocio di via Stresa, e un'altra travisata con un sottocasco da motociclista, posizionata nei pressi dello spigolo di un'autovettura Fiat 124 o 128 bianca ferma presso il marciapiede sul lato sinistro di via Fani, subito dietro l'Alfetta di scorta. Questo secondo terrorista, impugnando un mitra, bloccava il transito veicolare Pag. 23e, accortosi della presenza di Pistolesi, gli puntò contro la canna del mitra, accennandogli di allontanarsi da quel punto della strada. Pistolesi trovò allora riparo dietro un'auto e si rialzò solo dopo aver sentito alcune autovetture partire in fretta. Fece in tempo a notare la stessa Fiat, il cui colore, riportato come bianco nei verbali del 1978 e del 1994, veniva rettificato come scuro nelle dichiarazioni del 2015. Nelle dichiarazioni rese nel 2015 ai consulenti e confermate in audizione, Pistolesi ha inoltre affermato di aver visto non due rapitori soltanto, come aveva indicato nel 1978 e ribadito nel 1994, bensì, oltre all'uomo col passamontagna, cinque persone in divisa da piloti dell'Alitalia che sparavano verso l'auto di Moro e verso quella della scorta, precisando che due di essi si trovavano sulla sinistra delle auto e tre sulla destra.
  Pistolesi ha ricordato di essersi avvicinato alle auto e di aver notato i due agenti colpiti nell'Alfetta, la portiera posteriore sinistra aperta della Fiat 130, l'autista che respirava ancora. Ha dichiarato inoltre di aver visto un motociclo all'estremità opposta del punto della strada in cui si trovava, mentre ha dichiarato di non ricordare di aver visto il passaggio di moto, né la presenza di persone con palette in mano. Ha riferito anche di aver assistito all'arrivo di un'automobile della Polizia, con due agenti, di cui uno riconosciuto in Nunzio Sapuppo, ma non è stato in grado di precisare quale dei due rimase all'incrocio mentre l'altro si poneva all'inseguimento dei rapitori, nella direzione indicatagli dallo stesso Pistolesi.
  Rispondendo a quesiti del Presidente e dei commissari, Pistolesi ha confermato di non ricordare la presenza, all'interno dell'edicola, di tal Domenico Calia, suo conoscente, che dichiarò a suo tempo di essersi trovato, in quel frangente, in compagnia di Pistolesi. Ha inoltre ribadito di aver udito prima due colpi isolati e poi delle raffiche di mitra prima che le auto frenassero e di non aver visto alcuna moto, né di aver sentito rumore di elicottero. Rispondendo a quesiti dei deputati Fabio Lavagno e Gero Grassi ha puntualizzato di non aver riconosciuto alcuna donna tra i terroristi e che comunque i brigatisti erano vestiti con abiti maschili. Ha infine precisato che, anche se ricorda di aver visto i terroristi in posizione statica, è comunque possibile che nel corso dell'azione, quando egli non poteva seguire lo svolgersi degli eventi in quanto riparato al coperto, questi si siano spostati.

  6.2.9. Il 21 settembre 2016 il ciclo di audizioni dedicato alla scena del crimine di via Fani si è chiuso con quella di Sergio Criscuoli, all'epoca cronista de «l'Unità», che tra gli anni Settanta e Ottanta ha seguito il caso Moro e altri episodi di terrorismo.
  Su richiesta del Presidente, Criscuoli ha fornito un quadro sintetico della sua attività durante il sequestro Moro, con particolare riferimento ai canali informativi utilizzati e alla presenza di sue fonti nelle forze dell'ordine e in ambienti del Partito comunista e dell'estrema sinistra.
  Dopo aver ricordato che nel 1978 era responsabile della cronaca giudiziaria de «l'Unità», Criscuoli ha dichiarato che, per tale motivo, frequentava quotidianamente la sala stampa della Questura, a via di San Vitale, dove aveva stabilito rapporti con funzionari della Polizia, Pag. 24e più saltuariamente quella dei Carabinieri, a via in Selci; inoltre, aveva una conoscenza diretta di Ugo Pecchioli, responsabile della sezione problemi dello Stato del Partito Comunista, perché la direzione de «l'Unità» lo inviava alla sede del PCI, in via delle Botteghe Oscure, quando il partito aveva l'esigenza di rendere note posizioni politiche per il tramite del quotidiano. In tali occasioni veniva solitamente preferita, come scelta editoriale e politica, proprio la forma dell'intervista a Ugo Pecchioli. In tali circostanze – ha dichiarato Criscuoli – egli tentò di utilizzare questo rapporto privilegiato per avere maggiori informazioni ma Pecchioli «come fonte era assolutamente impenetrabile». Di conseguenza, in questo ambito il ruolo di Criscuoli – secondo la sua ricostruzione – era prevalentemente quello di veicolo dei messaggi che esprimevano la cosiddetta «linea della fermezza».
  Rispondendo a un quesito circa la sua conoscenza, diretta o riferita, della trattativa con Morucci e Faranda avviata per il tramite di Piperno e Pace, Criscuoli ha affermato di averne sentito parlare in ambiente giornalistico come voce, peraltro coincidente con un quadro conosciuto di una certa contiguità tra l'Autonomia e qualche frangia del Partito socialista; alla richiesta di indicare se alla fine di aprile del 1978 circolassero preventivamente voci su un'operazione di polizia che si realizzò poi il 17 maggio 1978 nella tipografia di via Pio Foà, Criscuoli ha riportato di aver avuto l'impressione che la notizia arrivò improvvisa ma di non essere sicuro di tale ricordo.
  Per quanto attiene alla giornata del 16 marzo 1978, Criscuoli, dopo qualche incertezza sull'orario, ha dichiarato di essere arrivato in via Fani non prima delle 10.15, quando c'era sul posto già una folla di giornalisti e molti agenti di polizia e di aver elaborato una prima ricostruzione sommaria dei fatti, secondo la quale l'agguato sarebbe stato compiuto da terroristi vestiti da aviatori, che si trovavano sul lato sinistro della strada rispetto al senso di marcia della macchina di Moro. Rispondendo a un ulteriore quesito ha poi aggiunto che, a sua memoria, il bar all'angolo era chiuso.
  Ulteriori domande hanno riguardato gli ingrandimenti fotografici che sarebbero stati realizzati dalla Polizia a partire dalle foto fatte da una persona abitante via Fani, dei quali Criscuoli riferì in un suo articolo comparso su «l'Unità» il 19 marzo del 1978. Sul punto, Criscuoli ha affermato che le gigantografie facevano riferimento a foto scattate immediatamente dopo l'agguato, ma che non le vide mai materialmente: «Fu raccontato che esistevano queste immagini, scattate immediatamente dopo l'agguato, che erano interessanti proprio perché, anche se i rapitori erano già andati via, però segnalavano tutte le presenze sul posto». Ha inoltre aggiunto che «ci dissero, come una cosa di un certo rilievo, che esisteva questa immagine scattata subito dopo, che ne era stato fatto un ingrandimento e che – per quello che, almeno, io sentii dire alla DIGOS – erano stati cerchiati con un pennarello alcuni volti. Credo di ricordare che questo si riferiva, nel racconto della DIGOS, a un rullino che aveva il dottor Infelisi». Sollecitato sul tema, Criscuoli ha poi aggiunto che la cosa fu poi lasciata cadere e che, di fronte alla negazione del magistrato Infelisi di avere quel rullino, egli pensò che la notizia delle gigantografie fosse stata usata per rassicurare la pubblica opinione.Pag. 25
  Criscuoli ha affrontato poi, rispondendo a ulteriori quesiti, la questione della trasmissione di Radio Città Futura e delle presunte segnalazioni pervenute da Renzo Rossellini sull'attentato di via Fani. In proposito si è limitato a segnalare che Rossellini veniva inquadrato come una persona che aveva rapporti con l'Autonomia, da una parte, e dall'altra con il Partito socialista e che è estremamente plausibile che abbia avuto rapporti anche con la Questura.
  Alla richiesta di precisare se nell'immediatezza del sequestro circolasse negli ambienti giornalistici la notizia che Radio Città Futura aveva dato in anticipo l'annuncio del rapimento, Criscuoli ha confermato di averne sentito parlare negli ambienti giornalistici e nei corridoi del Palazzo di Giustizia.
  Successivamente, il Presidente ha chiesto a Criscuoli se avesse avuto notizie, al tempo, in merito all'ipotesi che Moro fosse trattenuto, almeno in una prima fase, in zona Balduina e l'audito ha confermato che circolava questa idea intrecciata con l'ipotesi che si potesse trattare di un'area extraterritoriale come un'ambasciata; a richiesta del Presidente e del senatore Fornaro, Criscuoli ha anche ricordato di aver formulato, tra le altre, anche l'ipotesi che Moro potesse trovarsi nell'edificio in cui risiedeva monsignor Marcinkus in via della Nocetta: «Ci siamo chiesti se non potesse essere anche quella una zona extraterritoriale, non necessariamente quella un di Paese dell'Est. Perché non una cosa del Vaticano  ?» Ma, secondo Criscuoli, «era un cane che si mordeva la coda», perché bastava che uno sentisse una voce e che chiedesse alla DIGOS se era vera e quella voce «cominciava a girare negli ambienti anche giudiziari».

6.3. Le audizioni di magistrati, funzionari di polizia e dei servizi.

  6.3.1. Un secondo gruppo di audizioni ha riguardato magistrati, dirigenti di polizia o dei servizi che hanno condotto, a suo tempo, indagini o attività in relazione alla materia oggetto dell'inchiesta parlamentare. La finalità delle audizioni è stata duplice. Da un lato approfondire tematiche emerse soprattutto nelle audizioni di magistrati titolari delle inchieste sul caso Moro. Dall'altro acquisire elementi specifici sull'organizzazione delle indagini a suo tempo compiute, con particolare riferimento alla gestione delle fonti confidenziali e a eventuali infiltrati nelle organizzazioni terroristiche attivi durante il sequestro Moro.
  L'audizione di Ansoino Andreassi – svoltasi il 21 gennaio 2016 – è stata deliberata nell'ambito del filone di indagine sulla scuola di lingue Hypérion, ma si è allargata anche ad altre tematiche. Andreassi era dirigente del commissariato di Montesacro, a Roma, durante le settimane del sequestro Moro; fu poi trasferito da giugno del 1978 a gennaio 1984 alla DIGOS di Roma. Insieme a Luigi De Sena, si recò in missione in Gran Bretagna, nel corso del 1979, per svolgere indagini su una sede di Hypérion e in Germania, nel gennaio 1980 per approfondire l'ipotesi di collaborazione tra le BR e la RAF.
  In relazione alla missione compiuta a Londra insieme a Luigi De Sena, nell'ambito delle indagini sulla scuola di lingue Hypérion, Andreassi ha riconosciuto che vi era un clima non particolarmente favorevole alla missione, ma ha affermato che, a suo avviso, questa Pag. 26terminò perché le forze di polizia inglesi non erano direttamente interessate alle indagini sul terrorismo rosso, sostanzialmente assente nel Regno Unito. Ha invece ridimensionato gli effetti dell'intrusione nella stanza di De Sena di cui ha trattato Calogero nell'audizione presso la Commissione.
  Per quanto attiene alla missione in Germania, ha invece confermato l'esistenza di rapporti tra BR e RAF, nell'ambito di una sorta di condivisione di obiettivi e di strategie anti-NATO, antimperialiste e anticapitaliste, ma ha sottolineato che, operativamente, permaneva una forte separatezza.
  Rispondendo a quesiti, Andreassi ha fornito diversi elementi sia sul complesso delle attività di contrasto al terrorismo a cui partecipò sia su specifici episodi, sottolineando che l'impatto del sequestro Moro su strutture di polizia che andavano faticosamente riorganizzandosi fu particolarmente pesante e rese necessario costruire una strategia che non si concentrava tanto sul singolo attentato compiuto dalle BR, quanto sull'obiettivo di disarticolarne la struttura. Particolarmente importante fu, sotto questo punto di vista, il lavoro di approfondimento sulla «colonna romana» delle Brigate rosse compiuto a partire dai reperti trovati nel covo di via Gradoli.
  La tematica del covo di via Gradoli è stata oggetto di numerosi quesiti e richieste di chiarimenti, anche alla luce del fatto che Andreassi stabilì, in un appunto del 6 luglio 1979, una correlazione tra il covo di via Gradoli e la base di viale Giulio Cesare in cui si rifugiarono Morucci e Faranda e tra le due proprietarie, rispettivamente, Luciana Bozzi e Giuliana Conforto. Andreassi ha dichiarato che la notizia derivò da una fonte dei Servizi, presumibilmente del SISMI, e da una fonte estranea ai servizi di sicurezza ma interna all'amministrazione di polizia. La scoperta della base di viale Giulio Cesare, invece, derivò da una «segnalazione secca».
  Rispondendo a una domanda circa un appunto su un furgone presente a via Gradoli e appartenente a un militante di Potere operaio, Giulio De Petra, Andreassi ha ricordato che la notizia originò probabilmente da un appunto del SISDE e che non furono fatti approfondimenti proprio perché i Servizi disponevano di mezzi superiori a quelli della DIGOS, già fortemente impegnata. In proposito, il senatore Miguel Gotor ha peraltro fatto notare che l'appunto dell'UCIGOS, che segnalava la «riapparizione» di un furgone sospetto a via Gradoli nel luglio 1978, sembra presupporre che esistesse una fonte informativa che teneva sotto osservazione quella strada e quel furgone già in periodo precedente.
  Andreassi ha poi ricordato che i reperti di via Gradoli hanno consentito di individuare due brigatisti di una certa importanza e ha ammesso che ci furono dei ritardi nell'analisi dei reperti ma che comunque, poiché la scoperta del covo avvenne il 18 aprile 1978, poche settimane prima dell'assassinio di Moro, non ci sarebbero stati comunque i tempi per utilizzare le scoperte fatte per la ricerca della prigione dello statista. La scoperta, in ogni caso, presenta, secondo l'audito degli elementi non chiari, quasi che la polizia fosse stata in qualche modo «portata» al covo.
  Rispondendo all'onorevole Gero Grassi, Andreassi ha dichiarato di non ricordare se esisteva un insediamento dei Servizi a Manziana e Pag. 27ha affermato di non aver ritenuto a suo tempo significative ai fini delle indagini queste notizie. Ha affermato inoltre di non ricordare se Vincenzo Parisi avesse una casa a Manziana e quattro appartamenti a via Gradoli, come chiestogli dall'onorevole Grassi; ha dichiarato, infine, di non ricordare a chi appartenesse la Fiat 127 bianca targata Varese, simile a quella di Moretti, che fu vista in una villa di Manziana.

  6.3.2. Il 29 gennaio 2016 si è svolta una missione a Gioia del Colle, nel corso della quale una delegazione della Commissione ha audito, integralmente in forma segreta, il generale Pasquale Notarnicola.

  6.3.3. Il 2 marzo 2016 si è svolta l'audizione del maresciallo Giuseppe Mango che, all'epoca del sequestro, curava i pagamenti alle fonti confidenziali presso la segreteria della Divisione affari riservati del Ministero dell'interno da poco denominata UCIGOS.
  Mango ha descritto il funzionamento dei rapporti con le fonti confidenziali, precisando che non esisteva un contatto diretto tra l'Ufficio e le organizzazioni eversive. Erano le «squadrette» presenti in varie città d'Italia ad avere contatti con le fonti fiduciarie che, a loro volta, conoscevano persone presenti in diverse organizzazioni. Le squadrette comunicavano all'Ufficio soltanto il nome di copertura della fonte e mensilmente ricevevano i fondi per pagare la fonte.
  Rispondendo a domande del Presidente e di altri commissari, Mango ha fornito numerose precisazioni sul funzionamento della struttura a cui apparteneva, con particolare riferimento al periodo del sequestro Moro.
  Ha confermato l'esistenza di un registro con i nominativi delle fonti confidenziali; ha illustrato le proprie funzioni, in relazione alla contabilizzazione e alla rendicontazione dei fondi assegnati al pagamento delle fonti; ha fornito indicazioni sul funzionamento dei nuclei antiterrorismo (NAT), che operarono fino al 1981/1982 e, in una lettera successivamente inviata alla Commissione, ha precisato la differenza tra i nuclei e le «squadrette» della DIGOS.
  Per quanto attiene al periodo del sequestro Moro, Mango ha dichiarato che vi furono contatti dell'Ufficio con elementi fiduciari del Partito comunista, del Partito socialista e del Movimento sociale, ma non vi furono rapporti con personaggi della malavita, e ha aggiunto che l'Ufficio non ebbe alcuna segnalazione preventiva del sequestro di Aldo Moro; ha inoltre affermato di non essere a conoscenza di una fonte denominata «Franco». In relazione a sue precedenti dichiarazioni in sede giudiziaria, ha infine precisato che il pedinamento di Laura Braghetti da parte dell'assistente di polizia Paola Carraresi avvenne in periodo successivo al sequestro Moro.
  Mango ha poi fornito diversi elementi relativi alla fonte «cardinale», legata ai Nuclei armati proletari, che consentì la scoperta della tipografia di via Pio Foà, identificandola con tale Giovanni R., che rimase attivo come «fonte» fino alla morte, avvenuta nel corso degli anni ’80 mentre ha dichiarato di non essersi mai occupato della scoperta, nel maggio 1979, del nascondiglio di Valerio Morucci e Adriana Faranda.
  Rispondendo a una domanda del deputato Gero Grassi sulla redazione, il 16 marzo 1978, del telegramma con cui il dirigente Pag. 28dell'UCIGOS Antonio Fariello inviò alle Questure il cosiddetto «Piano zero», elaborato per i sequestri di persona in Sardegna, il maresciallo Mango ha infine dichiarato di non sapere nulla in merito. Tale dichiarazione è stata però da lui modificata in una lettera inviata alla Commissione il 21 marzo 2016, con la quale egli ha dichiarato di aver partecipato alla redazione del telegramma.

  6.3.4. Il tema delle fonti utilizzate dalla Polizia e in particolare della fonte «cardinale» è stato al centro anche della successiva audizione – svoltasi nella seduta del 16 marzo 2016 – di Alfonso Noce, già dirigente della Polizia di Stato, dal marzo del 1977 in servizio all'Ispettorato generale per l'azione contro il terrorismo. Noce ha fornito una ricostruzione complessiva delle attività di gestione delle fonti presso l'UCIGOS, e in particolare della gestione delle fonti confidenziali all'epoca della vicenda Moro e nel periodo immediatamente precedente. Ha anche trattato della gestione delle segnalazioni che pervenivano all'UCIGOS da tali fonti e delle fonti informative specificatamente riguardanti le Brigate rosse.
  Ha in particolare ricostruito le indagini, pedinamenti e intercettazioni telefoniche, che portarono all'individuazione, nel maggio 1979, della tipografia di via Foà, centro di stampa di volantini brigatisti frequentato anche da Moretti e altri latitanti. Come riferito dall'audito, le indagini presero le mosse dalle indicazioni di un confidente, conosciuto con il soprannome di «cardinale», che attirò genericamente l'attenzione su un gruppo di persone ritenute di interesse che si riunivano nella zona della Tiburtina.
  Noce non è stato in grado di precisare le generalità della fonte «cardinale». Ha escluso comunque che si trattasse di Giovanni R., come affermato da Giuseppe Mango, e ha richiamato il fatto che si trattava di una persona con piccoli precedenti, che non militava in organizzazioni terroristiche, ma frequentava persone che, pur non essendo «interne» all'organizzazione, fornivano un apporto all'organizzazione terroristica. Le informazioni confidenziali fornite consentirono di realizzare diverse operazioni, da quella contro i Nuclei armati proletari in via Due Ponti a quella della tipografia di via Pio Foà.
  Noce ha poi risposto a numerosi quesiti sulla cronologia delle indagini che portarono dalla prima segnalazione in atti del 28 marzo 1978 alla irruzione nella tipografia di via Pio Foà, avvenuta il 17 maggio 1978. A fronte delle numerose osservazioni, in particolare dei senatori Enrico Buemi e Federico Fornaro e del deputato Gero Grassi, sulla lunghezza del tempo trascorso tra la prima segnalazione e l'emissione dei mandati di cattura, ha sottolineato che la data del primo documento, quello del 28 marzo 1978, ha valore puramente indicativo, in quanto c'era la necessità di «coprire» la fonte e la datazione era funzionale ad aprire formalmente le indagini. In questo senso il documento potrebbe essere stato retrodatato o postdatato, elemento sul quale Noce ha dichiarato di non avere ricordi specifici. Ha comunque sottolineato che la notizia da lui acquisita fu poi passata agli uffici operativi, che realizzarono materialmente le indagini.

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  6.3.5. Nelle sedute del 29 giugno e 6 luglio 2016 si è svolta – parzialmente in forma segreta – l'audizione di Mario Fabbri, dirigente di Polizia e poi del SISDE che, nel corso della sua carriera, si è occupato più volte di vicende legate al sequestro e all'assassinio dell'onorevole Aldo Moro.
  Nel 1978 Fabbri era in servizio alla sezione antiterrorismo della DIGOS di Roma e collaborava strettamente con Spinella. In tale veste il 16 marzo 1978 eseguì i primi rilievi sulla Fiat 132 abbandonata dai brigatisti in via Licinio Calvo. Dopo il sequestro operò a lungo presso il SISDE e nel 1993 si recò, insieme a Carlo Parolisi, in Nicaragua allo scopo di incontrare il brigatista Alessio Casimirri.
  Fabbri ha dapprima fornito una testimonianza sulla giornata del 16 marzo 1978, dal momento in cui apprese la notizia della strage dalla centrale operativa, mentre si trovava a via Nazionale e stava per entrare in Questura, al momento del suo arrivo in via Fani. Ha ricordato dapprima di essere giunto in Questura intorno alle 8.30 e in via Fani alle 9-9.15 circa ma, sollecitato dal deputato Grassi e dal senatore Fornaro, ha rettificato questa affermazione, precisando di non essere in grado di fornire un'ora certa, ma di essere sicuro di essere giunto sulla scena del crimine quando già era affollata di persone.
  Fabbri ha poi ricordato che in via Fani fu informato del rapimento di Moro da Domenico Spinella e che, circa un'ora dopo, compì i primi rilievi sulla 132 abbandonata dai brigatisti in via Licinio Calvo. Egli ha ricordato in proposito che «all'altezza dello sportello posteriore destro, sopra lo sportello [...] c'era una macchia di sangue» e che all'interno vide una coperta. Successivamente – come ha dichiarato – richiese assistenza in Questura e vi si recò immediatamente per partecipare a una riunione operativa.
  Fabbri ha poi fornito una ricostruzione del modus operandi delle forze di polizia nel periodo del sequestro Moro, sottolineando che, in quel periodo, l'operatività del SISDE era molto scarsa, mentre il SISMI manteneva soprattutto un rapporto con l'Arma dei carabinieri. Ha in particolare illustrato le logiche investigative che guidavano le perquisizioni e si è soffermato sulla vicenda del falso comunicato del Lago della Duchessa. Al riguardo, pur non disponendo di elementi specifici, egli ha riferito di aver avuto, già a suo tempo, la convinzione che si trattasse di un'operazione di disinformazione. Secondo quanto riferito da Fabbri anche Spinella condivise analoga impressione. Rispondendo a quesiti del Presidente e del senatore Miguel Gotor, Fabbri ha anche illustrato un'operazione di disinformazione che lui stesso gestì, nel periodo del sequestro Cirillo, facendo circolare falsi comunicati di terroristi allo scopo di sfruttare e ampliare le fratture nei movimenti eversivi.
  Un'altra sezione dell'audizione è stata dedicata alla scoperta del rifugio di Morucci e Faranda in viale Giulio Cesare n. 47. Fabbri ha ricostruito lo scenario complessivo della vicenda, sottolineando che l'arresto ha di fatto consentito alle Brigate rosse di liberarsi di un concorrente. Ha dichiarato inoltre che a suo tempo circolò la voce che Luigi De Sena avesse trovato la fonte che rivelò il covo di Morucci e Faranda, ma che in seguito subentrò la voce che fosse stato Giorgio Conforto a rivelare il nascondiglio, allo scopo di tutelare la figlia.Pag. 30
  Nella seconda seduta, il 6 luglio, Fabbri ha illustrato i colloqui svoltisi nel corso del 1993 in Nicaragua con Alessio Casimirri, nel corso dei quali il terrorista fornì alcune indicazioni utili alla ricostruzione della dinamica della strage di via Fani. Ha ricostruito, in particolare, la vicenda del fallimento della missione in Nicaragua, in conseguenza della diffusione su «l'Unità» di notizie su di essa. In proposito Fabbri ha ipotizzato che la diffusione delle notizie poté derivare da errori, invidie operative o dal timore che emergessero elementi compromettenti. Ha tuttavia sottolineato che le notizie che furono pubblicate erano molto precise e che derivarono probabilmente da una fonte interna ai Servizi. Rispondendo ai quesiti dei commissari, Fabbri ha smentito la notizia secondo cui in occasione della missione in Nicaragua il SISDE procedette a un esborso di un miliardo e mezzo di lire, indicando invece una somma dell'ordine di poche decine di milioni. Ha infine dichiarato di non avere alcuna informazione relativa ad appartamenti del SISDE nel comune di Manziana.

  6.3.6. Il 28 settembre 2016 si è svolta l'audizione di Giancarlo Armati, magistrato che ha seguito molte importanti vicende giudiziarie negli anni Ottanta e Novanta.
  L'audizione ha riguardato innanzi tutto l'inchiesta – che Armati seguì come sostituto procuratore – sul traffico d'armi che, a partire dal 1977, coinvolse Luigi Guardigli, Tullio Olivetti e altri.
  Armati ne ha riepilogato lo svolgimento, tratteggiando un profilo del principale implicato, Lugi Guardigli che, con le sue confessioni, evidenziò l'esistenza di un traffico d'armi che coinvolgeva la ’ndrangheta e il Medio Oriente.
  Rispondendo ai quesiti del Presidente, Armati ha definito Tullio Olivetti, entrato nell'inchiesta per le dichiarazioni rese da Guardigli, come «una specie di fantasma», nel senso che, pur avendolo citato, non poté interrogarlo, in quanto irreperibile, e non poté acquisire dagli investigatori alcun elemento su di lui. Ha inoltre aggiunto, che, «col senno del poi», Olivetti potrebbe essere considerato un elemento significativo del sequestro Moro, alla luce del fatto che è verosimile che i brigatisti che operarono in via Fani poterono giovarsi – a giudizio di Armati – del fatto che il bar fosse aperto, o magari chiuso al pubblico ma accessibile.
  Per quanto attiene allo svolgimento dell'inchiesta, conclusasi con condanne minori per Guardigli e con l'assoluzione degli altri imputati, anche a causa di una perizia di Aldo Semerari e Franco Ferracuti che definì Guardigli come soggetto mitomane, Armati ha confermato una differente valutazione della credibilità di Guardigli tra lui e il giudice istruttore, Ettore Torri. Ha affermato infatti, che, a suo avviso, sarebbe stato opportuno non richiedere la perizia per Guardigli in quanto, pur con le sue particolarità, era un testimone complessivamente credibile.
  Armati ha poi dichiarato di non aver ricordi in merito alle notizie di stampa, a suo tempo circolate, su un coinvolgimento della loggia P2 nel traffico di armi.
  Ha infine risposto a alcune domande relative alla inchiesta sulla vicenda Toni-De Palo e alla continuità di rapporti tra gli apparati italiani e le formazioni palestinesi anche nell'ambito del traffico di Pag. 31armi. In proposito, egli ha esposto la sua convinzione che i due giornalisti scomparsi in Libano furono uccisi perché volevano indagare sul traffico di armi tra Italia e Libano e che in questa vicenda ci furono evidenti responsabilità del capo centro SISMI di Beirut, colonnello Stefano Giovannone.
  Armati ha sostenuto che la sparizione dei due giornalisti derivò da una segnalazione del colonnello Giovannone a George Habbash, citando in merito una relazione che gli fu trasmessa dall'allora ambasciatore a Beirut, Stefano D'Andrea. Ha inoltre riferito che «il processo non si è fatto perché io richiesi il mandato di cattura a Squillante, giudice istruttore, a carico di Habbash, e Squillante, che incominciava a saltare sulla sedia, disse: «Ma no, gli elementi non sono sufficienti»».
  A livello processuale, dunque – ha rilevato Armati – le uniche condanne toccarono a personaggi di rilievo secondario.

  6.3.7. Infine nelle sedute del 5 e 12 ottobre e 3 novembre 2016 si è svolta, parzialmente in forma segreta, l'audizione del generale dei Carabinieri Antonio Federico Cornacchia, che ha operato in numerose vicende della lotta al terrorismo tra gli anni Settanta e Ottanta, di cui alcune oggetto di interesse della Commissione, e che all'epoca del sequestro e dell'assassinio di Aldo Moro comandava il Reparto operativo di Roma dei Carabinieri.
  Nella prima seduta si sono affrontate in primo luogo le indagini, coordinate dall'allora tenente colonnello Cornacchia, su un presunto traffico internazionale di armi che per il quale furono indagati Luigi Guardigli e altri, nel quale emerse il nome di Tullio Olivetti, proprietario del bar situato all'angolo tra via Fani e via Stresa. In proposito Cornacchia ha confermato che l'indagine prese le mosse dall'ipotesi di un collegamento tra il traffico d'armi e la ’ndrangheta, ma ha affermato che nulla di specifico emerse su Olivetti. Secondo la sua dichiarazione, fu il giudice Armati a comunicargli che uno degli imputati aveva indicato Olivetti come corresponsabile del traffico.
  Cornacchia ha inoltre dichiarato di non essere a conoscenza di una nota del SISMI del 30 maggio 1978 che evidenziava l'opportunità di indagare su una possibile funzione del bar Olivetti nella dinamica della strage di via Fani e che produsse, come esito investigativo, un profilo di Olivetti trasmesso il 2 settembre 1978 dalla Divisione Podgora al Comando generale dei Carabinieri.
  Cornacchia ha dichiarato di ritenere che il traffico di armi esistesse, anche se riguardava armi «giocattolo» o più correttamente armi «sceniche», che tuttavia con piccole modifiche potevano essere rese delle vere e proprie armi da fuoco.
  Un secondo ambito di approfondimento ha riguardato la vicenda di Paolo Santini, fiancheggiatore delle Brigate rosse e «infiltrato» di Cornacchia, che fu arrestato nel dicembre 1979 dalla Polizia, che ignorava la funzione svolta da Santini, e il tema del traffico di armi tra palestinesi e brigatisti, che Cornacchia ha ritenuto di datare anche al periodo anteriore al 1978.
  Rispondendo a domande del Presidente, Cornacchia ha poi ricostruito le sue attività nel periodo del sequestro Moro. Ha dichiarato di essere giunto in via Fani quando la scena del crimine era già Pag. 32affollata e ha affermato di ritenere che dopo il 18 aprile si sia determinata una svolta nel sequestro, di cui gli ambienti mafiosi presero atto, al contrario di quelli ’ndranghetisti. Ha poi riferito di un suo incontro nella sede del PCI a via delle Botteghe Oscure, nel periodo del sequestro Moro, con Enrico Berlinguer, che – secondo Cornacchia – affermò: «Moro per noi è morto»; e di un incontro, nella sede della DC a piazza del Gesù, con Flaminio Piccoli, che gli disse, secondo quanto da lui riportato: «Se dovesse ritornare, per noi sono dolori», aggiungendo «perché noi politicamente ormai abbiamo perso il nostro presidente».
  Ha illustrato la sua partecipazione, sulla quale non esistono – allo stato – riscontri, a una riunione, avvenuta il 6 maggio 1978 nella residenza pontifica di Castel Gandolfo, con monsignor Cesare Curioni, monsignor Macchi – segretario di Paolo VI – e padre Enrico Zucca, nella quale – secondo Cornacchia – fu comunicato telefonicamente a Macchi il fallimento della trattativa per un rilascio di Moro contro il versamento di una grossa somma di denaro, patrocinata dalla Santa Sede.
  Rispondendo a ulteriori quesiti del Presidente, ha infine affermato, confermando sue precedenti dichiarazioni rese alla stampa, che il 9 maggio 1978 giunse per primo in via Caetani alle 13.30 circa e che, a quell'ora, la strada era completamente deserta.
  Nella seconda delle tre sedute, Cornacchia ha precisato che le armi scoperte nell'ambito dell'indagine sul traffico di armi che coinvolse Guardigli erano in effetti armi «sceniche», la cui funzionalità poteva però essere garantita con rapidità dalla sostituzione di alcuni pezzi riprodotti in apposite officine di cui la malavita, anche comune, poteva disporre.
  Ha poi confermato di essere stato in continuo contatto con il maresciallo Leonardi, caposcorta di Moro, in virtù di una pregressa conoscenza, e di aver appreso da lui che uno studente russo, Sergej Sokolov aveva avvicinato Moro all'università di Roma. Cornacchia ha dichiarato che Sokolov emerse successivamente, dalle indagini da lui svolte, come agente sovietico.
  Il Presidente ha posto un ulteriore quesito sul covo di via Gradoli e sulla vicenda delle indagini compiute su una chiave di automobile Jaguar, ritrovata nel covo, che sembrava rimandare a un commerciante del Ghetto di Roma. In proposito Cornacchia ha affermato di non avere ricordi.
  Rispondendo a ulteriori quesiti e contestazioni, Cornacchia ha poi precisato che partecipò alla riunione di Castel Gandolfo perché conosceva padre Zucca e monsignor Curioni e ha dichiarato che non era presente monsignor Fabbri. Ha poi rettificato alcune sue affermazioni sul possesso di foto di Moro da parte di Toni Chichiarelli, spiegando che si tratta di una notizia appresa da un collega dei Carabinieri in un periodo in cui egli si trovava già al SISDE.
  Cornacchia ha poi riferito sul tema dei viaggi in Calabria compiuti da Moretti nel 1975-1976, che gli furono resi noti da una fonte a lui nota come «Nadia». Ha infine risposto a un quesito del deputato Gero Grassi sulla sua iscrizione alla P2. Sul punto, egli ha ricordato di aver a suo tempo compiuto indagini su Licio Gelli e di essere a conoscenza Pag. 33del fatto che esiste una tessera della loggia P2 a lui intestata, ma ha affermato di non aver mai richiesto di esservi iscritto.
  Nell'ultima seduta dedicata all'audizione del generale Cornacchia si è tornati sui temi delle precedenti, per ulteriori precisazioni.
  In particolare, in relazione a Tullio Olivetti e alle di protezioni di cui poté eventualmente godere, Cornacchia ha ribadito di non avere elementi, se non quelli che, a suo tempo gli furono comunicati dal giudice Armati, e ha dichiarato che lo stesso Olivetti non fu oggetto di indagini da lui coordinate in relazione al sequestro Moro. Ha inoltre riaffermato di non essere stato interessato per accertamenti conseguenti alla nota del SISMI del 30 maggio 1978 che evidenziava un possibile nesso tra la chiusura del bar Olivetti, a seguito di un fallimento non privo di elementi di opacità, e la strage di via Fani.
  Ulteriori quesiti hanno riguardato la fonte «Nadia» di cui Cornacchia aveva trattato nelle precedenti sedute e della quale ha affermato di non ricordare il vero nome. In proposito, egli ha precisato che si trattava di una giovane giornalista di «Controinformazione», che non era retribuita per le informazioni che forniva e che sposò in seguito un brigatista detenuto, il cui nome Cornacchia ha dichiarato di non rammentare.
  Cornacchia ha poi espresso la sua convinzione che la sabbia ritrovata nei vestiti di Moro dopo la sua uccisione sia stata il frutto di un tentativo di depistaggio e ha dichiarato di aver saputo, dalle confidenze di un agente della CIA, che Giorgio Conforto, padre di Giuliana che ospitò Morucci e Faranda durante la loro latitanza, era, oltre che – come già noto – agente del KGB, anche al servizio della CIA e dei nostri Servizi.
  Ha infine risposto a alcuni quesiti su Mino Pecorelli e sul suo omicidio, dichiarando di non avere elementi particolari in relazione ad alcuni articoli di Pecorelli sulla vicenda Moro e di aver ricevuto dal colonnello Antonio Varisco – in seguito assassinato – gli elementi per poter fare un identikit degli assassini di Pecorelli, che poi però – secondo quanto egli stesso ha affermato – scomparve dagli atti processuali.

6.4. Le audizioni di familiari e collaboratori di Moro.

  6.4.1. Due audizioni sono state dedicate a familiari e collaboratori di Aldo Moro. Entrambe hanno avuto per oggetto soprattutto la questione dei timori che – secondo alcune testimonianze – Moro avrebbe espresso per la sua sicurezza prima del rapimento e l'acquisizione di notizie di prima mano su come l'entourage del Presidente della Democrazia cristiana operò nel periodo del sequestro.
  Nella seduta dell'11 febbraio 2016 si è svolta l'audizione – per larga parte in forma segreta – di Maria Fida Moro, che aveva richiesto di essere ascoltata dalla Commissione.
  Nelle parti libere della seduta, Maria Fida Moro, dopo alcuni quesiti del Presidente anche su sue precedenti dichiarazioni relative al movimento Febbraio 74, ha anzitutto esposto il dubbio che la madre, durante i cinquantacinque giorni del sequestro, fosse «prigioniera tanto quanto papà e forse di più». Tale dubbio le è sorto constatando che il comportamento della madre in quelle settimane era Pag. 34«acquiescente», in contrasto con il suo temperamento abitualmente molto deciso e a volte duro; di qui la convinzione che «un potere oscuro» avesse installato in casa Moro «una specie di cavallo di Troia che ha preso proprio il potere».
  Maria Fida Moro ha ricordato come, nel periodo immediatamente precedente il sequestro, il padre avesse «abbassato la guardia» in modo consistente sotto il profilo della propria sicurezza, ad esempio recandosi a passeggiare allo Stadio dei Marmi da solo o seguito soltanto dal maresciallo Leonardi o dall'autista, anziché dall'intera scorta come in periodi precedenti. Ha osservato anche che, proprio a causa della diminuita sicurezza, in quel periodo sarebbe stato più facile e meno cruento rapire Aldo Moro nei momenti in cui passeggiava quasi privo di scorta, anziché organizzare un sanguinoso assalto in via Fani. Tuttavia – ha ricordato – in quegli stessi mesi Moro era fortemente preoccupato per la sicurezza dei figli.
  Maria Fida Moro ha poi rievocato la mattina del 16 marzo, quando andò a riprendere il figlio Luca che aveva trascorso la notte a casa dei nonni materni; aveva infatti deciso di riprendere il bambino, non consentendo ad Aldo Moro di portarlo con sé in chiesa, come altre volte era avvenuto. Ha altresì riferito che alcuni ex appartenenti alle Brigate rosse le dissero che Aldo Moro avrebbe potuto salvarsi se avesse fatto alcune ammissioni. Inoltre, ha espresso la convinzione che Moro sia stato ucciso a causa della sua politica europeista.

  6.4.2. Nicola Rana, segretario particolare di Aldo Moro per oltre un ventennio, è stato ascoltato dalla Commissione nelle sedute del 16 febbraio e del 22 marzo 2016.
  Nella prima audizione, svoltasi nella seduta del 16 febbraio, Rana ha risposto ai numerosi quesiti rivoltigli, anzitutto escludendo di aver mai saputo che Moro fosse stato fatto scendere dal treno Italicus poche ore prima dell'attentato esplosivo e poi confermando, come aveva già dichiarato nel 1978 all'Autorità giudiziaria e nel 1980 alla prima Commissione d'inchiesta sul caso Moro, che nel periodo immediatamente precedente il sequestro Aldo Moro non aveva particolare timore di attentati diretti a lui, aggiungendo che non ne aveva neanche il maresciallo Leonardi. Ha altresì ricordato di aver avuto contatti molto frequenti con il capo della Polizia, prefetto Parlato, e con il vicecomandante dei Carabinieri, generale Ferrara, ma ha specificato che non erano motivati da particolari preoccupazioni per l'onorevole Moro. Ha altresì escluso che Moro abbia avuto un ruolo nelle vicende che condussero alla liberazione del figlio dell'onorevole De Martino, rapito nel 1977.
  Riguardo alle visite che secondo quanto risulta dalla documentazione già acquisita dalla prima Commissione Moro, il capo della Polizia, Parlato (il 14 o il 15 marzo 1978), e il dirigente della DIGOS di Roma, Spinella (il 15 marzo 1978), fecero presso lo studio di Moro in via Savoia e dalle quali scaturì la decisione di presidiare lo studio anche nelle ore in cui non c'era il Presidente Moro, nella seduta del 16 febbraio il dottor Rana ha dapprima negato che tali visite fossero avvenute; quindi, di fronte alla documentazione citata dal presidente della Commissione, ha dichiarato di non averne alcun ricordo. Nella seduta del 22 marzo il presidente Fioroni ha citato numerose Pag. 35dichiarazioni, comprese quelle a suo tempo rilasciate dallo stesso Rana, proprio riguardo a una visita nello studio di via Savoia compiuta dal capo della Polizia, Parlato, alla vigilia della strage di via Fani. Rana, ascoltando le proprie dichiarazioni rese nel 1978 e nel 1980, ha detto di non poter far altro che confermarle, «perché allora la mia memoria era attuale» mentre in seguito «sono successe tante cose che hanno cancellato certi ricordi».
  Rana, rispondendo a un quesito, ha ricordato che il colonnello Giovannone aveva contatti abbastanza frequenti con lui e con Sereno Freato, mentre ne aveva solo di rado con Moro. Riguardo alla notizia (segnalata da Giovannone al SISMI il 18 febbraio 1978) di un possibile attentato terroristico che avrebbe potuto interessare l'Italia, Rana ha risposto di non esserne mai stato a conoscenza. Ha anche affermato che Giovannone, almeno per quanto a lui noto, non svolse un ruolo operativo durante il periodo del rapimento.
  Rievocando la giornata del 16 marzo 1978, Nicola Rana ha dichiarato di aver saputo di quanto era avvenuto a via Fani direttamente dal capo della Polizia, Parlato, che lo chiamò telefonicamente a casa e passò poi a prenderlo per condurlo in via Fani. Ha negato di essersi recato quello stesso giorno al Ministero dell'interno – come si legge invece in un volume che riporta una dichiarazione in tal senso di Corrado Guerzoni – e ha affermato di essersi recato dal Ministro Cossiga per la prima volta il 29 marzo, per portargli la lettera di Moro a lui indirizzata. Ha poi ricordato di aver telefonato, la sera stessa del 16 marzo, di propria iniziativa, a Giovanni Agnelli (che diede la sua disponibilità nell'ipotesi di una richiesta di riscatto), al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e a Ugo Macera, vicecapo della Polizia.
  Riguardo alle persone presenti abitualmente in casa Moro durante il periodo del sequestro, il dottor Rana, rispondendo a un quesito, ha menzionato, oltre alla signora Eleonora Chiavarelli Moro, i figli Agnese e Giovanni; ha specificato che la figlia Maria Fida veniva invece tenuta in disparte e al riguardo ha ricordato che la signora Moro gli chiese, nel caso dovesse riferire notizie di una certa importanza, di non farlo alla presenza di Maria Fida. Sul ruolo svolto da esponenti del movimento Febbraio 74 (che, secondo dichiarazioni di Maria Fida Moro, avevano indirizzato la signora Eleonora verso un atteggiamento di chiusura e di astio che non poteva portare a risultati positivi), Nicola Rana ha dichiarato di non avere informazioni, aggiungendo che Aldo Moro non aveva stima del movimento e del suo capo, Giancarlo Quaranta.
  Circa il primo reperimento da parte sua – su indicazione delle BR – di un plico contenente lettere dell'onorevole Moro, avvenuto il 29 marzo 1978, Rana ha ricordato di aver notato in quella circostanza due giovani che, appoggiati a un albero, fingevano di baciarsi, e di aver successivamente compreso che doveva trattarsi di Valerio Morucci e Adriana Faranda. Riguardo alle lettere dell'onorevole Moro, Rana ha affermato di aver avuto l'impressione – comunicata al giudice istruttore Gallucci, con il quale aveva allora frequenti contatti – che provenissero da un luogo poco distante dalla propria abitazione, perché l'odore d'inchiostro era intenso. Tuttavia, nella successiva audizione del 22 marzo, ha dichiarato di non aver mai ricevuto o Pag. 36rinvenuto altre lettere oltre a quelle presso Sant'Andrea della Valle il 29 marzo 1978 e quelle in viale Trastevere il successivo 4 aprile.
  Rana ha dichiarato che i suoi contatti con la DC durante il periodo del sequestro furono deludenti, poiché i dirigenti del partito, a suo avviso, sembravano dare per scontato un esito negativo della vicenda e ritenere ineluttabile la morte di Moro. Ha riferito che i suoi rapporti con Benigno Zaccagnini furono perciò piuttosto freddi e che in genere veniva ricevuto non da Zaccagnini personalmente ma dal capo della sua segreteria, Giuseppe Pisanu. Ha altresì affermato che si mostrarono invece più presenti e vicini il Presidente del Consiglio dei ministri, Giulio Andreotti (anche tramite il Sottosegretario Franco Evangelisti), e il Ministro dell'interno, Francesco Cossiga.
  Il Presidente ha quindi letto il testo di una telefonata fatta a Rana il 7 maggio 1978 dal giornalista Fabio Isman, che gli riferiva notizie su una «assemblea» di «due gruppi» svoltasi il giorno prima a Roma e gli chiedeva di poterlo incontrare quella sera stessa. Rana ha dichiarato di non ricordare a cosa si riferisse Isman, del quale peraltro ha affermato che aveva scarsa stima e fiducia.
  Il Presidente ha poi menzionato la circostanza che in alcune telefonate intercorse tra Nicola Rana e Corrado Guerzoni nelle ultime settimane nel sequestro ricorre più volte la parola «sigari», con evidente valore di parola in codice; un «sigaraio» viene menzionato anche in una conversazione telefonica tra Sereno Freato e Giovanni Moro. Rana ha sostenuto che il termine (usato dopo che Cossiga aveva donato veri sigari a Rana e a Freato) veniva utilizzato tra loro «un po’ a scarico di tensione, un po’ [..] immaginando che qualcuno [...] ci intercettasse» e che poteva avere qualsiasi significato; ha inoltre chiarito che la persona di nome Emilio citata in una telefonata in connessione con l'arrivo di un «sigaro a Grosseto» era certamente Emilio Fede e che in quel caso probabilmente il termine «sigaro» indicava una notizia, un'informazione. Riguardo al nome «Muscelli», presente nella trascrizione di una delle telefonate relative ai «sigari», il senatore Gotor ha fatto rilevare che si tratta del petroliere Bruno Musselli e ha posto al riguardo una domanda; Rana ha risposto che Freato teneva molto al rapporto con Musselli, che però manteneva riservato quanto ai contenuti, e ha osservato che se si fosse presentata la necessità di pagare un riscatto, Musselli sarebbe stato certamente la «borsa» di Freato.
  Rispondendo a un quesito, Nicola Rana ha riferito che Freato contattò l'onorevole Cazora perché si era sparsa la voce di un contatto dei brigatisti con la criminalità organizzata calabrese e si voleva cercare di capire se vi fosse una via percorribile.
  Riguardo alla lettera di Moro a Cossiga, che Rana prese il 29 marzo 1978 e recapitò personalmente al destinatario, egli ha dichiarato di aver capito, dopo un primo momento di speranza nella possibilità di un'apertura, che sarebbe stata una cosa inutile ed ebbe la sensazione che non avrebbe funzionato.
  Il deputato Gero Grassi ha osservato che molti elementi (anche riguardanti il maresciallo Oreste Leonardi e l'appuntato Domenico Ricci) indicano che vi erano timori per la sicurezza di Moro nei mesi immediatamente precedenti il sequestro e che appare molto strano che Rana non se ne sia accorto. Ha rilevato anche che l'opinione di Pag. 37Rana sull'onorevole Andreotti (sia nel 1978 sia in audizione) era in netto contrasto con quella, molto dura, espressa da Moro nel «memoriale» scritto mentre era prigioniero delle BR. Infine ha citato un passo di un volume nel quale si riferisce che Rana, poco dopo la morte di Moro, si sarebbe recato dalla vedova per chiedere una somma di denaro, una sorta di liquidazione e insieme di risarcimento per il fatto che non avrebbe potuto assumere l'incarico accanto a Moro alla Presidenza della Repubblica che avrebbe avuto se lo statista non fosse stato ucciso. Nicola Rana ha smentito che ciò sia mai avvenuto e ha anzi detto di aver rinviato al mittente una lettera di Eleonora Moro che sapeva contenere un assegno; riteneva infatti di non poterlo accettare in quanto non era un dipendente di Aldo Moro, ma riceveva lo stipendio dall'Università in qualità di suo assistente.
  Riguardo ad Andreotti, Rana ha rilevato che Moro scriveva, mentre era sequestrato, contro coloro che non lo avevano aiutato, ma ignorava l'aiuto che Andreotti e Cossiga avevano fornito ai collaboratori di Moro stesso. Ha anche affermato che Moro aveva comunque un giudizio politico negativo su Andreotti e che tra i due c'era anche «qualcosa di personale», che egli conosce ma che non ha ritenuto opportuno esporre.
  Rispondendo a una domanda, Rana ha dichiarato che il tentativo effettuato dal Vaticano durante i 55 giorni di ottenere la liberazione di Moro attraverso il pagamento di un riscatto era seguito da Guerzoni, non da lui, aggiungendo di non aver comunque mai creduto molto a quella possibilità.
  Nella seconda audizione, svoltasi nella seduta del 22 marzo, Nicola Rana ha anzitutto consegnato copia di due lettere; il presidente della Commissione ne ha immediatamente dato lettura. Nella prima lettera, inviata a Rana da Eleonora Moro il 27 luglio 1978, la signora Moro chiedeva spiegazioni su una raccomandata da lei precedentemente diretta a Rana che era stata respinta al mittente. Nella seconda lettera, indirizzata a Rana da Maria Agnese e Giovanni Moro il 15 settembre 1982, i due figli dell'onorevole Moro esprimevano «radicale disaccordo» rispetto ad alcune dichiarazioni della sorella Maria Fida e davano atto a Rana di «aver tenuto, in questi quattro travagliati anni, un comportamento più che irreprensibile nei nostri confronti, subendo, oltretutto in completo silenzio, gravi episodi di ingiusta considerazione della sua persona».
  Rana ha quindi rievocato l'ultimo viaggio di Moro in Puglia (novembre 1977), che era stato citato nella precedente audizione dal deputato Gero Grassi, e ha precisato di aver partecipato a quel viaggio, ricordandone alcuni episodi.
  Il Presidente ha infine riproposto la richiesta di spiegare il significato del termine in codice «sigari», usato talvolta nelle conversazioni telefoniche di Rana e di altri collaboratori di Moro durante il periodo del sequestro. Il Presidente in particolare si è soffermato sul riferimento a un «sigaro» che sarebbe arrivato a Grosseto, luogo di residenza di Anna Maria Moro, figlia dello statista, e del marito. Rana ha affermato di non sapere se furono recapitate lettere tramite Anna Maria e il marito e ha precisato di aver visto Anna Maria Moro soltanto una o due volte, perché era molto riservata. Circa il significato della parola «sigari» ha ribadito quanto aveva dichiarato Pag. 38nell'audizione del 16 febbraio, aggiungendo di averla usata «nel senso di una notizia certa, [...] importante».

6.5. Le audizioni relative al tema delle trattative.

  6.5.1. La Commissione ha convenuto di approfondire il tema dell'esistenza di trattative finalizzate alla liberazione di Moro, attivate da diversi soggetti, come la Santa Sede e la segreteria del Partito socialista italiano. Si è pertanto proceduto all'audizione di alcuni tra coloro che gestirono questo delicato snodo.
  Il 4 febbraio 2016 la Commissione ha audito monsignor Fabio Fabbri, segretario e collaboratore di monsignor Cesare Curioni (deceduto nel 1996), ispettore generale dei cappellani carcerari al tempo del sequestro Moro, nonché incaricato da papa Paolo VI di cercare contatti e avviare una trattativa per il rilascio dell'ostaggio tramite il pagamento di un riscatto in denaro.
  Dopo aver dichiarato che durante il sequestro Moro lavorava assieme a don Curioni al Ministero di grazia e giustizia, Fabbri ha dichiarato che già il 16 marzo 1978 monsignor Pasquale Macchi, segretario particolare di Paolo VI, si rivolse a monsignor Curioni chiedendogli, a nome del Pontefice, di cercare contatti per avviare una trattativa al fine di ottenere la liberazione di Moro.
  A proposito dei contatti intercorsi tra Curioni e i brigatisti, Fabbri ha dichiarato di non aver conosciuto né incontrato l'intermediario con cui Curioni trattava, ma di ritenere – per via di alcuni accenni– che l'interlocutore fosse mandato dalle Brigate rosse. Ha precisato che gli incontri – almeno uno a settimana – avvenivano previ contatti telefonici, e avevano luogo prevalentemente a Napoli e in qualche caso nell'Italia settentrionale. Ha aggiunto che, progressivamente, la trattativa subì un'accelerazione e che, nella fase finale, le Brigate rosse si divisero in due gruppi.
  Fabbri ha dichiarato di aver visto, il 6 maggio 1978, nella residenza pontificia di Castel Gandolfo, le mazzette di dollari messe a disposizione per il riscatto, non provenienti dallo IOR, del valore di circa dieci miliardi di lire, appoggiate sopra un tavolo e coperte da un panno di ciniglia azzurra.
  Ha poi riferito che, grazie alle fonti che Curioni aveva nel carcere di San Vittore e che comprendevano l'avvocato Guiso, lo stesso Curioni ricevette dall'intermediario delle Brigate rosse, in anticipo sui comunicati n. 1 e n. 7, le fotografie di Moro prigioniero.
  La prima fotografia, secondo monsignor Fabbri, fu mostrata a Paolo VI, il quale ritenne che l'immagine non garantisse che Moro era vivo. Per questo motivo – ha riferito l'audito – fu successivamente scattata una seconda foto nella quale Moro aveva in mano il quotidiano «la Repubblica» del giorno. In entrambi i casi Curioni e Fabbri portarono personalmente al Pontefice le fotografie, di cui Fabbri dichiara di ignorare il destino.
  Interrogato dal Presidente a proposito di una precedente deposizione, resa presso la Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia, in cui aveva parlato della ricerca del corpo di Moro nel Lago della Duchessa, Fabbri ha dichiarato che Curioni fu informato dall'intermediario che non era vero che il corpo di Moro Pag. 39si trovasse nel lago; ha anche precisato che l'informazione dell'intermediario giunse a Curioni mentre era al Ministero di grazia e giustizia e che il prelato chiamò subito il Presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, per avvisarlo del depistaggio e far cessare il drenaggio del lago.
  Fabbri ha poi smentito alcuni articoli di stampa in cui si afferma che Curioni era con Paolo VI e con Macchi nell'appartamento papale la sera del 21 aprile 1978 e che partecipò materialmente alla stesura della lettera del Papa «agli uomini delle BR». Per quanto egli ricorda, infatti Curioni era nella sua casa di Asso, in Lombardia, dove – dopo la mezzanotte – ricevette una telefonata del Pontefice, che gli lesse il testo dell'appello per avere un suo riscontro in merito.
  La situazione rimase aperta fino alla fine tanto che, secondo quanto riferito da Fabbri, l'8 maggio 1978 la Santa Sede era in attesa di un segnale positivo per il rilascio di Moro, che poi non arrivò.
  Rispondendo a ulteriori domande del Presidente, l'audito ha riferito di non ritenere che Curioni avesse avuto incontri in carcere con Renato Curcio e Alberto Franceschini perché, una volta divenuto ispettore generale dei cappellani carcerari, raramente entrava in contatto diretto con i detenuti.
  Infine il Presidente ha chiesto a Fabbri di specificare i dettagli di una dichiarazione rilasciata in sede giudiziaria, concernente il fatto di essere stato controllato e pedinato durante il sequestro da un appartenente a un servizio segreto da lui conosciuto con il nome di Gino. Dopo aver confermato che sia lui sia Curioni erano consapevoli di essere seguiti quando alloggiavano alla Casa del clero in via della Traspontina a Roma, Fabbri ha raccontato di aver conosciuto poi, a distanza di anni, il soggetto che lo pedinava.
  Rispondendo alle domande dei senatori Massimo Cervellini, Federico Fornaro e Stefano Lucidi e dei deputati Paolo Bolognesi, Fabio Lavagno e Gero Grassi, Fabbri ha aggiunto ulteriori particolari. In particolare, ha affermato di non aver visto don Antonello Mennini durante il sequestro e ha dichiarato di non sapere se Curioni informò della trattativa il Presidente del Consiglio. Ha infine affermato che Curioni dedusse, dalle fotografie dell'autopsia di Moro, che il modus operandi dell'assassino di Moro era quello tipico di un criminale di professione, da lui conosciuto al carcere minorile Beccaria di Milano.

  6.5.2. Il 22 giugno 2016 la Commissione ha ascoltato l'ex senatore Gennaro Acquaviva, che nel 1978 era a capo della segreteria di Bettino Craxi, segretario del Partito socialista.
  Acquaviva ha riferito anzitutto che Giuliano Vassalli suggerì a Craxi di prendere contatto con l'avvocato Giannino Guiso, difensore di numerosi brigatisti. Successivamente, tramite il direttore del settimanale «l'Espresso», Livio Zanetti, l'onorevole Signorile entrò in contatto con Franco Piperno e Lanfranco Pace. Ha inoltre ricordato la commozione di Craxi quando ricevette da Sereno Freato la lettera che Moro gli aveva indirizzato e ha rievocato un successivo incontro, avvenuto probabilmente nel 1979, con l'abbé Pierre, che era venuto a Roma per operare a favore di alcune persone appartenenti al gruppo che ruotava attorno alla scuola di lingue Hypérion.Pag. 40
  Riguardo ai rapporti con la Santa Sede, il senatore Acquaviva ha precisato che il suo canale di comunicazione allora era monsignor Achille Silvestrini, della Segreteria di Stato, che sentiva frequentemente, ma che era molto riservato e prudente. Soltanto vari mesi più tardi Silvestrini gli riferì dell'intervento di Andreotti su monsignor Agostino Casaroli in relazione alla lettera di Paolo VI «agli uomini delle Brigate rosse». Sempre in ambito di contatti con esponenti della Chiesa, Acquaviva ha riferito che padre David Maria Turoldo alcuni giorni prima dell'assassinio di Moro telefonò di notte a Craxi, che non lo conosceva personalmente, invitandolo energicamente a insistere col Vaticano affinché sostenesse una trattativa per ottenere la liberazione di Moro e, per maggiori chiarimenti, a contattare monsignor Clemente Riva, vescovo ausiliare di Roma. Craxi incaricò allora Acquaviva di andare a parlare con Riva, che consigliò di proseguire nel rapporto con monsignor Silvestrini senza attribuire eccessivo peso a padre Turoldo.
  Acquaviva ha quindi ricordato l'impressione negativa riportata quando incontrò Domenico Spinella, allora capo della DIGOS di Roma, per consegnargli la lettera che Moro aveva inviato a Craxi. Sembrò ad Acquaviva che Spinella avesse un atteggiamento di indifferenza burocratica, di impotenza; ciò anche per le parole rivoltegli da Spinella («Non c’è niente da fare», «Che state a perdere tempo  ?»). Ha poi ricordato anche che, tre giorni prima dell'assassinio di Moro, Vassalli disse a Craxi che non c'era nulla da fare.
  Gennaro Acquaviva ha espresso l'opinione che gli ultimi tre-quattro giorni del sequestro Moro pongano il problema delle capacità di infiltrazione nel gruppo che deteneva l'ostaggio. A suo parere, il gruppo delle BR che aveva organizzato il rapimento era sicuramente infiltrato.
  L'audizione è proseguita soffermando l'attenzione su un episodio verificatosi qualche mese dopo la morte dell'onorevole Moro e riguardante alcune telefonate giunte alla segreteria milanese di Craxi da parte di un anonimo interlocutore che asseriva di avere informazioni sulla Renault 4 in cui era stato ritrovato il corpo dello statista assassinato. Acquaviva ha confermato l'episodio, ricordando che le telefonate furono registrate e che Craxi diede al generale Dalla Chiesa le registrazioni. Fu poi organizzato un incontro, presso la Federazione di Milano del PSI, tra Acquaviva e il misterioso interlocutore, con apparecchiature per registrare la conversazione e carabinieri appostati. L'anonimo personaggio, che parlava con accento meridionale, però si allontanò, interrompendo bruscamente il colloquio, sfuggì al pedinamento dei carabinieri e non fu identificato.
  Rispondendo a una domanda del deputato Gero Grassi circa una presunta mancanza di determinazione di Craxi nel dare seguito alla posizione di principio assunta, ha ricordato che anche all'interno del PSI le posizioni durante il sequestro Moro non erano univoche – Pertini era infatti contrario alla linea di Craxi e Nenni perplesso – e che comunque il PSI alle elezioni aveva ottenuto meno del 10 per cento dei voti. Non c'era quindi, a suo avviso, lo spazio politico per assumere una posizione più energica da parte di Craxi, arrivando eventualmente a una rottura con gli altri partiti che sostenevano il Governo.

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  6.5.3. Il 12 luglio 2016 si è svolta l'audizione di Claudio Signorile, vicesegretario del Partito socialista all'epoca del sequestro dell'onorevole Moro.
  L'onorevole Signorile, dopo aver confermato la correttezza della sintetica ricostruzione delle trattative esposta dal presidente della Commissione, ha risposto a una serie di quesiti, sottolineando anzitutto l'importanza di porre gli avvenimenti nel loro contesto storico-politico complessivo.
  Ha ricordato che la segreteria del PSI, nel ricercare la strada della trattativa, partì dalla valutazione che, se dopo quindici giorni dall'inizio del rapimento Moro non era stato ucciso, ciò significava che esisteva un disaccordo all'interno dell'area – ad avviso di Signorile non solo brigatista – che gestì il sequestro. In proposito, Signorile ha anche ricordato la mobilitazione di Potere operaio, Autonomia, movimento studentesco, attorno allo slogan «né con lo Stato né con le BR», che rafforzò nei dirigenti del PSI l'idea che occorresse individuare un percorso che consentisse, attraverso l'area di contiguità con le BR, di capire le dinamiche interne al gruppo armato e, quindi, di cercare di ottenere la salvezza di Moro.
  Signorile ha precisato che dell'iniziativa del PSI vennero informati il PCI e la DC (gli interlocutori erano soprattutto Bisaglia, Fanfani e Donat Cattin) e che, alla fine, fu individuata la via di un intervento di Amintore Fanfani, Presidente del Senato, alla direzione della DC e di un atto umanitario «come atto dimostrativo intorno al quale si potessero aggregare» gli appartenenti alle BR che non volevano l'uccisione di Moro. Signorile ha sottolineato che non si trattò di un'iniziativa dei soli socialisti, ma che intorno ad essa venne «costruito nel sistema politico un quadro di attenzione [...] e sull'altro versante, quello dei potenziali assassini di Moro, anche lì un'attenzione».
  Riguardo ai contatti intrapresi, Signorile ha affermato che iniziarono sicuramente prima del 18 aprile, tramite Mario Scialoja e Livio Zanetti. A casa di quest'ultimo avvenne il suo primo incontro con Franco Piperno durante il sequestro dell'onorevole Moro. Gli incontri, nel ricordo di Signorile, furono probabilmente quattro: il primo a casa di Zanetti e i successivi a casa di un uomo d'affari, Jimmy Hazan, messa a disposizione da Piero Moroni, sebbene riguardo all'ultimo incontro Signorile abbia dichiarato di non ricordare esattamente se si svolse lì o in strada.
  Rispondendo a una domanda del senatore Gotor, che ricordava come secondo Lanfranco Pace gli incontri fossero stati una dozzina, Signorile ha negato che ne fossero avvenuti in numero così elevato. Ha altresì smentito di essersi recato ad alcuni incontri accompagnato da altre persone, come invece affermato da Piperno. Sulle date esatte degli incontri l'audito, nonostante ripetute sollecitazioni, ha dichiarato di non essere in grado di fornire indicazioni precise. Secondo quanto affermato da Signorile, al primo incontro non era presente Lanfranco Pace, che partecipò invece ai successivi, senza però interloquire direttamente con lui. Signorile ha confermato, come aveva dichiarato in precedenti occasioni, che non conosceva l'identità di Pace, né aveva chiesto chi fosse.Pag. 42
  Signorile ha inoltre precisato che dei suoi incontri con Piperno teneva informato soltanto Craxi, non altri dirigenti del PSI. Ha anche specificato che fu informato da Craxi dell'incontro, avvenuto il 6 maggio, tra Craxi stesso, Landolfi e Pace.
  Riguardo a Piperno, l'audito ha espresso l'opinione che non si muovesse come singolo ma intendesse rappresentare un'area più ampia e mettersi «in sintonia con quella parte del movimento che vuole usare politicamente il rapimento». Ha inoltre riferito di aver compreso che Piperno aveva un rapporto con i sequestratori, pur non avendogli mai posto domande esplicite in merito.
  Signorile ha ricordato come Piperno gli avesse indicato che «il problema era fare in modo che dalla Democrazia Cristiana uscisse un segnale politico di attenzione, sia pure sotto la veste della via umanitaria»; ha ricordato di essersi pertanto recato, negli ultimi giorni prima dell'assassinio di Moro, ad incontrare il Presidente della Repubblica Giovanni Leone, il Presidente del Senato e l'onorevole Bisaglia.
  Signorile ha anche esposto delle valutazioni più generali sul sequestro Moro, sottolineando la presenza di «terzi interessi» e affermando che nel contesto internazionale dell'epoca «non è pensabile che una realtà difficile come quella italiana [...] non sia intersecata dalle attività dei Servizi dei grandi schieramenti». Ha anche indicato come, sul versante degli Stati Uniti d'America, vi fossero tra le varie agenzie governative posizioni diverse riguardo agli sviluppi allora in corso nel quadro politico italiano. Ha quindi esposto la sua convinzione che il sequestro Moro in una prima fase sia stata un'operazione delle BR sostenuta anche da Servizi stranieri, in una seconda fase sia stato dominato da confusione e incertezza e in una terza e ultima fase «l'aspetto politico viene tolto di mezzo» e l'uccisione di Moro forse fu decisa indipendentemente dalle trattative in corso. Secondo Signorile infatti non è possibile che i brigatisti non abbiamo compreso che la dichiarazione del senatore Bartolomei, pochissimi giorni prima dell'assassinio di Moro, era stata fatta su indicazione di Fanfani, poiché il significato di quella dichiarazione era stato loro spiegato. La conclusione, per l'audito, è dunque che i brigatisti non erano più «in grado di essere interlocutori finali». In particolare, Signorile ha affermato che, a suo avviso, Moretti era «una figura di secondo piano nella struttura decisionale» e che nella fase finale del sequestro sono intervenuti «Servizi organizzati che non sono ufficiali, che sono segmenti ma rappresentano un interesse fondamentale», che tendeva al «mantenimento dello stato di cose precedente» e quindi a far sì che in Italia «non dovesse muoversi niente». In quest'ottica, Signorile ha affermato di ritenere che la morte di Moro fosse funzionale non a una strategia politica delle BR, ma a interessi diversi che contrastavano la politica di unità nazionale. In una fase successiva dell'audizione Signorile ha precisato al riguardo che le BR certamente non erano un'emanazione dei Servizi dell'Europa orientale, ma avevano un rapporto molto forte con alcuni loro segmenti. Ha affermato che il Mossad rimase defilato, per scelta consapevole, e ha aggiunto che il servizio segreto israeliano sapeva del «lodo Giovannone» e lo accettava.Pag. 43
  Signorile ha anche detto di ritenere che la criminalità organizzata non abbia avuto un ruolo nella vicenda Moro e di ritenere che il ruolo di Hypérion sia stato sopravvalutato.
  Rispondendo a una domanda del senatore Fornaro, ha poi rievocato il tentativo di aprire un canale attraverso i palestinesi, precisando che Arafat venne contattato tramite Nemer Hammad e che il colonnello Giovannone fu «prezioso come elemento di raccordo».
  In risposta a una domanda del Presidente, Signorile ha poi riferito un episodio che gli diede, all'epoca, la certezza di essere seguito dalle forze di polizia; riguardo alla circostanza che il suo telefono fosse sotto controllo, ha ricordato che fu Cossiga a informarlo di ciò. Ha aggiunto che, a suo parere, Piperno non fu pedinato perché non si intendeva trovare la prigione di Moro.
  L'onorevole Signorile ha poi dichiarato di aver messo al corrente del suo tentativo di trattativa il generale Arnaldo Ferrara, allora vicecomandante dei Carabinieri, precisando di averlo scelto perché era sicuro che non avrebbe riferito nulla al generale Santovito, responsabile del SISMI.
  Signorile ha sottolineato che quella di Piperno era un'iniziativa politica, non umanitaria, e che la richiesta essenziale che Piperno trasmise negli ultimi giorni prima dell'assassinio di Moro concerneva la necessità di una dichiarazione pubblica di un esponente di primo piano della DC; ha ricordato di aver domandato a Piperno se la figura di rilievo della DC potesse essere Fanfani e di aver ricevuto una risposta affermativa. Signorile si rivolse quindi a Fanfani, che ritenne preferibile non rilasciare una dichiarazione pubblica ma ne fece fare una al senatore Bartolomei, presidente del gruppo DC del Senato; Fanfani inoltre si impegnò a intervenire nella direzione della DC convocata per il 9 maggio. Signorile informò telefonicamente Craxi dell'esito del colloquio con Fanfani; ha affermato di ritenere, a distanza di anni, che sia stato un gesto imprudente, perché la telefonata potrebbe essere stata intercettata. Informò parimenti Piperno del buon esito dell'incontro con Fanfani. L'ipotesi formulata da Signorile è che o la notizia di un imminente intervento di Fanfani trapelò e provocò la decisione di uccidere Moro prima che Fanfani parlasse, oppure che la decisione di uccidere Moro era già stata presa e nulla poteva modificarla.
  Riguardo ai contatti tra Craxi e il generale Dalla Chiesa durante il sequestro Moro, ha dichiarato di ritenerli possibili, dato il rapporto che esisteva tra i due, ma di non esserne stato informato.
  Signorile ha poi espresso l'opinione che Steve Pieczenik fosse una figura molto modesta e che il suo ruolo sia stato grandemente sopravvalutato.
  L'audito ha poi rievocato la mattina del 9 maggio 1978, nella quale si trovava nell'ufficio del Ministro dell'interno Cossiga, che lo aveva convocato telefonicamente, cosa di cui Signorile si è dichiarato sorpreso perché «c'era un buon rapporto personale, ma non tale da giustificare una telefonata la mattina alle 9». Signorile ha poi riferito che Cossiga disse di essere pronto nel caso di una liberazione di Moro. Nel corso della mattina pervenne però, quando ancora Signorile si trovava lì, la comunicazione del ritrovamento del cadavere di Moro. Signorile ha confermato, come aveva già dichiarato nella sua audizione Pag. 44del 13 novembre 1980, che tale comunicazione avvenne non più tardi delle 11, cioè oltre un'ora prima della telefonata con cui Morucci comunicò al professor Tritto il luogo in cui si trovava il corpo di Moro.
  Secondo Signorile, durante il sequestro Moro il Governo compì «consapevoli azioni di depistaggio [...] che hanno avuto come effetto quello di impedire, o comunque di non consentire, che le cose si sviluppassero come avrebbero potuto». A suo avviso il Governo omise anche di compiere atti che sarebbero stati doverosi, come ad esempio agire attraverso infiltrati, e il PSI prese le distanze dalla linea del Governo proprio perché ne criticava l'inerzia.
  Signorile ha infine affermato che, a suo giudizio, fino ad un certo momento vi erano all'interno delle BR diverse opzioni riguardo al destino di Moro, mentre da un determinato punto in poi la parte delle BR che era a favore di una soluzione politica venne emarginata: «Moro è passato nelle mani di un gruppo di fuoco, che è quello che alla fine lo ammazza e nel quale c’è sicuramente Moretti».

  6.5.4. Il tema della trattativa avviata dal Partito socialista è stato al centro anche dell'audizione – svoltasi nella seduta del 19 ottobre 2016 – dell'ex deputato Umberto Giovine, che all'epoca del sequestro Moro militava nel PSI, era redattore capo della rivista «Critica sociale» ed ebbe un ruolo di rilievo in un tentativo di trattativa per ottenere la salvezza di Aldo Moro svoltosi a Milano.
  In risposta alle domande rivoltegli del presidente della Commissione, Giovine ha ricordato che fu Walter Tobagi, durante il congresso del PSI di Torino, a invitarlo ad attivarsi, suggerendo di incontrare l'avvocato Giannino Guiso, e che fu Aldo Bonomi a metterlo in contatto con Guiso. Il senatore Fornaro ha precisato che Guiso era allora iscritto al PSI, circostanza che Giovine ha dichiarato di non aver mai saputo.
  Giovine ha affermato che si cercava anche di ottenere un contatto con i rapitori tramite ambienti dell'area dell'Autonomia considerati come contigui alle BR e in tale contesto ha menzionato la libreria Calusca, di Primo Moroni, nella quale venivano fatti trovare «i volantini delle BR».
  Giovine ha inoltre precisato che suo unico referente, durante la trattativa, fu il segretario del PSI, Bettino Craxi, con il quale cercava di comunicare in maniera riservata: Craxi non voleva essere chiamato sulla sua utenza e perciò Giovine gli telefonava a Roma in un ristorante nel quale il segretario socialista era solito recarsi. L'audito ha aggiunto che eludere la sorveglianza degli organi dello Stato era una delle prime attenzioni e che molti anni dopo ebbe conferma, da un maresciallo dei Carabinieri, di essere stato sorvegliato durante il sequestro Moro.
  Giovine ha riferito che Craxi gli parlò dei suoi contatti con il generale Dalla Chiesa durante il periodo del sequestro; ha aggiunto che l'avvocato Guiso gli riferì di aver ascoltato una volta, per volere di Craxi, da una stanza attigua, una conversazione tra Craxi stesso e Dalla Chiesa. Secondo quanto dichiarato da Giovine, si contattò Dalla Chiesa sia perché era ritenuto dai brigatisti un interlocutore di parola, sia perché si presumeva che fosse in grado – come responsabile della sicurezza nelle carceri – di attenuare alcune delle rigide condizioni alle quali erano sottoposti i brigatisti detenuti.Pag. 45
  Il Presidente della Commissione ha invitato Giovine a indicare chi faceva da tramite con le BR a Milano durante il tentativo di trattativa, ricordando che nell'audizione del 1998 presso la Commissione stragi ne aveva taciuto i nomi. L'audito ha risposto facendo il nome di Aldo Bonomi e ricordando come questi, in un periodo successivo all'assassinio di Moro, avesse introdotto nell'ambiente milanese Volker Weingraber, agente provocatore legato ai Servizi della Germania occidentale, presentandolo come amico di Petra Krause. Giovine ha poi affermato di avere il forte sospetto che lo stesso Bonomi fosse un agente provocatore.
  Umberto Giovine, rispondendo a una domanda, ha precisato di aver conosciuto il colonnello Giovannone nel 1981 o 1982 – poiché l'ufficiale prese l'iniziativa di avvicinarlo in relazione a notizie pubblicate su «Critica sociale» riguardo alla vicenda ENI-Petromin – e di essere entrato in confidenza con lui.
  Un altro elemento emerso dall'audizione è che, per quanto riferito da Giovine, alla libreria Calusca, durante il sequestro Moro, giungevano lettere di Moro e che «per noi il fatto che fossero state trovate alla Calusca era un accreditamento delle lettere», una prova della loro autenticità. Ha aggiunto che era Bonomi ad avvisarlo dell'arrivo delle lettere alla Calusca. Rispondendo a una serie di domande del senatore Gotor, l'audito ha precisato che le lettere di Moro non erano autografe, bensì dattiloscritte, che non si trattava di fotocopie e che erano prive di data o che egli comunque non ne ricordava la data; ha inoltre precisato che ne giunsero tre (tutte dopo il 18 aprile 1978) e che, essendo inedite, vennero stampate «in anteprima» su Critica sociale (002). Giovine ha inoltre affermato che ogni volta che entrava in possesso di una di queste lettere, la trasmetteva a Craxi, il quale decideva se diffonderne subito il contenuto tramite le agenzie di stampa. Ha altresì dichiarato di non aver mai verificato se quelle lettere poi siano state diffuse e pubblicate anche da altri organi di stampa.
  Rispondendo a un quesito dell'onorevole Grassi, l'audito ha infine espresso opinioni fortemente critiche sull'inchiesta giudiziaria relativa all'assassinio di Walter Tobagi.

6.6. Le audizioni relative alla scuola di lingue Hypérion.

  6.6.1. Tre audizioni sono state dedicate ad approfondimenti relativi alla scuola di lingue Hypérion e al suo presunto ruolo nel terrorismo interno e internazionale.Pag. 46
  L'11 novembre 2015 è stato audito Pietro Calogero, che, alla fine degli anni Settanta, quando era sostituto procuratore presso il tribunale di Padova, si occupò della cosiddetta inchiesta «7 aprile», riguardante esponenti di Autonomia operaia, e in quel contesto svolse anche indagini sul centro di lingue Hypérion, avvalendosi in particolare della collaborazione di Luigi De Sena, allora funzionario di polizia presso la squadra mobile della Questura di Roma.
  L'audizione si è incentrata soprattutto su tre aspetti: il complesso delle indagini promosse da Calogero con la collaborazione di De Sena; gli ipotizzati rapporti tra Toni Negri e Renato Curcio e la loro collaborazione in un comune progetto di insurrezione armata; gli infiltrati e l'incontro con il colonnello Pasquale Notarnicola, responsabile dell'ufficio D del SISMI.
  Nell'introdurre l'oggetto dell'audizione, il Presidente ha ricordato precedenti affermazioni, rese in sede pubblicistica, da Calogero, che esprimevano il sospetto che Hypérion potesse essere un punto di riferimento anche per uomini delle BR e di Autonomia e la convinzione che si trattasse di una struttura di un servizio di informazione di carattere internazionale, con compiti di supervisione e di controllo su gruppi che praticavano la lotta armata. In tale contesto, Calogero aveva anche espresso l'opinione che l’intelligence statunitense, tramite le diverse sedi dell'Hypérion, potesse esercitare un controllo su aspetti del terrorismo di sinistra in Italia e rimodulare la propria politica di contenimento dell'avanzata del PCI.
  Nelle sue risposte Calogero si è soffermato sulle missioni di De Sena a Parigi e a Bruxelles – che portarono a individuare l'esistenza di una sede della scuola di lingue Hypérion a Londra – e alla missione di Luigi De Sena e Ansoino Andreassi a Londra. Ha tuttavia segnalato di non aver conservato l'informativa in cui De Sena sintetizzava gli esiti delle indagini fatte presso l'Hypérion di Parigi, a Bruxelles e a Londra, spiegando che quando trasmise a Roma la parte più corposa del processo «7 aprile», trasmise l'informativa perché poteva costituire la base per ulteriori approfondimenti istruttori.
  Per quanto attiene ai contenuti dell'informativa, Calogero ha ricordato che dalle intercettazioni compiute dai funzionari dei Renseignements généraux non emerse alcun collegamento tra la scuola Hypérion di Parigi e alcuni personaggi sospettati di poter avere contatti con essa. Né emerse nulla su eventuali contatti con persone indagate nell'area del terrorismo rosso e dell'Autonomia organizzata. Dalle stesse intercettazioni emerse però che alcune utenze dell'Hypérion parigino comunicavano con un'utenza in Normandia, che – secondo quanto ha riferito Calogero – risultò essere una villa, nei pressi di Rouen, protetta da un triplice anello concentrico di sensori molto sofisticati. Ha ricordato che gli operanti francesi furono i primi a sospettare che quella fosse la sede di un servizio straniero in collegamento con l'attività di informazione di una struttura che si muoveva sotto l'influenza della CIA.
  Calogero ha poi trattato della missione a Londra, in occasione della quale De Sena associò alle indagini anche Andreassi, all'epoca dirigente dell'Ufficio politico della DIGOS di Roma. Ha affermato che la missione fu interrotta dopo che la camera d'albergo di De Sena venne messa a soqquadro, il che fu interpretato come una manifestazione Pag. 47di una volontà di non collaborazione da parte della polizia londinese.
  A proposito della difficoltà a condurre le indagini sulla Hypérion, Calogero ha anche richiamato un articolo pubblicato sul «Corriere della Sera» il 24 aprile 1979, a firma di Paolo Graldi, dal titolo Secondo i servizi segreti era a Parigi il quartier generale delle Brigate rosse, nel quale il giornalista aveva dichiarato di riferire notizie apprese da una fonte del SISDE. Secondo Calogero, la fuga di notizie relative alle indagini che De Sena stava compiendo irritò fortemente gli investigatori francesi e contribuì a impedire la prosecuzione delle indagini. In proposito, Calogero ha rivelato – cosa che non aveva fatto in precedenza – che De Sena lo informò che il dirigente del Servizio francese gli aveva confidato di aver ricevuto dall'allora direttore del SISDE, il generale Giulio Grassini, una richiesta di informazioni in merito a un'utenza telefonica che risultò essere la stessa della villa di Rouen. La collaborazione quindi era cessata anche perché tale episodio aveva messo in luce, nell'opinione del responsabile dei Servizi francesi, una mancanza di intesa e di fiducia reciproca fra poteri dello Stato italiano.
  Calogero ha affermato che questi due episodi – la pubblicazione dell'articolo e la richiesta informale del direttore del SISDE – determinarono la rottura del rapporto di collaborazione con i francesi. Ha riferito che con De Sena avevano ipotizzato che la struttura superprotetta di Rouen, coperta sotto l'insegna della scuola di lingue, gravitasse nell'orbita della CIA, sulla base della riflessione che le sedi di Hypérion potevano garantire una presenza in tre delle principali capitali europee allo scopo di monitorare il terrorismo e, all'occorrenza, porre in atto gli interventi che la politica di sicurezza perseguita dagli Stati Uniti poteva suggerire.
  Calogero ha anche riferito sull'incontro, avvenuto nel giugno 1979, con un funzionario del SISMI, l'allora colonnello Pasquale Notarnicola, responsabile dell'Ufficio D, struttura fondamentale in materia di eversione e terrorismo. In particolare, ha riferito che Notarnicola – accompagnato dal suo collaboratore Bottallo e da un altro suo collaboratore dell'Ufficio D – si presentò come «la parte lealista del servizio» e affermò che anche dalle sue acquisizioni risultava che Autonomia Operaia e Brigate rosse operavano da anni all'interno di una medesima strategia di lotta armata allo Stato, il «partito armato» che accomunava nello stesso disegno eversivo due organizzazioni che sembravano in apparenza indipendenti.
  Calogero ha inoltre riferito di aver consultato documenti, presentatigli dal colonnello Notarnicola, contenenti informazioni che risalivano al 1974: attraverso resoconti di informatori infiltrati dal Servizio, vi si raccontava di incontri frequenti fra Negri e Curcio e della collaborazione fra le loro organizzazioni. In proposito, egli ha ricordato di aver formulato la riflessione che tali informazioni avrebbero potuto – se consegnate alla polizia e all'autorità giudiziaria fin dal 1974 – agevolare l'azione di contrasto al terrorismo e favorire un esito differente delle indagini, in particolare quelle su Negri. Secondo la testimonianza resa dall'audito, Notarnicola affermò di aver riferito queste informazioni agli organi di polizia giudiziaria e comunicò che le carte mostrate non potevano essere rintracciate al Pag. 48SISMI perché facevano parte di una raccolta informale di cui non poteva neanche lasciare copia.
  Calogero ha infine riferito in merito a un incontro – avvenuto alcuni mesi dopo quello con Notarnicola – con il generale Giuseppe Santovito, direttore del SISMI, sollecitato da quest'ultimo per offrire a Calogero la possibilità di consultare documenti a sostegno dell'ipotesi di collegamento strategico fra Autonomia e Brigate rosse. Secondo quanto riferito in audizione, Santovito pose la condizione secondo la quale Calogero avrebbe dovuto far risultare l'offerta di collaborazione antecedente al 7 aprile, cosa che il magistrato rifiutò di fare.
  Rispondendo a una domanda del senatore Federico Fornaro, Calogero ha specificato che – secondo quanto riferito dal colonnello Notarnicola – il Servizio aveva la mappa di tutti i programmi e delle azioni specifiche dei principali gruppi eversivi e terroristici e disponeva di informatori infiltrati nei principali gruppi, sia di destra sia di sinistra. Per quanto riguarda le sedi italiane di Hypérion ha ricordato le sedi di viale Angelico e di via Nicotera, a Roma. Infine, rispondendo al deputato Marco Carra, Calogero ha evidenziato la divergenza politica sorta fra Curcio e Negri, in quanto Negri voleva superare la fase degli attentati e concentrarsi sulla lotta contro il compromesso storico e contro la DC. A tale proposito ha ricordato anche che nella prima risoluzione delle Brigate rosse, apparsa nell'aprile del 1975, quando Curcio era in carcere, la DC appare come obiettivo strategico e ha sottolineato che nelle risoluzioni dal 1975 in avanti vi è una evidente progressione verso l'obiettivo Moro.

  6.6.2. L'audizione di Paolo Graldi – che si è svolta il 2 dicembre 2015 – è in stretta relazione con le dichiarazioni rese da Pietro Calogero. Graldi, infatti, nel 1979 diede notizia sul «Corriere della Sera» delle indagini sul terrorismo che gli inquirenti italiani svolgevano da tempo anche in Francia, con la collaborazione delle autorità locali, in particolare su persone che gravitavano attorno alla scuola di lingue Hypérion. Il Presidente ha ricordato che a tale evento Calogero aveva attribuito, nel corso della sua audizione dell'11 novembre 2015, una delle cause dell'interruzione della collaborazione con la polizia francese e, conseguentemente, delle indagini su Hypérion. Il Presidente ha ricordato inoltre che Luigi De Sena dichiarò al giudice istruttore Carlo Mastelloni, il 26 febbraio 1983, che l'indagine si era bloccata a causa di una fuga di notizie proveniente dalla stampa italiana.
  Smentendo di aver conosciuto persone dei Servizi, in particolare il vicedirettore del SISDE Silvano Russomanno, Graldi ha specificato che l'indicazione, contenuta nei suoi articoli, di un agente dei Servizi come fonte era funzionale a coprire la reale origine della notizia. Ha ricordato che in quell'epoca i giornalisti lavoravano quasi in pool, che spesso le notizie venivano apprese dai pubblici ministeri e dai giudici istruttori o dagli avvocati.
  A tale proposito il senatore Federico Fornaro ha evidenziato che, poiché Calogero ha riferito che attorno a metà aprile del 1979 le casse dei documenti con l'informativa di De Sena su Hypérion furono trasferite a Roma e pochi giorni dopo, il 24, uscì l'articolo citato, è Pag. 49possibile che la fonte – anche se non dichiarata – fosse all'interno della magistratura.
  Graldi ha poi ricordato che all'epoca dell'articolo si pensava spesso a Parigi, anche in riferimento alle tante indiscrezioni su chi fosse il «grande vecchio» e su chi dirigesse i terroristi.

  6.6.3. In connessione alla tematica della scuola Hypérion è stata pure l'audizione del giornalista Fabio Isman – audito il 30 marzo 2016 – che ha seguito come cronista del «Messaggero» molti dei più importanti episodi del terrorismo italiano. Tra l'altro, Isman reperì, grazie alle indicazioni pervenute dai brigatisti, il 20 aprile 1978, il comunicato n. 7 delle Brigate rosse che smentiva il falso comunicato del lago della Duchessa del 18 aprile e poneva un ultimatum alla DC, minacciando di procedere all'esecuzione di Moro. Pubblicò inoltre, il 29 aprile, una delle più importanti lettere di Moro, quella alla Democrazia Cristiana. Il Presidente ha rievocato le modalità con cui Isman ricevette la lettera direttamente da Corrado Guerzoni e Nicola Rana che, a loro volta, l'avevano ricevuta da Eleonora Chiavarelli Moro per trasmetterla alla stampa. Isman consegnò la lettera al procuratore De Matteo – mantenendo l'impegno di segretezza assunto con Rana e Guerzoni circa le modalità di ricezione – e ne diede una copia anche a Ugo Pecchioli su richiesta di quest'ultimo (insieme a un biglietto in cui gli comunicava che la lettera probabilmente era pervenuta da Grosseto). Pecchioli la trasmise poi a Cossiga e, il 5 maggio, al procuratore generale Pascalino, cui rivelò il contenuto del biglietto.
  Isman ha posto l'accento sull'importanza di tale lettera, non tanto per il suo contenuto, quanto per il fatto che per la prima volta le Brigate rosse facevano uscire un documento dalla prigione di Moro in un modo diverso dal solito e senza la diffusione contestuale a Milano, a Roma e a Torino. Inoltre, il documento proveniva dagli ambienti della famiglia: appariva un nuovo canale di provenienza dei documenti o comunque di contatto o di collegamento con i terroristi.
  Isman ha riferito che, sebbene Pecchioli gli avesse suggerito di andare dal procuratore generale per rivelare che il documento era pervenuto da Rana e Guerzoni, egli preferì mantenere fede all'impegno assunto di non farlo fino a quando Moro non fosse stato ritrovato o non fosse tornato a casa. Ha anche affermato di non avere alcun ricordo sul motivo per cui ipotizzò la provenienza della lettera da Grosseto, affermando che «l'unico legame che posso ritrovare è che la mia prima moglie è di Grosseto».
  Durante l'audizione il Presidente si è soffermato sui contenuti di una telefonata intercettata il 7 maggio 1978, alle 12.40, intercorsa fra Isman e Nicola Rana. Nella telefonata Isman comunicava a Rana di aver ricevuto una informazione, da un canale da lui ritenuto attendibile, relativamente ad un'assemblea che si era svolta il giorno prima a Roma e della quale era pronto a riferire personalmente la sera stessa.
  Isman ha dichiarato di non avere ricordi di tale telefonata, ma ha parlato dei suoi contatti con Piperno, che gli aveva riferito di una discussione in seno ai brigatisti che si erano divisi rispetto alla sorte di Moro. Rispondendo a ulteriori quesiti, Isman ha affermato di avere Pag. 50avuto la sensazione che Piperno avesse qualcuno da cui riceveva notizie di prima mano; ha aggiunto di ritenere che sicuramente Piperno conoscesse la dinamica interna delle Brigate rosse, o almeno della colonna romana delle Brigate rosse.
  Isman ha inoltre evocato la sua amicizia con Cossiga e il suo rapporto con Silvano Russomanno, che fu nominato vicedirettore del SISDE in occasione della riforma dei Servizi. In proposito, ha affermato che le fotocopie degli interrogatori di Peci, per la diffusione delle quali Russomanno fu poi condannato nel 1980, non gli furono consegnate da lui, ma da altra persona – appartenente alla Polizia – che Isman ha dichiarato di non voler nominare.
  In relazione alla vicenda Hypérion, Isman ha rievocato gli ultimi giorni di aprile 1979, allorché fu inviato a Parigi dal «Messaggero», a seguito della pubblicazione del già citato articolo di Paolo Graldi.
  Ha riferito di essersi recato presso la sede di Hypérion e di aver avuto contatti con Vanni Mulinaris, Duccio Berio e Françoise Tuscher e di aver avuto modo di consultare documenti della scuola. Dal suo soggiorno non trasse l'impressione che ci fossero attività occulte. Rispondendo a ulteriori quesiti, ha riferito di avere un vago ricordo che la scuola di lingue intendesse aprire ulteriori sedi anche a Londra e Bruxelles. Ha inoltre dichiarato di non avere elementi su collegamenti della Hypérion con Franco Troiano, ma di essersi fatto l'idea che quest'ultimo facesse parte della prima vicenda delle BR e fosse un «proto BR» uscito dal Collettivo Politico Metropolitano.
  In relazione alla circostanza, ricordata dal Presidente, che il primo articolo del «Messaggero» relativo a Hypérion apparve il 24 aprile 1979 a firma di Giuseppe Di Dio, Isman ha ipotizzato, anche a fronte della discrepanza tra il titolo dell'articolo e il testo firmato da Di Dio, che il suo collega abbia inserito del materiale in un secondo momento, forse per una riedizione, stampata a seguito dell'articolo di Graldi.

6.7. Le audizioni relative alla scoperta della base di viale Giulio Cesare.

  6.7.1. Come illustrato nella sezione relativa ai principali filoni di indagine, la Commissione ha svolto un approfondimento sulle modalità attraverso le quali si giunse, il 29 maggio 1979, all'arresto di Valerio Morucci e Adriana Faranda, rifugiatisi in un appartamento di viale Giulio Cesare, a Roma, presso Giuliana Conforto.
  In questo quadro, si è ritenuto di integrare il lavoro di indagine e l'acquisizione di sommarie informazioni testimoniali da parte di consulenti della Commissione con lo svolgimento di alcune audizioni.
  Il 27 aprile 2016 si è svolta l'audizione di Nicola Mainardi, sottufficiale in quiescenza della Polizia di Stato, che partecipò alle indagini che portarono all'identificazione del rifugio di Valerio Morucci e Adriana Faranda in viale Giulio Cesare e al loro arresto, il 29 maggio 1979.
  Mainardi ha ricordato che l'indicazione del rifugio di viale Giulio Cesare pervenne da una fonte legata a un autosalone della zona Portuense di Roma, l'AutoCia srl, già oggetto di vigilanza e perquisizioni e frequentato da Morucci e Faranda. In particolare, Mainardi ha identificato la fonte in uno dei titolari, Dario Bozzetti, che, temendo di essere accusato di favoreggiamento, si offrì di creare le condizioni per un pedinamento di Morucci.Pag. 51
  Secondo quanto riferito da Mainardi, in cambio dell'ausilio fornito Bozzetti ricevette un passaporto e evitò provvedimenti sanzionatori, come la sospensione della patente, di cui avrebbe potuto essere oggetto. Rispondendo a ulteriori domande del Presidente e dei commissari, Mainardi ha poi fornito altri dettagli su questa operazione e sul profilo dei gestori dell'AutoCia, ricostruendo le modalità di contatto con loro ed escludendo che essi fossero in qualche modo legati alla banda della Magliana.

  6.7.2. Nella stessa giornata del 27 aprile 2016 si è svolta l'audizione di Dario Bozzetti, uno dei gestori dell'autosalone AutoCia di Roma, indicato dal maresciallo Nicola Mainardi come fonte che rese possibile l'individuazione del rifugio di Valerio Morucci e Adriana Faranda e, conseguentemente, il loro arresto. Gli elementi raccolti nell'audizione sono stati integrati con l'acquisizione di sommarie informazioni testimoniali, su delega della Commissione, da parte degli altri due gestori dell'autosalone AutoCia, Olindo Andreini e Matteo Piano.
  Bozzetti ha ammesso di conoscere il maresciallo Mainardi e, a contestazione del Presidente, di aver conosciuto Valerio Morucci e Adriana Faranda in quanto il suo socio Olindo Andreini conosceva Morucci da moltissimi anni. Morucci, infatti, secondo quanto riferito da Bozzetti, aveva abitato per un certo periodo in via Caroncini, nello stesso palazzo dove viveva la famiglia di Andreini, e frequentava l'autosalone per venire a trovare il suo conoscente. Ha invece negato di aver svolto una qualunque funzione nell'arresto di Morucci e Faranda.
  Rispondendo a specifiche contestazioni del Presidente e dei commissari, Bozzetti ha poi ammesso che nel luglio 1979 si svolse una perquisizione della sua abitazione, mentre ha negato di aver ottenuto, in cambio delle sue rivelazioni al maresciallo Mainardi, la concessione di un passaporto (003).

  6.7.3. Nella seduta del 14 settembre 2016, si è svolta l'audizione dell'ex ispettore di Polizia Pasquale Viglione, che ha riguardato soprattutto alcune tematiche emerse in relazione all'arresto, nel maggio 1979, di Morucci e Faranda e alle perquisizioni, compiute nel luglio 1979, a carico dei titolari della società AutoCia srl, che, secondo quanto riferito dal maresciallo Nicola Mainardi, resero possibile la scoperta del rifugio dei due terroristi in viale Giulio Cesare, a Roma.
  Viglione, già in servizio al commissariato Monteverde dal 1976 al 1981, poi presso la DIGOS dal 1982, era stato già escusso da consulenti della Commissione il 30 maggio 2016, dopo che aveva manifestato di essere al corrente di elementi di interesse.
  Come ricordato preliminarmente dal Presidente, Viglione in quella sede aveva fornito numerosi particolari circa la perquisizione realizzata il 23 luglio 1979 a carico di Olindo Andreini, Dario Bozzetti, Matteo Piano e altri personaggi legati alla concessionaria AutoCia srl. Aveva in particolare riferito che alla perquisizione presenziarono due persone che gli furono indicate come «colleghi del ministero».Pag. 52
  Secondo il racconto di Viglione, gli stessi personaggi parlarono col suo superiore, maresciallo Cummo, appena prima che questo dicesse a Viglione di non procedere a verificare un grosso armadio a muro. Viglione ha dichiarato di aver appreso in seguito dal maresciallo Corsetti «che si trattava di «roba dei servizi»» e che «nell'armadio da cui mi avevano fatto scendere vi erano le armi».
  Rispondendo alle domande del Presidente, Viglione ha confermato quanto precedentemente dichiarato, anche a fronte di dichiarazioni contrastanti di altri operanti. Ha inoltre confermato una conoscenza con Matteo Piano, uno dei gestori dell'autosalone, che Viglione ha dichiarato di aver visto in diverse occasioni – a partire dal 1976 – e in alcuni casi in compagnia di persone asseritamente appartenenti ai Servizi.
  Viglione ha poi risposto a quesiti formulati dal Presidente e dal deputato Gero Grassi, relativi a un'altra vicenda, il fermo, ad opera dello stesso Viglione, di Toni Chichiarelli, presso l'ospedale San Camillo di Roma, il 5 agosto 1979. Viglione ha confermato che l'incontro con Chichiarelli fu casuale e che egli ebbe sul momento – a causa di un movimento sospetto del Chichiarelli – l'intuizione di identificare il soggetto, che non gli era altrimenti noto, e sequestrare una testina rotante per macchina da scrivere IBM, che fu poi oggetto di esami, prima di essere restituita all'interessato. Rispondendo a quesiti e contestazioni, Viglione ha infine precisato che egli non ebbe alcuna indicazione preventiva sul fatto che Chichiarelli fosse un soggetto da indagare.

6.8. Le audizioni di studiosi.

  6.8.1. Il programma delle attività conoscitive ha previsto anche audizioni di autori che hanno pubblicato saggi sul caso Moro. Naturalmente, non si è inteso, con tali audizioni, affrontare il complesso dibattito storiografico sulla vicenda, ma acquisire specifici elementi in relazione ai filoni di indagine in corso e alla disponibilità di documentazione di interesse dell'inchiesta parlamentare.
  L'audizione di Silvano De Prospo, svoltasi il 9 marzo 2016, è in stretta relazione a quelle già svolte nell'ambito della tematica sulla scuola di lingue Hypérion. De Prospo è infatti autore, insieme al giudice Rosario Priore, del volume Chi manovrava le Brigate Rosse ? (004), sintesi complessiva sul ruolo della scuola di lingue Hypérion.
  Per quanto attiene al periodo del sequestro Moro, De Prospo ha ricordato che – oltre che a Roma – anche a Milano, in via Albani, due privati, Dimma Vezzani e Giuseppe Sacchi, amici di Corrado Simioni, concessero una sede alla scuola Hypérion. Ha inoltre sottolineato che nel periodo in cui vennero aperte e poi chiuse le due sedi romane e quella milanese, era distribuita da persone vicine alla scuola di lingue la rivista «Nuova Polizia», probabilmente allo scopo di raccogliere fondi per Hypérion, e venivano effettuati dei viaggi tra la Francia e l'Italia.
  Ha posto poi la questione del ruolo di Hypérion nell'ambito della cosiddetta teoria del «terzo giocatore», di cui si parla in alcuni Pag. 53appunti di Senzani, in base alla quale un blocco di Paesi europei cercò, dai primi anni ’70, di ritagliarsi un ruolo autonomo tra i blocchi occidentale e sovietico. In tale quadro si svolgevano traffici di armi, come quelli tra OLP e Brigate rosse.
  Rispetto a quanto dichiarato dal giudice Calogero sulle indagini compiute da Luigi De Sena in Francia, De Prospo ha affermato che De Sena ha sempre sostenuto che l'errore che si compì fu quello di accreditarsi con i servizi francesi che, invece di collaborare, di fatto impedirono le indagini.
  Rispondendo a quesiti del senatore Federico Fornaro sul ruolo di Franco Troiano e delle attività di traduzione, De Prospo ha poi ribadito l'ipotesi, già avanzata nel volume, secondo la quale le attività di traduzione poterono costituire un settore di copertura per altre attività; ha inoltre confermato – sulla base di documenti da lui consultati – che a Londra risultava una presenza di Hypérion o di persone legate a tale struttura. Ha espresso invece perplessità circa un legame stretto della scuola di lingue con i servizi americani, in quanto – a suo avviso – la Francia non lo avrebbe tollerato sul suo suolo e per un tempo prolungato.
  Rispondendo al deputato Grassi ha poi affermato che Hypérion ha costituito una rete di supporto per i latitanti italiani che andavano in Francia e ha ribadito l'ipotesi – già espressa nel libro – secondo la quale si trattava di una struttura che funzionava per il collegamento internazionale del terrorismo.
  A conclusione dell'audizione, il Presidente ha evidenziato che Corrado Simioni è stato organico a un quadro di riferimento di eversione di sinistra che sfociò in attentati in Grecia e altrove nei primi anni Settanta. Ha sottolineato infine l'opportunità di approfondire l'ipotesi, già a suo tempo formulata, che Hypérion e i soggetti ad essa vicini svolgessero un ruolo di cinghia di trasmissione, da facilitatori di contatti, e in tale ambito potessero aver reso possibili contatti delle Brigate rosse con gruppi terroristici mediorientali.

  6.8.2. Il 20 luglio 2016 si è svolta l'audizione di Gianluca Falanga, deliberata nell'ambito del filone di indagine relativo ai rapporti tra BR e RAF.
  Falanga ha dedicato diversi contributi alla storia della Repubblica Democratica Tedesca e dei suoi servizi di sicurezza, e le sue ricerche – che si basano sulla consultazione di documentazione sopravvissuta alla distruzione degli archivi della Stasi – hanno evidenziato l'attenzione con cui la Stasi guardava agli affari interni italiani.
  L'audito ha esposto una sintesi complessiva della tematica. Ha innanzi tutto segnalato che la Stasi lavorava sulla base di direttive molto stringenti del Partito e ha riferito che il tentativo di ingaggiare come informatrice la moglie del brigatista Piero Morlacchi, fra il 1979 e il 1980, non ebbe seguito proprio a causa del timore politico che – nel caso la vicenda fosse venuta alla luce – ne risultasse lesa l'immagine internazionale della Germania orientale.
  Falanga ha riferito inoltre che la documentazione archivistica della Stasi sulla vicenda Moro si concentra soprattutto sul periodo dal 1979 al 1989, mentre non si riscontrano tra la documentazione superstite riferimenti anteriori; tuttavia la documentazione è molto consistente Pag. 54per tematiche affini, come quella dei collegamenti internazionali dei movimenti palestinesi. Ha inoltre evocato l’«operazione Roma», come venne denominata un'operazione di controllo e di verifica dell'accesso in Germania Est di cittadini italiani, avviata immediatamente dopo la morte di Moro, perché erano state raccolte informazioni sulla circolazione di terroristi italiani, collegate anche all'inchiesta condotta dal PCI rispetto a voci sull'addestramento di brigatisti in Cecoslovacchia.
  Ha ricordato che dopo il sequestro e l'assassinio di Moro la Stasi intensificò il monitoraggio dell'eversione, di cui è testimonianza la schedatura dei terroristi, e ha sottolineato l'importanza dei cosiddetti IMB (Informeller Mitarbeiter), collaboratori esterni non ufficiali della Stasi e dei KP (Kontaktperson), informatori inconsapevoli che la Stasi contattava spacciandosi per un altro servizio segreto.
  Nel fare riferimento all'esposizione riepilogativa del sequestro Moro comparato al sequestro Schleyer, redatta l'8 giugno 1978 dalla Stasi e resa nota dall'audito nel 2014, il Presidente ha sottolineato che vi sono contenute indicazioni che appaiono non adeguatamente approfondite: in particolare per quanto riguarda il numero delle persone che avrebbero contribuito all'agguato di via Fani (almeno quaranta) e il bar in cui alcuni degli attentatori si sarebbero trattenuti, prima di entrare in azione.
  Falanga ha riferito che la Germania occidentale, presumendo e conoscendo in alcuni casi la frequentazione fra la RAF e alcuni elementi delle BR, quando è stato rapito Moro ha proposto una collaborazione alla polizia italiana, che accettò. Funzionari del BKA (Bundeskriminalamt) installarono al Ministero dell'interno una base di indagine e di scambio di informazioni. Rispetto all'attività di tale task force, Falanga ritiene esistano dei rapporti di valutazione presso il Bundesarchiv.
  Ha inoltre richiamato l'attenzione sulla collaborazione con i palestinesi, basata sullo scambio sistematico di informazioni, grazie al quale la Stasi ebbe notizia del lodo Moro e seppe del traffico di armi che passavano dall'Italia.
  Rispondendo ad una domanda del Presidente su un incontro sovietico-tedesco del gennaio 1978 – dedicato, fra l'altro, a un piano speciale di misure contro l’«eurocomunismo» – Falanga ha illustrato i punti di dissenso tra la direzione del PCI, allorché ne divenne segretario Berlinguer, e il PCUS.
  Nel rispondere a un quesito sulla contiguità tra la RAF e il movimento «2 giugno», Falanga ha affermato che quest'ultimo era stato fortemente infiltrato, avendo un legame territoriale più forte e una compartimentazione meno rigida dalla RAF; ha inoltre riferito che nel 1990, dopo la caduta del muro, si è scoperto che dieci terroristi della RAF si erano nascosti nella Germania dell'Est: tre di questi hanno raccontato che Moretti si recava a trovarli a Parigi nell'estate 1978 per discutere di una possibile alleanza militare, idea che fu poi abbandonata da Moretti nell'agosto del 1979.
  Fra i terroristi tedeschi e le BR esisteva – secondo Falanga – una frequentazione precedente cui Moretti subentrò. Nel 1979 la Stasi aveva reclutato Brigitte Heinrich, che il 16 febbraio 1983 raccontò al maggiore Voigt, della Stasi, che c'era una donna che faceva da Pag. 55interprete tra la RAF e le BR, precedentemente al 1979. Inoltre – secondo quanto riferito da Falanga – i terroristi tedeschi hanno affermato che Moretti propose alla RAF nel 1979-1980 un'operazione per vendicare i compagni arrestati e uccisi, operazione che malgrado sia stata organizzata, fu poi abbandonata. Obiettivo di Moretti era quello di integrare la RAF nella strategia brigatista: al riguardo Falanga ricorda che Moretti riteneva che le BR dovessero avere un ruolo egemonico nei rapporti con la RAF, in quanto si consideravano un'organizzazione politicamente più forte.

  6.8.3. Il professor Francesco Maria Biscione – audito il 27 luglio 2016 – è stato consulente della Commissione stragi per la XII legislatura e ha dedicato diversi studi alla vicenda Moro, tra cui un'edizione del «Memoriale Moro». Nel corso della sua audizione, è emersa in particolare una serie di valutazioni sulla dimensione politica e internazionale della vicenda Moro e sulla pluralità di forze che ne gestirono gli esiti. L'audito ha espresso la convinzione che l'azione del vertice brigatista, non riuscendo a saldarsi con un movimento rivoluzionario di massa, seguì logiche che aprirono al rapporto con forze criminali italiane o con attori che operarono per la tragica conclusione del sequestro.
  Nell'esporre i risultati dei suoi lavori, Biscione ha sottolineato l'esistenza di un partito non brigatista nell'omicidio di Moro e la necessità di guardare alla vicenda come a una sorta di doppio delitto, un delitto, cioè, compiuto dalle Brigate rosse, a cui non erano estranee altre forze. In questo quadro, il caso Moro – secondo Biscione – è diventato il punto dirimente di una lotta per la disarticolazione della democrazia italiana – iniziata con la strage di piazza Fontana del 1969 – che si è indirizzata contro il progetto repubblicano-costituzionale avviato nel 1948. Biscione ha anche richiamato l'attenzione sulle principali interpretazioni della figura di Aldo Moro che emergono dai numerosi studi pubblicati. Il tema principale, a suo avviso, è individuare come il rapimento fu inteso dal complesso della società, come le forze sociali si divisero.
  Rispondendo al senatore Paolo Corsini, Biscione ha anche evidenziato i limiti interni alla strategia di «terza fase» e di «compromesso storico» e ha manifestato la sua impressione che con il delitto Moro si sia rotta la molla interna che aveva dato vitalità alla democrazia italiana e che da tale tragico evento sia iniziata la crisi dei grandi partiti di massa e del sistema dei partiti in Italia.
  Per quanto riguarda gli esecutori materiali dell'assassinio di Aldo Moro, Biscione ha affermato di avere la convinzione che ci sia stato un passaggio di mano e che ci possa essere stato più di un luogo di detenzione.
  Ha inoltre affermato che sarebbe opportuno approfondire gli studi riguardo al circuito Gelli-Calvi-Sindona-Marcinkus in relazione alla vicenda Moro, pur non ritenendo Marcinkus la figura chiave in questa dinamica.
  A conclusione dell'audizione, il Presidente Fioroni ha sottolineato come Moro sia arrivato al governo delle larghe intese dopo aver creato una rete di alleanze che portò gli Stati Uniti a la NATO alla convinzione che alle soglie della seconda guerra fredda l'eurocomunismo Pag. 56fosse utile. Ha inoltre aggiunto che i limiti della consolidata ricostruzione della vicenda Moro che la Commissione sta evidenziando sono fortemente legati alla preoccupazione delle forze politiche dell'epoca che emergessero elementi nuovi, in grado di incrinare l'immagine della «linea della fermezza» che era stata proposta durante il sequestro Moro.

II. I principali filoni di indagine sviluppati e le prime risultanze

7. Premessa.

  Nel corso del primo anno di attività, la Commissione ha seguito, in linea di principio, l'ordine cronologico dei fatti oggetto dell'inchiesta, concentrandosi prevalentemente sugli avvenimenti delle prime settimane del sequestro di Aldo Moro.
  Successivamente, si è scelto di approfondire specifici filoni sulla base degli accertamenti preliminari realizzati e delle questioni emerse nel corso delle audizioni. Numerose tematiche sono tuttavia in corso di approfondimento, anche a causa della necessità di vagliare la cospicua documentazione acquisita.
  Nei paragrafi che seguono è presentata una succinta rassegna dei principali filoni di indagine che sono stati avviati fino al 1o dicembre 2016.
  Ragioni di sintesi e esigenze di riservatezza in relazione alle indagini in corso da parte della Commissione o della magistratura impediscono di dare conto puntualmente di tutti gli accertamenti condotti e dei relativi risultati; ci si soffermerà, pertanto, esclusivamente sulle questioni di maggior rilievo, nei limiti di ciò che, allo stato dell'inchiesta, può essere reso pubblico.

8. Le indagini su un possibile covo nell'area della Balduina.

  La Commissione ha indagato con particolare impegno sulla tematica della presenza di un possibile covo brigatista nell'area della Balduina.
  Questa tematica si pone in stretta continuità con quanto già esposto nella precedente relazione relativamente alla dinamica dell'agguato di via Fani e all'abbandono delle auto dei brigatisti in via Licinio Calvo.
  Poiché l'indagine è ancora in corso, si dà conto solo di una parte degli elementi acquisiti. Tuttavia, dalle attività di indagine realizzate che saranno esposte emergono alcune risultanze che sembrano evidenziare l'esistenza in quell'area di un sito frequentato da esponenti di aree vicine alle Brigate rosse, che potrebbe aver avuto una funzione specifica, almeno nella prima fase del sequestro.
  Occorre sottolineare che, come in altri casi, la Commissione ha operato attraverso una complessiva riconsiderazione delle indagini svolte in passato. Gli elementi evidenziati sono stati poi approfonditi con autonome attività di indagine, realizzate sia con accertamenti documentali sia con l'acquisizione di sommarie informazioni testimoniali.Pag. 57
  È stato in tal modo possibile dare sostanza a un'ipotesi, da tempo sostenuta da varie fonti, sulla presenza di una base brigatista non lontana da via Fani, ipotesi che muove dagli elementi di inverosimiglianza del racconto della fuga dei brigatisti da via Fani presenti «Memoriale Morucci» e nelle dichiarazioni rese dagli stessi brigatisti in sede giudiziaria e pubblicistica, nonché da un confronto comparativo tra il sequestro Moro e il sequestro Schleyer, nel quale fu utilizzato un garage prossimo al luogo dell'attentato.
  Nella sommaria esposizione delle nuove acquisizioni della Commissione si darà conto in primo luogo della fuga e dell'abbandono delle auto e poi degli elementi che stanno portando all'individuazione di un complesso di edifici che potrebbero aver avuto una funzione importante nel sequestro Moro.

8.1. La fuga da via Fani e l'abbandono delle auto.

  Già nelle prima relazione, approvata dalla Commissione nella seduta del 10 dicembre 2015, erano stati evidenziati i limiti e le incongruenze della versione brigatista, consolidata nel «Memoriale Morucci».
  In particolare, si era ipotizzata, sulla base di plurimi elementi, l'inconsistenza della versione di un immediato abbandono delle auto in via Licinio Calvo e si era avanzata l'ipotesi che, prima dell'abbandono, comunque non contestuale, delle auto, vi fosse stata una complessa e pianificata operazione, che consentì di occultare le armi lunghe e probabilmente di trovare riparo in qualche edificio della zona.
  In questo quadro ha particolare rilievo il tema del trasbordo – accreditato da Morucci – di Moro dalla Fiat 132 ad un furgone in piazza Madonna del Cenacolo. Tale punto di snodo tra la prima fase della fuga da via Fani e il definitivo allontanamento dalla scena del crimine presenta numerosi elementi di illogicità, già evidenziati nella prima relazione. Di qui l'ipotesi, che è stata oggetto di ulteriori indagini, che il passaggio delle auto da via Casale De Bustis non fosse funzionale a raggiungere piazza Madonna del Cenacolo, bensì a depositare il rapito nella zona e poi a gestire il rilascio progressivo delle automobili usate nell'attacco di via Fani.
  Sulla base dei verbali di reperimento e delle testimonianze raccolte a suo tempo e presenti agli atti della prima Commissione Moro (005), risulta che l'autovettura Fiat 132 di colore blu con applicata la targa Roma P79560 dovette essere parcheggiata tra le 9.15 e le 9.23.
  L'autovettura Fiat 128 di colore bianco, con applicata la targa Roma M53955, fu reperita il 17 marzo 1978, alle 4.10, all'altezza del civico 23 di via Licinio Calvo, sul lato destro della strada.
  L'autovettura Fiat 128 di colore blu, telaio nr. 1390208, con applicata la targa Roma L55850, fu reperita il 19 marzo 1978, alle 21, tra i civici 25 e 27 di via Licinio Calvo, sul lato destro della strada.
  Nella versione brigatista condensata nel «Memoriale Morucci» si afferma: «Tutte e tre le auto sono state parcheggiate in via Licinio Pag. 58Calvo la stessa mattina del 16 marzo, nello spazio di tempo di circa venti minuti dopo l'azione di via Fani (e cioè tra le 9.10 e le 9.30). La 132 è stata parcheggiata da Fiore subito dopo che era stato effettuato il trasbordo di Moro sul furgone 850 in piazza Madonna del Cenacolo».
  Ci sono tuttavia numerosi elementi che inficiano questa ricostruzione. Se ne richiamano solo alcuni dei principali, presenti in atti delle precedenti Commissioni.
  La teste Maria Assunta Perugini ha affermato di aver visto, tra le 9.15 e le 9.30, a bordo della Fiat 132, parcheggiata in via Licinio Calvo, due uomini e una donna (006), mentre, secondo Valerio Morucci, come si è riferito, l'autovettura sarebbe dovuta provenire da piazza Madonna del Cenacolo con il solo Raffaele Fiore a bordo. La Perugini si allontanò poi per alcuni minuti e – come ha dichiarato – nel tornare al medesimo punto, vide che era presente personale della Polizia. Questo elemento consente di dedurre che la Fiat 132 venne parcheggiata tra le 9.15 e le 9.23.
  Anche altro ignoto teste riporta la presenza di una donna. Ciò si rileva dal registro delle comunicazioni della Questura. Infatti alle 9.27 è annotato: «Sq4. Da via Licinio Calvo si sono allontanati due giovani a piedi, una donna e un uomo armati». Il riferimento deve essere agli occupanti della Fiat 132, poiché è il medesimo equipaggio che ha trovato tale auto a comunicarlo, ma non si tratta della teste Perugini poiché, come si è visto, la Perugini vede tre soggetti, ma all'interno dell'auto, non cogliendo affatto il momento della discesa. Il dato importante è dunque che un altro teste vede una donna armata.
  Anche dal verbale di rinvenimento della Fiat 132 si rileva la presenza di una donna; infatti il commissario Mario Fabbri e il brigadiere Vittorio Faranda scrivono che sono state avvistate «secondo varie testimonianze due o tre persone, tra cui una donna, la quale ultima era stata vista con una pistola alla cintola dei pantaloni, scopertasi per un movimento repentino» (007). Purtroppo il dato è generico e non è possibile risalire a chi parlò con gli intervenuti.
  Anche nella relazione dell'agente Saverio Abbondandolo, relativa al rinvenimento della 132, si legge: «In Via Licinio Calvo da teste identificato da personale della DIGOS è stato appreso che la Fiat 132, proveniente da Via Lucilio con direzione Via Cecilio Stazio, giunta in Via Licinio Calvo era stata ivi posteggiata da due uomini e una donna, i quali si erano poi allontanati scendendo le scalette che da Via Lucilio portano a Via Prisciano» (008).
  Pure dell'identità di questo teste non si rileva alcuna traccia negli atti.
  Importante è pure la testimonianza di Elsa Maria Stocco, abitante in via Bitossi, che venne sentita il 17 marzo 1978. La Stocco affermò che alle 9.25 del 16 marzo, dopo essere scesa dalla propria autovettura e aver fatto un tratto di marciapiede, aveva notato un'autovettura di grossa cilindrata giungere da via Massimi a forte velocità e fermarsi proprio davanti al suo civico, il 26. Da questa era sceso un uomo di Pag. 59aspetto giovanile con abito da pilota civile e impermeabile blu, privo di berretto, che prima aveva trasferito in un furgone di colore chiaro, alla cui guida era posto un giovane, una valigia e, dopo essere tornato all'auto, un borsone scuro (009).
  Il 14 giugno 1978 la Stocco confermò al magistrato quanto dichiarato in precedenza e precisò che quanto osservato era accaduto tra le 9.20 e le 9.25, poiché alle 9.30 aveva già potuto ascoltare il radiogiornale con la notizia della strage di via Fani. Un'autovettura «ministeriale» – quindi è possibile ipotizzare che fosse la Fiat 132 – fu vista provenire da via Massimi e fermarsi in via Bitossi, affiancata quasi trasversalmente alla destra di un furgoncino. Dall'auto uscì un giovane vestito da steward con una 24 ore e un borsone che caricò sul furgoncino, senza scambiare alcuna parola con il giovane alla guida di quest'ultimo. L'autovettura si allontanò in velocità verso via Pietro Bernardini. Il furgoncino, invece, imboccò la medesima strada, ma a normale andatura.
  La testimonianza, raccolta nell'imminenza dei fatti, è in netto contrasto con il racconto di Morucci. Morucci afferma di essere sceso dalla 128 blu all'incrocio tra via Massimi e via Bitossi, provenendo da via De Bustis, e di essersi recato a piedi, con le borse dello statista, verso un autofurgone chiaro parcheggiato in via Bitossi in prossimità di via Bernardini, con il quale poi si è recato in piazza Madonna del Cenacolo.
  In sintesi, dalle testimonianze risulta che Morucci non si sarebbe mosso a piedi, come da lui affermato, né si sarebbe allontanato con l'autofurgone, ma si sarebbe riportato verso l'autovettura, mentre sull'altro mezzo si trovava un soggetto a tutt'oggi ignoto.
  La Stocco inoltre fornisce un elemento cronologico importante poiché ricorda di aver ascoltato poco dopo il radiogiornale delle ore 9.30. Quindi il trasferimento delle borse avvenne tra le ore 9.20 e le 9.25. Morucci afferma che dopo aver lasciato le borse si sarebbe recato in piazza Madonna del Cenacolo, dove l'onorevole Moro sarebbe stato trasferito da un veicolo all'altro. Ma ciò non è possibile, poiché la Fiat 132 alle 9.23 era già stata rinvenuta in via Licinio Calvo, e, in ogni caso, la Stocco sulla «ministeriale» di grossa cilindrata vide solo un uomo, quindi nessuna traccia dell'onorevole Moro.
  Sul punto, si richiama infine, la testimonianza di Enrico Marinelli, allora commissario di Monte Mario, escusso da collaboratori della Commissione il 29 ottobre 2015. Marinelli ha dichiarato: «Ora ricordo di via Licinio Calvo. Quel giorno un mio paesano che era in servizio presso una installazione elettrica, del quale non ricordo il nome, nipote del parroco del mio paese, don Olindo Camperchioli, mi disse di avere visto passare le auto coinvolte nell'eccidio proprio in quella via». A seguire ha aggiunto: «Io controllai personalmente quella via. Ora mi torna in mente che una delle autovetture non c'era quando io feci un primo controllo. Insomma questa terza macchina era stata probabilmente tenuta nascosta lì vicino».
  In sintesi, il divario tra le acquisizioni testimoniali antiche e recenti e il racconto di Morucci è tale che si può affermare che il racconto brigatista non appare veritiero, quanto meno per quanto attiene alla fase tra l'abbandono della scena della strage e via Licinio Calvo.

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8.2. Il furgone in via Savoia.

  Si segnala che, nell'ambito dell'indagine, è emersa la necessità di approfondire una ulteriore presenza di un furgone nella vicenda Moro, sulla base della testimonianza resa il 7 febbraio 1979 da Mario Lillo, che riferì di avere notato, fino a due o tre giorni prima del sequestro Moro, in via Savoia, per due o tre giorni, un furgone di colore avorio, privo di scritte e aperture, probabilmente Fiat e circa 1100 di cilindrata, parcheggiato sempre nello stesso punto, con la parte anteriore rivolta verso lo studio dello statista, che distava dal mezzo circa 50 metri (010). Si trattava di un furgone senza scritte e con un rialzo di circa 25 centimetri che non era il portabagagli, ma una ulteriore copertura. A dieci metri di distanza, nascosta da un pino – sicché chi transitava per via Savoia difficilmente poteva vederla – vi era una motocicletta di grossa cilindrata, di colore scuro (quella notata in via Fani viene di solito descritta di colore blu), nuova, verosimilmente una Honda, con cromature e vistosi specchietti laterali.
  Lillo era rimasto colpito poiché aveva notato la moto e il furgone in diversi orari di quelle due o tre giornate nelle quali erano stati presenti.
  Morucci, come è noto, ha parlato di un 850, sottintendendo un Fiat, con portellone mentre Lillo ha ritenuto che la cilindrata fosse 1100. Effettivamente è esistito l'autofurgone 1100T, ma era ormai fuori produzione da diversi anni, nel 1978.
  La testimonianza di Lillo è in corso di approfondimento e potrebbe rappresentare un indizio di notevole rilevanza in relazione all'accertamento delle modalità di preparazione del sequestro Moro e dei soggetti implicati.

8.3. Le tracce ematiche.

  Il riesame degli atti di polizia a suo tempo prodotti e acquisiti dalle precedenti Commissioni ha consentito anche di porre la questione della probabile presenza di più brigatisti feriti.
  Nel verbale stilato da Mario Fabbri alle 10 del 16 marzo 1978 e relativo alla Fiat 132 si legge: «Sul montante metallico superiore dello sportello anteriore destro si rileva una macchia di sangue fresco ed appena raggrumato», mentre, in relazione alla medesima auto, la Polizia scientifica riportava: «La parte esterna cromata del canaletto del tetto, all'altezza della metà sinistra del vano dello sportello posteriore destro, presenta delle impronte digitali simultanee di sostanza rossastra, prive di elementi papillari, contrassegnate con la lettera «A»» (011).
  Da quanto si legge dovrebbe trattarsi di due macchie diverse, infatti Fabbri parla dello sportello anteriore destro, mentre la scientifica di quello posteriore destro. La traccia di sangue solo «sul montante della Pag. 61portiera posteriore destra» è confermata dalla relazione Abbondandolo, già citata.
  La differenza è importante, poiché se la macchia fosse stata solo sullo sportello posteriore destro avrebbe anche potuto essere dell'onorevole Moro – magari una ferita da scheggia di vetro – mentre se fosse stata solo su quello anteriore è da escludere che possa trattarsi di sangue dello statista. Se vi fossero state entrambe avrebbero potuto ovviamente essere sia di Moro sia di un terrorista, oppure entrambe di un terrorista. In questo caso si potrebbe ipotizzare una piccola ferita a un arto superiore, verosimilmente la mano, provocata o da una scheggia di vetro o dal meccanismo di sparo dell'arma utilizzata.
  È opportuno precisare che, durante il trasbordo, all'onorevole Moro dovrebbero essere state bloccate le braccia, quindi è più probabile che il ferito lieve o i feriti lievi fossero entrambi sequestratori.
  Volendo dare credito a Morucci e considerando Bruno Seghetti alla guida, nell'ipotesi che Moro fosse bloccato o in stato lipotimico, il ferito o i feriti lievi della 132 vanno cercati tra Mario Moretti, Raffaele Fiore e Prospero Gallinari.
  È pur vero che l'abito di Moro potrebbe essere stato colpito da schizzi di sangue del personale della scorta che era con lui in auto, ma in ogni caso avrebbe dovuto appoggiare una mano sul montante della porta posteriore destra. A meno da non ipotizzare, più macchinosamente, che uno di coloro che sospinsero lo statista nell'auto si sia imbrattato del sangue attaccato all'abito dell'onorevole Moro, sporcando poi il montante dell'auto.
  Nel verbale relativo alla Fiat 128 bianca, gli agenti Saba e Pinna al termine annotano: «Diamo atto infine che nella parte centrale dell'auto, altezza sportello anteriore destro vi erano delle tracce di sangue». I tecnici della Polizia scientifica, invece, in merito riferiscono: «La carrozzeria presenta: sulla faccia interna del battente della portiera anteriore destra, metà inferiore, alcuni schizzi di sostanza rossastra, presumibilmente sangue; altri schizzi della stessa sostanza sulla metà inferiore del montante destro e sull'angolo posteriore inferiore della portiera anteriore destra». Nel verbale, nel descrivere le foto 14, 15 e 16, i due uomini del gabinetto della Polizia scientifica usano sempre il termine «schizzi di sangue» (012).
  L'acquisizione, da parte della Commissione, di alcuni filmati dell'epoca ha confermato gli elementi sulla presenza di sangue descritti da Saba e Pinna. Negli screenshot, provenienti dal TG1 delle 20 del 17 marzo 1978, si notano le tracce di sangue descritte da Saba. Si tenga presente che il fonogramma trasmesso da Abbondandolo a nome del commissario Marinelli alle 6.30 del 17 marzo 1978 alla DIGOS e ad altri uffici della Questura di Roma, acquisito presso il commissariato Monte Mario il 10 marzo 2016, presenta alcune specificità rispetto a quanto sinora esposto. Infatti, in esso si legge: «Inoltre su sedile anteriore destro et sportello anteriore stesso lato sono state rilevate tracce sangue». Il sangue sul sedile quindi viene menzionato, mentre nel verbale redatto da Saba e Pinna trenta minuti dopo, alle 7 del medesimo 17 marzo, non se ne fa menzione.Pag. 62
  Volendo dare credito a Morucci e ponendo Alvaro Loiacono alla guida e Prospero Gallinari, sui sedili posteriori, le gocce di sangue dovrebbero essere di Alessio Casimirri.
  Anche nella 128 blu vi sono tracce ematiche. Il verbale di rinvenimento redatto da Abbondandolo riporta: «Inoltre sul vetro della portiera anteriore sinistra e in particolare sulle cromature interne del deflettore si notano piccole macchie rossastre, presumibilmente di sangue». Gli uomini della Polizia scientifica il 17 marzo 1978 iniziano con l'esaminare solo esternamente l'autovettura, in attesa dell'artificiere, e non notano nulla di quanto riferito da Abbondandolo. Invece, descrivendo l'interno, annotano: «Delle macchie di sostanza rossastra interessano le superfici del volante, la superficie della struttura metallica della portiera anteriore sinistra, nonché interna, tra il finestrino ed il pannello di rivestimento; altra macchia di analoga sostanza e di dimensioni più accentuate delle precedenti, si nota sulla parte centrale del rivestimento interno del tetto zona soprastante la spalliera del sedile di guida» (013), e pure nelle descrizioni delle fotografie non menzionano il deflettore.
  Tra tutte le tracce ematiche delle tre autovetture, quelle della 128 blu sono senz'altro le più singolari. Anzitutto, il ferito si è posto alla guida, così da imbrattare il volante, e stupisce che tracce ematiche non vi fossero – a meno che siano sfuggite alla vista – sul cambio e sul freno a mano. Ma le più particolari sono le macchie di sangue sul deflettore sinistro, sul vetro e sul rivestimento interno sopra la spalliera anteriore sinistra, come se il conducente avesse avuto difficoltà, per lo spazio esiguo, ad entrare nell'autovettura.
  Questo rafforzerebbe il convincimento del parcheggio del mezzo in un luogo chiuso, per essere poi portato solo in un secondo tempo in via Licinio Calvo.
  Volendo dare credito a Morucci, il sangue dovrebbe essere il suo, poiché Franco Bonisoli era a fianco e Barbara Balzerani sui sedili posteriori.
  Anche se da queste testimonianze non è possibile acquisire certezze in ordine alle entità delle eventuali ferite, la Commissione sta compiendo indagini per verificare se queste abbiano potuto essere curate in una struttura prossima alla zona dell'agguato. Sono state pertanto avviate indagini, ancora in corso, sia sulla «copertura medica» di cui le BR avrebbero potuto giovarsi, attesa la loro penetrazione in ambiente sanitario e infermieristico, sia alcuni luoghi di cura della zona, tra cui la casa di cura Villa Maria Pia, sita in via del Forte Trionfale.
  Tale casa di cura fu oggetto di indagini già nell'imminenza della strage di via Fani, non solo per una ragione di prossimità al luogo dell'agguato, ma anche sulla base di testimonianze, tra le quali la più rilevante è quella di Mario D'Achille, guidatore di ambulanze dell'ospedale San Filippo Neri, che dichiarò di aver notato più volte, a partire dal 12 marzo, una Fiat 128 bianca familiare, con targa diplomatica, nei pressi di quella che poi apprese essere l'abitazione di Aldo Moro. Il 14 marzo 1978 la stessa auto avrebbe depositato una Pag. 63donna davanti alla clinica, nella quale la sconosciuta sarebbe entrata (014). La Commissione sta conducendo ulteriori accertamenti sul punto, anche sulla base di significative acquisizioni di documentazione della Polizia e dei Carabinieri sulla presenza di medici e infermieri implicati in attività terroristiche o di favoreggiamento al terrorismo.

  8.4. L'edificio della Balduina.

  Diversi elementi già esposti sembrano far propendere per la presenza nella zona di un luogo in cui i brigatisti avrebbero potuto trovare rifugio con o senza l'ostaggio.
  Si ricorda a tale proposito che l'ipotesi che Moro fosse stato trattenuto, per un periodo più o meno lungo, nella zona della Balduina fu più volte avanzata.
  Il 6 ottobre 1981, Emanuele De Francesco, questore di Roma all'epoca del sequestro Moro e in seguito prefetto e direttore del SISDE, affermò in audizione alla prima Commissione Moro che il Presidente Moro poté essere «tenuto in sequestro in due o più luoghi diversi, il primo dei quali, forse anche avente carattere di extraterritorialità, in località non distante da via Fani».
  Il generale Giuseppe Santovito, direttore del SISMI, venne analogamente sentito sul punto nell'audizione del 1o luglio 1980, presso la prima Commissione Moro. Rispondendo a una domanda dell'onorevole Paolo Cabras, affermò, quasi incidentalmente: «Sono più dell'avviso che il Presidente non si sia allontanato più di un chilometro da via Fani». Aggiunse poi che lo statista sarebbe rimasto in questo posto per la prima fase della prigionia, specificando: «Questa è una notizia della Guardia di finanza», con possibile allusione alla fonte della Guardia di finanza attiva nel periodo del sequestro.
  A queste considerazioni, che hanno particolare rilievo perché provenienti da operanti, si può aggiungere anche una serie di indicazioni emerse in sede pubblicistica. Oltre al noto racconto-inchiesta di Pietro Di Donato Christ in plastic, si ricorda che nel fumetto comparso su «Metropoli» nel giugno 1979, una didascalia riporta: «Nella stanza interna di un garage del quartiere Prati comincia l'interrogatorio di Aldo Moro». Anche il noto articolo di Mino Pecorelli Vergogna, buffoni  !, pubblicato su «OP» nel numero del 16 gennaio 1979, evocava il «garage compiacente che ha ospitato le macchine servite all'operazione». Un più tardivo richiamo è pure presente nell'intervista rilasciata a Giancarlo Feliziani da Licio Gelli nel 2011 e andata in onda su «La 7» nella serata del 18 dicembre 2015. In questo caso, Gelli affermò che, dopo l'azione di via Fani, l'onorevole Moro venne portato a 100-150 metri di distanza e messo in un garage «di quelli che vanno sottoterra», spostandolo poi dopo una decina di giorni.
  Gli elementi fondamentali che portano la Commissione a concentrare l'attenzione su un complesso della zona Balduina sono soprattutto tre: le indicazioni di una fonte riservata della Guardia di finanza Pag. 64attiva nell'epoca del sequestro Moro (015); alcuni accertamenti compiuti a suo tempo dalla Polizia sia nell'imminenza dei fatti sia a seguito della pubblicazione di un articolo dello scrittore Pietro Di Donato; gli elementi logici emersi dalla verifica della tradizionale ricostruzione della fuga dei brigatisti alla luce di una rilettura complessiva delle testimonianze acquisite a ridosso degli eventi. Si sottolinea che gli elementi documentali emersi non sono di per sé definitivi, ma che stanno trovando ulteriori riscontri con le attività in corso.

8.5. Gli accertamenti nel periodo del sequestro.

  Secondo un appunto del 17 marzo 1978, acquisito agli atti della Commissione, «fonte confidenziale degna di fede» della Guardia di finanza aveva segnalato che lo statista era detenuto nella zona «Balduina-Trionfale-Boccea-Cassia», con un solo carceriere (016). Lo stesso segnalava anche che «i brigatisti Lauro Azzolini, Rocco Micaletto e Giustino De Vuono sicuramente sono nella Capitale».
  Il 21 marzo 1978, la stessa fonte della Guardia di finanza di cui all'appunto del 17 marzo 1978, come è comprensibile dal riferimento alla zona già segnalata, riferì che quanto prima lo statista sarebbe stato trasferito nella «prigione del popolo», verosimilmente a mezzo pullman con il sequestrato narcotizzato e nascosto nel vano bagagli, o con autocarro con doppio fondo. Dagli atti risulta che la fonte non fu in grado di delimitare meglio la zona che aveva indicato, esprimendo solo un suo parere riguardo a un raggio di circa due chilometri da via Fani. La notizia venne fornita dal Comandante generale della Guardia di finanza al questore Fariello, direttore dell'UCIGOS (017).
  Il 19 marzo 1978, come risulta dagli atti acquisiti dalla Commissione presso il commissariato Monte Mario, il brigadiere Pasquale D'Annunzio informò il suo superiore, il commissario Marinelli, degli esiti negativi delle verifiche da lui stesso effettuate nella zona della Balduina mediante perquisizioni, unitamente all'equipaggio dell'auto radiocollegata «Monte Mario» e al pattuglione operante in quella circoscrizione con sigla radio «Roma Narni 108», sulla base segnalazioni fornite dalla DIGOS e dalla Questura.
  Tra queste se ne nota una di interesse: infatti, alle 15.15 dello stesso giorno, la Sala operativa della Questura di Roma comunicò che un anonimo aveva riferito che in via Massimi, via Anneo Lucano, via Licinio Calvo «sarebbero nascoste le Brigate rosse e lui ci avrebbe indicato l'appartamento che si accede attraverso un garage».
  Il 22 marzo 1978 – così almeno si deduce dall'annotazione manoscritta in calce all'atto – la Guardia di finanza produsse un terzo appunto relativo a una notizia confidenziale originata dalla medesima Pag. 65fonte sulla quale non si hanno indicazioni (018). A detta della fonte, immediatamente dopo il rapimento (indicazione che risulta cancellata nel documento), la 128 blu sarebbe stata parcheggiata in un garage o in un box ubicato nella zona segnalata con il primo appunto, cioè quella sottoposta alla massima intensità di controlli da parte delle forze di polizia o in zona prossima a questa.
  La fonte precisava che la Fiat 128 blu avrebbe potuto consentire l'individuazione della prigione, e ciò significa che, a detta della fonte, il garage/box si trovava nel medesimo sito del luogo di prigionia, quindi il rischio minore era quello di spostarla, parcheggiandola ove è stata rinvenuta. La fonte non faceva alcun riferimento alle altre due autovetture. La fonte prosegue poi con la notizia più importante: la presenza di un covo brigatista nella zona suddetta, ubicato ad un piano elevato, 5o, 6o o 7o. A questo appartamento/covo sarebbe stato possibile accedere dall'ingresso principale con un ascensore accessibile anche dal garage interrato.
  Come si può notare, nella sostanza le due notizie, quella dell'anonimo segnalatore alla Sala operativa della Questura e quella della fonte della Guardia di finanza, sono sovrapponibili: c’è un legame garage-covo.
  La notizia era molto precisa e suscettibile di ulteriori approfondimenti investigativi. Non a caso il prefetto De Francesco il 6 ottobre del 1981 affermò: «Fin dai primi momenti del sequestro, cominciarono ad affluire alla Questura innumerevoli segnalazioni di luoghi in cui l'On. Moro sarebbe stato tenuto prigioniero. Inoltre, moltissime di tali segnalazioni pervenivano da qualificati Organi o Corpi dello Stato, come, ad esempio, la Guardia di finanza, che, tra l'altro, comunicò il 17 marzo, che la prigione era ubicata nella zona «Balduina-Trionfale-Boccea», che il prigioniero era controllato da un solo carceriere e che aveva larga disponibilità di cibo» (019).
  Altri riscontri si hanno nei cosiddetti «appunti Lettieri» relativi alle riunioni del comitato politico-tecnico-operativo istituito presso il gabinetto del Ministero dell'interno, che non comprendono date tra il 18 e il 20 marzo 1978 (020). Nella riunione delle ore 17.30 del 21 marzo, in relazione all'intervento del Comandante generale della Guardia di finanza, generale Raffaele Giudice, è riportato: «Riferisce che fonti riservate hanno confermato la presenza dell'On. Moro in Roma nella zona Trionfale, Balduina, ecc. Nei prossimi giorni verrebbe trasferito in altra località per essere processato dal tribunale Pag. 66del popolo. Riferisce che da domani il sostituto Infelisi riunirà i capi dei nuclei investigativi» (021).
  Ancora, nella riunione delle ore 19.30 del 22 marzo, il generale Giudice tornò chiaramente sull'argomento: «Una fonte sosterrebbe che il rapito si trova nella zona di Monte Mario e che finora non è stato trovato in quanto le perquisizioni non sono state fatte a tappeto». Si noti come il generale Giudice si sia avvalso esattamente della stessa parola usata dalla fonte. Il 28 marzo, nella riunione delle 19.30, Giudice riferì: «Continueranno i pattugliamenti nella zona di Monte Mario» (022). Ciò sembrerebbe confermare l'elevato grado di attendibilità che la Finanza riponeva nella propria fonte.

8.6. Gli accertamenti successivi.

  La Commissione ha puntualmente verificato che furono compiuti una pluralità di accertamenti su stabili della zona a partire dal 17 marzo, da parte della Polizia, dell'Arma dei carabinieri, della Guardia di finanza, del Corpo dei vigili urbani. Tali accertamenti sembrano tuttavia non aver riguardato uno degli edifici che, per le sue caratteristiche e per le indicazioni dei testimoni, presentava elementi di particolare interesse.
  Numerosi accertamenti furono compiuti dal commissariato di Monte Mario, diretto da Enrico Marinelli, dopo l'apparizione, il 15 novembre 1978, sul quotidiano «Il Tempo», di un articolo dal titolo Uno scrittore americano «ricostruisce» il caso Moro, redatto dal giornalista Giuseppe Longo. Longo commentava il lavoro Christ in plastic di uno scrittore italo-americano, Pietro Di Donato, pubblicato sul numero di dicembre 1978 della rivista «Penthouse».
  L'autore spiega che l'allora sessantassettenne scrittore sarebbe stato amico di un senatore del PCI il quale da tempo lo aveva messo in contatto con un personaggio chiamato R1, uomo d'affari di successo, ma rivoluzionario e implicato in azioni contro il potere costituito. Il primo maggio 1978 Di Donato sarebbe venuto a Roma e avrebbe incontrato R1. Costui gli avrebbe spiegato come entrare in contatto con R2, personaggio che aveva accesso alla cellula principale che aveva portato a termine il sequestro Moro. Di Donato avrebbe asserito di aver potuto ricostruire la situazione «con due brigatisti amici della famiglia Moro». Longo riferisce anche che, secondo Di Donato, Moro sarebbe sempre rimasto nella stessa prigione, dalla quale si poteva accedere da un garage con ingresso su via della Balduina, fino alla vigilia della morte, quando, per ragioni di sicurezza, sarebbe stato portato in una località di mare nei pressi di Roma.
  Gli accertamenti compiuti, trasfusi in una nota del 17 novembre 1978 del commissario Marinelli al questore di Roma, si indirizzarono però – sulla base di ipotesi investigative non note – soprattutto «nella parte alta di Via della Balduina [...] ove esisterebbe un garage attraverso il quale i rapitori dell'On. Moro lo avrebbero condotto nel luogo di prigionia», non dunque nella parte «bassa» dove si trova l'edificio individuato.Pag. 67
  Allo stesso tempo, Marinelli segnalò che in via della Balduina 323 esisteva l'accesso al garage privato di due palazzine con ingresso principale in via Massimi 91 di proprietà dello IOR, riportando che l'ingresso del garage era isolato ed era stato ricavato entro un muro di cinta alto tre metri e lungo un centinaio di metri e che, quindi, «potrebbe essere quello indicato nell'artico(lo) definito «mimetizzato»». Questa importante intuizione investigativa non sembra però aver prodotto esiti. Marinelli riferì infatti che «anche tale autorimessa è stata ispezionata ma nessun elemento è emerso a conferma di quanto riferito nell'articolo» (023).
  In proposito va segnalato che tra gli atti acquisiti dalla Commissione presso il commissariato Monte Mario si trova una relazione di servizio, di rilevante importanza, del 16 novembre 1978, dalla quale risulta che i marescialli Saverio Abbondandolo e Ippolito Salvatore, nonché la guardia Giovambattista Mazzarella, del commissariato Monte Mario, su richiesta di Marinelli, riferirono di aver «eseguito un controllo ai garage privati (non sussistono autorimesse pubbliche) esistenti in Via della Balduina, tratto – Piazza omonima – Via Massimi», con esito negativo. L'accurata descrizione che gli operanti compirono dell'interno dei garage delle due palazzine di via Massimi evidenzia che l'ispezione da loro compiuta fu alla base di quanto Marinelli riferì al questore.
  I tre operanti di polizia giudiziaria riportano inoltre una interessante osservazione: «Tuttavia, facciamo presente che il garage descritto nell'articolo cui si fa riferimento, potrebbe essere quello esistente in Via della Balduina n. 323. Detto garage fa parte del complesso edilizio composto da due palazzine con ingresso principale da Via Massimi n. 91 di proprietà dell'Istituto Opere Religiose con sede in Roma – Via della Conciliazione n. 10. L'ingresso del garage si trova al centro di un muro alto circa tre metri e lungo oltre 100 metri. L'interno del garage è composto da un lungo corridoio sul quale si affacciano i box privati muniti di porte ed inferriate. Alle spalle dei box esistono le cantine. L'intercapedine di entrambe le palazzine sono larghe circa 60-70 cm. e sono praticabili e prendono luce dalla parte superiore lungo i marciapiedi mediante feritoie e vetro-cemento».
  L'ipotesi che il garage fosse localizzato in quella zona è rafforzata dal secondo verbale di rinvenimento del 16 marzo 1978, redatto da personale del gabinetto regionale della Polizia scientifica della Questura di Roma, inerente la nota Fiat 132 targata Roma P79560, nel quale si legge: «Sull'alloggiamento del mandante del congegno di chiusura dello sportello posteriore destro, poggia uno stelo di infiorescenza arborea, contrassegnata con la lettera «Y» [...] In prossimità dell'angolo posteriore destro del canaletto della sede del bordo del coperchio del portabagagli, si rinvengono altre infiorescenze arboree ed alcuni peli, contrassegnati con la lettera «O»» (024).
  In proposito è stato accertato che da via Massimi era possibile accedere a piedi o in auto a via della Balduina, per giungere al civico Pag. 68323, di accesso al comprensorio dello IOR. Il tratto era però disagevole, con fessurazioni dell'asfalto ed erbacce, nonché stretto tra il muro di cinta del predetto comprensorio ed una macchia di sambuchi, frequentata da animali randagi, che potrebbe dare ragione delle infiorescenze e dei peli.

8.7. Le ipotesi della Commissione.

  Sulla base degli elementi sommariamente esposti, si è dunque formulata un'ipotesi di lavoro che ha condotto a compiere indagini su due palazzine di via Massimi, che presentano diverse caratteristiche abitative compatibili con un uso nell'ambito del sequestro Moro.
  Tale ipotesi è rafforzata peraltro dalle verifiche compiute sullo stato dei luoghi nel periodo del sequestro e da una serie di elementi logici relativi al percorso delle auto in fuga, oltre che dal legame tra via Licinio Calvo e via Massimi, evidenziato a partire dalle segnalazioni della fonte della Guardia di finanza.
  Come si è detto, si dà conto solo in maniera estremamente sintetica delle indagini in corso, i cui atti sono stati trasmessi alla Procura di Roma e rimangono coperti dal segreto funzionale. In estrema sintesi si segnala che le palazzine in questione, di proprietà IOR, registrano una serie di presenze significativamente legate all'area politico-ideologica in cui è maturato il sequestro dell'onorevole Moro, tra le quali quella di un soggetto straniero, la cui presenza è confermata da più testimoni; quella di un esponente dell'Autonomia Operaia romana anche nel periodo del sequestro Moro; quella di almeno un militante regolare delle Brigate rosse, con disponibilità di regolare accesso in periodo successivo al sequestro. Tali presenze risultano peraltro insediate, con modalità che sono in corso di accertamento, in una realtà profondamente diversa in quanto il condominio era abitato, in ragione della sua proprietà, oltre che da privati, da prelati, ed era sede di società estere.

9. La vicenda Moro e i rapporti con i movimenti palestinesi.

  La Commissione ha approfondito la tematica del ruolo dei movimenti palestinesi nel sequestro Moro, avviando così un primo esame della dimensione internazionale della vicenda, che sarà completato con ulteriori indagini rivolte ad altri ambiti.
  Sulla base della cospicua documentazione acquisita (025), è stato possibile affrontare in maniera sistematica questa tematica di centrale importanza, che fu trattata con molta rapidità nella prima Commissione Moro (026), in una fase storica in cui le dinamiche della politica Pag. 69internazionale non facilitavano un confronto con il tema del peculiare rapporto che si venne a stabilire tra l'Italia e il Medio Oriente dai primi anni ’70 e che trovò in Moro uno dei suoi principali artefici. In quel contesto politico sia i brigatisti che le principali autorità politiche presentarono una versione riduttiva di questo tema, per diverse ragioni, valorizzando invece la dimensione nazionale e «interna» del terrorismo brigatista.
  La Commissione ha invece inteso indagare con la maggiore completezza possibile lo spazio politicamente fluido del rapporto tra Italia e Palestina, sia sul versante dei collegamenti tra Brigate rosse e movimenti palestinesi, sia sul versante degli accordi definiti per preservare il Paese da attacchi terroristici.
  Sono stati compiuti, in particolare, approfondimenti in tre ambiti tematici: le segnalazioni pervenute anteriormente al sequestro su possibili iniziative terroristiche in Italia; il ruolo dei Servizi di sicurezza italiani e in particolare del Capo centro di Beirut, colonnello Stefano Giovannone, sia anteriormente al sequestro sia, nel corso di esso, quando fu avviata, per il tramite dei palestinesi, una trattativa finalizzata alla liberazione dell'ostaggio; la circolazione di armi tra l'Italia e il Medio Oriente.
  Anche se sono in corso ulteriori ricerche, dal complesso della documentazione esaminata emerge chiaramente la centralità del ruolo dei movimenti palestinesi nella vicenda Moro.
  L'attivazione, su richiesta italiana, dei palestinesi, al loro massimo livello, affinché rendessero possibile la liberazione di Moro, sembrò sfociare, alla fine di aprile 1978, in un possibile scambio, ma l'operazione fallì e fu anzi occultata. Essa chiamava infatti in causa non solo la «tenuta» della linea della fermezza, ma la stessa politica internazionale dell'Italia e dei suoi aspetti più controversi, come eventuali accordi con i palestinesi e le vicende del traffico d'armi.

9.1. L'allarme del colonnello Giovannone e la sua sottovalutazione.

  Il 17 febbraio 1978 il colonnello Stefano Giovannone, Capo centro del SISMI a Beirut e principale tramite dei rapporti tra Servizi italiani e Medio Oriente, comunicava da Beirut (027): «Mio abituale interlocutore rappresentante «FPLP» Habbash, incontrato stamattina, habet vivamente consigliatomi non allontanarmi Beirut, in considerazione eventualità dovermi urgentemente contattare per informazioni riguardanti operazione terroristica di notevole portata programmata asseritamente da terroristi europei, che potrebbe coinvolgere nostro Paese se dovesse essere definito progetto congiunto discusso giorni scorsi in Europa da rappresentanti organizzazione estremista. At mie reiterate insistenze per avere maggiori dettagli, interlocutore habet assicuratomi che «FPLP» opererà in attuazione confermati impegni miranti ad escludere nostro Paese da piani terroristici genere, soggiungendo che mi fornirà soltanto se necessario elementi per eventuale adozione misure da parte nostre autorità. Da non diramare servizi collegati OLP Roma».Pag. 70
  Il messaggio era di grande importanza. Forniva un'indicazione generale, ma resa significativa dalla qualità della fonte che l'aveva segnalata e ribadiva i confermati impegni assunti tra Governo italiano e movimenti palestinesi.
  Un messaggio di tale importanza non poteva dunque essere accantonato. Fu però oggetto di una trasmissione prevalentemente burocratica ai centri locali. Lo stesso giorno il messaggio (028) fu trasmesso dal Reparto R.S. al Reparto D con preghiera «di inoltro al Ministero Interni e Servizi Alleati». Si stabiliva di aggiungere, nella trasmissione per il SISDE, «che operazione potrebbe coinvolgere anche Italia». Il Reparto D informò poi il SISDE (029), diramò l'informazione al Raggruppamento Centri CS di Roma ed a tutti i Centri CS, con richiesta di «attivare – per ogni possibile elemento conferma – fonti inserite in specifici ambienti»  (030)(030), richiese al Reparto «R – S» – Ufficio R se erano acquisibili ulteriori informazioni sulla vicenda (031).
  Le risposte furono assai deludenti e talora decisamente fuori fuoco.
  L'unica risposta positiva alla segnalazione pervenne infatti dal SISDE, che, a distanza di soli quattro giorni, il 22 febbraio (032), associava la notizia a «una riunione clandestina di gruppi terroristici, organizzata dal gruppo separatista basco Euskal Etzka, [...] prevista per il 18 scorso». La risposta del SISDE, peraltro, si fondava su una notizia trasmessa al Servizio dall'UCIGOS il precedente 9 febbraio.
  Occorre tuttavia evidenziare che le informazioni acquisite la mattina del 17 febbraio facevano riferimento ad un «progetto congiunto discusso giorni scorsi in Europa da rappresentanti organizzazione estremista» e non potevano essere associate a una riunione che ancora doveva svolgersi.
  Il carteggio acquisito evidenzia che solo tre Centri periferici risposero (negativamente) in ordine a possibili riscontri alla notizia (033). Cosa che più conta, non risulta che siano state richieste o sollecitate all'originatore della notizia ulteriori notizie relativamente ad essa.
  La rilevanza della segnalazione e soprattutto la sua provenienza dal colonnello Giovannone, persona fortemente legata a Moro, rendono probabile il fatto che Moro stesso possa esserne stato messo al corrente. Il messaggio, dunque, poté costituire una – e non la meno importante – tra quelle segnalazioni che contribuiscono a spiegare le preoccupazioni espresse da Moro per il deterioramento dell'ordine pubblico e la sicurezza sua e dei suoi familiari.
  In questo contesto potrebbe peraltro essere rivalutata la vicenda delle dichiarazioni di Antonino Arconte e la sua affermazione di essere stato latore, nel marzo 1978 e comunque prima del rapimento Moro, di un messaggio da far pervenire, tramite un altro agente, a Giovannone, che conteneva la richiesta di attivarsi per la liberazione di Moro. Prescindendo dalla veridicità delle affermazioni di Arconte, appare significativo che questa ricostruzione abbia assunto alla sua Pag. 71base una serie di elementi fattuali riscontrabili in atti, come quello dell'azione di Giovannone per favorire la liberazione di Moro.
  La continuità dei rapporti tra Moro e Giovannone non era del resto venuta meno quando Moro aveva lasciato le cariche di governo. Lo ricorda lo stesso Giovannone, in una delle sue deposizioni innanzi all'Autorità giudiziaria: «A fine 1977 fui convocato dal presidente Moro, anzi mi recai dal predetto per fargli gli auguri ed egli si interessò, come aveva fatto altre volte, del panorama politico medio-orientale e in particolare della situazione dei palestinesi in Libano».
  La Commissione ha indagato sulla possibilità che Moro sia stato messo al corrente del messaggio da Beirut e, in particolare, su una serie di colloqui che avvennero nello studio di via Savoia tra il 14 e il 15 marzo 1978.
  La documentazione acquisita evidenzia significative incongruenze tra le versioni riportate dagli interlocutori di Moro, che emersero nel corso del 1979.
  In particolare, in una relazione al Questore del 22 febbraio 1979, redatta perché il giorno precedente sul quotidiano «Il Secolo XIX» era stato pubblicato un articolo dal titolo Moro il giorno prima del rapimento disse a Parlato: «Temo un attentato», il dirigente della DIGOS, Domenico Spinella ricostruì un incontro con Nicola Rana, capo della segreteria di Moro, avvenuto nella serata del 15 marzo 1978 nello studio di via Savoia, nel corso del quale Rana richiese un servizio di vigilanza per lo stesso. L'incontro si sarebbe svolto quando Moro non era presente e, vista la tarda ora in cui era terminato, non era stato possibile attuare il nuovo dispositivo già dal giorno dopo (034).
  L'episodio fu riferito anche dal Capo della Polizia, Parlato. Sentito il 29 agosto 1978 dal magistrato Achille Gallucci, Parlato escluse che Moro con lui avesse fatto riferimento al timore di un attentato e ricordò di aver avuto un colloquio con Rana circa la sicurezza dello studio di via Savoia il 14 o 15 marzo 1978 (035). Tali affermazioni furono poi confermate da Parlato in sede dibattimentale, nel corso del primo Processo Moro, il 12 ottobre 1982. In tale occasione Parlato mise in relazione la sua visita con gli accertamenti sul «caso Moreno» e ribadì che tanto lui stesso che Rana notarono la carenza della vigilanza quando il Presidente Moro era assente e concordarono di rafforzarla (036).
  Su queste vicende è stato audito dalla Commissione Nicola Rana (16 febbraio e 22 marzo 2016), il quale dapprima ha riferito che la sera del 15 marzo si era intrattenuto con Moro, in via Savoia, sino alle 23 o 23.30, senza incontrare né Parlato, né Spinella. In seguito, avuta lettura di sue più antiche dichiarazioni, ha riproposto quanto affermato nella audizione resa alla prima Commissione Moro, attribuendo la visita del Capo della Polizia a generiche preoccupazioni per Pag. 72possibili intrusioni nello studio di Moro, giustificate dai ripetuti furti avvenuti nelle zone circostanti. Tale ricostruzione non appare tuttavia convincente, anche alla luce della sproporzione tra la presenza del Capo della Polizia e l'instaurazione di un servizio di protezione che avrebbe potuto facilmente essere garantito su semplice richiesta (037).
  Alla luce della documentazione appare assai più probabile che, prima del 16 marzo 1978, e in particolare il giorno precedente all'eccidio della scorta ed al sequestro, Moro avesse espresso timori per la sua incolumità, anche in relazione con gli allarmanti messaggi che provenivano da Beirut.

9.2. La documentazione sul messaggio successiva al rapimento Moro.

  La Commissione ha accertato che nel periodo immediatamente successivo alla strage di via Fani non si verificarono attività di approfondimento sulla segnalazione del 17 febbraio e sulla sua connessione con il sequestro Moro: non risultano in particolare comunicazioni provenienti da Giovannone in ordine a chiarimenti o ulteriori notizie richieste a George Habbash o ad altro esponente palestinese su questo tema.
  Solo in periodo successivo all'omicidio Moro si segnala un documento (038) del 17 maggio 1978, trasmesso dal SISMI al direttore del SISDE, Giulio Grassini, con oggetto «attività di movimenti rivoluzionari». L'appunto fu poi trasmesso il 19 maggio 1978 a tutti i Centri, non senza precisare che la fonte non era «per il momento valutabile» (039).
  L'appunto citava due riunioni segrete: a Madrid, nel gennaio 1978, ed a Parigi, nel febbraio 1978. Tali riunioni sarebbero state organizzate dalla Giunta di Coordinazione Rivoluzionaria (JOR) tra movimenti di diversi Paesi, tra i quali «Lotta Continua» ed i «guerriglieri palestinesi di George Habbash». Nella riunione di Parigi, in particolare, sarebbero state prese alcune decisioni «operative», tra cui «l'esecuzione di azione clamorosa contro un'eminente personalità politica pubblica dell'Europa Occidentale». Questa «non [era] riferita all'On.le Moro, come da recente precisazione della fonte». L'indicazione fu inizialmente valorizzata come convincente spiegazione a posteriori della segnalazione giunta in febbraio, ma la fonte – dopo essere stata finanziata con alcune elargizioni – fu presto abbandonata in quanto scarsamente affidabile. Si trattava infatti di un contatto venezuelano – segnalato da Navitalia – che, inizialmente, si era proposto come intermediario come le Brigate rosse, ma poi aveva tentato di dimostrare il possesso di notizie di prima mano giocando Pag. 73sulla differenza di fuso orario tra Europa e America meridionale (040).
  La tardiva e non molto affidabile notizia, peraltro, fa ancor più risaltare la mancanza di precedenti approfondimenti in relazione alla «azione eclatante» preannunciata da Beirut.
  Analoga sottovalutazione si riscontra pure nei documenti predisposti dai Servizi per la Commissione bicamerale d'inchiesta sul caso Moro dell'VIII legislatura.
  Il rapporto del SISMI redatto per l'occasione si limitava a segnalare che il Servizio «in relazione alla possibilità che in concomitanza con l'apertura del processo di Torino, fissato per il 3 marzo 1978 a carico di Curcio ed altri, le BR effettuassero atti di terrorismo in Italia o all'estero con il concorso di elementi stranieri, come la banda Baader-Meinhof o l'Armata rossa giapponese o gruppi estremisti palestinesi o arabi o altre cellule internazionali, il 15 febbraio 1978 provvedeva ad allertare tutta la rete informativa (nazionale e internazionale) ed i Servizi collegati». Tra le altre notizie si riportava anche quella relativa al messaggio del 17 febbraio 1978 (041).
  Il rapporto del SISMI è poi alla base di alcune affermazioni contenute nell'audizione di Francesco Cossiga presso la Commissione Moro del 23 maggio 1980. Rispondendo ad alcune critiche sull'azione preventiva dei Servizi nei riguardi di possibili minacce a Moro, Cossiga citò l'allerta lanciata il 15 febbraio 1978 e riepilogò in questi termini la vicenda: «Giunsero informazioni da parte di un'organizzazione del Medio Oriente (che non è l'OLP) secondo cui sarebbe stata possibile, nel prossimo futuro, un'operazione terroristica di notevole portata. [...] L'informazione, pur se generica, veniva subito trasmessa all'altro servizio di informazioni, ai servizi collegati e a tutti gli organi periferici del servizio».
  Lungo la stessa linea si colloca anche l'audizione, di poco successiva, dell'allora direttore del SISMI, Giuseppe Santovito, il 1o luglio 1980. Rispondendo a una domanda del senatore Cabras, Santovito tornò sul messaggio di Giovannone e affermò: «Questa notizia non ebbe un particolare rilievo; venne messa in evidenza, ma senza particolare rilievo. Lo ebbe immediatamente il 18 marzo. Infatti ho detto che il Servizio riesaminò tutte le notizie raccolte negli ambienti e in particolare venne ripresa in esame l'informazione di fonte palestinese immediatamente venne alla memoria questa informazione e si cercò di riattivarla e di vedere come era nata e se era possibile saperne qualcosa di più ma né i palestinesi, né altri Servizi interessati alla questione ci hanno detto più niente».
  Se dunque l'audizione del Presidente Cossiga sembra confermare il rilievo dell'informazione, l'audizione del direttore segnala che il Servizio si era preoccupato di approfondire l'informazione, il che rende ancora più inspiegabile che non si trovi traccia documentale di contatti ulteriori con la fonte che l'aveva originata.

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9.3. La negazione dei rapporti tra BR e palestinesi dopo il sequestro Moro.

  Sia la documentazione acquisita sia quella già emersa in diversi procedimenti giudiziari evidenziano che gli apparati di sicurezza italiani erano consapevoli dell'esistenza di un rapporto tra terrorismo interno e movimenti palestinesi e che cercarono di ottenere cooperazione da questi ultimi nell'ambito dei consolidati accordi. A livello investigativo e politico questo elemento venne invece sottaciuto, sia durante il sequestro Moro sia, ancor più, nei mesi successivi, quando il rapporto tra Italia e movimenti palestinesi si rimodellò profondamente e le Brigate rosse realizzarono traffici d'armi tra Libano e Italia, ottenendo un'apertura di credito che ha probabilmente a che fare con i fatti avvenuti durante il sequestro.
  Un primo momento di verifica di queste tendenze si colloca già nell'estate 1978.
  L'11 agosto 1978 il vicedirettore del SISDE, Silvano Russomanno, inviò al Segretario generale del CESIS una nota secondo la quale «secondo notizie provenienti da fonte estera attendibile esiste un· piano di stretta collaborazione fra le Brigate Rosse e Giugno Nero al punto che i capi di questa ultima organizzazione – i quali sembra fossero già al corrente del piano relativo al rapimento dell'On.le Moro – sarebbero stati informati dalle B.R in merito a rapimenti e ad altre azioni terroristiche che saranno tra breve intraprese in Italia». Si citavano in merito alcuni «Comitati» che George Habbash avrebbe costituito in Libia e Iraq, per assicurare il coordinamento con le Brigate rosse, nonché la presenza, in un campo di addestramento iracheno, di due italiani (042).
  Pochi giorni dopo, però, il contesto mutò profondamente (043). Il 17 agosto Craxi pose, in un articolo su l’«Avanti  !» il tema dei collegamenti internazionali del terrorismo italiano, sia nei riguardi dell'Europa dell'Est sia nei riguardi dei gruppi più estremisti di Wadie Haddad.
  Il giorno precedente all'uscita dell'articolo, sulla base di alcune anticipazioni di agenzia, il Presidente del Consiglio interessò in proposito il SISMI e il SISDE, che produssero due appunti.
  L'appunto del SISDE non fa riferimento alla nota dell'11 agosto. Esordisce affermando che «ad un Servizio non è lecito trarre conclusioni se non dai fatti; se le prove fossero abbondanti e univoche, il problema sarebbe risolto; ma esse appaiono al momento scarse e discutibili, specialmente per quanto riguarda la più attiva tra le organizzazioni clandestine italiane, le Brigate rosse» e afferma con una certa secchezza che, al contrario dei movimenti palestinesi e della RAF, «il carattere delle BR è puramente nazionale».
  Questa limitativa interpretazione, in contrasto con quanto scritto qualche giorno prima, non valorizzava le notizie di intelligence già a disposizione dei Servizi. Durante il sequestro Giovannone aveva infatti avuto contatti e rapporti con esponenti palestinesi, come Abu Saleh, Pag. 75che, tramite il FPLP, avevano interessato esponenti dell'area estremista di Wadie Haddad.
  L'appunto del SISMI è più articolato e, dopo aver sottolineato che a partire dal 1974 si era affermata, prima in Libano, poi in Libia e successivamente nello Yemen del Sud, una cooperazione tra tutte le principali organizzazioni terroristiche, comprese le Brigate rosse, conclude che «dal 1975 non risulta provata alcuna collaborazione organizzata tra terroristi palestinesi e elementi delle Brigate rosse italiane, sulla cui presenza in Libano, in particolare nel periodo 1977-78, non è stato possibile raccogliere alcun elemento di conferma».
  Prudentemente un appunto del CESIS concludeva dunque che «non vi sono, pertanto, elementi certi per dare una risposta positiva all'interrogativo dell'On. Craxi se anche Aldo Moro stesse nel grande mirino del terrorismo internazionale».
  Le informative che segnalavano una ripresa dei rapporti di collaborazione tra BR e palestinesi furono invece riprese dalle forze di polizia, che ne trasmisero, senza esito, le risultanze all'autorità giudiziaria.
  Già il 18 agosto 1978 si ritrova un'informativa a firma del commissario capo Rutilio Valente, nella quale si riprende il contenuto delle informative dei Servizi sugli «stretti rapporti di collaborazione tra le Brigate Rosse e le organizzazioni palestinesi Giugno Nero e Fronte per la Liberazione della Palestina» (044).
  Pochi giorni dopo, il 31 agosto 1978, un altro rapporto della DIGOS, a firma di Spinella, che riportava la notizia del progettato viaggio di Giovanni Moro nello Yemen – individuato come area di addestramento di terroristi – affermava che «secondo notizie pervenute a quest'ufficio da buona fonte, il Fronte Popolare della Palestina e, in particolare, il gruppo facente capo a Abu Nidal, sarebbero tuttora favorevoli all'accoglimento di volontari europei, per l'addestramento e l'indottrinamento (045)».
  Tutte queste notizie, di sicuro rilievo e verosimilmente non avulse da attività di intelligence, non pare abbiano avuto all'epoca alcun seguito nella ricerca di riscontri o approfondimenti giudiziari. Tra l'altro la notizia relativa ai campi di addestramento ed alla fornitura di armi alle BR da parte dei Palestinesi assunse un rilievo giudiziario che portò, nel febbraio 1981, due funzionari di polizia delegati dall'autorità giudiziaria, Spinella e Ruggeri, ad approfondire il tema in Libano, incontrando un insuperabile ostacolo proprio nel colonnello Giovannone.
  Il tema del rapporto BR/palestinesi tornò in un periodo successivo in un rapporto del SISDE del 23 giugno 1980, che pure è fortemente limitativo sul tema.
  Il rapporto muoveva da un articolo di Marco Sassano, comparso su l’«Avanti  !» dell'8 febbraio 1980, nel quale si riprendevano i contenuti delle informative di polizia trasmesse nell'estate del 1978 Pag. 76dalla DIGOS all'Autorità giudiziaria. Rispetto a questo tema, la nota del SISDE prendeva una posizione molto netta, implicitamente sconfessando le attività a suo tempo svolte, e definiva semplici «voci» quelle condensate nel rapporto della DIGOS.
  Questo radicale cambio di prospettiva appare distante dalla realtà. Infatti, sin dal novembre 1979 la vicenda dei «missili di Ortona» aveva svelato i rapporti di collaborazione tra l'Autonomia operaia e il FPLP. Inoltre, sin dall'aprile 1980 Patrizio Peci aveva cominciato a evidenziare i rapporti BR/palestinesi e nel maggio dello stesso anno il vicedirettore del SISDE, Russomanno, era stato arrestato con l'accusa di aver consegnato copia dei verbali al giornalista Fabio Isman. Sullo sfondo c'erano poi le attività dei Servizi per accertare un eventuale ruolo della scuola Hypérion nel traffico internazionale di armi, che pure risalgono a questa fase storica.
  L'unica spiegazione realistica della posizione del SISDE, oltre alla «ragion di Stato» che caratterizzava i rapporti con la Palestina, è probabilmente la volontà di allinearsi alle posizioni limitative espresse dai Direttori alla prima Commissione Moro nel luglio 1980.
  Proprio sulla base di tali rapporti e audizioni si venne dunque a codificare un'immagine, parziale e limitativa, del rapporto tra il terrorismo interno e i movimenti palestinesi e mediorientali, analoga a quella proposta nel corso del sequestro Moro.

9.4. L'avvio di una trattativa durante il sequestro.

  La documentazione analizzata rivela che la realtà era diversa da quanto evidenziato nelle informative dei Servizi del 1978/1980. Il rapporto con i palestinesi fu costante e si basava anche sulla consapevolezza dell'esistenza di rapporti tra frazioni palestinesi e terrorismo interno. Durante il sequestro, il colonnello Giovannone, forte dei suoi consolidati rapporti in ambiente mediorientale, si attivò immediatamente. La sua azione, che viene qui riassunta sulla base dei documenti più significativi che sono stati acquisiti, si realizzò sfruttando i forti margini di autonomia di cui Giovannone godeva.
  Nella vicenda si possono distinguere tre fasi.
  In una prima fase venne acquisita la disponibilità della dirigenza dell'OLP a sostenere gli sforzi per la liberazione di Moro, anche inviando segnalazioni su movimenti di terroristi. Già in un messaggio (046) redatto probabilmente il 17 marzo per «Giusto» (il colonnello Sportelli), si comunicava che Abu Hol, responsabile della sicurezza dell'OLP (047), aveva assicurato che sarebbe stato interessato immediatamente Arafat con due finalità: contattare George Habbash per sapere se lui o altri esponenti del Fronte nazionale della liberazione della Palestina e del Fronte popolare per la liberazione della Palestina fossero a conoscenza dell'operazione Moro e potessero contattare i responsabili; avvertire i responsabili «che intera resistenza palestinese esige immediato rilascio nota persona» e «considererà atto di ostilità» Pag. 77una inadempienza che comporterà la sospensione di «qualsiasi appoggio et contatto confronti gruppi responsabili».
  Quasi contestualmente Giovannone riferiva che «George Habbash, contattato stanotte da Arafat ha condiviso sua iniziativa e pur affermando di non conoscere responsabili operazione Moro, sin da prime ore di stamattina ha attivato i suoi elementi in Europa Occidentale per avere notizie al riguardo» (048).
  I documenti nella disponibilità della Commissione evidenziano che l'attivazione dei palestinesi fu continuativa e si rivolse a una pluralità di organizzazioni terroristiche, estendendosi fino ai gruppi più estremisti di Wadie Haddad.
  Oltre a due documenti del 18 e 19 marzo, è particolarmente importante una nota del 30 marzo, sempre trasmessa da Giovannone, nella quale si riporta che «Farouk Kaddumi habet personalmente richiestomi presente Nemr Hammadi far pervenire at ministro Cossiga rinnovata assicurazione resistenza palestinese circa ricerca in atto tramite qualsiasi militante qualunque organizzazione resistenza in contatto con elementi Brigate rosse aut altri gruppi eventualmente at conoscenza operazione Moro ogni utile informazione che sarà immediatamente comunicata alt in particolare «Saleh» uno dei dirigenti di maggiore prestigio et ascendente anche presso organizzazioni Fronte Rifiuto sta operando ambito taluni elementi Fronte Popolare Habbash ricercando contatto anche con Wadi Haddad che trovasi Bagdad» (049).
  Alla metà di aprile sembra determinarsi una svolta, grazie all'attività di studenti e militanti palestinesi presenti in Italia. Da Beirut Giovannone – che si muoveva tra Libano e Italia – comunicava che l'esponente di un'organizzazione studentesca palestinese era pronto a collaborare con Giovannone «su ordine vertice O.L.P. da domani, con direttive recarsi ovunque in Italia d'accordo con me, ovunque fosse necessario». Già il 16 aprile questa prospettiva venne però meno, perché, come chiarito da Abu Hol, «nessuna persona loro organizzazione est in grado collaborare» (050).
  Nello stesso giorno Giovannone trasmetteva due importanti informazioni. Comunicava in primo luogo che i palestinesi potevano dare assicurazioni esplicita su «l'inesistenza in intera area palestinese qualsiasi programmazione operativa relativa all'Italia. Tuttavia l'affermazione riferiscesi anche a gruppo Bagdad del defunto Wadi Haddad, ma non estendesi organizzazione terroristica capeggiata da noto Carlos che opera su direttive esclusivamente libiche». Dichiarava poi che «Il rappresentante olp Roma [Nemr Hammad], che resterà a Beirut sino a fine mese, est assuntosi responsabilità seguire esito ulteriore ricerca informazioni su vicenda Moro e su qualsiasi eventuale iniziativa potesse comunque interessarci, riferendone immediatamente con messaggio tramite segretario centro bermude alt Maestro».Pag. 78
  A metà aprile, quando Giovannone comunicava che un esponente della organizzazione studentesca palestinese doveva essere messo a sua disposizione esisteva già una consistente attivazione palestinese per reperire Moro, che alimentava una certa fiducia nei Servizi. Anche se la Commissione ha accertato che non esiste presso i Servizi italiani alcun tracciamento degli spostamenti di Giovannone, la sua presenza a Roma in questo periodo è dimostrata anche da una conversazione del 13 aprile 1978 sull'utenza di Nicola Rana nel corso della quale il colonnello riferisce di trovarsi a Roma e si mette a completa disposizione

9.5 La decisiva fase di fine aprile.

  Tra la fine di aprile e l'inizio di maggio le speranze di salvare Moro diventano più forti. Mentre precedentemente si faceva riferimento soprattutto all'acquisizione di informazioni, eventualmente funzionale a azioni di polizia, quella che si tentò di realizzare dalla fine di aprile, con piena consapevolezza istituzionale, è una vera e propria trattativa, che aveva come intermediari i palestinesi. Nello stesso tempo le indagini tendevano a stagnare, quasi che ormai ci si attendesse una soluzione sul piano politico e non su quello investigativo-giudiziario.
  Fondamentali in questo ambito sono due messaggi del 24 e 25 aprile e l'appunto del 28 aprile.
  Il 24 aprile 1978 Giovannone inviò in una nota «personale per direttore generale» il seguente messaggio: «Concordata positiva immediata azione vertici O.L.P. che habent già raccolto qualche utile elemento per stabilire contatti noti interlocutori alt Riparto stamattina ore sette g.m.t. con aereo cui equipaggio habet richiesto pernottamento qui per superamento massimo ore volo giornaliere alt Riservomi indicare domattina ora atterraggio alt fine 2000» (051). Il giorno successivo Giovannone inviò una nuova nota: «Per Marra Alt Prego informare Direttore Generale che colloqui sono proseguiti in nottata per ricerca valido contatto con Brigate rosse in Europa Virg con prospettive che dovrebbero finalizzarsi brevissima scadenza Alt Aereo India Trat Snam dovrebbe atterrare Ciampino intorno dodici Et trenta Roma per probabile necessità scalo Creta causa rifornimento dovuto At fortissimo vento contrario Alt Prego inviare autovettura Alt Fine Maestro» (052).
  Pochi giorni dopo, il 28 aprile, emerge negli atti che la «trattativa palestinese» era giunta ai massimi livelli istituzionali.
  Un Appunto del Direttore del SISMI relativo alle richiesta di Nemr Hammad di un incontro con il Ministro dell'Interno(053), datato 28 aprile 1978, riferiva che il rappresentante OLP in Italia Nemr Hammad aveva chiesto di essere ricevuto da Cossiga, allo scopo – si riteneva – di: «illustrare dettagliatamente la presa di posizione della «O.L.P» a riguardo delle «Brigate rosse» e della vicenda dell'on. Moro, di cui tratta il comunicato diramato ieri dall’«O.L.P.»»; «rappresentare la disponibilità e l'interesse della dirigenza «O.L.P.» ad una forma di collaborazione permanente tra i servizi di sicurezza Pag. 79palestinesi e quelli italiani. Confidenzialmente mi è stato asserito che, pur ritenendosi che i servizi di sicurezza italiani collaborino come tutti quelli occidentali, con i servizi israeliani, sussistono margini ed interessi comuni per una valida collaborazione nel campo dell'antiterrorismo come i recenti avvenimenti dimostrano».
  Nella stessa data, un Appunto del Direttore del SISMI relativo all'esito di una missione effettuata a Beirut e dei colloqui intercorsi con esponenti dell'OLP(054) riferiva che si erano esaminati insieme con Abu Hol «gli elementi raccolti sulla vicenda Moro in Europa ed in Medio Oriente da informatori e fonti occasionali dei predetti servizi al fine di individuare un «canale» diretto che consentisse di accertare l'esistenza in vita dell'on. Moro ed eventuali alternative alla richiesta di rilascio dei 13 detenuti».
  Il Servizio precisava che la ricerca «sviluppata su direttiva personale di Yasser Arafat» aveva individuato come possibile tramite un palestinese, in rapporti con esponenti della RAF, che gli avrebbero presentato un brigatista «asseritamente alla ricerca di un contatto qualificato e permanente con le formazioni palestinesi «libere», cioè non soggette alla «O.L.P.» ed ai paesi del «fronte della fermezza» (Libia ed Iraq)».
  Tuttavia, a causa di una «una evoluzione negativa nei rapporti tra formazioni terroristiche europee ed «O.L.P.», [...].è stata ricercata la collaborazione di esponenti della organizzazione studentesca palestinese «G.U.P.S.» in Europa particolarmente in Italia, con i quali lo scrivente ha sviluppato un positivo dialogo a Roma e Beirut».
  Un autorevole esponente delle organizzazioni studentesche palestinesi (forse Anzeh Saleh) avrebbe rintracciato «due studenti palestinesi eventualmente in grado di ristabilire un preesistente contatto personale con elementi delle «Brigate rosse», ai quali erano legati da amicizia». Si è stabilito quindi che «gli studenti avrebbero preso telefonicamente contatto con intermediari in Europa per organizzare un incontro in una qualsiasi località europea con i loro amici brigatisti». Tuttavia, gli stessi studenti «intendono operare indipendentemente rispetto alla «O.L.P.»»
  Secondo i Servizi italiani, dunque, il contatto possibile passerebbe attraverso simpatizzanti della rete estremista di Wadie Haddad, poi passata nelle mani di Abu Nidal e di Carlos. Si precisava infatti che «l'elemento palestinese che, secondo le indagini svolte dalla polizia egiziana, teneva i collegamenti tra la «centrale» del gruppo di Baghdad, ed i suoi affiliati in Egitto, tale Mohamed Aref Mussa, faceva parte del primo gruppo di borsisti palestinesi della «O.L.P.» in Italia ma venne privato della borsa di studio ed espulso su proposta del rappresentante della «O.L.P.» a Roma, essendo risultato agente iraqeno coinvolto in attività illecite. Egli potrebbe essere stato l'eventuale tramite per il progettato collegamento tra il gruppo di Baghdad e le Brigate rosse».
  Il carteggio dimostra dunque in maniera inequivocabile l'esistenza di una serrata attività finalizzata ad avere notizie sul rapimento di Moro e a cercare un'interlocuzione con i brigatisti attraverso i palestinesi dell'OLP e del FPLP i cui vertici si impegnano per la Pag. 80ricerca di canali attraverso i quali giungere alla liberazione dell'ostaggio, orientando le ricerche anche verso i gruppi più estremisti legati a Abu Nidal.
  Di cruciale importanza appaiono, sotto questo punto di vista, i documenti del 24, 25 e 28 aprile 1978, che rivelano che in questa fase si nutrirono forti aspettative su un esito positivo del sequestro. È questo il periodo in cui Giovannone rientrò a Roma, dove si era recato già alla metà di aprile.
  È difficile pensare che il colonnello, chiave dei rapporti italo – palestinesi, in una fase così delicata, invece di rimanere di stanza a Beirut, da dove era possibile sollecitare personalmente e direttamente i vertici OLP e FPLP, si sia recato Roma senza che ci fossero circostanze che rendevano necessaria la sua presenza in Italia.

9.6. Le lettere di Moro e il fallimento della trattativa.

  Alla fine di aprile era dunque evidente al più alto livello politico l'esistenza di una trattativa finalizzata alla liberazione di Moro che si svolge tramite la dirigenza palestinese e con la piena consapevolezza dei vertici dei Servizi e dei Ministri competenti. Al di là della volontà collaborativa espressa dai palestinesi sin dagli inizi del sequestro Moro, l'ultima annotazione del 28 aprile sembrerebbe indicare che fu proposto al Governo italiano di far rientrare questa operazione dentro un rinnovato quadro di cooperazione che andava anche al di là della vicenda Moro.
  Non è un caso che il 28 aprile il rappresentante a Roma dell'OLP Nemr Hammadi chieda di essere ricevuto da Cossiga per «rappresentare la disponibilità e l'interesse della dirigenza OLP a una forma di collaborazione permanente tra i servizi di sicurezza palestinesi e quelli italiani».
  La strada della trattativa era tuttavia problematica. Un conto era l'acquisizione di elementi informativi dai palestinesi, un conto affidare loro una trattativa che avrebbe palesato i rapporti sino ad allora negati, creando imbarazzi all'interno e all'esterno.
  Un elemento su cui sono in corso ulteriori indagini è quali attori siano stati consapevoli della trattativa e quale fu la posizione dei terroristi che gestivano l'ostaggio e le trattative. Su questo punto, un elemento di grande importanza è la contemporaneità di questa ultima fase delle trattative con le lettere che Moro indirizzò dalla prigione brigatista (055).
  Nella lettera alla Democrazia cristiana, recapitata il 28 aprile e scritta il giorno precedente, Moro scriveva: «Bisogna pur ridire a questi ostinati immobilisti della Dc che in moltissimi casi scambi sono stati fatti in passato, ovunque, per salvaguardare ostaggi, per salvare vittime innocenti. Ma è tempo di aggiungere che, senza che almeno la Dc lo ignorasse, anche la libertà (con l'espatrio) in un numero discreto di casi è stata concessa a palestinesi, per parare la grave minaccia di ritorsioni e rappresaglie capaci di arrecare danno rilevante alla comunità. ....»Pag. 81
  Il giorno successivo, il 29 aprile 1978, fu recapitata una lettera al Presidente del Gruppo parlamentare della DC Flaminio Piccoli, scritta probabilmente già il 23 aprile. Anche qui Moro tornava sugli stessi temi: «Ma, per tua tranquillità e per diffondere in giro tranquillità, senza fare ora almeno dichiarazioni ufficiali, puoi chiamarti subito Pennacchini che sa tutto (nei dettagli più di me) ed è persona delicata e precisa. Poi c’è Miceli e, se è in Italia (e sarebbe bene da ogni punto di vista farlo venire) il Col. Giovannone, che Cossiga stima. Dunque, non una, ma più volte furono liberati con meccanismi vari palestinesi detenuti ed anche condannati, allo scopo di stornare gravi rappresaglie che sarebbero state poste in essere, se fosse continuata la detenzione. La minaccia era seria, credibile, anche se meno pienamente apprestata che nel caso nostro. Lo stato di necessità è in entrambi evidente. Uguale il vantaggio dei liberati, ovviamente trasferiti in paesi terzi».
  Lo stesso giorno, il 29 aprile, fu recapitata un'altra lettera al Presidente del Comitato parlamentare per il controllo sui servizi di informazione, Erminio Pennacchini, anch'essa in realtà scritta il 23 aprile: «Si tratta della nota vicenda dei palestinesi che ci angustiò per tanti anni e che tu, con il mio modesto concorso, riuscisti a disinnescare. L'analogia, anzi l'eguaglianza con il mio doloroso caso, sono evidenti. [...] Di fronte alla situazione di oggi non si può dire perciò che essa sia del tutto nuova. Ha precedenti numerosi in Italia e fuori d'Italia ed ha, del resto, evidenti ragioni che sono insite nell'ordinamento giuridico e nella coscienza sociale del Paese. Del resto è chiaro che ai prigionieri politici dell'altra parte viene assegnato un soggiorno obbligato in uno Stato terzo. Ecco, la tua obiettiva ed informata testimonianza, data ampiamente e con la massima urgenza, dovrebbe togliere alla soluzione prospettata quel certo carattere di anomalia che taluno tende ad attribuire ad essa. [...] Lascio alla tua prudenza di stabilire quali altri protagonisti evocare. Vorrei che comunque Giovannoni (056) fosse su piazza».
  Sempre il 29 aprile 1978 venne recapitata un'altra missiva, stavolta al Sottosegretario del Ministero di grazia e giustizia Renato Dell'Andro, anch'esso sollecitato a seguire lo stesso iter percorso in passato per i palestinesi: «La prima riguarda quella che può sembrare una stranezza e non è e cioè lo scambio dei prigionieri politici. Invece essa è avvenuta ripetutamente all'estero, ma anche in Italia. Tu forse già conosci direttamente le vicende dei palestinesi all'epoca più oscura della guerra. Lo Stato italiano, in vari modi, dispose la liberazione di detenuti, allo scopo di stornare grave danno minacciato alle persone, ove essa fosse perdurata. Nello spirito si fece ricorso allo stato di necessità. Il caso è analogo al nostro, anche se la minaccia, in quel caso, pur serissima, era meno definita. [...] Io non penso che si debba fare, per ora, una dichiarazione ufficiale, ma solo parlarne di qua e di là, intensamente però.».
  Come si vede, nelle lettere si richiede la presenza e l'attivazione del colonnello Giovannone, che proprio in quegli stessi giorni si trasferiva dal Medio Oriente all'Italia.
  L'apparente consapevolezza di Moro delle trattative in corso con i palestinesi costituirebbe una conferma dell'ipotesi dell'esistenza di Pag. 82un «canale di ritorno» con la prigione brigatista, ipotesi che appare verosimile alla luce di elementi interni alle lettere e di riferimenti già valorizzati dalle precedenti Commissioni di inchiesta.
  Rispetto a questa ipotesi, che apre numerosi interrogativi e piste di ricerca rispetto alle ultime settimane del sequestro, alcuni elementi di interesse sono emersi nell'audizione di Umberto Giovine, svoltasi nella seduta del 19 ottobre 2016.
  In quella sede Giovine ha riferito che nel corso del sequestro gli pervennero, per il tramite di ambienti vicini alla libreria Calusca di Milano e di Aldo Bonomi, copie di lettere dattiloscritte di Moro non ancora rese note. Giovine ha in particolare precisato che furono almeno tre, tutte pervenute successivamente al 18 aprile 1978, e ha dichiarato che, ogni volta che entrava in possesso di una di queste lettere, la trasmetteva a Craxi, il quale decideva se diffonderne subito il contenuto tramite le agenzie di stampa.
  Allo stato, non è possibile precisare di quali lettere si trattasse e se avessero una relazione con la trattativa gestita dal colonnello Giovannone. Va però rilevato che Giovine ha ammesso una sua conoscenza e una forte confidenza con Giovannone, datandola ai primissimi anni ’80, e ha affermato che Giovannone «era stato coinvolto, sia pure in modo secondo me surrettizio, nella questione Moro da parte di quel «partito» che riteneva che ci potesse essere un addentellato con il Medio Oriente nel rapimento di Moro».
  Ove fosse confermato che a Craxi giunsero lettere di Moro relative alla trattativa con i palestinesi, questa assumerebbe evidentemente un assai rilevante spessore politico e confermerebbe la solidità del tentativo socialista di avviare una trattativa con i brigatisti. Un tentativo che – come confermato da Claudio Signorile – non si esplicava solo in prese di posizione pubbliche, ma si svolgeva tramite la ricerca di contatti diretti con i sequestratori, nella piena consapevolezza del Ministro dell'interno, il quale del resto – come evidenziato dai documenti sopra citati – era pienamente al corrente dei contatti in corso con i palestinesi.
  In proposito si segnala che Aldo Bonomi, all'epoca esponente della struttura milanese di «Controinformazione», sentito da collaboratori della Commissione il 9 dicembre 2016, ha confermato questa trattativa «parallela», pur senza fornire elementi ulteriori sulla circolazione delle lettere di Moro.
  Va inoltre ricordato che, nella dichiarazione rilasciata ai giornalisti il 24 aprile 1978, dopo i suoi colloqui con i terroristi in carcere, l'avvocato Guiso affermò che «come si decise che quei palestinesi [i responsabili dell'attentato di Fiumicino] potevano andarsene all'estero, così si potrebbe decidere per le tredici persone di cui parla il documento numero 8» (057).
  Dall'inizio di maggio la documentazione sul rapporto con i palestinesi si interrompe bruscamente e la trattativa sembra inabissarsi, fino alla tragica conclusione del sequestro, il 9 maggio 1978. Va tuttavia rilevato che proprio questi sono i giorni in cui il tentativo socialista di una trattativa per salvare la vita di Moro si svolge e sembra giungere a esiti promettenti.Pag. 83
  Appare dunque di cruciale importanza cercare di ricostruire cosa accadde tra la fine di aprile e i primi giorni di maggio, anche superando le persistenti reticenze degli interessati. Se infatti Cossiga, in una lettera al direttore inviata al «Corriere della Sera» il 15 agosto 2008, ricordò genericamente che durante il sequestro Moro «la polizia e i carabinieri mi riferirono che avevano sentore che si sviluppassero azioni parallele e vere e proprie trattative via terrorismo internazionale di sinistra sostenuto dall'Est-servizi segreti della Jugoslavia e della Ddr-resistenza palestinese, con l'ausilio di strutture militari italiane, azioni aventi come scopo la liberazione di Moro attraverso scambi di prigionieri a livello internazionale», il 14 agosto 2008, in un'intervista resa al «Corriere della Sera», Bassam Abu Sharif, già portavoce dell'OLP e attivo in questa vicenda, alla domanda del giornalista su «Qual è stato il ruolo del Fronte popolare nella trattativa con le Brigate Rosse  ?» aveva risposto cripticamente: «È complicato. Posso dire che eravamo pronti a fare quello che veniva richiesto» (058).
  La conclusione che, al momento, se ne può trarre è che in questa fase poté verificarsi una delle seguenti ipotesi: o il contatto trovato dai palestinesi non era realmente in grado di interloquire con i terroristi, cosa che appare dubbia alla luce della continuità di rapporti tra palestinesi e Brigate rosse; o le Brigate rosse, in particolare Moretti – che aveva il controllo sull'ostaggio – rifiutarono la proposta; o il Governo italiano non avallò fino in fondo la trattativa, ritenendo che troppo grandi fossero i prezzi politici da pagare, anche di fronte all'opinione pubblica e agli alleati; o i movimenti palestinesi giocarono una partita ambigua dalla quale si ritrassero all'ultimo momento, non vedendone contropartite immediate.
  Un successivo approfondimento dovrebbe mirare ad accertare chi concretamente assunse la decisione di far saltare il dialogo in corso.
  Il lavoro di indagine su questi temi è ancora da compiere. Va tuttavia rilevato che alcuni dei protagonisti hanno, a suo tempo, avanzato delle riflessioni in merito.
  Sentito dal giudice Mastelloni sui traffici di armi tra Italia e Medio Oriente, il colonnello Giovannone ha dichiarato che, in vista della liberazione del presidente della DC, Arafat aveva riferito a Santovito che il contatto c'era stato ma che le BR avevano chiesto all'OLP contropartite impossibili e che improvvisamente le BR avevano rotto il dialogo.
  Una pista diversa sembra emergere dal citato appunto del SISMI del 28 aprile 1978, relativo alle proposte che Nemr Hammad avrebbe rivolto al Governo italiano. Tali proposte si focalizzavano sull'intento di giungere «ad una forma di collaborazione permanente tra i servizi di sicurezza palestinesi e quelli italiani». Poiché non si hanno notizie di qualche esito di questo «passo» della dirigenza palestinese, si può avanzare l'ipotesi che tale proposta di collaborazione, che nasceva dalla collaborazione in atto durante il sequestro Moro, fosse stata rifiutata dal governo italiano e che, conseguentemente, i movimenti palestinesi abbiano cessato le loro attività a sostegno della trattativa.Pag. 84
  Si può, infine, richiamare la spaccatura che si verificò nelle Brigate rosse a proposito della sorte di Moro. Mentre Morucci e Faranda, espressivi di quell'area derivata da Potere operaio che disponeva di più antichi e probabilmente più solidi contatti con i palestinesi, operavano per una trattativa, Moretti potrebbe aver rifiutato questa prospettiva e precipitato l'esecuzione. Di qui una rottura con i palestinesi che fu «recuperata» solo alcuni mesi dopo la vicenda Moro.
  A sottolineare la serietà di quest'ultima fase di trattative si possono richiamare due episodi già noti dalle precedenti inchieste parlamentari.
  La prima è la notizia circa un viaggio che Giovanni Moro avrebbe dovuto effettuare nello Yemen, notizia che deriva da un rapporto della DIGOS del 31 agosto 1978, secondo il quale «nei giorni immediatamente precedenti» la morte di Moro, il figlio Giovanni e Emma Amiconi avrebbero richiesto il passaporto, proprio al fine di compiere tale viaggio (059).
  La circostanza è stata oggetto di passate escussioni giudiziarie e audizioni, durante le quali Giovanni Moro ha escluso che i passaporti richiesti servissero per un viaggio nello Yemen e ha richiamato il fatto che in contesto in cui «una delle molte cose dette [...] fu quella che [...] si sarebbe potuto liberare l'ostaggio, nel caso in cui questi avesse accettato di espatriare, di andare in esilio volontariamente in un altro paese» – come ha dichiarato alla Commissione Stragi il 9 marzo 1999 – aveva ritenuto più prudente dotarsi di un passaporto, essendo l'unico della famiglia a non averlo.
  La concessione dei passaporti ha evidenze documentali. Il Ministero degli affari esteri li rilasciò infatti il 3 maggio a firma del Segretario generale, Francesco Malfatti di Montetretto, seguendo dunque una procedura non ordinaria.
  Alcune intercettazioni sulle utenze della famiglia e dei collaboratori di Moro sembrerebbero tuttavia indicare che la richiesta dei passaporti mobilitò numerosi sforzi e che fu probabilmente funzionale a qualcosa di significativo. Alla fine di aprile, sono presenti due intercettazioni sull'utenza dello studio Moro che chiamano in causa Nicola Rana.
  Nella prima si annota che «il dottor Malfatti del Ministero degli Esteri dice che ha ricevuto tutto, ma il formulario non è stato compilato interamente. I due interessati devono firmare almeno di fronte a lui. Un uomo chiede se è possibile fare qualcosa per evitare che i familiari dell'On. Moro siano seguiti e intervistati dai giornalisti. Il dottor Malfatti ne parlerà al Capo di Gabinetto e ritelefonerà al più presto».
  Nella seconda «un uomo, da parte del dottor Rana, prega il dottor Malfatti di tenere in sospeso i documenti non essendo tanto urgente. Riceverà una comunicazione appena possibile».
  Rilevante appare pure una telefonata di Rana a Freato, databile al 3 maggio 1978. Dopo aver commentato sulla convocazione ricevuta dalla Procura per la mattina successiva, si cita la questione dei passaporti in questi termini: «Eh, sapevano della richiesta del passaporto fatta ieri pomeriggio».Pag. 85
  Sempre sulla richiesta dei passaporti il questore di Roma De Francesco riferì in Corte d'assise il 12 ottobre 1982 (060): «Ricordo che per quanto riguarda la fidanzata del figlio di Moro ai primi di maggio del 1978 lei ed il fidanzato avevano chiesto un passaporto per recarsi in un paese del Medio Oriente, quando ancora il sequestro era in atto. Ricordo che la ragazza fu chiamata e che ricevette un foglio di carta però la mia memoria è offuscata». Anche in questo caso c’è un riferimento a un «paese del Medio Oriente» che induce a ritenere limitativa la spiegazione a suo tempo fornita da Giovanni Moro alla Commissione Stragi.
  La seconda traccia che riporta alla trattativa di fine aprile/inizio maggio è la missione dell'ammiraglio Martini in Jugoslavia, finalizzata a una sorta di «scambio» che avrebbe consentito ad alcuni terroristi della RAF fermati dalla Jugoslavia di essere trasferiti in paese mediorientale. Anche in questo caso, infatti, ci si trova di fronte al medesimo scenario di rapporti tra FPLP, Servizi dell'Est e Servizi italiani e al tentativo di condizionarlo al fine di liberare Moro.
  Questa vicenda, molto valorizzata sul piano pubblicistico, rimane peraltro oscura, in assenza di precisi riscontri documentali. L'ammiraglio Martini, nella sua audizione alla Commissione Stragi del 6 ottobre 1999, la ridimensionò molto.
  Ci sono dunque evidenze chiare che il Governo italiano tentò una trattativa con le Brigate rosse per il tramite dei movimenti palestinesi. Questa risultò però condizionata, oltre che dai calcoli politici dei vari attori, dalla complessità della galassia dei movimenti palestinesi, talora in lotta tra loro, che avevano rapporti con le Brigate rosse.
  Importante in questo senso è il riferimento al gruppo di Abu Nidal e Carlos che sembra sfuggire del tutto al controllo dell'OLP e che sembra il più vicino alle Brigate rosse.
  Anni dopo (1982), una fonte palestinese dichiarò di aver appreso da un elemento del gruppo di Abu Nidal dell'esistenza di rapporti tecnici e operativi con le BR, sfociati in una partecipazione di tale gruppo alla pianificazione del rapimento Moro.
  L'elemento trova infine conferma in una lunga nota inviata da Giovannone il 26 giugno 1978, che riepiloga un colloquio avuto con Abu Hol, il quale comunicava una serie di iniziative militari che l'OLP intendeva compiere contro Abu Nidal. In tale occasione Abu Hol ribadì che Nemr Hammadi «est altresì personalmente incaricato di Arafat promuovere ricerca ogni utile elemento riguardante mandanti et esecutori operazione Aldo Moro utilizzando già attivata rete informatori palestinesi Europa et coordinando operazione con nostro rappresentante che riterrei debba essere Bruni già inserito in pluriennale valido contatto con stesso Hammadi». Sembra dunque che anche l'OLP abbia indagato su un esito che aveva cercato di scongiurare e sui motivi del fallimento di una trattativa che dovette probabilmente determinarsi intorno al 5 maggio, quando Arafat lanciò un appello pubblico per la liberazione di Moro, che fu ripreso dalla stampa italiana dell'epoca.Pag. 86
  Sulla base dei documenti analizzati, è ipotizzabile che proprio i gruppi legati a Abu Nidal – in conflitto con l'OLP – abbiano contribuito, insieme all'ala morettiana delle Brigate rosse, ad affossare le trattative in atto. Ciò peraltro spiegherebbe il fatto che all'indomani del sequestro Moro, Moretti cercò immediatamente di ristabilire un rapporto con l'OLP.
  Il 21 giugno 1978 un messaggio di Giovannone da Beirut riferiva infatti che «le Brigate Rosse italiane avrebbero fatto pervenire in questi giorni personalmente at George Habbash, leader del Fplp, copia dichiarazioni rese da Onorevole Moro corso interrogatori subiti durante prigionia, per quanto di interesse della resistenza palestinese alt si ritiene che iniziativa miri ristabilire rapporto ufficiale collaborazione et assistenza su piano anche operativo, asseritamente venuto meno ultimo biennio alt attendibilità tre» (061).
  Un riscontro di questo mercanteggiamento è contenuto in un articolo che Mario Scialoja, giornalista particolarmente ben informato sul sequestro Moro, scrisse per «l'Espresso» il 29 ottobre 1978 (062).
  In esso, infatti, si affermava che tra le carte mancanti di Moro ci sarebbe stato «un pezzo di verbale d'interrogatorio in cui il prigioniero, partendo dal commento all'assassinio (compiuto a Roma dai servizi segreti israeliani il 16 ottobre 1972) di Wael Zfaiter, rappresentante di Al Fatah in Italia, descrive gli accordi in base ai quali i servizi segreti dei paesi NATO e quelli israeliani possono agire sul nostro territorio nazionale».
  Scialoja fu sentito sul punto in un'audizione presso la Commissione Stragi, il 14 marzo 2000. In quell'occasione il Presidente Pellegrino fece notare che il riferimento «è di una estrema precisione, ma non esiste in tutta la documentazione Moro che abbiamo rinvenuto», ma Scialoja dichiarò di non avere alcun ricordo in merito. Nonostante questa reticenza, appare probabile che il riferimento fosse agli «interrogatori» evocati da Giovannone, essendo le notizie sull'operatività dei Servizi israeliani in Italia di sicuro interesse per il mondo palestinese.
  La notizia di una circolazione degli «interrogatori» di Moro fu peraltro ripresa, nel maggio 1979, dalla usualmente ben informata «Critica sociale», in uno «speciale» dedicato alle trattative condotte dall'avvocato Guiso, dove si affermava «che le BR, seguendo una prassi consolidata, [li] hanno probabilmente già spediti all'estero» (063).
  Alla luce di tutto ciò, si può formulare l'ipotesi di lavoro che proprio la cessione di carte di Moro a movimenti palestinesi sia alla base di una rinnovata sintonia tra Brigate rosse e movimenti palestinesi, che porterà, nel 1979 e 1980, a un'accentuata collaborazione e alla fornitura di armi.

Pag. 87

9.7. I traffici di armi tra Italia e Medio Oriente.

  Nell'ambito dei contatti tra Italia e movimenti palestinesi affiora continuativamente la tematica del traffico di armi tra terroristi interni e Medio Oriente, in seguito oggetto di inchieste giudiziarie (Toni/De Palo; Abu Ayad).
  La Commissione ha avviato una complessiva riconsiderazione di questa tematica allo scopo di determinare le relazioni tra il traffico di armi e la vicenda Moro.
  Il punto di partenza è costituito dagli accertamenti compiuti nell'ambito delle inchieste giudiziarie primi anni ’80 anche sulla base di una serie di dichiarazioni di «pentiti». Dalla documentazione acquisita emerge che il SISMI e in particolare il Centro di Beirut, pur essendo al corrente dei traffici d'armi, presentarono su questa tematica un quadro estremamente riduttivo e minimizzatorio.
  In particolare, quando, tra il 1980 e il 1981 emerse, dalle dichiarazioni dei pentiti, l'esistenza di un traffico d'armi tra palestinesi e Brigate rosse, il Centro di Beirut, ancora guidato dal colonnello Giovannone, affrontò la questione in un lungo documento del 9 gennaio 1981 che comprende 9 pagine di messaggio (064).
  Nel messaggio le dichiarazioni dei «pentiti» vengono derubricate a una mera raccolta di informazioni di terza mano, addirittura sollevando delle perplessità su «riferite affermazioni di Moretti e Donat Cattin circa trasporti da Libano armi e munizioni fornite da palestinesi effettuati con barca a vela», che «inducono a supporre «esistenza» copione destinato impedire che organi inquirenti individuino responsabili et provenienza carichi» (065).
  Si ipotizza poi che alcune delle armi e in particolare «una cinquantina di mitra Sterling L2A3 calibro 9 mm, prodotti in Gran Bretagna» provenissero da stock ereditati dal periodo coloniale e «lasciati da inglesi at forze armate cipriote virg giordane et forse israeliane atto acquisizione indipendenza» (066).
  Si afferma infine che questi mitra non risultano essere stati utilizzati in operazioni terroristiche in Italia e si esclude «che esse siano aut siano state in dotazione aut disponibilità di formazioni palestinese et varie milizie et organizzazioni armate esistenti in Libano» (067).
  Un altro messaggio (068), suddiviso in tre parti, definiva come obsolete le armi che sarebbero state fornite a Moretti, spiegando che i palestinesi disponevano di materiali ben più sofisticati. Il messaggio esclude a priori un ruolo dell'OLP. Si ammetteva che potessero esserci contatti di singoli elementi, magari studenti palestinesi, con autonomi che potrebbero avere ricevuto armi dai primi (069), ma si affermava che «parlare quindi di accordi con OLP, di armi fornite da OLP et depositi armi per OLP significa non conoscere reale situazione resistenza palestinese in cui singole organizzazioni operano autonomamente, Pag. 88cui esclusiva responsabilità in fornitura armi deve essere eventualmente accertata».
  Anche nel corso del 1982, quando le dichiarazioni di Sandro Galletta ai Carabinieri del Reparto operativo del Gruppo di Venezia stavano chiarendo la più significativa vicenda di traffico d'armi sinora nota, quella dell'imbarcazione Papago, proseguiva un'analoga tendenza minimizzatrice.
  Significativi sono a tale proposito una serie di appunti redatti per la prima Commissione Moro.
  Un Appunto per il Direttore del Servizio del 23 giugno 1982 (070) spiegava che in relazione alle esigenze conoscitive della Commissione Moro era stata avviata un'attività di indagine in Tunisia sulle 11 pistole mitragliatrici sequestrate alle BR che «risultano in effetti cedute – secondo quanto è emerso in ambienti qualificati – dalla Tunisia all'OLP attorno al 1968, nel quadro di aiuti di materiale bellico». Riprendendo indicazioni delle autorità tunisine, si sosteneva che le armi avrebbero potuto «essere in seguito pervenute a imprecisate frazioni palestinesi, non controllate da Arafat, per essere successivamente acquisite con modalità non potute chiarire da elementi delle B.R. italiane». Di qui la preoccupazione del Servizio di limitare eventuali responsabilità dei palestinesi, addirittura sottolineando al direttore che quanto accertato «non consente di affermare una piena responsabilità per i successivi passaggi alle B.R. per cui sembra opportuno sfumare i termini parlando non di consegna vera e propria ma di semplice acquisizione».
  Il successivo 8 luglio 1982 (071) il Servizio recepì questa indicazione. Rispose quindi alla Commissione che, a proposito delle 11 pistole mitragliatrici, «in ambienti qualificati tunisini si ritiene che le medesime armi possano essere in seguito pervenute a imprecisate fazioni palestinesi non controllate da Arafat e successivamente acquisite secondo modalità non potute chiarire da elementi delle Brigate rosse».
  Come si vede, dunque, il disvelamento di traffici di armi tra palestinesi e brigatisti provocò una decisa presa di posizione del SISMI, basata sulle informazioni pervenute dal Centro di Beirut, che tendeva a sminuire questa circostanza.
  Diverso è l'approccio seguito dalle primi indagini di Polizia sul traffico di internazionale di armi. Si ricorda in particolare la missione compiuta da due funzionari, Spinella e Ruggeri, a Beirut «allo scopo di svolgere indagini in ordine a forniture di armi ricevute da terroristi delle «Brigate Rosse»». La missione fallì perché, alla vigilia del viaggio, il 1o marzo 1981 «quasi tutti i quotidiani italiani avevano pubblicato la notizia di una dichiarazione, resa a Beirut, la sera precedente, ad un'agenzia di stampa, del portavoce dell'OLP, Abu Jiad, il quale aveva annunciato di essere a conoscenza di un complotto tra «agenti segreti» italiani, la CIA ed i servizi israeliani, ai danni dei dirigenti delle organizzazioni palestinesi».
  Il colonnello Giovannone, interrogato il 20 giugno 1984 presso il carcere militare di Forte Boccea, ha negato di aver mai saputo della missione a Beirut di Spinella e Ruggeri, sebbene l'appuntato Damiano Pag. 89Balestra, che lavorava all'Ambasciata italiana di Beirut, avesse dichiarato di avergli dato comunicazione dei messaggi inerenti la missione dei due funzionari.
  Anche in un successivo interrogatorio, 4 luglio 1984 Giovannone ha continuato a negare di aver saputo di questo viaggio, spiegando che prima delle dichiarazioni di Patrizio Peci «io non ero assolutamente a conoscenza di forniture di armi da parte palestinese alle Brigate Rosse o comunque ad organizzazioni terroristiche italiane».
  In sede giudiziaria è stato invece dimostrato che la notizia della missione dei due funzionari dell'UCIGOS fu riferita a Giovannone e che questi si attivò comunicandola al colonnello Sportelli, all'epoca capo della Seconda Divisione del SISMI, il quale, il 28 febbraio, si precipitò da Roma a Beirut per negoziare direttamente con il FPLP (sentenza – ordinanza Abu Ayad).
  Era una dimostrazione di quanto la materia del traffico d'armi con la Palestina appartenesse a una dimensione politica internazionale che non si intendeva toccare.

9.8. Le indagini della Commissione.

  Considerando quanto emerso in atti circa i traffici d'armi che coinvolsero brigatisti e palestinesi, la Commissione ha ritenuto opportuno affrontare la questione anche in relazione all'armamento usato dai terroristi in via Fani.
  Non vi sono evidenze chiare che le armi, alcune delle quali erano residuati bellici particolarmente usurati, possano provenire dal Medio-Oriente, tuttavia merita senz'altro ulteriori approfondimenti – attualmente in corso – la vicenda della pistola mitragliatrice Beretta M 12 (matricola 16346), utilizzata nell'eccidio di via Fani e, successivamente, sequestrata al brigatista Piero Falcone, che faceva parte di una partita di armi destinata all'Arabia Saudita e, verosimilmente, era stata sottratta all'imbarco a Genova, ovvero durante il viaggio – insieme ad altri quattro esemplari – tanto che all'arrivo al porto saudita di Damman se ne constatò la mancanza (072).
  Sono stati effettuati anche accertamenti sul munizionamento utilizzato in via Fani. Come noto, infatti, alcuni bossoli e cartucce reperite in via Fani, hanno formato oggetto, per le loro caratteristiche, di specifiche indicazioni peritali: si tratta in particolare di un gruppo di bossoli senza data e fuori standard di fabbricazione Fiocchi (073).Pag. 90
  Quanto emerso nelle indagini compiute consente di rivalutare le affermazioni dell'appunto redatto su carta intestata della Questura di Roma, datato 27 settembre 1978, originariamente classificato «segretissimo», siglato da Domenico Spinella, che tra le altre notizie riportava che «dagli esami compiuti dai periti su alcuni bossoli rinvenuti in questa via Fani, risulterebbe che le munizioni usate provengono da un deposito dell'Italia settentrionale le cui chiavi sono in possesso di sole sei persone». In merito, il perito Ugolini, formalmente escusso da collaboratori della Commissione il 5 febbraio 2016, ha avanzato il dubbio «che qualcuno non abbia riportato in maniera impropria qualche chiacchiera informale, voci, supposizioni o mere ipotesi, che magari erano riferite ad armi nascoste, forse dell'epoca dei partigiani o altri. Non credo proprio di essere stato io».
  Con ogni probabilità, tali notizie informali, fatte trapelare, verosimilmente dall'ambiente dei periti e raccolte nell'appunto, tendevano a sviare l'attenzione dalla possibilità che le munizioni utilizzate in via Fani, seppure di produzione italiana, in realtà fossero giunte alle Brigate rosse dall'estero.
  Tale ipotesi era, al contrario, ben presente alla stampa dell'epoca. Si può, ad esempio, ricordare un articolo del quotidiano «La Stampa» pubblicato il 13 agosto 1978, nel quale si evidenziava che «secondo periti balistici i bossoli dei proiettili sparati dalle B.R. durante l'agguato ad Aldo Moro e alla sua scorta facevano parte di una partita di una fabbrica italiana, la Fiocchi, venduta in Egitto. Polizia e Carabinieri scoprirono che parte dei proiettili erano rientrati in Italia: una nave li aveva sbarcati in un porto pugliese. Da lì se ne erano poi perse le tracce» (074). Importante sotto questo punto di vista è anche un articolo di Graziella De Palo, la giornalista scomparsa a Beirut insieme al collega Italo Toni, in cui si riprendeva la tesi che «la strage di via Fani è stata compiuta con armi italiane (mitra Beretta e munizioni Fiocchi) destinate all'Egitto e rientrate per vie tortuose in patria» (075).
  Le indicazioni sul fatto che i proiettili facessero parte di partite destinate all'estero sono confermate dalle indagini compiute dalla Commissione presso la casa produttrice, la Fiocchi Munizioni srl, sulla base del carteggio relativo alla produzione ed all'esportazione delle cartucce e delle dichiarazioni dei tecnici dell'epoca.
  Da queste attività è emerso infatti che l'assenza dell'indicazione della data nella marcatura del bossolo è una delle caratteristiche delle munizioni destinate all'estero, dove tale munizionamento era destinato ad uso civile e, pertanto, non era necessario punzonare l'anno di produzione, come era richiesto in Italia per le forniture militari.
  Lo stesso Ugolini ha fornito indicazioni sui paesi dove veniva esportato questo munizionamento, precisando «che diverse munizioni erano state vendute in Germania ad un grande commerciante tedesco e anche in Egitto. Di certo sono state commercializzate in Germania e Svizzera nel libero commercio. Ribadisco che nel documento di cui parlo della Finanza o della Questura di Como era scritto anche che le munizioni risultavano destinate in Egitto e mi pare altri paesi arabi, Pag. 91forse il Libano. A mio avviso, per queste cartucce, alla Fiocchi ci dovrebbero ancora essere i registri».
  Ha inoltre aggiunto che «le armi utilizzate dai brigatisti, in particolare la FNA e TZ 45 erano in cattivo stato di conservazione, residuati bellici e per cercare di farle funzionare erano necessarie cartucce buone, efficienti idonee ad essere impiegate, altrimenti mettevano a rischio chi le utilizzava».
  Lotti di queste munizioni, dovrebbero quindi essere stati commercializzati in paesi arabi e non può escludersi che siano stati nella disponibilità delle organizzazioni palestinesi.
  A oggi, le ricerche effettuate presso la Fiocchi, presso i Ministeri dell'economia e dell'interno, nonché presso Prefettura e Questura di Como, per reperire tracce di questa commercializzazione hanno avuto esito negativo.
  Tuttavia, a sostenere l'ipotesi della provenienza dall'estero di questo munizionamento italiano, già esportato, emerge la circostanza che è stato rinvenuto una significativa quantità di analogo munizionamento presso covi delle BR (076).
  Si rammenta a tale proposito che lo stesso Ugolini, nell'ambito della relazione tecnica eseguita sulle armi e le munizioni rinvenute nel covo di via Gradoli, per munizionamento risultato del tutto analogo a quello utilizzato per l'eccidio di via Fani, afferma che «una opportuna indagine merceologica ha evidenziato che tutte le 128 cartucce fanno parte di un unico lotto fabbricato nell'anno 1975 dalla Ditta Giulio Fiocchi di Lecco e dalla medesima smerciate negli anni 1976 e 1977».
  I periti Pier Luigi Baima Bollone e Luigi Nebbia, incaricati di comparare il munizionamento rinvenuto nel covo di via Gradoli con cartucce e bossoli repertati in via Fani, sono giunti ad analoghe conclusioni. Da ultimo, anche Ugolini, alla contestazione che all'epoca, sul munizionamento rinvenuto in via Gradoli era giunto a conclusioni difformi da quelle cui era giunto esaminando l'analogo munizionamento di via Fani, ha spiegato che «probabilmente ho fatto all'epoca riferimento ai risultati dell'indagine di Polizia o Guardia di Finanza che nel frattempo avevo visionato. Intendo che i magistrati mi avevano fatto vedere».
  Una prima indicazione che rivelava che le munizioni in questione non appartenevano a depositi militari interni ma a partite di esportazione era emersa già nel 1991 ma è stata, sorprendentemente, trascurata, al punto che il tema è quasi assente nella pur cospicua letteratura sul caso Moro.
  Infatti, a seguito di un intervento parlamentare dell'onorevole Luigi Cipriani, che aveva sollevato l'attenzione sul fatto che 39 bossoli reperiti a via Fani erano riconducibili a munizionamento normalmente fornito «a forze statali militari non convenzionali», furono svolte specifiche ricerche ed accertamenti (077). Pag. 92
  Il 18 gennaio 1991, il CESIS riferì al Presidente del Consiglio: «Quest'Ufficio ha interpellato in via informale il rappresentante a Roma della ditta «Giulio Fiocchi di Lecco» (Ing. Chirieleison) [...] il quale ha chiarito che [...] il cartucciame non datato è destinato al normale commercio; per quello in esame – calibro 9 mm «parabellum» – si può con certezza affermare che era destinato all'estero perché la sua vendita in Italia è vietata, trattandosi di munizionamento per arma da guerra»(078).
  Il 5 febbraio 1991 il CESIS segnalava inoltre che proiettili con le medesime caratteristiche di quelli repertati in via Fani erano stati utilizzati anche negli attentati alla caserma Talamo a Roma del 19 aprile 1978 e nell'attentato di piazza Nicosia del 3 maggio1979 (079).
  Della vicenda fu interessata anche la Legione Carabinieri di Milano (080). I Carabinieri, con due note, rispettivamente, del 15 e del 21 marzo 1991 (081) esclusero che le munizioni fossero destinate a Forze armate o di polizia e comunicarono che l'ingegner Giovanni Stabilini della Fiocchi aveva precisato che il munizionamento era stato prodotto prima del 1973 e «soggiunto che, pur non avendone cognizione diretta, né riscontro documentale, non sarebbe da escludere che le cartucce del lotto innanzi indicato siano state prodotte in minima quantità e destinate all'estero fuori mercato comune o nell'ambito di produttori italiani di armi, nonché al banco di prova di Gardone Val Trompia».
  In conclusione, il CESIS, con un Appunto per il Segretario Generale, bollava come «una palese forzatura» l'accostamento adombrato dall'onorevole Cipriani, tra le munizioni utilizzate in via Fani e quelle dei NASCO, che pure viene ancora spesso evocato (082).
  Nell'ambito degli approfondimenti compiuti sul traffico d'armi scoperto nel 1977, che vide coinvolto Tullio Olivetti, la Commissione ha compiuto numerosi accertamenti, che evidenziano una rete di rapporti con il Medio Oriente centrati intorno a Luigi Guardigli e allo stesso Olivetti.
  Rinviando a altra sezione della Relazione per un'analisi più specifica, si ricorda che Luigi Guardigli, escusso su delega della Procura generale di Roma, ha chiarito la sua appartenenza all'area della sinistra e ha illustrato le attività della società RACOIN nell'import – export di armi, spiegando che le esportazioni del materiale di armamento – a suo dire autorizzate – erano relative a paesi del Nord Africa e del Medio Oriente quali, in particolare, Egitto, Arabia Saudita, Libano ed Algeria.
  In tale contesto Guardigli ha sottolineato che Olivetti gli avrebbe chiesto «una fornitura di armi per il Libano, non una grande fornitura, in quanto tale riconducibile ad una richiesta governativa ufficiale, ma mi chiese delle campionature o comunque una fornitura anomala di armi e dai discorsi che mi ha fatto mi sembrò di capire Pag. 93che le stesse non rientravano in una fornitura ufficiale militare, ma erano destinate ad un uso delinquenziale».
  Sul tema mancano ulteriori riscontri, anche perché Olivetti non fu messo a confronto con Guardigli e l'Autorità giudiziaria non compì accertamenti su di lui. Va tuttavia segnalato che la notizia fu ripresa in una nota trasmessa dal SISMI al Comando generale dell'Arma dei carabinieri, nella quale si ponevano una serie di questioni sulla figura di Olivetti e su una sua eventuale connessione con la strage di via Fani rilevando «che Olivetti si trovò coinvolto, qualche tempo fa, in un traffico internazionale di armi, facente capo a Luigi Guardigli. Sarebbe stato lui, infatti, (unitamente a Enzo Varano, colpito da mandato di cattura per quei fatti) a presentare al Guardigli un gruppo di libanesi, acquirenti di armi di contrabbando».
  Le dichiarazioni di Guardigli, coerenti con quanto da lui affermato all'Autorità giudiziaria nel 1977, inducono a riprendere in esame il nodo di traffici che ruotava intorno allo stesso Guardigli e a Olivetti. Entrambi infatti appaiono aver avuto rapporti anche con la criminalità organizzata e in particolare con il clan Di Stefano. Il traffico d'armi rivelato nel 1977 e poi non compiutamente approfondito a seguito di una perizia medica di Aldo Semerari su Guardigli rimanda dunque a due direzioni, forse tra loro connesse, quella dell'esportazione illegale di armi verso il Medio Oriente e quella della fornitura alla criminalità organizzata di armi «sceniche» facilmente modificabili e efficientabili.
  Alla luce di quanto accertato, si possono formulare due conclusioni.
  Poiché a via Fani i brigatisti utilizzarono armamento e munizioni di fabbricazione italiana, ma appartenente a lotti destinati all'esportazione, è possibile che gli stessi provenissero da partite esportate verso il Medio Oriente e poi rientrate per il tramite di non meglio determinate fazioni dell'area palestinese in contatto con le Brigate rosse.
  Tali armi e munizioni potrebbero essere state esportate in Medio Oriente in virtù di traffici la cui segretezza era da tutelare a ogni costo, sia perché fondati su accordi politici internazionali sconosciuti all'opinione pubblica sia perché coinvolgevano specifiche responsabilità.
  La necessità di tutelare la riservatezza di questi traffici potrebbe spiegare il lungo oblio sul bar Olivetti e sulla figura del suo titolare. Accendere i riflettori su questo locale avrebbe infatti fatto riemergere una vicenda di traffico di armi, che coinvolgeva soggetti appartenenti alla ’ndrangheta e partite di armi assemblabili, che, secondo quanto riferito anche dal generale Cornacchia in audizione presso la Commissione, erano utilizzabili sia dalla criminalità organizzata che dalle Brigate rosse.

10. Il Superclan e la scuola di lingue Hypérion (*).

10.1. Premessa.

  L'attenzione della magistratura, della pubblicistica e degli studiosi del fenomeno terroristico nel nostro Paese, già a partire dal 1979, si
(*) La presente sezione si basa su un contributo redatto dal senatore Federico Fornaro. Pag. 94è concentrata, in più occasioni, sul ruolo e l'attività di Hypérion, una scuola di lingue aperta a Parigi nel 1976 per iniziativa di alcuni esponenti (Corrado Simioni, Duccio Berio, Vanni Mulinaris e altri) del cosiddetto Superclan, nato in seguito a una rottura con il gruppo animatore delle prime Brigate rosse (084).
  In numerosi appunti, note e relazioni della nostra intelligence, fu lungamente coltivata l'ipotesi che la scuola di lingue e traduzione fosse in realtà una stanza di compensazione dei maggiori gruppi eversivi del terrorismo internazionale, sotto la «benevola» vigilanza di svariati servizi segreti, a cominciare da quello francese (085).
  Nella sua audizione presso la Commissione, l'11 novembre 2015, il magistrato Pietro Calogero, che indagò a lungo su Hypérion, si è detto convinto che la scuola di lingue «gravitasse nell'orbita della CIA» e che le tre sedi (Parigi, Londra e Bruxelles) garantivano di «monitorare il terrorismo e, all'occorrenza, porre in atto gli interventi che la politica di sicurezza mondiale perseguita dagli Stati Uniti poteva suggerire e consigliare per il contenimento dell'avanzata del comunismo in uno dei paesi chiave dello scacchiere atlantico» (086).
  Alberto Franceschini, audito dalla Commissione il 27 ottobre 2016, ha riferito di un colloquio avuto a margine di un dibattito con il generale Paolo Inzerilli, per quattordici anni a capo della Gladio italiana. Quest'ultimo gli avrebbe detto chiaramente che «il punto chiave è l'Hypérion»: «una camera di compensazione tra i vari servizi» (087).
  Ha affermato inoltre Franceschini: «Mi spiegò anche, per cercare di farmi capire – io non capivo bene cosa voleva dire – che secondo lui era una specie di parlamento dei Servizi. Siccome le attività dei Servizi sono sempre complicatissime e anche pericolosissime, bisogna porre dei limiti, delle regole e ci sono delle strutture fatte apposta per porre questi limiti. Infatti, se uno guarda l'Hypérion, ci stanno dentro i francesi, gli inglesi, gli israeliani, i palestinesi, che vanno lì eccetera» (088).
  Altra documentazione in possesso della Commissione, invece, indica la circostanza che Corrado Simioni, a Parigi, fosse stato reclutato dal KGB, mentre le stesse fonti escludono un finanziamento diretto a Hypérion da parte dei servizi sovietici.
  Come noto, il processo contro i dirigenti di Hypérion si è concluso, nel dicembre 1990, con l'assoluzione di tutti gli imputati perché le accuse non hanno trovato sufficienti riscontri probatori, così come è stato giustamente ricordato alla Commissione da Vanni Mulinaris in Pag. 95una lettera in cui ha motivato le ragioni per le quali declinava l'invito a essere audito in seduta pubblica (089).
  La Commissione ritiene, però, che siano di rilevante interesse sia l'origine e l'attività del Superclan (in particolare la figura di Corrado Simioni e la rete di promotori di abbonamenti a riviste rivolte al mondo della polizia, operante in Italia anche nel corso del 1978) sia le sue relazioni con la rete estera di società e scuole di lingue e traduzioni, nate dopo il 1976 per iniziativa dei fuoriusciti del Superclan.

10.2. La nascita del Superclan o «ditta».

  Alberto Franceschini, audito dalla Commissione, per la prima volta ha indicato come data esatta della rottura il 4 novembre 1970 (090), quando il gruppo che aveva dato vita alle nascenti Brigate rosse si scinde.
  Ad uscire sono, tra gli altri, Corrado Simioni (classe 1934), Franco Troiano (1944), Duccio Berio (1947), Vanni Mulinaris (1946), che erano stati tra i principali protagonisti prima del Collettivo Politico Metropolitano (CPM) e poi di Sinistra Proletaria.
  I fuoriusciti daranno vita a una organizzazione super clandestina che aveva in Simioni il suo principale riferimento: il Superclan o «ditta».
  Nel convegno svoltosi a Pecorile (091), in provincia di Reggio Emilia, nell'agosto del 1970 e considerato l'atto fondativo delle BR, Corrado Simioni, con Renato Curcio e Alberto Franceschini, uno dei leader dell'organizzazione, si era pubblicamente espresso sulla necessità di passare alla clandestinità e organizzarsi concretamente (092).
  Nel racconto di Alberto Franceschini – riconfermato nell'audizione in Commissione – la rottura avviene su di una divergenza profonda sulla tattica e sulla strategia da adottare per la lotta rivoluzionaria delle BR: da un lato, Curcio e Franceschini, sostenitori di un approccio movimentista che non facesse perdere all'organizzazione il contatto con le lotte operaie e quelle studentesche; dall'altro, Simioni, favorevole, invece, a una progressiva infiltrazione nell'universo dei movimenti e gruppuscoli della sinistra extraparlamentare e nel contempo a innalzare il livello delle azioni terroristiche.
  Interessante anche quello che ha scritto al riguardo Prospero Gallinari, che definì il Superclan «come il ramo evolutivo di una specie davanti a un vicolo cieco, [che] inizia un percorso di organizzazione della lotta armata in Italia destinato a rivelarsi ben presto fallimentare» (093).
  Nell'audizione in Commissione il 28 ottobre 2015, Duccio Berio ha, invece, motivato la rottura come una sorta di svolta non violenta del gruppo degli scissionisti, in opposizione dunque alla militarizzazione Pag. 96delle BR e favorevole, invece, a perseguire un diverso approccio alla vita comunitaria: «Noi venimmo chiamati Superclan, da un lato, perché non si sapeva bene cosa volessimo fare. In realtà, è nel corso di mesi, che parlando e incontrandoci, divenne poi chiaro a tutti noi che non volevamo seguire il cammino della violenza» (094).
  Una versione dei fatti, quella di Berio, giudicata da Alberto Franceschini nella sua audizione «poco credibile» (095) e che pare poco aderente alla realtà, anche in ragione degli orientamenti espressi a più riprese dal leader del gruppo dei superclandestini e dei loro comportamento successivi.
  Sul finire del 1969, Simioni, infatti, nell'ambito del CPM, aveva la responsabilità del servizio d'ordine semi-clandestino, ironicamente ribattezzato le «Zie Rosse» perché l'ala più dura e determinata era costituita da donne, di cui faceva parte Mara Cagol, la compagna di Renato Curcio.
  Nell'ambito di questa attività parallela al CPM si verificò anche un fallito attentato dinamitardo contro l'ambasciata statunitense ad Atene, in cui perse la vita, il 2 settembre 1970, oltre a un giovane studente cipriota con passaporto svedese, anche Maria Angeloni, milanese, 31 anni, appartenente alle «Zie Rosse».
  Come ha ricordato Franceschini nella sua audizione, dopo la morte di Giangiacomo Feltrinelli, il 14 marzo 1972, lui e Curcio si sentirono come dei «gattini ciechi», perché «quando morì, a noi saltarono proprio una serie di relazioni che noi non avevamo mai coltivato, che non ci eravamo mai preoccupati di coltivare, mentre Simioni e gli altri, ovviamente, quei rapporti, invece, li coltivavano in maniera molto chiara e precisa. Per cui l'ipotesi era questa, verificata poi anni dopo, con la costituzione dell'Hypérion eccetera. L'ipotesi che certamente loro si muovevano su un piano – come adesso va di moda dire – geopolitico» (096).
  Sempre Franceschini ha raccontato di una battuta – assai interessante se si pensa agli sviluppi successivi del Superclan-Hypérion – che un giorno gli fece Simioni: «Guardate, se volete fare – in particolare poi ce l'aveva con me, perché ero ragazzino, oltretutto – la rivoluzione, dovete scendere a dei compromessi, cioè accettare tutta una serie di cose, perché, se no, non fate la rivoluzione» (097).
  Come già osservato, le tesi espresse da Simioni nei convegni che porteranno alla costituzione delle BR vanno nella direzione esattamente opposta alla ricostruzione di Berio e appaiono invece coerenti con il tentativo di allestire una rete clandestina, con l'obiettivo di disporre di «antenne» nelle principali organizzazioni della galassia della sinistra extraparlamentare.
  Così Gallinari ha descritto le attività del Superclan a Milano dopo la rottura con le BR di Curcio e Franceschini: «Sul piano politico sono grandi analisi strategiche. Vi si aggiungono i compiti pratici, Pag. 97indicati nella costruzione della struttura organizzativa, nella formazione dei compagni destinati a porsi alla testa del progetto, nel reperimento dei soldi e luoghi in cui fare scuola politica e militare. [...] Occorre garantire all'organizzazione un posto sicuro in cui far decollare l'addestramento militare. In una casa agricola in collina fatichiamo per ricavare un tiro a segno insonorizzato all'interno di una stalla incavata nella roccia» (098).
  Sandro D'Alessandro, interrogato dal giudice istruttore di Venezia, Carlo Mastelloni il 17 novembre 1983, confermò che Simioni e i suoi amici erano soliti, nell'estate del 1971, addestrarsi militarmente all'interno di una cascina nel comune di Grognardo, in provincia di Alessandria (099).
  Durante la fase di incubazione delle BR, nella primavera del 1970, avviene un episodio di non facile interpretazione.
  Simioni, infatti, invitò Mara Cagol a consegnare i questionari fatti compilare alle persone che si stavano avvicinando all'organizzazione a una persona: Roberto Dotti, all'epoca responsabile della Terrazza Martini, con un passato di partigiano comunista, responsabile dell'ufficio quadri della federazione del PCI di Torino, poi riparato in Cecoslovacchia per sfuggire all'accusa di aver partecipato all'uccisione di un dirigente della Fiat (100).
  Quando, però, il 2 maggio 1974, i brigatisti fecero irruzione nella sede milanese del Centro di Resistenza Democratica (CRD), una rete associativa promossa, con il sostegno di ambienti legati ai servizi americani e inglesi, da Edgardo Sogno con l'obiettivo dichiarato di contrastare l'avanzata dei comunisti in Italia, fecero una strana scoperta.
  Nell'esaminare il materiale trafugato, infatti, con sua somma sorpresa, Mara Cagol rinvenne il necrologio di Roberto Dotti, morto l'11 ottobre 1971, fatto pubblicare sul «Corriere della Sera» dal CRD e, tra gli altri, da Sogno (101).
  In altri termini, su indicazione di Simioni, Mara Cagol aveva portato a uno degli uomini di Sogno tutti i dati sull'attività di reclutamento delle nascenti Brigate rosse.
  Al riguardo pare, quindi, utile approfondire ulteriormente l'esistenza di eventuali legami tra Simioni e Sogno, per il tramite di Dotti o altri, al fine di verificare quale tipo di rapporti e di possibili interessi convergenti vi potessero essere tra i due, in un periodo storico in cui vi era certamente un forte interesse dei servizi segreti stranieri nei confronti del fenomeno del nascente terrorismo rosso.
  Nella vita di Corrado Simioni, infatti, esiste un periodo «opaco», seguente alla sua espulsione per «indegnità morale» (102) dalla federazione milanese del PSI nel 1963, nell'ambito della quale si era schierato su posizioni autonomiste e anticomuniste. Per sua stessa ammissione (103), iniziò ad occuparsi di attività culturali-ricreative Pag. 98gestite dall'USIS (United States Information Service), agenzia del Dipartimento di Stato americano (104).
  Dopo aver studiato teologia e latino a Monaco di Baviera, Simioni tornò in Italia nel 1964 e venne assunto come impiegato alla Mondadori. Dopo aver lasciato la casa editrice nel 1969, fu tra i promotori dei CUB (Comitati Unitari di Base) in ambito giornalistico e successivamente, come detto, divenne uno dei leader del CPM e di Sinistra Proletaria.
  Nel 1969, a Milano, con sede in corso Italia, Simioni diede anche vita, insieme a Curcio, Berio e Troiano, al CIP (Centro Informazioni Politico) (105), una agenzia di stampa che, stando a quanto dichiarato da un teste al giudice Mastelloni, aveva un «doppio livello»; analoga organizzazione, sempre secondo questa testimonianza, si sarebbe perpetuata anche nel CPM (106).
  È di interesse della Commissione anche l'approfondimento del rapporto tra Simioni e Mario Moretti.
  Secondo Franceschini, infatti, Moretti «era un uomo di Simioni» (107) e anche il generale Cornacchia, all'epoca del sequestro Moro comandante del Nucleo operativo dei Carabinieri di Roma e successivamente alto dirigente del SISMI, descrive Moretti come «uomo di fiducia proprio dei «docenti parigini»» (108), con un chiaro riferimento alla scuola di lingue Hypérion.
  Al riguardo, è accertato che Moretti abbia abbandonato il CPM nella primavera del 1970 (109), alcuni mesi prima della «scissione» del Superclan, accusando i compagni di lotta di essere solamente «un branco di parolai, di fare solo chiacchiere»: secondo Mara Cagol una «messa inscena organizzata da Simioni per dare copertura a Moretti» (110).
  Dal canto suo Moretti, a suo tempo, aveva fornito un'altra versione di quella rottura e con riferimento a Simioni ha affermato: «Non sopportavo più il suo modo di fare. Cominciavamo appena a far qualcosa di concreto oltre le chiacchiere, non c'era ancora un progetto definito, ma una cosa io e i compagni della mia stessa formazione avevamo chiara in testa: sarebbe stato un disastro se si fosse andati a qualcosa di men che controllabile. Simioni era l'opposto. Aveva la mania della segretezza, un po’ millantatore e un po’ suggestionato dai romanzi di spionaggio. [...] Che cosa volesse fare Simioni e che cosa Pag. 99abbia effettivamente fatto, non so. Da allora non mi ha più interessato né l'ho rivisto» (111).
  Nella sua audizione in Commissione, però, Duccio Berio ha riferito la circostanza che «Moretti effettivamente partecipò a riunioni con le persone che non intendevano seguire Renato Curcio sulla via che aveva tracciato» (112), smentendo così la versione di un Moretti critico in egual misura sia verso Curcio sia verso Simioni, sebbene Franceschini abbia dichiarato nella sua audizione che «questo entrare e uscire Moretti lo fa in autonomia» (113).
  È certo, inoltre, che un altro dei protagonisti del sequestro e dell'omicidio di Aldo Moro e della sua scorta, Prospero Gallinari, esponente dell'ala reggiana delle BR, inizialmente si unisca a Simioni nell'avventura del Superclan. Ruppe con Franceschini e Curcio anche un altro esponente di punta del cosiddetto «gruppo dell'appartamento» di Reggio Emilia, Ivan Maletti (1952).
  Secondo uno studioso, «Corrado Simioni e Franco Troiano erano da tempo convinti della necessità di costituire un'organizzazione «superclandestina» che non doveva essere coinvolta in attività politiche dirette. Mentre Curcio si disse d'accordo con questa ipotesi, e per pochi mesi seguì Simioni, un gruppo di una ventina tra studenti lavoratori, tecnici della Siemens e paramedici (tra cui Corrado Alunni e Mario Moretti) uscì dal CPM continuando a svolgere attività politica all'interno della Siemens dandosi una elementare struttura: furono predisposte alcune basi, reperite delle armi, si imparò a falsificare i documenti; tutto ciò, comunque senza mai svolgere alcuna propaganda armata» (114).
  Il Superclan, a differenza delle BR, non si rese protagonista di azioni dimostrative o violente, lavorando nella totale clandestinità al rafforzamento di una rete e provando – secondo Franceschini – sotto la guida di Simioni, a «guidare i processi senza essere individuati» (115).
  In un rapporto dell'Ufficio affari riservati del 1972, con riferimento alla rottura tra BR e Superclan, Umberto Federico D'Amato sottolineava: «In un secondo momento si acquisì che i primi [cioè, Simioni, Troiano, Ravizza ecc.] assunsero la denominazione di superclandestini e, effettivamente, di loro non si è più trovata traccia. È probabile, ma si tratta di ipotesi, che abbiano realizzato collegamenti internazionali: e che, anche in forma occulta e indiretta, abbiamo partecipato a azioni di grande impegno anche all'estero» (116).
  Dalla deposizione resa a suo tempo da Graziano Sassatelli al giudice Mastelloni emerge che «la Ditta [altra denominazione del Superclan] alimentava il progetto culturale e militare, di carattere bordighista e leninista, della costituzione di un organismo di strategia «complessiva» in grado di porsi «alla testa» del progetto rivoluzionario, Pag. 100gestendo parallelamente quello volto a divenire «la testa» dell'organizzazione Brigate rosse, che all'interno, all'epoca aveva in seno militanti della Ditta all'uopo infiltratisi. La Ditta era strutturata in cellule clandestine o istanze che, attraverso il capo-cellula, riferivano all'Istanza Dirigente. Le Istanze Dirigenti riferivano alla Istanza Superiore o Direzione. La Ditta aveva come ulteriore obiettivo l'infiltrazione dei propri militanti nelle strutture legali del potere costituito. Ogni cellula era caratterizzata da competenze specifiche. La colonna era composta da più cellule quanto meno fino al 1974 [...] ben potendosi ritenere però non cessate almeno fino all'atto dell'espatrio del gruppo per quanto riguarda Simioni» (117).
  Sempre Graziano Sassatelli raccontò al giudice Mastelloni il 4 dicembre 1984 che «il Tagliaferri [Oscar, esponente del CPM vicino al gruppo di Troiano] mi fece presente che le BR erano un organismo militare «senza testa» laddove la Ditta rappresentava la possibilità di una «testa» anche per le BR. Mi riferì altresì che la Ditta aveva dei suoi uomini che erano infiltrati nella organizzazione BR; ciò era conseguente al discorso dell'infiltrazione anche in altre strutture di potere, discorso che io avevo sentito dal Tagliaferri come uno degli obiettivi politici della Ditta» (118).
  Interessante è anche il funzionamento della cellula capeggiata da Troiano, di cui entrò a far parte lo stesso Sassatelli: «Erano seguite delle regole di comportamento stabilite in partenza: non cercare di conoscere la reale identità del compagno, sottostare alle regole del dirigente della cellula, vivere con il denaro passato dall'Organizzazione e cioè centomila lire al mese, divieto di avere rapporti sessuali con elementi di sesso femminile in ambito cellula; disponibilità della propria persona solo per i fini dell'Organizzazione; frequentare solo elementi della propria cellula, divieto di frequentare i familiari. [...] Più cellule formavano una colonna: si parlava della costituzione di colonne in altre città. Si teorizzavano competenze specifiche per singole cellule. Per esempio una cellula avrebbe potuto infiltrarsi nelle BR: ciò faceva parte dei discorsi operativi» (119).
  Negli anni 1970-73, grazie alle entrature di Simioni, erano, inoltre, nella disponibilità del Superclan un rilevante numero di case o ville nella zona del Lago di Como e del Lago Maggiore e nell'Alessandrino.
  Mentre il Superclan si «inabissava» organizzandosi nei modi fin qui descritti, nel marzo-aprile 1971, Mario Moretti, entrava – o sarebbe meglio dire ritornava – nelle BR e veniva cooptato, nell'aprile dello stesso anno, nel coordinamento nazionale dell'organizzazione.
  Dopo Moretti, nel 1973, ritornò nelle BR anche Gallinari che raccontò a Franceschini e Curcio di essere andato a lavorare, dopo la rottura, a Torino per Simioni, ospitato da un sindacalista della FIM-CISL. Secondo Gallinari, le «zie rosse» avevano cambiato nome in «la ditta» e si praticava l'amore collettivo: «la ditta» si era, a suo dire, sciolta sul finire del 1972 e «i capi Simioni, Mulinaris, Berio, Troiano, Salvoni, Tuscher erano andati a vivere in una villa in Veneto. E ai militanti avevano dato l'ordine di tornarsene a casa, di riprendere la vita normale, di infiltrarsi nei sindacati, nei partiti della sinistra Pag. 101storica, in Potere operaio e in Lotta continua: al momento opportuno sarebbero stati richiamati e gli avrebbero detto cosa fare» (120).
  Secondo Franceschini, questi rientri erano funzionali all'obiettivo di Simioni di «infiltrare» le Brigate rosse con suoi uomini (Maurizio Ferrari, Mario Moretti e Prospero Gallinari).
  La documentazione di cui è entrata in possesso la Commissione conferma, arricchendola di nuovi elementi, la conclusione a cui era già giunto il giudice Mastelloni sull'esistenza di una rete operante in Italia riconducibile al Superclan e a Simioni, ufficialmente impegnata in un'attività di promozione e vendita delle riviste «Ordine Pubblico», «Nuova Polizia – Riforma dello Stato», «Notiziario Finanze e Tesoro» e altre.
  In Italia, infatti, il Superclan poteva contare anche sulla disponibilità di «centri studi» e appartamenti: a Milano (Centro studi e ricerche di mercato, piazzale Brescia 16, poi trasferito, nel gennaio 1979, in via Buonarroti 2), a Genova Nervi (via dei Barbieri 3/1) (121) e a Venezia Mestre (Corso del Popolo, 215 interno 6) (122).
  L'attività commerciale della rete di promotori (una ventina circa) – di cui si ha un riscontro certo per gli anni 1977-1979 – si svolse nell'ambito della DIP (Diffusione Italiana Periodici), fondata nel 1965 da Gianluigi Cavanna e dalla moglie Efisia Spano, con sede a Milano (123), in cui aveva lavorato, come ragioniere, dal novembre 1969 all'ottobre 1971, Innocente Salvoni, inizialmente riconosciuto da testimoni nelle vicinanze di via Fani il 16 marzo 1978 insieme a Franco Bonisoli e Lauro Azzolini, successivamente eliminato dall'elenco dei ricercati.
  In questa rete di promotori ritroviamo numerosi partecipanti all'incontro di Chiavari, nella pensione Stella Maris (1-4 novembre 1969), considerato come l'avvio del processo di avvicinamento alla lotta armata clandestina che sfocerà poi nelle Brigate rosse.
  A capo della rete c'erano Bruno Ropelato (1949) e il già citato Ivan Maletti, entrambi persone di stretta fiducia di Simioni (124).
  Interrogato dal giudice Mastelloni, Carlo Fortunato (1941), uno dei promotori operante a Roma, precisò che «queste attività di produzione [rete di promotori] servivano a finanziare tutto il gruppo di persone legate a un obiettivo di ricerca comunitaria, ricerca cominciata nel 1970 dopo la scissione con quello che è diventato il gruppo delle Brigate rosse» (125).
  Risulta evidente e difficilmente spiegabile la contraddizione tra l'attività di promozione di abbonamenti di riviste rivolte alle forze di polizia (all'epoca ancora militarizzate), perfino con tessere rilasciate dalle locali Questure, e la militanza in organizzazioni e gruppi con obiettivi dichiaratamente rivoluzionari.Pag. 102
  In particolare, appare necessario approfondire quanto scritto dal giudice Mastelloni sul fatto che «i medesimi [banda «Superclan» o «ditta» o «Zie Rosse»«] continuarono ad operare, con deleghe criptiche, anche in territorio italiano, in organico collegamento societario e previa convergenza, in Italia, anche nel periodo storico più critico per le istituzioni repubblicane, quale è stato la primavera del 1978» (126).
  Nell'ambito delle attività del Superclan, appare necessario altresì un approfondimento sulla figura di Savina Longhi.
  Savina Pia Longhi (1939), infatti, procurò alla Ditta la casa colonica a Leivi, in provincia di Genova, e, soprattutto, dal 1967 al 1970 fu una delle collaboratrici del diplomatico Manlio Brosio, Segretario generale della NATO, e quindi munita del Nulla Osta di Sicurezza di elevato grado nell'ambito del Segretariato generale della stessa NATO. Simioni si vantava con Franceschini e altri della sua capacità di infiltrare ad alti livelli, presentando la Longhi come la sua segretaria.
  La Longhi fu, poi, tra le prime a espatriare a Parigi nel 1976, andando a lavorare prima alla CEE come traduttrice e poi come segretaria nell'azienda dell'ingegner Rancilio, socio dell'Hypérion e della società Kiron.
  È utile ricordare, al riguardo, lo stretto e duraturo rapporto politico e di amicizia tra l'ambasciatore Brosio e Sogno, ampiamente documentato nel libro autobiografico di quest'ultimo Testamento di un anti-comunista(127).
  Diversi esponenti del Superclan emigrati in Francia, inoltre, fruirono di particolari permessi di soggiorno della CEE, rilasciati dall'ambasciatore italiano presso l'OCSE.

10.3. La rete estera di Hypérion.

  Per il tramite di Antonio Morlacchi, che lavorava a «l'Unità» e era fratello del brigatista Piero, agli inizi del 1974 Franceschini ricevette un'offerta: «Il messaggio che ci fece avere Malagugini (128), era questo: adesso le cose cominciano a diventare serie, siccome sappiamo chi siete voi due, e quindi che possiamo fidarci, uscite dalle Brigate rosse, consegnatevi senza alcun problema al giudice De Vincenzo (129), lui poi vi scarcererà e chiuderemo finalmente questa partita. [...] Un tentativo analogo a quello compiuto nella nostra direzione, il Pci lo fece anche con alcuni del gruppo di Simioni. [...] Al Pci evidentemente sapevano dell'attività iperclandestina delle «zie rosse» e della «ditta». Altrimenti, quell'operazione rivolta nei confronti di questo gruppo, non avrebbe avuto alcun senso. [...] E che la storia che mi aveva raccontato Gallinari [al suo rientro nelle BR] era tutta vera. Tranne, appunto, in un dettaglio: la «ditta» non si era sciolta» (130).Pag. 103
  Nella sua audizione, Duccio Berio ha negato (131) di aver ricevuto un'offerta dal suocero, l'onorevole Malagugini, e di aver mai incontrato il giudice De Vincenzo, ma i fatti sono andati esattamente nella direzione descritta da Franceschini. A cominciare proprio da Duccio Berio, che – da documentazione acquisita successivamente dalla Commissione – il 14 maggio 1974 si presentò spontaneamente al giudice De Vincenzo e fu esaminato da questi (e dal giudice Guido Viola) quale indiziato per associazione sovversiva (132).
  Corrado Simioni, fu «puntualmente colpito» da un mandato di cattura il 30 maggio 1974 emesso dal giudice istruttore di Milano Ciro De Vincenzo, ai sensi degli articoli 110, 306 e 270 C.P., che sarà poi revocato il 24 giugno 1976 dal Consigliere istruttore in quel Tribunale, Antonio Amati.
  Per parte sua Franco Troiano, l'altro leader del Superclan già implicato nelle prime inchieste sulle attività dei GAP di Feltrinelli, era stato colpito da un mandato di cattura della Procura di Reggio Emilia il 24 ottobre 1972, con l'accusa di aver partecipato a tre rapine contro filiali di banche e di far parte di una associazione per delinquere denominata Brigate rosse. Condannato in primo grado a 10 anni di reclusione, fu poi assolto in appello, a Bologna, per non aver commesso il fatto. Per l'accusa di associazione per delinquere la sua posizione fu poi stralciata e inviata per competenza a Torino. Con una sentenza-ordinanza del 1o agosto 1977 Troiano fu poi assolto perché il fatto non sussiste, con conseguente revoca del mandato di cattura emesso da Reggio Emilia.
  Tra il 1976 e il 1977, dunque, i principali esponenti del Superclan si trasferirono all'estero: Simioni nel corso del 1976, Berio nell'ottobre dello stesso anno e Troiano nel marzo del 1977.
  Quel che colpisce è la coincidenza nella tipologia di attività (lingue, traduzioni ecc.) di cui i fuoriusciti si rendono promotori in Francia, Gran Bretagna, Belgio, senza che avessero avuto in Italia percorsi professionali similari, ad eccezione, forse, di Simioni, che parlava tre lingue.
  Infatti, il 21 agosto 1976, a Parigi, fu fondata Agorà, con sede in Rue Lucienne,10, che fu poi ridenominata, il 24 agosto 1977, Hypérion, con sede in Quai de la Tournelle, 27.
  Il primo presidente di Agorà fu Giulia Archer, sentimentalmente legata a Simioni, che si dimise il 15 dicembre dello stesso anno; la sostituì Françoise Marie Tuscher, anch'ella appartenente al gruppo del Superclan.
  Il cambio di nome dell'associazione da Agorà a Hypérion fu giustificata con l'esistenza di un'altra società con lo stesso nome e attività analoga.
  I locali di Hypérion vennero presi in affitto dal Club International d'Interprétariat et Traduction (CIIT) (133), con sede in Boulevard Saint Germain 22 a Parigi, il cui gerente era Attilio Galli (1939), emigrato in Francia nel maggio 1976, dopo essere stato anch'egli attivo in Italia nel CPM; tra i fondatori troviamo Alberto Pinotti alias Francesco Pittoni (1951) e la stessa Tuscher.Pag. 104
  Al termine della riunione annuale del 1979 in Hypérion fu eletto il nuovo direttivo, che comprendeva Françoise Tuscher (presidente), Vanni Mulinaris (direttore amministrativo e degli studi); Christa von Petersdorff-D'Audeteau (segretario generale); Duccio Berio (addetto pubbliche relazioni); Corrado Simioni (consigliere culturale).
  Occorre ricordare che Françoise Tuscher era la nipote dell'abbé Pierre (al secolo, Henri Grouès), che prese sotto la sua benevola protezione il gruppo di Hypérion.
  Ai vertici di Hypérion vi erano, dunque, Corrado Simioni, Duccio Berio e l'udinese Vanni Mulinaris, anch'egli esponente del CPM e poi del Superclan, che aveva raggiunto i compagni a Parigi al termine del servizio militare, nell'estate del 1977 (134).
  In parallelo alla scuola di lingue, che progressivamente assorbì il CIIT, operò anche un'altra società, la Kiron srl, i cui soci erano: Mulinaris (25%), Simioni (25%) e Cesare Rancilio (50%) (135). Risultava dipendente della Kiron Giuseppe Ferrari (1940), anch'egli tra i partecipanti del convegno alla pensione Stella Maris del 1969.
  È stato accertato, inoltre, che Giuseppe Ferrari prese in affitto un appartamento a Venezia Mestre dal 22 marzo 1978 fino alla fine dello stesso anno (136).
  Per la prima volta la Commissione è entrata in possesso di documentazione da cui emerge che Franco Troiano, invece, emigrò il 16 marzo 1977 a Tolone (Francia) e successivamente, il 2 luglio 1977, si trasferì definitivamente in Belgio, raggiunto, il 31 agosto 1977, dalla moglie Orietta Tunesi, amica di Savina Longhi, che trovò subito lavoro come segretaria interprete negli uffici CEE di Bruxelles. La coppia si sistemò a Koekelberg e Troiano, per qualche mese, lavorò come operaio meccanico in una azienda di Overijse, sempre in Belgio.
  Pochi mesi dopo, però, il 7 dicembre 1977, Troiano si iscrisse all'anagrafe del comune di Woluwe-Saint Pierre, esibendo nell'occasione un attestato del Centro di traduzioni Monde Sprl relativo alla qualifica di «traduttore indipendente».
  In Italia, Troiano era stato un semplice impiegato alla Sit-Siemens.
  Alcuni giorni prima, il 28 novembre 1977, Troiano aveva fondato la Eurologos, con sede sempre a Woluwe-Saint Pierre, specializzata in traduzioni (ancora operativa nel 2016 con Chief executive officer lo stesso Troiano).
  La scuola di lingue e traduzioni Eurologos fu poi trasferita nella capitale belga, in Avenue de Tervueren, 46.
  Nel 1978 la Eurologos aveva una ventina di dipendenti e, stando alla documentazione di cui è entrata in possesso la Commissione, tra il 1978 e il 1983 i ricavi furono scarsi, mentre nel 1984 si registrarono introiti per circa 300 milioni di lire.
  Il permanere dei contatti tra Simioni e Troiano sono, poi, confermati da un incontro avvenuto tra i due a Bruxelles il 31 marzo 1979.
  Nell'estate 1977 (luglio-settembre),invece, Simioni e Berio soggiornarono a Londra in 17 Connaught Square e presero lezioni di inglese Pag. 105dal giovane Robert White (1955) e che poi andò ad insegnare all'Hypérion di Parigi: tra gli obiettivi del viaggio vi era la verifica della possibilità di aprire una sede di Hypérion nella capitale inglese. Li raggiunse in quelle settimane anche Vanni Mulinaris.
  Si segnala la coincidenza, della presenza nel luglio-agosto 1977 a Londra, per motivi di studio, di Giovanni Senzani (137).
  L'obiettivo di Hypérion era quello di creare un network di scuole di lingue (e affini) (138) con sedi a Parigi, Londra e Bruxelles, oltre a una villa di campagna a Rouen, in Normandia.
  Riguardo a quest'ultima, nella sua audizione alla Commissione, Pietro Calogero, ha raccontato di come questa abitazione «protetta, anzi superprotetta da un triplice – credo che sia questa l'espressione usata da De Sena (139) – anello concentrico di sensori molto sofisticati. [...] A fare l'ipotesi che quella fosse la sede di un servizio straniero sono stati gli stessi francesi, i quali hanno aggiunto anche che chi usava quei sistemi erano gli americani. Da qui il sospetto del collegamento fra la sede parigina dell'Hypérion e l'attività di informazione di una struttura che si muoveva sotto l'influenza della CIA» (140).
  È possibile ora confermare che a Londra operava una scuola di lingue in diretto collegamento con Hypérion: la Marble Arch Intensive English School (141).
  Sempre il giudice Calogero ha ricordato la mancata collaborazione della polizia inglese nelle indagini per l'individuazione di questa scuola.

10.4. La rete italiana del Superclan – Hypérion.

  In parallelo alle attività estere nel settore delle lingue e delle traduzioni, ha continuato ad operare in Italia la già ricordata rete di promotori, alcuni dei quali lavorarono anche a Parigi a Hypérion.
  Durante il sequestro Moro è accertata l'operatività di due sedi di rappresentanza di Hypérion in Italia: una a Roma, in via Nicotera, 26 (referente: Carlo Fortunato) e una a Milano, in via F. Albani, 33 (referenti: Giuseppe Sacchi e Dimma Vezzani, moglie di Piero Sacchi).
  Quest'ultimo appartamento, pubblicizzato come sede dell'Hypérion, era nella materiale disponibilità di Ivan Maletti e Bruno Ropelato (142), i due responsabili della rete italiana (143).Pag. 106
  Dimma Vezzani e Piero Sacchi, invece, furono segnalati spesso presso il residence Delfino di Venezia Mestre, in Corso del Popolo, 215, una delle sedi – o forse sarebbe più corretto chiamarle «basi» – del Superclan, presa in affitto, come già ricordato, dal dipendente della Kiron Giuseppe Ferrari dal 22 marzo 1978 (144).
  Era anche nelle disponibilità del gruppo dell'Hypérion un alloggio in viale Angelico a Roma, che sarebbe stato gestito da Carlo Fortunato insieme a Simioni e Maletti (145).
  Giampaolo Fortunato (1940), fratello di Carlo, riferì al giudice Mastelloni che «l'ultima volta che ho visto Simioni è stato nel 1978. Venni a Venezia Mestre fui ospite della moglie separata o di Berio o di Mulinaris o di Simioni. Era vicino alla stazione forse in Corso del Popolo. Lì trovai il Carlo e parlai con il Simioni e il Berio che però soggiornavano in albergo. La donna si chiamava Ivana Galli (146). Erano in 6 o 7 dell'Hypérion e mi ricordo che c'era Simioni perché gli parlai. Non ricordo se c'era Mulinaris» (147)
  Nella sentenza-ordinanza di Mastelloni è citata una nota del Nucleo operativo dei Carabinieri di Venezia che «evidenziava la presenza in Roma di tutto il gruppo della ex «ditta» nel periodo di consumazione del rapimento dell'onorevole Moro durante il quale il Valentino Guido e la Rossi Eleonora, per conto degli altri, si tenevano via telefono in contatto con il Salvoni Innocente e con la Tuscher Françoise» (148).
  Secondo la testimonianza resa al giudice Mastelloni da Luigi Perini, quest'ultimo «nell'aprile 1978 rilevò il Berio, proveniente da Parigi, riaccompagnandolo lo stesso giorno in stazione» (149).
  Una presenza in Italia negata da Duccio Berio nel corso della sua audizione in Commissione, che è stata, invece, confermata da Perini, escusso dai consulenti della Commissione il 25 novembre 2015. Quest'ultimo ha ribadito, infatti, di essere stato presente al colloquio tra Berio e monsignor Davide Bianchi, responsabile dell'Opera Romana Pellegrinaggi, svoltosi il 17 aprile 1978 (150).
  Anche Carlo Fortunato rese testimonianza sul fatto che «anche il Berio nella prima metà del ’78 era a Roma per contattare il Monsignor Davide Bianchi dell'Opera Romana di Pellegrinaggi» (151).
  Sempre secondo Perini, Simioni sarebbe stato presente negli uffici di viale Angelico a Roma nel dicembre 1977.Pag. 107
  Una circostanza, a suo tempo, confermata anche da Carlo Fortunato: «Alla domanda [del giudice Mastelloni] se nel dicembre del ’77 io mi trovassi con Corrado Simioni nell'appartamento di via Beato Angelico [Roma] rispondo che senz'altro è possibile, peraltro in quel periodo il Simioni era a Roma, penso che alloggiasse in viale Angelico ospite della Rossi [Eleonora] che adesso si trova a Parigi» (152).
  Le numerose testimonianze convergenti raccolte da Mastelloni lo portarono a sostenere la tesi che «resta quantomeno riscontrata la internità al gruppo di Maletti e Fortunato, e Codini per quanto dianzi detto, dell'imputato Simioni, che, dunque, in un periodo in cui era in gestazione, e quindi in fase pre operativa il sequestro dell'On.le Moro, soggiornava a Roma, a Milano e nel Veneto» (153).
  Resta da chiarire anche la circostanza eccentrica – confermata da Carlo Fortunato – che «nel periodo del fitto di via Nicotera il gruppo di italiani legati a Parigi si ritrovava anche con elementi venuti da Parigi quali il Simioni nella villa di Galleriano [comune di Lestizza, in provincia di Udine] per realizzare delle prove in ordine alla realizzazione della messinscena di un Mistero medioevale la cui rappresentazione venne fatta nel giugno ’78 alla parrocchia di Quinto Romano, in provincia di Milano [rectius comune di Milano]. All'epoca il Mulinaris non si interessava di questo aspetto teatrale e si trovava a Parigi almeno per quel che mi risulta in procinto di diventare Direttore dell'Istituto [Hypérion]. Tutti i fine settimana della primavera del ’78 ci ritrovavamo nella villa di Galleriano per realizzare questa messinscena» (154).
  Appare meritevole di approfondimento, anche, il racconto di Giampaolo Fortunato, secondo cui «all'epoca del sequestro Moro transitò per un'ora a casa mia, accompagnato non ricordo se da Berio o Simioni, l'abbé Pierre: doveva avere dei contatti con Zaccagnini e proprio da casa mia fissò un appuntamento con l'onorevole. I due venivano dall'aeroporto» (155).

10.5. Conclusioni.

  Dalla documentazione, in parte inedita, di cui è entrata in possesso la Commissione, emergono ulteriori elementi a sostegno dell'esistenza a Parigi di un coordinamento tra le principali organizzazioni terroristiche operanti in Europa (RAF, IRA, ETA, Action Directe, BR) e il Fronte di Lotta per la Liberazione della Palestina.
  Una circostanza confermata anche dai servizi francesi. In più di un'occasione vi furono incontri non già nella sede di Hypérion, ma presso il Centro di Cultura Popolare, con sede nella capitale francese in Rue de Nanteuil, a cui, in rappresentanza delle Brigate rosse, partecipò – sempre secondo queste fonti di intelligence – Corrado Simioni.Pag. 108
  Una presenza che dimostrerebbe un filo mai interrotto tra le BR a guida morettiana e Simioni, con la sua rete del Superclan. Un legame che riesce difficile pensare non sia manifestato anche in occasione della complessa gestione del sequestro di Aldo Moro.
  In una lettera dal carcere, Vanni Mulinaris, che ha sempre negato qualsiasi legame di Hypérion con il terrorismo, arrivò, però, a scrivere che «L'equivoco sono convinto sia questo: a quanto pare, seguendo le più recenti dichiarazioni, indagini [...] a Parigi qualcosa di quel tipo [centro relazioni internazionali] ci deve essere, solo che non è l'Hypérion» (156).
  Mai chiarite fino in fondo, poi, sono le fonti di ricavo delle due reti di Hypérion (sia quella italiana sia quella estera), con le rimesse dei promotori di abbonamenti che, oltre a coprire i costi della gestione ordinaria della distribuzione delle riviste, sarebbero dovute servire anche per pareggiare i conti di Hypérion: una circostanza inverosimile e da approfondire (157).
  Sempre dalla documentazione acquisita, è confermato che Toni Negri ha avuto stabili rapporti con un organismo francese denominato Centro Ricerche Informazioni Socio-Economiche (Crise), con sede a Parigi in Rue Saint Martin, 246 che – sempre stando a un appunto della nostra intelligence – appare simile al Centro Ricerche di Programmazione Economica e Territoriale (Cerpet) con sede a Roma. Alcuni membri del Crise sarebbero stati legati anche a Hypérion, di qui un interesse di Negri per questa organizzazione (158).
  È stata, inoltre, ampiamente evidenziata (159) una frequentazione di Moretti, prima, e di Senzani, poi, con l'Hypérion e i suoi referenti a Parigi come Jean Louis Baudet, con l'obiettivo di riprendere, dopo la vicenda Moro, un rapporto di collaborazione operativa, con particolare riferimento al traffico di armi, tra BR, OLP e FPLP.
  Come detto in premessa, meno indagata, ma non meno priva d'interesse, è stata l'attività della rete italiana del Superclan sia nella fase precedente al sequestro di Aldo Moro sia nei 55 giorni.
  In particolare appare assolutamente necessario approfondire i movimenti della rete italiana e straniera del Superclan durante i 55 giorni, con particolare riferimento alle periodiche riunioni nella villa di Galleriano, in provincia di Udine, di cui parla Carlo Fortunato, dove si sarebbero svolte (improbabili) prove per la rappresentazione di un testo medievale.
  Senza voler in alcun modo dare un valore probatorio a un'opera di fantasia, viene spontaneo riflettere sul romanzo La borsa del Presidente, dato alle stampe da Alberto Franceschini nel 1997. Dietro lo schermo di nomi di fantasia, infatti, non è troppo difficile individuare il profilo di alcuni dei protagonisti della tragica vicenda dei 55 giorni, a partire proprio da un regista venuto dalla Francia, sui Pag. 109quarantacinque anni, che porta con sé fogli scritti in latino: è l'identikit di Simioni, che, nel racconto, arriva a Roma verso la metà di aprile e non contento di interrogare M. per il tramite di altri, non resiste alla tentazione di recarsi personalmente nel covo-prigione in cui è recluso il Presidente.
  Come è noto, la questione degli interrogatori di Moro e della predisposizione delle domande da formulare al Presidente della DC, alcune delle quali presuppongono un livello culturale superiore a quello dei carcerieri, è tutt'altro che chiarita.
  Riscontri certi sulla presenza di Simioni in Italia durante il sequestro potrebbero, perciò, contribuire a dare risposte agli interrogativi ancora aperti sull'implicazione nella vicenda Moro di quelli che Franceschini nel suo romanzo fa definire da uno dei suoi personaggi come «nomi di caratura ben diversa, per proteggere i quali se ne possono appunto sacrificare altri» (160).

11. Morucci e Faranda dal sequestro Moro a viale Giulio Cesare.

11.1. La posizione di Morucci e Faranda e il loro «Memoriale».

  È noto che la posizione di Morucci e Faranda presenta significative specificità sia durante il periodo del sequestro Moro, sia nella fase in cui i due brigatisti avviarono un percorso di dissociazione che maturò anche attraverso il dialogo con esponenti politici e istituzionali.
  Già nell'ottobre del 1982, a tre anni dall'arresto, Morucci affermò, nel corso del primo processo Moro, una sua autonoma posizione, basata non su una dissociazione di tipo personale, ma sul tentativo di affermare una consapevolezza collettiva dei terroristi circa l'esaurimento della prospettiva politica della lotta armata.
  Tale posizione assumeva, in un contesto in cui ancora il terrorismo rappresentava una minaccia, una forte valenza politica, anche perché fu percepita da parte del mondo politico e giornalistico come una proposta di negoziazione informale, all'esito della quale si sarebbe potuto realizzare un completo disarmo delle Brigate rosse e un alleggerimento della posizione processuale dei brigatisti.
  Questo primo spunto fu ripreso nel 1984 quando Morucci e Faranda espressero con due lettere indirizzate al giudice Amato e al giudice Imposimato una decisione di collaborare con la giustizia tramite «dichiarazioni spontanee». Anche in questo caso, ci si distingueva dalla posizione dei «pentiti», ritenendo che il «percorso di chiarificazione» non potesse svolgersi per via giudiziaria (161).
  Le reazioni del mondo a cui Morucci e Faranda appartenevano furono preoccupate. Un'informativa del CESIS per il Presidente del Consiglio del 12 ottobre 1984 riferiva, ad esempio, dei «gravi timori» che sarebbero emersi in una riunione di esponenti di Autonomia operaia avvenuta il 19 settembre presso i locali di «Radio Onda Rossa» (162).Pag. 110
  Non è possibile, in questa sede, dare conto diffusamente del complesso percorso di Morucci e Faranda – tuttora oggetto di approfondimenti della Commissione –, che si intersecò con il dibattito che portò all'elaborazione di una legge sulla dissociazione (legge 18 febbraio 1987, n. 34). Allo stato degli atti, si segnala che la gestazione del noto «Memoriale» doveva essere già stata avviata, almeno come proposta politica, nell'estate 1985, quando a Francesco Cossiga, appena eletto Presidente della Repubblica, fu comunicata, per il tramite di suor Teresilla Barillà, una disponibilità di Morucci e Faranda a rispondere alle sue domande. Il relativo promemoria elaborato dalla Presidenza della Repubblica segnalava che «in passato una richiesta simile fu rivolta – tramite Imposimato – sia al Prof. Avv. Francesco Cossiga – all'epoca Presidente del Senato della Repubblica – che al Sen. Ugo Pecchioli, ma nella forma di un colloquio riservato» e che in tale occasione Cossiga e Pecchioli declinarono, «dopo attenta considerazione e valutati i rischi politici in ordine ai procedimenti in corso» (163).
  Il percorso fu lungo e si realizzò definitivamente solo nel 1990, quando il «Memoriale» di Morucci giunse a Cossiga, dopo una serie di contatti, prevalentemente epistolari, con suor Teresilla Barillà, e con l'esponente democristiano Remigio Cavedon.
  Il rapporto tra il «Memoriale» e le varie dichiarazioni e interventi di brigatisti che, tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, consolidò una «verità» sulla vicenda Moro rimane da approfondire e precisare, anche alla luce della documentazione raccolta sulle condizioni carcerarie e gli sconti di pena.
  Tuttavia già la singolarità del percorso di Morucci e Faranda, che potrebbe aver realizzato alcuni elementi di un negoziato politico, induce a riprendere in esame sin dalle origini il percorso dei due brigatisti, dal loro rapporto con gli ambienti di Potere operaio nella fase del sequestro Moro, alle trattative dell'aprile/maggio 1978, alla fuoriuscita dalle Brigate rosse, all'arresto del 29 maggio 1979.
  Da un punto di vista metodologico, in questo come in altri casi, la Commissione ha inteso riprendere la tematica a partire da una rilettura complessiva degli atti acquisiti dalle precedenti Commissioni e da nuove acquisizioni documentali e testimoniali. Ciò ha portato a formulare nuovi percorsi interpretativi che saranno oggetto di ulteriori verifiche e approfondimenti, ma che già ora delineano alcuni scenari.

11.2. Le trattative e il ruolo di Piperno.

  Sin dall'inizio del sequestro Moro, le Brigate rosse appaiono caratterizzate da una dialettica tra il comitato esecutivo, guidato da Moretti, e un'area «romana» che trova in Faranda e Morucci i suoi esponenti di punta ed è legata a un più vasto «partito armato» in cui si incontravano esponenti di Potere operaio e del Comitato comunista Centocelle, formazione già guidata da Valerio Morucci.Pag. 111
  In particolare, nel periodo del sequestro e in quello immediatamente successivo, il gruppo di Morucci appare legato a un'area di contiguità, già protagonista, nei primi anni ’70, di esperienze politiche estremistiche. Tale area poteva vantare non trascurabili contatti nel mondo politico, che del resto furono attivati nel corso del sequestro Moro.
  La dialettica interna alle Brigate rosse era legata a diversi motivi, dal rapporto con la conflittualità sociale e i movimenti del ’77 a una sorta di competizione interna. Ciò che conta ai fini dell'inchiesta è che essa è di notevole importanza per comprendere gli eventi del sequestro, le trattative e la successiva costruzione di una «verità parziale» su di esso.
  Un primo elemento che è stato approfondito, per il momento su base documentale, è quando si aprì, all'interno del gruppo che gestì il sequestro Moro, una dialettica sulle trattative e poi sulla decisione di uccidere l'ostaggio.
  In proposito Morucci e Faranda hanno – retrospettivamente – accreditato la tesi che la scelta di alzare il livello dell'attacco allo Stato con il rapimento di Moro fu da loro osteggiata già prima degli eventi. Come riportato nel «Memoriale»: «È da tenere presente che io e Faranda – seppure alla fine siamo stati tra i promotori ed organizzatori dell'azione – eravamo contrari al sequestro Moro – in quanto tale, cioè indipendentemente dalla sua conclusione – poiché ritenevamo che questa azione fosse estranea politicamente ed organizzativamente alla situazione romana e che in generale avrebbe danneggiato il movimento» (164).
  Nel corso del sequestro, inoltre i due furono i referenti dell'iniziativa portata avanti dalla segreteria del Partito socialista per una trattativa che consentisse la salvezza di Moro. Morucci operò a sostegno di tale ipotesi, sulla base di una valutazione politica sull'indebolimento dello Stato che ne sarebbe conseguito. In proposito egli ha, ad esempio, segnalato un dissenso sulla decisione di rendere pubblica la lettera (riservata) che Moro indirizzò a Cossiga il 29 marzo 1978: «Questo fatto provocò la prima reazione mia e di Adriana Faranda verso il comitato esecutivo. Noi infatti ritenevamo che la lettera a Cossiga, scritta dal prigioniero come messaggio riservato, non andava resa pubblica, poiché solo se si fosse mantenuto il segreto sul suo contenuto, Cossiga avrebbe forse potuto sollecitare ad una maggiore disponibilità della Democrazia cristiana» (165).
  L'iniziativa socialista non fu, come è noto, l'unico tentativo di stabilire un canale di trattativa con i brigatisti. Essa fu però l'unico che sembrò aprire un reale spazio politico, con concrete possibilità di successo. Ciò dipese in buona misura dalla attivazione di un'area, sviluppatasi dall'Autonomia operaia e vicina alle Brigate rosse, che aveva un forte radicamento nell'area di contiguità e, in talune sue componenti, aspirava a diventare «partito armato».
  La trattativa socialista è stata più volte analizzata sin da quando, nel 1979, emerse pubblicamente la sua esistenza, anche in interventi pubblici di numerosi interessati. Prendendo le mosse dal lavoro della Pag. 112Commissione Stragi, la Commissione ha approfondito la vicenda sia tramite attività di indagine sia tramite una serie di audizioni, in particolare quelle di Gennaro Acquaviva, di Claudio Signorile e di Umberto Giovine.
  Il quadro che ne risulta può essere sommariamente così riassunto.
  Un'evoluzione della posizione socialista, inizialmente allineatasi alla «linea della fermezza» maturò progressivamente dopo il Congresso di Torino del 30 marzo – 2 aprile 1978, prima in una dimensione riservata e successivamente in una dimensione pubblica.
  Il tentativo di avviare una trattativa si sviluppò dunque probabilmente dall'inizio di aprile, si rafforzò intorno al 15 aprile, dopo il comunicato numero 6 delle Brigate rosse, e soprattutto dopo il comunicato n. 7 del 20 aprile, che dichiarava che «il rilascio del prigioniero Aldo Moro può essere preso in considerazione solo in relazione della liberazione di prigionieri comunisti».
  A tale proposito va ricordato che è proprio dopo il 20 aprile che prende corpo nelle lettere di Moro e nell'azione del colonnello Giovannone la prospettiva di una trattativa con le Brigate rosse mediata dai movimenti palestinesi. Sia nel caso della trattativa «socialista» che di quella «palestinese» gli elementi raccolti evidenziano che questo percorso di negoziato era noto e valutato a livello istituzionale. Anche in assenza di riscontri certi di un collegamento tra le varie iniziative, queste appaiono dunque unificate dalla comune consapevolezza degli attori politici.
  La presa di posizione del PSI in favore di un'autonoma iniziativa dello Stato portò a ricercare contatti in due principali direzioni. In entrambi i casi, tuttavia, esisteva un riferimento diretto all'onorevole Craxi, segretario del Partito.
  La prima, «milanese», sembra essersi sviluppata grazie all'iniziativa di Walter Tobagi e puntava a realizzare, tramite l'avvocato Giannino Guiso, un rapporto con i brigatisti in carcere, come Curcio e Franceschini, in modo da ottenere una presa di posizione pubblica degli stessi e una pressione «interna» sui sequestratori.
  Su questa è tornato recentemente l'ex direttore di «Critica sociale» Umberto Giovine nell'audizione presso la Commissione del 19 ottobre 2016. Oltre a fornire alcuni elementi sui rapporti con i brigatisti incarcerati, Giovine ha affermato che vi era una circolazione di copie di lettere di Moro, prima che queste venissero a conoscenza dell'opinione pubblica, attraverso un canale che – apparentemente – conduceva dai brigatisti alla libreria Calusca e al mondo dell'Autonomia milanese e poi da qui, tramite Aldo Bonomi e lo stesso Giovine, a Craxi.
  Tali affermazioni, se confermate, indicherebbero che la trattativa non si svolse solo tramite i contatti sin qui noti, ma che comportava un canale sin qui non conosciuto.
  La seconda, essenzialmente «romana» fu realizzata prevalentemente tramite Claudio Signorile e si indirizzò verso gli ambienti dell'ex Potere operaio (Franco Piperno, Lanfranco Pace).
  Il calcolo politico era, in questo caso, fondato perché diverse componenti dei «movimenti» avevano espresso anche attraverso «I Volsci», mensile dell'Autonomia romana, e «Lotta continua», posizioni favorevoli a una trattativa sulla vita di Moro, nella consapevolezza Pag. 113che questa avrebbe consentito di porre la questione dei «detenuti» e di massimizzare la vittoria ottenuta con il rapimento. Su queste basi, dunque, diversi esponenti socialisti presero contatto con quest'area.
  In particolare, Signorile poté, per il tramite del direttore de «l'Espresso» Zanetti e del giornalista Scialoja, trovare un contatto con Franco Piperno e Lanfranco Pace.
  Pur tra numerose incertezze, risultano, dal complesso delle dichiarazioni rilasciate dagli interessati nel corso degli anni, almeno tre incontri, uno intorno alla metà di aprile, uno dopo il 24 aprile e un terzo tra il 4 e il 7 maggio, ai quali si aggiunsero contatti diretti tra Lanfranco Pace e Craxi, per il tramite di Antonio Landolfi. Va rilevato in proposito che in una lettera non spedita a Guerzoni scritta intorno al 3 maggio, Moro scrisse, a proposito dell'iniziativa socialista: «Ha uno spessore  ? Freato riesce a pilotare Signorile  ?» (166). Domanda che sembra presupporre una consapevolezza di Moro delle iniziative in atto.
  All'inizio di maggio, dopo un incontro tra le delegazioni democristiana e socialista e contatti con il Presidente del Senato, Amintore Fanfani, sembrò che si determinassero le condizioni per dare un segnale di apertura, prima con il discorso del Capogruppo al Senato, Bartolomei, a Montevarchi il 7 maggio e poi nel corso della riunione della Direzione democristiana del 9 maggio. Mentre questa era in corso pervenne però la notizia del ritrovamento del corpo di Moro.
  Nel prosieguo dell'inchiesta, la Commissione intende approfondire le tematiche relative a quest'ultima parte del sequestro, già oggetto di plurime dichiarazioni che non hanno consentito di chiarire in maniera definitiva se l'esecuzione fu in qualche modo «precipitata» proprio a causa di una disponibilità alla trattativa che si stava manifestando o se invece i segnali che pervennero ai brigatisti erano troppo deboli.
  In proposito, si segnala che la Commissione sta compiendo accertamenti sulla vicenda della grazia che il Presidente della Repubblica, Giovanni Leone, avrebbe inteso concedere a Paola Besuschio e alla visita di un ufficiale dei Carabinieri nell'ospedale dove la brigatista si trovava ricoverata in stato di detenzione al fine di chiederle di sottoscrivere la domanda di grazia.
  Alla luce delle dichiarazioni rese in audizione da Claudio Signorile, risulta che l'azione socialista sia stata avviata in un momento antecedente a quanto sinora noto e debba essere antedatata ai primi giorni di aprile 1978 e comunque dopo la conclusione del congresso di Torino.
  Questa affermazione appare peraltro compatibile con quanto affermato da Piperno nell'audizione alla Commissione Stragi del 18 maggio 2000. In quella sede, infatti, egli ebbe a dichiarare: «Io ho incontrato l'onorevole Signorile a casa del dottor Zanetti. Non ricordo più la data, forse tra la fine di marzo e i primi di aprile, anzi successivamente, perché tutto questo avviene dopo l'arresto di quella che allora era mia moglie, Fiora Pirri» (167). Poiché l'arresto di Fiora Pirri Ardizzone avvenne il 3 aprile 1978 si può ragionevolmente ipotizzare una data di poco successiva.Pag. 114
  Proprio a partire dall'audizione di Claudio Signorile, è stata approfondita l'ipotesi di un nesso tra l'attività di osservazione realizzata dalla Polizia sul Centro ricerche di programmazione e pianificazione economica e territoriale (Cerpet) – il centro studi animato da esponenti dell'Autonomia e collegato a esponenti socialisti come Giacomo Mancini e Antonio Landolfi – a partire dalla fine di marzo 1978 e il coinvolgimento di Piperno e Pace nella trattativa per la liberazione di Moro. Signorile ha infatti evidenziato che i suoi movimenti erano facilmente individuabili da parte delle forze dell'ordine.
  La documentazione di polizia, già acquisita dalla Commissione Stragi, ha confermato che tale attività di osservazione risulta sicuramente svolta tra la fine di marzo e l'inizio di aprile 1978, in una modalità di osservazione statica e identificazione delle persone che accedevano alla sede del Cerpet in piazza Sforza Cesarini n. 28, a Roma, con particolare attenzione a Lucio Castellano, esponente dell'Autonomia e successivamente redattore della rivista Metropoli. La contestualità dell'attività di osservazione con l'attivazione di Pace e Piperno ha indotto a programmare ulteriori approfondimenti, allo scopo di verificare se esistette una relazione tra le due vicende o se la vigilanza debba essere ricondotta a un generico interesse investigativo per un'area ritenuta prossima all'estremismo politico (168).
  Va segnalato che, contestualmente, all'inizio di aprile la DIGOS eseguì nell'ambiente dell'Autonomia operaia e della colonna romana delle BR diverse perquisizioni domiciliari, al termine delle quali numerose persone vennero arrestate e denunziate all'autorità giudiziaria per partecipazione ad associazione sovversiva (169).
  Dalla ricostruzione offerta da Claudio Signorile emergono inoltre due ulteriori elementi di rilievo.
  In primo luogo il ruolo dell'area che Piperno tentò di egemonizzare nel periodo a cavallo del sequestro Moro. In quella fase, tale area, che funge da tramite tra socialisti e Brigate rosse, non appare un soggetto terzo, ma piuttosto l'espressione di una autonoma posizione di «partito armato». A causa delle carenza di testimonianze univoche, la vicenda della trattativa rimane ancora in parte non conosciuta nel suo concreto dipanarsi. Alla luce di quanto accertato in sede giudiziaria e nelle precedenti inchieste, appare evidente che Piperno e Pace cercarono di orientare verso una soluzione non cruenta della vicenda Moro, sia per la convinzione che l'uccisione di Moro sarebbe stata disastrosa per l'area che essi esprimevano e i suoi addentellati nella società civile, sia anche per l'aspirazione a una sorta di «egemonia» sull'estremismo politico.
  Il secondo elemento è il fatto che la trattativa e i movimenti di Signorile erano ampiamente noti in ambito istituzionale. Si ricorda, in particolare che Signorile ha affermato di averne tenuto al corrente delle trattative il generale Ferrara, Vicecomandante dell'Arma dei Carabinieri, che, audito dalla prima Commissione Moro il 13 novembre Pag. 1151980 (170), dichiarò di aver avuto un incontro con Craxi sul tema di «quale incidenza avrebbe avuto sull'Arma dei Carabinieri la cosiddetta politica della trattativa» e ricordò di aver chiarito a Craxi che questa sarebbe stata estremamente negativa. Inoltre Signorile mantenne un filo diretto con Cossiga, tanto che – secondo le sue dichiarazioni – si trovava presso lo stesso Cossiga quando giunse la notizia della morte di Moro. Lo stesso Signorile ha sottolineato che nel corso delle trattative il Partito socialista agì rendendone consapevoli non solo gli interlocutori istituzionali, ma anche il Partito comunista: «Era però importante che il Partito Comunista fosse informato – attenzione – che noi stavamo facendo questo, e venne informato» (171). Da quanto dichiarato, appare dunque l'esistenza di una piena consapevolezza, se non di un avallo, riguardo all'azione di Signorile, che, secondo quanto da lui rimarcato, fu oggetto di intercettazione o pedinamento.

11.3. L'assassinio di Moro.

  Nell'ultima fase del sequestro Moro i contrasti precedenti si tradussero in una spaccatura tra Morucci e Faranda, da un lato, e l'ala maggioritaria di Moretti dall'altro.
  Tale spaccatura è così rappresentata nel cosiddetto «Memoriale Morucci»: «Io ed Adriana Faranda esprimemmo la nostra totale contrarietà alla esecuzione di Aldo Moro. Non essendo quello il momento di riprendere fino in fondo i motivi della nostra contrapposizione politica con l'organizzazione, cercammo di sviluppare argomenti convincenti per far recedere da quella decisione». Secondo questa ricostruzione, che naturalmente esprime una specifica posizione di parte, i due sostennero dunque che di fatto le Brigate rosse avevano già ottenuto molteplici riconoscimenti e che la riduzione della lotta a scontro militare con lo Stato rischiava di risultare perdente e che in ogni caso avrebbe appiattito lo scontro sociale in atto (172).
  In sostanza, secondo questa ricostruzione, Morucci e Faranda si opponevano alla linea compartimentata e leninista di Moretti, propugnando un collegamento con forme di ribellismo sociale diffuso, al limite sfocianti in guerriglia urbana. In tale contesto, essi erano favorevoli a una trattativa su Moro, dalla quale – ritenevano – il partito armato avrebbe potuto lucrare risultati più significativi di quelli derivanti dalla sua uccisione. Era, a ben vedere, una posizione per molti aspetti simile a quella di Piperno e a quella di frange dell'Autonomia. Essa però presentava una debolezza intrinseca: il fatto cioè che Morucci e Faranda non avevano il controllo dell'ostaggio e non mantenevano neppure i legami con le altre colonne. La loro posizione di intermediari era dunque sostanzialmente precaria e, già sul breve periodo, li portò a una marginalizzazione politica.
  Anche sul punto della morte di Moro, appare di particolare interesse l'audizione di Signorile, che fu convocato da Cossiga nel suo Pag. 116studio la mattina del 9 maggio e, in quella sede, fu messo al corrente – secondo quanto da lui dichiarato, confermando dichiarazioni già rese alla prima Commissione Moro il 13 novembre 1980 (173) – della notizia della morte di Moro con notevole anticipo rispetto alla versione consolidata e alla telefonata di Morucci a Tritto. Signorile ha infatti dichiarato che si recò da Cossiga tra le 9 e le 10 e che la notizia della morte di Moro pervenne «non più tardi delle 11», il che pone il problema del senso della telefonata di Morucci a Tritto delle 12.15.
  Rispetto a questo tema, la Commissione ha avviato una serie di approfondimenti, sia di natura documentale sia di natura tecnica – delegati ai RIS – che mirano a verificare le modalità di esecuzione di Moro e gli orari in cui essa avvenne. L'accertamento di tali elementi, al di là delle non riscontrate affermazioni dell'artificiere Vitantonio Raso, è infatti importante per comprendere se l'esecuzione fu in qualche modo «precipitata», anche per tagliare la strada alla trattativa, e fu realizzata da un gruppo di fuoco diverso da quello comunemente noto.
  A tale proposito va sottolineato che i brigatisti sono stati concordi nell'affermare che la posizione di Morucci e Faranda, favorevole alla liberazione di Moro anche senza contropartita, era abbastanza isolata, all'interno delle Brigate rosse. Lo stesso Moretti avrebbe cercato di dilazionare la soluzione cruenta, anche con la telefonata alla famiglia Moro del 30 aprile, che richiedeva un intervento del segretario della Dc «diretto, immediato, chiarificatore, preciso».
  Peraltro, Signorile, nella citata audizione, ha posto la questione in una forma che appare meritevole di ulteriori approfondimenti: «Io non credo che ci possano essere moltissimi dubbi sul fatto che la partita dentro il comando delle Brigate Rosse si gioca fino a un certo punto con delle possibilità di soluzione diversa; da un certo momento in poi la parte politica, più che essere perdente, viene emarginata, estraniata, non conta più. Anche gli incontri di Faranda e Morucci, da come abbiamo capito, da come ce li hanno raccontati, sono incontri disperati, non decisionali. L'ansia di Piperno quando mi dice che non basta quello che si vuole fare, che bisogna essere più chiari, come pure Scialoja che dice che non l'avevano capito, costituiscono un modo per presentare e giustificare qualcosa che probabilmente è già avvenuto. Questo significa che Moro è passato nelle mani di un gruppo di fuoco, che è quello che alla fine lo ammazza e nel quale c’è sicuramente Moretti».
  Di nuovo, questa considerazione di uno dei protagonisti di questi eventi apre la questione dell'assassinio e dei suoi autori. Diversi elementi, attualmente oggetto di vaglio da parte della Commissione, potrebbero infatti evidenziare un ruolo della «colonna genovese».
  Si richiama, in proposito, un articolo che apparve su «Critica sociale» del 4 maggio 1979, non firmato e quindi probabilmente attribuibile al condirettore Umberto Giovine, che – come già segnalato – aveva partecipato alle trattative per la liberazione di Moro. Nel Pag. 117testo, dedicato proprio al tema delle trattative, si affermava che «la diffusione del «comunicato n. 9» — che gli esegeti del lessico brigatista sostengono scritto dai «genovesi», mentre quelli precedenti erano scritti dai «romani» che tenevano prigioniero Moro — sarebbe coincisa col cambio della guardia nel «carcere del popolo»: carcerieri «genovesi» col compito di boia, al posto dei romani».
  Si ricorda poi che in una delle audiocassette sequestrate in uno dei covi brigatisti, analizzata dal RIS di Roma su delega della Commissione, l'audio, che sembra una telefonata di prova fatta da un brigatista con inflessione piemontese, fa riferimento all'abbandono del corpo di Moro presso il Forte di San Martino, a Genova.
  In un'altra, come in parte già evidenziato nella prima relazione, è contenuta invece una conversazione, datata 2 novembre 1978, tra una voce maschile – in funzione di interrogante – e una donna, verosimilmente da identificare in Susanna Chiarantano, alla quale vengono chieste informazioni sull'ambiente dell'estrema sinistra genovese, alla quale la stessa apparteneva.
  Anche Mario Scialoja sottolineò in un articolo apparso su «l'Espresso» del 23 aprile 1978, che avrebbe potuto essere «ispirato» dall'interno delle BR, i contrasti tra «colonna romana» e «colonna genovese» (174). Contrasti che sono stati sottolineati anche da Patrizio Peci, che ha ricordato che «all'epoca, capo della colonna genovese era Rocco Micaletto il quale aveva manifestato chiaramente la necessità della linea più intransigente... cioè aveva sempre detto chiaramente che era per l'esecuzione di Moro».

11.4. L'uscita di Morucci e Faranda dalle Brigate rosse e la latitanza.

  Uno degli ambiti oggetto di approfondimenti ancora in corso è la ricostruzione della cronologia della fuoriuscita di Morucci e Faranda dalle Brigate rosse e dei loro tentativi di costruire un autonomo movimento terrorista (Movimento comunista rivoluzionario).
  Da quanto risulta, già nell'estate 1978 le prospettive del Comitato esecutivo delle Brigate rosse e di Morucci e Faranda erano distanti. A fronteggiarsi erano infatti due prospettive diverse, maturate nel sequestro Moro: quella morettiana, fondata su un accentramento militare e una stretta compartimentazione, e quella morucciana, che intendeva allargare lo spazio del terrorismo brigatista verso una più vasta area di conflittualità sociale e di movimenti.
  Cruciale appare in questo quadro, come era già stato nell'ultima fase del sequestro Moro, il rapporto di Morucci e Faranda con Piperno, Pace e i gruppi, derivati da Potere operaio, che stavano dando vita a un ambizioso progetto di egemonia politico-culturale per il tramite del Cerpet e di pubblicazioni periodiche come «Metropoli».
  Già nel luglio 1978 si dovrebbe collocare l'incontro tra Moretti e Piperno in una casa alto-borghese del quartiere Prati, nel corso del quale si sarebbe svolto un tentativo di chiarimento (175).Pag. 118
  In proposito Piperno ha dichiarato, da ultimo, il 30 agosto 2000 che in quell'occasione furono affrontati tre punti: le motivazioni per cui era stato ucciso Moro; il fatto che non era intenzione di Piperno e Pace quella di creare «una organizzazione che si ponesse in alternativa o su un terreno di lotta armata»; il dissenso tra Moretti e Morucci e il fatto che le Brigate rosse volevano «avere contezza che non vi fosse nessuno dietro al dissenso di Morucci e Faranda» (176).
  E tuttavia l'azione di Morucci e Faranda nella seconda metà del 1978 e nei primi mesi del 1979, rimane ancora poco precisata, anche nelle sue scansioni temporali.
  Per quanto risulta agli atti, la fuoriuscita di Morucci e Faranda non può essere antedatata a prima dell'ottobre 1978, quando la Faranda partecipò all'omicidio Tartaglione (10 ottobre) e dovrebbe collocarsi nei primi mesi del 1979. Già nei mesi precedenti, però, Morucci aveva condotto, senza successo, una battaglia politica in seno al Fronte logistico e, nel corso di una riunione della direzione della colonna romana, allargata ad alcuni rappresentanti dell'esecutivo, svoltasi alla fine del 1978, aveva subito degli attacchi che avevano determinato le condizioni per la rottura (177).
  Da quanto accertato dalle precedenti indagini, il distanziamento di Morucci e Faranda dalle Brigate rosse fu la base per un tentativo di rilancio dell'attività politica e terroristica su fondamenti in parte diversi e guardando a un'area politica più ampia, la stessa che attraverso Metropoli si organizzava attorno a Piperno e in stretto rapporto con la corrente socialista di Mancini e Landolfi.
  Significative in tal senso sono state le dichiarazioni di Antonio Savasta, in interrogatorio reso in data 6 febbraio 1982 ai pubblici ministeri di Padova Pietro Calogero e Carmelo Ruberto: «Il contrasto cui ho accennato non si sopì con la conclusione dell'operazione Moro, in quanto il Morucci e la Faranda continuarono a proporre e a tentare di far passare all'interno dell'organizzazione il loro progetto (che era anche quello di Piperno e di Pace) di uno stretto coinvolgimento, nell'avanzante processo rivoluzionario, del Movimento offensivo (B.R.) e del movimento di resistenza (Autonomia): a tal fine, essi suggerivano la necessità di non andare oltre il livello raggiunto con l'operazione Moro e di spingere a questo livello il movimento di massa, imponendo una stretta direzione dell'organizzazione su nuclei di M.P.R.O. che andavano in quel periodo costituendosi e armandosi a Roma per iniziativa degli stessi Morucci e Faranda, spalleggiati da Rosati e Davoli» (178).
  Anche Michele Galati, sentito il 9 aprile 1982 dal giudice istruttore di Venezia Carlo Mastelloni, ha dichiarato che: «Moretti disse che egli era ben consapevole del fatto che Morucci e Faranda, all'atto del loro ingresso nell'organizzazione, avvenuta nell'estate del 1976, erano portatori di una linea politica diversa ispirata da Piperno, ma che nonostante ciò era stata accettata la loro richiesta di ingresso nelle BR, poiché essi rappresentavano l'ala più forte di Potere operaio e Pag. 119dell'Autonomia a Roma. La scoperta della base di viale G. Cesare e dell'appoggio che era stato dato da Pace e da Piperno subito dopo la fuga non ci colse di sorpresa, poiché questo fatto costituì una conferma di ciò che era già noto all'organizzazione. Moretti mi disse che in epoca precedente alla fuga di Morucci e Faranda aveva incontrato più volte Piperno per una discussione politica sulla fase della lotta armata. Durante quegli incontri, di cui non mi furono riferite le circostanze di tempo e di luogo, il Piperno aveva manifestato la sua adesione alla linea politica delle B.R., di cui riconosceva la forza e le capacità militari. Il Piperno aveva espresso il suo consenso anche sul sequestro Moro, pur manifestando delle riserve sulla gestione della operazione e sull'esecuzione di Moro, per ragioni tattiche» (179).
  In sede giudiziaria, gli elementi emersi in ordine ai contatti tra Pace e Piperno e le Brigate rosse non furono ritenuti sufficienti a configurare il reato di banda armata, mentre si evidenziò una rete di confronti e dialoghi con il mondo brigatista che sembra necessitare ulteriori approfondimenti, al fine di chiarire lo sfondo di rapporti che caratterizza la vicenda Moro.
  La Commissione intende svolgere ulteriori approfondimenti su un possibile intreccio tra alcune posizioni che emergevano nel gruppo di «Metropoli» e il tentativo di costruire un partito armato differenziato dalle Brigate rosse che fu perseguito da Morucci e Faranda, nonché su una connessione tra questa vicenda e il sequestro Moro.
  Su questo tema si possono richiamare una serie di elementi già emersi nelle precedenti indagini, che andranno integrati con ulteriori accertamenti.
  A tale proposito va innanzi tutto segnalata la contestualità del tentativo di Morucci e Faranda con la fondazione, il 17 novembre 1978, da parte di un gruppo di ex appartenenti a Potere operaio, della cooperativa «Linea di condotta», che nei mesi successivi diede alle stampe le riviste «Pre-Print» e «Metropoli».
  Alcuni «autonomi» che facevano parte di questo gruppo si sarebbero incontrati, nella seconda metà del 1978, con Moretti e i rappresentanti della colonna romana al fine di proporre alle Brigate Rosse la costituzione della rivista «Metropoli» (180). Le Brigate rosse non si legarono al progetto e tutto rimase in una fase indeterminata. Tuttavia «Metropoli» uscì con un numero zero nel dicembre del 1978, comprendente un articolo di Piperno che conteneva la famosa frase sulla necessità di «coniugare la terribile bellezza del 12 marzo 1977 con la geometrica potenza di via Fani», con riferimento alla manifestazione del 12 marzo 1977 e alla strage di via Fani.
  A questo elemento va aggiunto il fatto che Lanfranco Pace, emissario della rete di Metropoli, fece da intermediario tra Morucci e le BR per la restituzione a queste delle armi o di parte delle armi che i due fuoriusciti avevano portato con sé, uscendo dall'organizzazione (181).Pag. 120
  A suo tempo furono inoltre rilevati rapporti tra alcuni terroristi e l'ambiente del Cerpet. Si ricorda in particolare il caso di Paolo Ceriani Sebregondi che – su incarico di Lanfranco Pace – aveva fatto opera di volantinaggio per conto del Cerpet presso la Fiat di Cassino, in periodo anteriore al sequestro Moro. Inoltre, nel corso di una perquisizione domiciliare eseguita il 1o luglio 1979 nell'abitazione di Alberto Armellini e Lino Argetta, operai della Fiat di Cassino (area sulla quale il Cerpet aveva diverse commesse), vennero rinvenuti documenti provenienti da Morucci e Faranda, tra i quali quello intitolato Fase, passato, presente e futuro, un contributo critico riproducente fedelmente, in fotocopia, quello rinvenuto a Roma, nell'appartamento di viale Giulio Cesare n. 47, dove si erano rifugiati i due terroristi.
  Occorre tuttavia indagare ulteriormente se i contatti tra autonomi e Brigate rosse, evidenziatisi nell'autunno del 1978, non fossero in realtà attivi già nel periodo del sequestro Moro e della trattativa.
  Quando divenne evidente l'intendimento di Morucci e Faranda di uscire dalle Brigate rosse, l'organizzazione offrì loro una base temporanea a Moiano, del danaro, una pistola e documenti per l'espatrio. Morucci e Faranda fecero invece ritorno a Roma, prelevarono armi e danaro dalla loro base, si diedero alla macchia e si allontanarono formalmente dalle Brigate rosse nel febbraio 1979 insieme a Massimo Cianfanelli, dopo aver illustrato la propria posizione politica nel documento sopra citato Fase: passato, presente e futuro. Li seguirono anche altri militanti come Norma Andriani, Carlo Brogi e Arnaldo Maj.
  Già nei primi mesi del 1979 appare chiaro che la prospettiva di un «partito armato» distinto dalle Brigate rosse faticava a realizzarsi e Morucci e Faranda trovarono ospitalità – per il tramite di Lanfranco Pace – presso Aurelio Candido, grafico del «Messaggero» e responsabile di «Notizie Radicali», amico della giornalista Stefania Rossini, all'epoca collaboratrice del «Messaggero» e convivente con Lanfranco Pace. Da qui Morucci e Faranda si spostarono, sempre per il tramite di Piperno e Pace – come accertato in sede processuale e poi dalle Commissioni di inchiesta – presso Giuliana Conforto, che ottenne in cambio da Piperno alcuni aiuti per la sua carriera accademica (182).
  Per quanto attiene alla tempistica dell'arrivo di Morucci e Faranda in casa di Giuliana Conforto, l'interessata dichiarò inizialmente all'Autorità giudiziaria di aver ospitato «la coppia, da lei occasionalmente conosciuta al Pincio, sin dalla precedente Pasqua e di non aver mai nutrito sospetti sia sulla vera identità dell'uomo e della donna».Pag. 121
  Successivamente, nell'interrogatorio svolto dal pubblico ministero, Giuliana Conforto ammise che i due giovani le erano stati «segnalati» telefonicamente da Piperno, suo collega nell'ateneo calabrese. Dalle ammissioni degli interessati si riuscì a stabilire in seguito che alla vicenda non era estraneo Lanfranco Pace. Questi avrebbe parlato per primo con la donna, anche a nome di Piperno, sollecitandola ad accogliere i due, descritti come una coppia di «compagni» con piccoli problemi con la giustizia.
  Incontratasi successivamente con il Piperno presso l'Università dell'Aquila, Giuliana Conforto si era lasciata convincere da Piperno. In sede dibattimentale – nell'udienza del 20 giugno 1979 – la Conforto, a contestazione del Tribunale, dichiarò che «avendo saputo dal Piperno che i due potevano essere ricercati», aveva concordato con loro di dare, in caso di necessità, la versione del casuale incontro al Pincio.
  Il 28 gennaio 1980 Piperno sostenne una versione differente. Egli sarebbe stato avvertito da Pace dell'ospitalità accordata dalla Conforto a Morucci e Faranda, in virtù del suo interessamento. La circostanza gli era, in seguito, stata confermata dalla stessa Conforto in occasione di un incontro avuto con costei all'Aquila. Piperno afferma di essersi lamentato con Pace dell'iniziativa, poiché la Conforto l'avrebbe utilizzata come «elemento di scambio» per un interessamento al suo trasferimento all'università dell'Aquila.
  In un confronto con la Conforto davanti al giudice istruttore – avvenuto il 27 ottobre 1979 – Piperno negò quanto da costei asserito in ordine ad una telefonata che egli le avrebbe fatto, chiedendole ospitalità per i suoi due amici. La Conforto replicò: «Ho la certezza assoluta che la telefonata di presentazione è stata fatta da F. Piperno».
  Pace interrogato dal giudice istruttore il 24 gennaio 1980, ammise di avere aiutato Morucci e Faranda a trovare provvisorie sistemazioni, su richiesta della stessa Faranda, che si era rivolta a lui verso la fine di gennaio o ai primi di febbraio 1979, preoccupata dalla propria sicurezza personale e di quella di Morucci, dopo la loro uscita dalle BR.
  Dopo averli sistemati per qualche giorno nell'abitazione di una persona che non intendeva nominare, aveva chiesto ad Aurelio Candido, giornalista del «Messaggero» di ospitarli. L'ospitalità si era protratta per due-tre settimane. Infine li aveva introdotti presso Giuliana Conforto, da lui conosciuta a Cosenza nel 1977, in occasione dei lavori di un convegno.
  Giuliana Conforto è poi tornata sulla questione in sede di audizione presso la Commissione Moro il 21 maggio 1981. In quella sede, la Conforto, smentendo sue più antiche affermazioni, ha affermato in primo luogo che la richiesta di ospitare Morucci e Faranda venne prima da Pace (a nome di Piperno) e poi da Piperno stesso e che Morucci e Faranda giunsero a casa sua alla fine di marzo. Ha inoltre precisato che i suoi rapporti con Piperno datavano al 1966-1967. Lo vedeva raramente ma fu Piperno che le ottenne l'incarico universitario in Calabria. La Conforto negò inoltre di essere stata in Potere operaio e ammise di conoscere Luciana Bozzi, ma non il marito Giancarlo Ferrero.Pag. 122
  Successivamente, nella sua audizione alla Commissione Stragi del 18 maggio 2000, Piperno affermò di non conoscere Luciana Bozzi. In altra audizione presso la stessa Commissione, avvenuta il 3 maggio 2000, Lanfranco Pace fece una dichiarazione che – se verificata – stravolgerebbe tutta la cronologia della latitanza di Morucci Faranda, antedatando di parecchi mesi il rapporto con la Conforto. Affermò Pace: «Dissi questo alla Conforto, ma sto parlando dell'inizio del mese di novembre del 1978. I patti erano che lei li avrebbe tenuti per quindici giorni. Morucci e Faranda sono stati arrestati a casa della Conforto sei mesi dopo. È successo evidentemente che nacque fra di loro una relazione tale di amicizia e di fiducia per cui loro stessi chiesero autonomamente alla Conforto, cinque mesi dopo, di ospitarli nuovamente».
  Nel complesso le dichiarazioni rese dai soggetti coinvolti individuano una serie di oscillazioni, sia sulle modalità attraverso le quali Morucci e Faranda giunsero in viale Giulio Cesare sia sui rapporti tra la Conforto e gli ex esponenti di Potere operaio sia infine sulla natura dei rapporti tra la Conforto e i due brigatisti. In particolare, le affermazioni di Pace e Piperno, più volte mutate nel corso degli anni, appaiono evidentemente legate a strategie processuali e a segnali inviati a interlocutori che poterono essere consapevoli degli eventi o che appartenevano a quell'ampia area grigia del mondo politico-giornalistico che non disdegnava di mantenere stretti rapporti con il partito armato. Esse dovranno quindi essere nuovamente sottoposte a verifica, anche tramite l'acquisizione di ulteriori elementi documentali e testimoniali.
  Il persistere dei rapporti di Morucci e Faranda con Piperno e Pace, durante i primi mesi del 1979, potrebbe pure essere in relazione alla comparsa (giugno 1979) sulla rivista «Metropoli» del noto fumetto sulla vicenda Moro nella quale si evidenziavano vicende non comunemente note, come quella della trattativa socialista. Va inoltre ribadita la contestualità dell'aiuto fornito ai due latitanti con l'azione di tramite con le Brigate rosse svolta da Lanfranco Pace.
  Allo stato degli atti e salvo ulteriori verifiche, risulta dunque che Morucci e Faranda sarebbero rimasti a casa di Giuliana Conforto almeno dalla fine di marzo 1979 fino al 29 maggio quando vennero arrestati.
  Nel momento in cui i due si rifugiarono a viale Giulio Cesare la prospettiva di costruire un autonomo movimento, su basi ideologiche comuni con Piperno, Pace e il gruppo di «Metropoli» poteva ancora essere ancora attuale. Ben presto, però, Morucci e Faranda dovettero cogliere i segnali di uno sfaldamento complessivo della loro posizione.
  Da un lato, infatti, come ha ricordato più volte Pace, c'era una accentuata pressione delle Brigate rosse su di loro, che sembrava non escludere in via di principio l'eliminazione fisica dei due fuoriusciti.
  Dall'altro, con il cosiddetto Processo 7 aprile l'area dell'Autonomia fu colpita duramente e Morucci e Faranda persero i loro referenti esterni, decisivi per i collegamenti con la vasta area di contiguità e con spezzoni del mondo politico. Piperno, ad esempio, fu colpito da provvedimento restrittivo della Procura di Padova il 7 aprile 1979 e fu arrestato a Parigi il 18 agosto dello stesso anno.Pag. 123
  È in corso di approfondimento l'ipotesi che in questo contesto di crescente isolamento sia maturata una sorta di autoconsegna negoziata. Messi alle strette dalla pressione brigatista e tuttora latitanti, Morucci e Faranda potrebbero aver scelto questa strada anche con il concorso di altri soggetti, come il noto Giorgio Conforto, padre di Giuliana.
  Il 29 maggio 1979 Valerio Morucci e Adriana Faranda vennero arrestati in quell'abitazione in viale Giulio Cesare n. 47.

11.5. Le acquisizioni della Commissione sulla scoperta del rifugio di viale Giulio Cesare.

  La Commissione ha dovuto confrontarsi con una stratificazione di ipotesi interpretative accumulatesi nel corso degli anni, anche a causa della progressiva acquisizione di notizie da parte degli operanti.
  Cronologicamente il terminus a quo è un'informativa della DIGOS per la Procura di Roma, datata 30 maggio 1979 e firmata da Ansoino Andreassi, che fa riferimento a «notizie riservatissime» che avrebbero consentito di scoprire il covo di viale Giulio Cesare (183). La stessa informativa sottolineava che sin dal sequestro Moro era maturata negli investigatori la convinzione che esistesse un covo brigatista in zona Prati e che «su tali basi, venivano pertanto attivate le fonti informative e, contestualmente, si procedeva ad un accurato vaglio di quelle persone, abitanti in quella zona, che, per essere già note a questa DIGOS come appartenenti a formazioni dell'ultrasinistra, potevano fornire appoggio e ospitalità ai brigatisti rossi».
  È questa la prima menzione nota del fatto che l'arresto poté derivare dalla segnalazione trasmessa da una fonte.
  Nella sua audizione alla Commissione Moro del 22 ottobre 1980 Domenico Spinella, capo della DIGOS di Roma, ha aggiunto alcuni particolari di interesse. Rispondendo alla domanda del senatore Marchio, che gli chiedeva di un informatore che, nel 1978, gli aveva parlato dell'appartenenza di Morucci e Faranda alle Brigate rosse, ha affermato che si trattava di «una persona che conosco da molti anni ed è, a mio avviso, totalmente estranea alla organizzazione terroristica». A proposito di viale Giulio Cesare, lo stesso Spinella ha affermato invece che la Conforto «secondo me era responsabile non solo del favoreggiamento che le è stato contestato».
  Va sottolineato che tutte queste informazioni furono fornite ben prima che, con la scoperta del dossier Mitrokhin, divenisse di pubblico dominio il ruolo di Giorgio Conforto come agente del KGB. Questo tuttavia era ampiamente noto, non solo ai Servizi, ma agli stessi operanti di polizia e, per loro tramite, all'Autorità giudiziaria.
  Alcune settimane dopo l'arresto di Morucci e Faranda venne redatto, sempre da Andreassi, l'appunto riservato del 6 luglio 1979 in cui si afferma che «da fonti confidenziali diverse e non in contatto fra loro» era possibile ipotizzare un legame tra Luciana Bozzi, Pag. 124proprietaria dell'appartamento di via Gradoli, e Giuliana Conforto (184).
  Una delle suddette fonti dovrebbe identificarsi con una fonte della Questura di Genova che, in data 29 giugno 1979, segnalò con un fonogramma alla Questura di Roma il nesso Bozzi-Conforto. L'indicazione della Questura di Genova era che «fonte confidenziale di quest'Ufficio» aveva riferito di una pregressa conoscenza tra la Bozzi e la Conforto, maturata nell'ambito del Centro ricerche nucleari della Casaccia e del gruppo del professor Ugo Farinelli.
  La nota segnalava inoltre l'inopportunità di concedere alla Bozzi incarichi presso il Ministero dell'industria, poiché essa «potrebbe divenire una utile fonte di informazione per movimenti estremistici ed eversivi». Il 14 dicembre 1978 la Bozzi era stata infatti distaccata dal CNEN alla Direzione centrale delle fonti di energia (185).
  Nel corso del primo processo Moro (udienza dibattimentale dell'11 novembre 1982), rispondendo agli avvocati, Andreassi fornì alcune precisazioni sul tema del rapporto Bozzi/Conforto, dichiarando: «Proseguimmo per qualche tempo le indagini senza formalizzarle e senza arrivare a risultati apprezzabili, o quanto ufficializzabili».
  Andreassi tornò poi sulla questione in un'audizione presso la Commissione Stragi, avvenuta il 1o dicembre 1999. In quell'occasione egli, dopo aver rimarcato di essere stato il primo a stabilire un collegamento tra il covo di via Gradoli e il covo di viale Giulio Cesare, sottolineò diversi punti di interesse.
  Rispondendo a una domanda del Presidente sulla cattura di Morucci e Faranda, ha dichiarato che «non c’è dubbio che non si volevano far catturare» e «l'operazione fu limpidissima. Avemmo – e non la ebbi io, che fui in questo caso un esecutore dell'operazione – un'informazione secca e precisa, tra l'altro proveniente da ambienti che non erano dell'eversione. Sono quelle cose che capitano inaspettatamente». Ha inoltre aggiunto che «fu un'informazione regalata alla Polizia, non estorta» e, rispondendo ancora a una domanda del Presidente, chiarì che «era un contatto dell'informatore non con l'organizzazione [terroristica], nella maniera più assoluta, era un contatto di natura personale con uno dei due arrestati, nessun retroscena».
  Ha infine confermato che alla DIGOS pervennero appunti del SISMI che qualificavano Giorgio Conforto come agente del KGB e che essi «non furono trasmessi ufficialmente all'autorità giudiziaria, ma l'autorità giudiziaria fu portata a conoscenza del contenuto degli appunti».
  Questa comunicazione delle note SISMI all'Autorità giudiziaria appare un punto da approfondire ulteriormente.
  In atti (186), si rileva una nota su Conforto, tempestivamente inviata dal SISMI al SISDE (e poi da questo ai Centri 1 e 2), «Capo della Polizia e Segretario generale del CESIS informati» l'8 giugno 1979, nella quale si fornivano elementi su Giuliana e Giorgio Conforto, ipotizzando che quest'ultimo «bruciato come agente informatore sovietico, sia rimasto, nel dopoguerra, fiduciario del KGB il quale Pag. 125potrebbe averlo manovrato non più nel campo spionistico tradizionale, ma [potrebbe] avvalersene come «agente d'influenza» nel settore politico con compiti di: infiltrazione negli ambienti diplomatici dei Paesi satelliti ed allineati; penetrazione nei movimenti extraparlamentari di estrema sinistra, per la raccolta di umori, commenti e propensioni; influenza e penetrazione nell'ambito del partito in cui milita».
  Peraltro, la nota riprendeva, nella chiusa, considerazioni già formulate in una nota che il Raggruppamento Centri Cs aveva fatto pervenire al reparto D nel 1972 (187).
  Pur non essendo particolarmente aggiornata, essa formulava delle ipotesi abbastanza precise ed è ipotizzabile che sia stata la fonte delle notizie che Andreassi riferì all'Autorità giudiziaria. Occorre però individuare le motivazioni che indussero i soggetti competenti a non approfondire minimamente il tema di un possibile nesso tra Giorgio Conforto e la vicenda brigatista.
  Nulla infatti risulta né da atti di polizia né da atti giudiziari, se non una testimonianza resa da Giorgio Conforto al giudice Francesco Amato il 5 luglio 1979, nella quale Conforto si limitò a rievocare un saltuario incontro con Morucci e Faranda a casa di Giuliana (188).
  Il nesso tra i Conforto e Morucci/Faranda riemerse dunque inopinatamente solo quando, per una casualità storica, fu diffuso il cosiddetto dossier Mitrokhin.
  Importante, sotto questo punto di vista, fu l'audizione di Francesco Cossiga alla Commissione Mitrokhin il 1o marzo 2004. In tale occasione Cossiga affermò: «Fu lui [Conforto] (questo lo so per certo) che, per difendere il Partito comunista italiano da accuse di collusione con le Brigate rosse, denunziò, all'allora capo della squadra mobile Masone, Faranda e Morucci, che abitavano nella casa della figlia. L'uomo che fece arrestare Faranda e Morucci è quello che qui è considerato il più grande agente sovietico, Conforto. Fece ciò perché la figlia non sapeva nulla. Sapeva soltanto che questi erano elementi di sinistra. La figlia era un'extraparlamentare non comunista. Quando lui capì chi erano le persone che erano in casa della figlia contattò Masone».
  La base delle affermazioni di Cossiga sarebbe dunque stata una confidenza di Masone, che, in quanto Capo della Squadra mobile, diresse l'operazione. A quella data, peraltro, Masone era morto e non poté confermare né smentire.
  La tesi esposta da Cossiga era priva di riscontri in atti, in particolare in relazione all'ipotesi di un'attivazione specifica del KGB. Tuttavia, l'indicazione che la cattura di Morucci e Faranda potesse avere a che fare con un ruolo attivo di Conforto presenta una certa verosimiglianza alla luce di tre elementi circostanziali: il trattamento di favore riservato a Giuliana Conforto; l'iter anomalo delle informazioni relative a Giorgio Conforto, trasmesse oralmente dal SISMI alla Polizia e da queste all'Autorità giudiziaria e rimaste senza alcun seguito; le modalità dell'arresto.Pag. 126
  Tali tematiche sono state riprese nell'ultima audizione di Ansoino Andreassi presso la Commissione (21 gennaio 2016), nella quale si è avviato un riesame complessivo della vicenda che ha consentito, sulla base di alcune indicazioni fornite dallo stesso Andreassi, di acquisire nuovi elementi sul complesso dell'operazione che portò all'arresto di Morucci e Faranda.

11.6. L'individuazione della fonte di polizia.

  La vicenda della scoperta del covo di viale Giulio Cesare n. 47 è dunque stata oggetto di indagine in maniera continuativa dal 1979 a oggi.
  In una prima fase, si è soprattutto indagata la rete di rapporti che legava Giuliana Conforto a ambienti dell'Autonomia (Piperno e Pace). In seguito, la Commissione Stragi e soprattutto la Commissione Mitrokhin si sono concentrate sulla figura di Giorgio Conforto, valorizzando le informazioni rivelate da Cossiga.
  La Commissione ha cercato di riprendere il filo degli elementi fattuali a partire dalla ricostruzione materiale dell'arresto, un aspetto che naturalmente di per sé non esclude l'esistenza, a più alto livello, di forme di negoziazione intorno a Morucci e Faranda.
  A partire dalle indicazioni fornite da Andreassi, nell'audizione del 21 gennaio 2016, sul fatto che la notizia pervenne da un sottufficiale dipendente dal dirigente della Squadra mobile Luigi De Sena, si è dunque operato per identificare la fonte che avrebbe rivelato il nascondiglio di Morucci e Faranda.
  È stato così identificato il sottufficiale che ricevette la notizia da una sua fonte. Si tratta del maresciallo Nicola Mainardi, all'epoca dei fatti in servizio presso la Squadra mobile di Roma alle dirette dipendenze di Luigi De Sena.
  Le informazioni acquisite da Mainardi sono state poi poste a confronto, sia tramite audizione che tramite acquisizione di sommarie informazioni testimoniali, con i soggetti che avrebbero rivelato il nascondiglio di Morucci e Faranda. Sulla dinamica dell'operazione sono poi stati escussi altri operatori di polizia.
  Nell'audizione del 27 aprile 2016 il maresciallo Mainardi ha rivelato che il rifugio di viale Giulio Cesare fu identificato grazie a suoi confidenti, che gestivano un autosalone in zona Portuense (AutoCia srl) e che disponevano di una pregressa conoscenza di Valerio Morucci.
  Si tratta di Dario Bozzetti e Olindo Andreini, già implicati in diverse attività criminali, che insieme al loro socio Matteo Piano operavano nel settore della compravendita di auto. In particolare, Dario Bozzetti avrebbe fornito un contributo rilevante, che sarebbe stato ricambiato con la concessione di un passaporto e con qualche tolleranza rispetto alle attività che ruotavano intorno alla società AutoCia.
  Le attività di riscontro si sono svolte innanzi tutto tramite l'audizione di Dario Bozzetti e l'acquisizione di sommarie informazioni testimoniali da Olindo Andreini e Matteo Piano, oltre che attraverso numerosi riscontri in atti.
  Sia Andreini, che Bozzetti che Piano hanno negato di aver svolto il ruolo di informatori nella vicenda della cattura di Morucci e Faranda, ma hanno fornito diversi riscontri sia in ordine alla conoscenza di Mainardi che sui loro rapporti con Morucci.Pag. 127
  In particolare, nelle sommarie informazioni rese il 30 aprile 2016 a collaboratori della Commissione, Olindo Andreini ha dichiarato: «Io e Valerio Morucci siamo cresciuti insieme in quanto io vivevo in via Alberto Caroncini n. 29 dove mio padre faceva il portiere. Morucci abitava ad un altro civico, mi pare il nr. 2. Pur avendo un diversa età ci vedevamo fin da quando eravamo bambini..... Fui io a dire a Morucci che avevo aperto un autosalone per spargere la voce e vedere se potevo acquisire nuovi clienti. Un giorno lui mi chiese di venire a vedere delle auto presso l'AutoCia. Venne da solo, ma non trovò auto che gli potevano interessare. Il periodo non lo ricordo ma sicuramente era tra l'apertura dell'autosalone e la morte di Moro».
  In merito ad eventuali rapporti dopo l'omicidio di Moro lo stesso Andreini ha riferito: «Dopo l'attentato di via Fani, l'uccisione della scorta e precisamente dopo l'omicidio di Moro, venni contattato telefonicamente da Morucci che mi disse che voleva parlare con me ma non all'autosalone, mi disse di vederci in un bar [...] ed in quella circostanza mi disse che era ricercato per il sequestro e l'omicidio di Moro e della scorta e che faceva parte delle Brigate rosse. Rimasi sorpreso e gli chiesi che cosa avevano combinato, un fatto di tale gravità [...] dissi a Morucci di non venire più all'autosalone. Così è stato». Ha aggiunto che «sicuramente questa circostanza la raccontai pure ai miei soci Dario Bozzetti e Matteo Piano, anche loro infatti conoscevano Morucci come un mio amico».
  Anche Bozzetti, nell'audizione del 27 aprile 2016, ha dichiarato che Valerio Morucci conosceva Andreini da vecchia data e che «veniva a trovare il suo amico, per colazione, per l'aperitivo, per varie cose». Bozzetti ha tenuto a precisare di non avere avuto a suo tempo alcuna consapevolezza dell'identità criminale di Morucci, ma di averla appresa solo dopo la conclusione della vicenda Moro.
  Dello stesso tenore le dichiarazioni rese da Matteo Piano nelle sommarie informazioni rese il 7 maggio 2016 a collaboratori della Commissione. Piano ha dichiarato: «Il Morucci a volte l'ho intrattenuto in attesa che si liberasse Olindo [Andreini]. Ribadisco che era amico di infanzia di Olindo in quanto la madre di quest'ultimo faceva la portiera nel palazzo dove viveva Morucci da giovane».
  È quindi emersa in maniera incontrovertibile una frequentazione di Morucci con i titolari della Società AutoCia srl, presso la quale del resto, come è documentato in atti sin dal 1979, Adriana Faranda acquistò due auto: una Citroën Mehari il 21 maggio 1976 e una A112 il 19 aprile 1977 (189).
  Sono in corso approfondimenti in ordine ad alcune evidenze che fanno ritenere più strutturata la collaborazione tra i soggetti che gravitavano intorno all'autosalone ed i brigatisti.
  È stata infatti rilevata, tra la documentazione sequestrata nel covo di viale Giulio Cesare, la presenza di documenti di circolazione di automobili e di contrassegni assicurativi in bianco che rimandano alle attività della società AutoCia o ai suoi rappresentanti Bozzetti e Andreini. Pag. 128
  Difficile ritenere casuale la disponibilità da parte dei brigatisti, nel covo di viale Giulio Cesare, di dati personali utilizzati per predisporre documenti di autovetture già nella disponibilità dell'AutoCia, nonché di contrassegni assicurativi in bianco dello stesso modello di quelli sequestrati in passato a persone comunque collegate a detta società.
  Deve quindi essere esplorata la possibilità di un coinvolgimento dei gestori della società AutoCia nella contraffazione documentale nel settore delle autovetture, utilizzata dal cosiddetto «logistico» delle Brigate rosse.
  È noto che nel modus operandi dei brigatisti rientrava la creazione di una «copertura» per le auto di provenienza furtiva, con una dotazione comprendente targhe false, documenti di circolazione e assicurazioni anch'essi falsi o contraffatti, relative ad autovetture «regolari» realmente esistenti e circolanti che, in caso di un controllo su strada da parte delle Forze dell'ordine, non destassero sospetto.
  Il legame tra Morucci e ambienti prossimi alla criminalità comune è peraltro emerso anche da quanto da lui stesso scritto in un volume autobiografico. Nel testo egli ha attribuito la sua cattura a una delazione: «L'occasione [dell'arresto] gliela diedi io perché, per avere documenti falsi, contattai gente sbagliata. Tra loro un informatore della polizia. Si prese i suoi trenta denari, all'epoca trenta milioni» (190). Peraltro quest'ultima considerazione, se verificata, sembrerebbe rimandare a una dazione di denaro che non è stata sino ad ora riscontrata in atti.
  Allo scopo di chiarire i termini dell'eventuale scambio che portò all'arresto di Morucci e Faranda e le concrete dinamiche dell'arresto, la Commissione ha interrogato, tramite collaboratori, una serie di funzionari di polizia che, a diverso titolo, parteciparono all'operazione e alle successive perquisizioni. In particolare, l'allora ispettrice Maria Vozzi ha ricordato (5 luglio 2016) di aver partecipato, insieme a De Sena, a un servizio di appostamento intorno a viale Giulio Cesare alcuni giorni prima dell'irruzione, mentre l'ispettore Sandro Nervalli (9 agosto 2016), che partecipò all'irruzione, ha osservato che dalla dinamica della stessa «sembrava quasi che i due si stessero costituendo».
  In questo quadro hanno assunto qualche rilievo le dichiarazioni rese a collaboratori della Commissione dall'ex ispettore di polizia Pasquale Viglione il 30 maggio 2016.
  Viglione, all'epoca in servizio presso il Commissariato Monteverde, non partecipò all'irruzione in viale Giulio Cesare ma a una successiva perquisizione, effettuata nel luglio 1979, a carico dei titolari della Società AutoCia e dei loro familiari.
  Secondo quanto affermato da una nota consegnata da Viglione alla Commissione, tale perquisizione sarebbe stata motivata dal fatto che il maresciallo Corsetti, capo della squadra informativa del Commissariato Monteverde, «si era allarmato perché [Andreini e Bozzetti] erano stati indicati come conoscenti di Morucci e Faranda».
  La perquisizione sarebbe stata poi interrotta a seguito dell'arrivo di «due colleghi del ministero che lui [Corsetti] definì dei servizi». Lo Pag. 129stesso Viglione ha riferito di una frequentazione della Faranda e di Morucci con Matteo Piano nel periodo del sequestro Moro, nonché una presenza di Toni Chichiarelli nei paraggi dell'AutoCia.
  Le affermazioni di Viglione sono state messe a confronto con altri appartenenti alla polizia da lui citati. Tra questi, un sottufficiale del Commissariato Monteverde che partecipò alla perquisizione, Salvatore Cummo (sommarie informazioni rese il 12 luglio 2016), non ha evidenziato ricordi in merito a presunte interferenze avvenute durante la perquisizione di una abitazione nella disponibilità di Bozzetti nel 1979. Il generale Navarra (sommarie informazioni rese il 10 agosto 2016), già in servizio al SISDE, ha invece smentito le affermazioni del Viglione relative a sue frequentazioni con Matteo Piano e con un non meglio individuato «uomo dei servizi», notato da Viglione, in una circostanza, insieme a Matteo Piano e, successivamente, in compagnia dello stesso generale Navarra. Infine le affermazioni, raccolte da Viglione in ambiente di polizia, sul fatto che Morucci avesse un rapporto strutturato con i Servizi, non hanno trovato conferme certe. Conclusivamente, l'audizione di Viglione, svolta il 14 settembre 2016, non ha fatto emergere riscontri fattuali a quelle che appaiono prevalentemente sue deduzioni retrospettive.
  A riscontro delle affermazioni rese da Nicola Mainardi, il Servizio centrale antiterrorismo ha accertato che a Dario Bozzetti fu rilasciato un passaporto in data 12 luglio 1979 (successivamente più volte rinnovato), mentre a Olindo Andreini fu rilasciato un passaporto solo in data 17 settembre 1982.
  Cronologicamente, il rilascio a Bozzetti (in quella fase ancora oggetto di diffida del Questore) avvenne il giorno dopo l'esame del magistrato (che interrogò Bozzetti sull'acquisto di auto da parte della Faranda) e circa dieci giorni prima della perquisizione dell'AutoCia e delle abitazioni di Bozzetti, Andreini e Piano, avvenuta il 23 luglio. La scoperta del covo di viale Giulio Cesare, come è noto, risale al 29 maggio, ovvero circa un mese e mezzo prima del passaporto.
  La concessione, nel luglio del 1979, del passaporto, da un lato appare confermare l'affermazione del maresciallo Mainardi sullo «scambio» compiuto con Bozzetti e Andreini, dall'altro non esclude l'esistenza di ulteriori elementi.
  Allo stesso tempo, le affermazioni dell'ispettore Viglione sull'interruzione della perquisizione ad opera di funzionari dei servizi o dell'ufficio politico potrebbero trovare fondamento sulla necessità di «coprire» l'accordo intervenuto con Bozzetti e Andreini.
  Alla luce degli accertamenti compiuti appare non controvertibile che sia esistito un rapporto tra i titolari della AutoCia e Valerio Morucci e che questi – o almeno uno di loro – abbiano avuto un ruolo nella cattura di Morucci e Faranda.
  La Commissione è intenzionata a verificare, anche sulla base di ulteriori accertamenti, se tali elementi vadano integrati con quanto emerso in relazione alla figura di Giorgio e Giuliana Conforto, sulla base sia delle dichiarazioni di Cossiga sia dell'evidenza – documentalmente accertabile – che nel 1979 non fu dato rilievo all'elemento dell'appartenenza di Conforto alla rete spionistica sovietica e che si rinunciò a indagare su un'ipotesi di favoreggiamento di Giuliana Conforto.Pag. 130
  Occorre in particolare verificare se esistette un doppio livello nell'individuazione del covo.
  Se infatti appare indubbio che elementi informativi transitarono alla Polizia da uno dei personaggi che ruotavano intorno alla AutoCia, si possono altresì richiamare attestazioni di una indipendente attivazione della DIGOS attorno a Giuliana Conforto.
  In proposito, la già citata nota inviata alla Procura in data 30 maggio 1979 segnalava che l'attenzione degli investigatori si era da tempo appuntata sulla zona Prati e che «venivano pertanto attivate le fonti informative e, contestualmente, si procedeva ad un accurato vaglio di quelle persone, abitanti, in quella zona, che, per essere già note a questa DIGOS come appartenenti a formazioni dell'ultrasinistra, potevano fornire appoggio e ospitalità ai brigatisti rossi».
  Inoltre nella citata audizione il maresciallo Mainardi ha dichiarato, in relazione all'identificazione dell'abitazione e alla successiva irruzione che «una volta entrati i pedinati al civico 47, sono tornato al commissariato di via Ruffini, e così si è deciso col dottor De Sena – c'era il dottor Andreassi, non so se c'era anche il dottor Spinella, allora dirigente – di fare irruzione appunto al civico 47. Il personale della DIGOS all'epoca conosceva molto meglio di noi gli altri personaggi, e ricordo che quando hanno visto sul citofono il nominativo della professoressa di matematica, sono andati direttamente al piano del suo appartamento, perché pare che avessero fatto già in precedenza delle perquisizioni».
  Entrambe queste indicazioni sembrerebbero rimandare a una fonte di conoscenza del covo di viale Giulio Cesare autonoma e indipendente dalla fonte confidenziale attivata dal maresciallo Mainardi. Se così fosse, si può avanzare l'ipotesi che l'arresto sia stato in qualche modo «negoziato» o dagli interessati, che in quella fase si trovavano in un «oggettivo» vicolo cieco, o da Giorgio Conforto, secondo la tesi a suo tempo avallata da Francesco Cossiga, o ancora con una compartecipazione sia di Morucci e Faranda sia dello stesso Conforto. In questo quadro, anche la posizione di Piperno e Pace, che molto hanno a che fare con il covo di viale Giulio Cesare, potrà essere oggetto di ulteriori approfondimenti.
  Poiché si tratta di una tematica ancora oggetto di indagine, si presenteranno di seguito una serie di elementi, prevalentemente documentali, che vanno intesi come un'ipotesi di lavoro che sarà approfondita nel corso dell'inchiesta.

11.7. Giuliana Conforto e il suo arresto.

  A seguito dell'irruzione nel suo appartamento, Giuliana Conforto fu imputata di favoreggiamento personale, partecipazione a banda armata, ricettazione di armi e documenti di identità e falso.
  A seguito di separazione dei giudizi, il 4 luglio 1979 fu assolta per insufficienza di prove dall'accusa di detenzione di armi e i suoi difensori fecero istanza di concessione della libertà provvisoria. La procura presso la Corte di appello diede parere negativo, ritenendo che la sua attività «configura un rapporto non di mera innocente ospitalità e affitto, ma un preciso e cosciente favoreggiamento» (191). Pag. 131Nondimeno la Conforto fu scarcerata. Sarà in seguito assolta per insufficienza di prove dai reati lei ascritti, in particolare dal favoreggiamento.
  La mitezza con cui fu trattata Giuliana Conforto è stata posta da alcuni in relazione all'azione svolta dal padre, che avrebbe in qualche modo «venduto» l'informazione su Morucci e Faranda in cambio della libertà per la figlia. Altri l'hanno posta in relazione all'azione del suo difensore, Alfonso Cascone, anche se le due cose non sono necessariamente in contraddizione. Cascone, animatore di gruppi extraparlamentari, fu sin dalla fine degli anni ’60 fonte dell'Ufficio affari riservati, come accertato in atti (192).
  A livello giudiziario si è dunque accettata la tesi dell'inconsapevolezza dell'ospite di Morucci e Faranda. Questo elemento andrebbe tuttavia approfondito alla luce di un riesame del profilo della Conforto e degli elementi a carico che emersero nel corso della perquisizione di viale Giulio Cesare.
  In quell'occasione furono infatti rinvenuti – non nella stanza di Morucci e Faranda ma nelle stanze della Conforto e delle figlie – numerose armi e detonatori, tra cui la nota pistola Skorpion 7.65.
  Gli elementi su una possibile militanza terroristica della Conforto rimangono tuttavia alquanto sfuggenti e meritevoli di ulteriori indagini.
  Dagli elementi noti, risulta che la Conforto ebbe una militanza politica abbastanza marcata tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70, nell'ambito di movimenti extraparlamentari a venature trotzkiste e nell'ambito di Potere operaio. In tali ambiti fu in contatto con l'avvocato Alfonso Cascone, che in seguito l'avrebbe difesa.
  Nel 1975 tanto la Conforto che il marito Massimo Corbò comparivano in documenti sequestrati a Caracas a un gruppo terroristico trotzkista. Risulta che nel 1973 insegnavano in Venezuela, tanto che furono licenziati dal CNEN per assenza ingiustificata, in quanto in quel periodo non erano in Italia e inviavano certificati medici per giustificare le assenze. Nel periodo dell'arresto di Morucci e Faranda, Corbò era da circa tre settimane partito per il Mozambico, dove risiedeva da due anni e insegnava fisica all'Università di Maputo, grazie a un contratto dell'Ipalmo. Come segnalato da note di polizia, nel Paese africano si trovava allora una colonia italiana che era oggetto di attenzione in quanto sospettata di contatti con l'estremismo di sinistra e con il terrorismo interno. Nel 1979 la Conforto era tuttavia già separata legalmente dal marito ed appariva legata al giornalista di estrema sinistra Saverio Tutino.
  Alla luce della documentazione acquisita, le indicazioni sulla contiguità sul rapporto tra la Conforto e Potere operaio evidenziate negli appunti del luglio 1979 appaiono ancora meritevoli di approfondimenti. Pag. 132
  Allo stato risulta infatti soprattutto una militanza in un'ampia area di estremismo extraparlamentare, più che una strutturata presenza nell'Autonomia operaia. Tuttavia proprio la facilità del rapporto con Piperno e Pace, al di là della colleganza accademica, pone la questione di approfondire la posizione della Conforto nel periodo 1975-1978, che è il meno conosciuto dal punto di vista documentale. Così pure andrà posto il problema se la stessa Conforto abbia svolto un ruolo in quell'attività di «penetrazione nei movimenti extraparlamentari di estrema sinistra, per la raccolta di umori, commenti e propensioni» che gli appunti dei Servizi attribuiscono al padre.
  Se diversi spunti evidenziano una contiguità della Conforto all'area del brigatismo maggiore di quanto a suo tempo accertato in sede giudiziaria, l'elemento che più di altri rivela il carattere per certi aspetti «anomalo» dell'operazione Morucci/Faranda risiede nelle modalità dell'arresto e nella rapida uscita della Conforto dalla vicenda giudiziaria.
  Come si è segnalato, uno degli operanti, l'ispettore Nervalli, ha osservato che «sembrava quasi che i due si stessero costituendo».
  Questo spunto trova alcuni agganci nel verbale manoscritto della perquisizione, redatto la sera del 29, nell'imminenza dei fatti, e sottoscritto dalla Conforto (193).
  In questo infatti si riferiva che, dopo che la Conforto aveva aperto la porta alla Polizia e questa aveva fatto irruzione, «si dà atto che la signora Conforto Giuliana ha indicato in una stanza del suo appartamento, a specifica richiesta del personale operante, la presenza di due ospiti [segue parola illeggibile] con i nomi di Enrico e Gabriella. Si è proceduto pertanto a perquisire la stanza indicata, ove sono state rinvenute, oltre le due persone indicate, numerose armi con relative munizioni, documenti ed altro ingente materiale».
  Tale ricostruzione è significativamente diversa da quella presente nel verbale di arresto stilato alle 22.40 del 29 maggio e nella successiva relazione inviata al magistrato in data 30 maggio 1979 (194). Il verbale di arresto, infatti, sottolineava l'estrema rapidità dell'irruzione e la «fulminea ispezione», che aveva consentito di bloccare i brigatisti «i quali, intuendo ormai che era in corso una irruzione da parte della Polizia, si stavano apprestando a porre mano alle numerose armi che tenevano a loro immediata disponibilità nella camera».
  In entrambe le note di polizia si evidenziava peraltro la presenza, nelle stanze delle bambine, di numerose armi, compresa la pistola Skorpion 7.65 usata per uccidere Moro, fatto che giustamente portò Andreassi a sottolineare nella citata relazione al magistrato che «non potevano più sussistere dubbi circa il ruolo della Conforto, non semplice ed ignara ospite come si professava, ma membro della stessa banda armata cui aderiscono la Faranda e il Morucci» (195).
  Stando al verbale del 29 maggio, dunque, la Conforto avrebbe collaborato prontamente con gli operanti nell'indicare Morucci e Faranda e di questi ultimi non si riferisce che abbiano tentato una Pag. 133resistenza. Tale elemento compare anche nella stampa dell'epoca, concorde nell'affermare che Morucci e Faranda fossero stati arrestati mentre erano a letto e che, di fronte all'irruzione, Morucci si sarebbe limitato a dire: «Buonasera dottor Masone» (196). Se questa ricostruzione corrispondesse alla realtà, se ne dovrebbe concludere che la Conforto, consapevole di chi ospitava, abbia repentinamente cercato di alleggerire la sua posizione oppure che lei stessa e eventualmente anche i due terroristi erano al corrente che si sarebbe svolta un'operazione di polizia.
  A corroborare la tesi che nell'arresto ci siano degli elementi poco chiari sta anche la testimonianza resa dall'ex deputato radicale Alessandro Tessari in un volume autobiografico. Tessari ha raccontato che, il giorno prima dell'irruzione nel covo, gli fu offerta in affitto una delle stanze, grazie alla segnalazione di un funzionario della Camera e a condizioni vantaggiose. Tessari si prese del tempo per decidere e il giorno dopo apprese dell'arresto di Morucci e Faranda. Di qui l'ipotesi – formulata dallo stesso Tessari – che l'offerta fosse una sorta di esca, per coinvolgerlo in un'operazione predeterminata, in modo da realizzare un depistaggio (197).

11.8. Giorgio Conforto.

  Alla luce di quanto sopra esposto, la Commissione tornerà a approfondire il tema del ruolo di Giorgio Conforto. Come è noto, la figura di Conforto (1908-1986) è emersa con piena evidenza solo nell'ottobre del 1999, a seguito della pubblicazione del cosiddetto dossier Mitrokhin, quando si rivelò che il Conforto («Dario») era uno dei più importanti informatori di cui il KGB avesse avuto la disponibilità nel nostro Paese.
  Il «dossier Mitrokhin» era strutturato in una serie di report, ciascuno dei quali dedicato a una persona o a una situazione di interesse, in cui sono riportati i dati del Servizio di informazioni sovietico. Mitrokhin, li aveva estrapolati dal carteggio originale avuto a disposizione in ragione del suo incarico di archivista presso il KGB.
  Tra i 261 report, uno, il 142, riguarda espressamente Giorgio Conforto, altri, i report 137, 138, 140 e 141, sono collegati a quello perché riferiscono di persone che erano state in relazione con Conforto per la sua attività di spionaggio o perché egli ne aveva avuto la gestione, sempre a fini di penetrazione informativa.
  Poiché «Dario» era il padre di Giuliana Conforto, questa circostanza richiamò l'attenzione su di lui quale possibile anello di congiunzione, tra i brigatisti e i Servizi sovietici, che avrebbe potuto esercitare in tal modo influenza sugli esiti del sequestro dell'onorevole Moro.
  Dagli atti, risulta il suo arruolamento da parte del KGB, ma rimangono ancora da precisare la reale entità dell'attività spionistica da lui esercitata e le modalità in cui si esplicò. Antifascista negli anni ’30, poi arrestato e divenuto confidente dell'OVRA e delle autorità di polizia, Giorgio Conforto – stando ai ricordi di Federico Umberto Pag. 134D'Amato – era già noto ai Servizi statunitensi (e italiani) come agente sovietico sin dal 1946.
  Conforto affiancò al suo lavoro presso il Ministero dell'agricoltura un'attività spionistica, basata sulla conoscenza di alcune segretarie del Ministero degli affari esteri e un'attività politica nella sinistra socialista. Per quanto attiene all'attività politica, rileva particolarmente il suo forte impegno nell'associazione anticlericale «Giordano Bruno», nella quale si incontravano il tradizionale anticlericalismo a sfondo massonico, esponenti comunisti, socialisti e radicali. Nell'attività spionistica, Conforto era aiutato dalla sorella Silvia (1910-1983), medico, e probabilmente dalla moglie Elda Giuliani (1911-1993). Nell'ambito familiare va pure ricordata Anna Maria Conforto (1920-1995), sorella minore di Giorgio, a cui è riconducibile una mansarda sita in via di Porta Tiburtina 36, che era sullo stesso piano in cui, il 28 aprile 1977, fu scoperto un covo terrorista, utilizzato anche da Luigi Rosati, marito di Adriana Faranda.
  Le indicazioni, fornite da Cossiga, sul fatto che Conforto rivelò il covo «per difendere il Partito comunista italiano da accuse di collusione con le Brigate rosse» andranno rivalutate alla luce della militanza di Conforto, più estremista e filosovietica che comunista, e del fatto che la sua attività era nota, tanto che nel settembre 1971 il SID intraprese un'attività di vigilanza diretta e fiduciaria nei riguardi di Conforto, anche con il supporto di attività tecnica e di »penetrazione«, che però non dette alcun esito concreto e non consentì di individuare agenti sovietici a lui collegati (198).
  Poco dopo, in una informativa del 14 gennaio 1972 che il Raggruppamento Centri Cs trasmetteva al Reparto D del SID, si riteneva improbabile che Conforto, »bruciato« quale agente del Servizio informativo sovietico, fosse rimasto – nel dopoguerra – fiduciario del KGB. In tale prospettiva, si sosteneva invece che Conforto avrebbe potuto essere devoluto a compiti di infiltrazione negli ambienti diplomatici dei Paesi satelliti, nonché a penetrazione nei movimenti extraparlamentari di estrema sinistra, per la raccolta di «umori, commenti e propensioni» o, ancora, in un'attività di influenza e penetrazione nell'ambito del Partito socialista in cui militava e del sindacato in cui agiva, al fine di orientarlo su posizioni filocomuniste. Tali attività, però, pur essendo ritenute gravi per la sicurezza dello Stato rispetto allo spionaggio convenzionale, erano ritenute di non agevole approfondimento e documentazione.
  Il ruolo di Giorgio Conforto nella vicenda di viale Giulio Cesare andrà dunque approfondito non solo in relazione alla sua documentata carriera di agente sovietico, ma anche in relazione alla sua frequentazione di ambienti radicali e massonici, legati all'Associazione del libero pensiero Giordano Bruno e al periodico «La Ragione», con sede in via di Torre Argentina 18.
  Tale frequentazione sarebbe del resto proseguita fino alla morte di Conforto. Ancora nel 1986 egli risultava attivo promotore di movimenti politici di tendenza filosovietica e in rapporti con esponenti politici comunisti, come Ambrogio Donini.
  La natura «doppia» di Conforto, più agente provocatore o di influenza che spia, potrebbe essere peraltro verificata sulla base di un Pag. 135esame delle persone e aree italiane con cui fu in relazione, anche alla luce delle sommarie indicazioni fornite in audizione presso la Commissione il 3 novembre 2016 dal generale Cornacchia su un suo asserito rapporto con la CIA e con il SISMI.

11.9. Il possibile legame tra i covi di via Gradoli e viale Giulio Cesare.

  L'appartenenza della Conforto a un'area vicina a Potere operaio induce a porre la questione del rapporto tra viale Giulio Cesare e via Gradoli, anche in base alle citate indicazioni di Andreassi sul fatto che «fonti confidenziali diverse e non in contatto fra loro» indurrebbero a ipotizzare un nesso Bozzi/Conforto.
  La vicenda dell'appartamento di via Gradoli è, a grandi linee, nota. L'appartamento fu acquistato prima dell'11 settembre 1974 da Luciana Bozzi e dal marito Giancarlo Ferrero, quando fu richiesta la trascrizione dell'atto di acquisto. Si ricorda a tale proposto che nell'ambito del processo Moro quinquies Luciana Bozzi, innovando sue dichiarazioni precedenti, ammise una saltuaria frequentazione della Conforto e dichiarò che fu proprio lei a interessarsi, su impulso di una collega (Vittoria Caloi) ai fini dell'assunzione della Conforto al CNEN.
  Moretti (alias ingegner Borghi) avrebbe affittato l'appartamento nel dicembre 1975, quando verosimilmente aveva una conoscenza ancora limitata della situazione romana. È dunque possibile che il trasferimento di Moretti nell'appartamento sia stato mediato da ambienti vicini all'ex Potere operaio.
  Lo stesso Moretti ha peraltro contribuito a gettare qualche confusione sulla cronologia quando, alla domanda di Mosca e Rossanda su «Quando hai affittato l'appartamento di Via Gradoli 96  ?» ha risposto «Nel ’77» (199).
  Il covo fu abitato da Morucci e Faranda almeno fino all'estate 1977 o, come ha scritto lo stesso Moretti, «per un poco...prima del sequestro Moro, quando salta la base dove abitavano» (200).
  Se è verosimile, anche alla luce di dichiarazioni rese in sede processuale, una precoce e duratura frequentazione di via Gradoli da parte di Valerio Morucci, è infatti possibile che da lui sia pervenuta l'indicazione del covo, come ipotizzato – da ultimo – da Franco Ionta nella sua audizione presso la Commissione del 3 marzo 2015. Come pure si può ipotizzare che la scoperta del covo sia stata «pilotata» da altri esponenti del vecchio Potere operaio.
  A far propendere per un collegamento tra via Gradoli e l'area dell'Autonomia stanno anche le indicazioni di polizia che, a suo tempo, ipotizzarono che i proprietari dell'appartamento appartenessero a ambienti finitimi a Potere operaio e in rapporti con Franco Piperno. Un'altra presenza vicina a Potere operaio attiva in via Gradoli è, come noto, quella di Giulio De Petra, l'intestatario del furgone segnalato da diverse informative di polizia come presente in via Gradoli. In proposito De Petra ha dichiarato in data 25 maggio 2016 a consulenti della Commissione che tale frequentazione era Pag. 136legata a motivi familiari e ha comunque ricordato la sua militanza in Potere operaio.
  Alla luce di quanto emerso in relazione ai proprietari delle abitazioni di viale Giulio Cesare, via Gradoli e via di Porta Tiburtina, descritti nelle informative di polizia dell'epoca come legati a un mondo vicino, per opzioni ideologiche o colleganza accademica, a Piperno e Pace, appare dunque opportuno avviare un programma di ulteriori accertamenti sulle presenze e le dinamiche che caratterizzarono i due appartamenti di via Gradoli e viale Giulio Cesare, anche per indagare sul tipo di segnalazioni che poterono pervenire – in entrambi i casi – agli inquirenti.

11.10. Le ipotesi di un doppio livello e il nodo dell'Autonomia.

  L'ipotesi su cui la Commissione sta indagando è che possa essere esistito un doppio livello nell'individuazione del covo di viale Giulio Cesare. A livello materiale, la rivelazione alle forze di polizia poté – come documentato – transitare da uno dei personaggi che ruotavano intorno alla AutoCia srl e che informarono un sottufficiale di polizia del nucleo di De Sena. A un livello ulteriore è in corso di verifica l'ipotesi che l'arresto sia stato in qualche modo «negoziato» o dagli interessati, che in quella fase erano in un vicolo cieco sia rispetto all'organizzazione brigatista che alle forze di polizia, o attraverso Giorgio Conforto, secondo la tesi a suo tempo avallata da Francesco Cossiga e ripresa dalla Commissione Mitrokhin.
  In questo ambito potranno essere rivalutate anche le indicazioni emerse in atti che potrebbero suggerire l'esistenza di un'attività di indagine della DIGOS, anche indipendente dalla segnalazione della fonte del maresciallo Mainardi.
  Per quanto attiene all'ipotesi che Conforto abbia attivato l'operazione di polizia su viale Giulio Cesare occorre tornare a indagare la rete delle frequentazioni italiane dello stesso Conforto e la sua capacità di penetrare gli ambienti dell'estremismo e di Potere operaio. Alla luce del fatto che la condizione di «agente» di Conforto era ampiamente nota ai Servizi italiani, si può ipotizzare che egli abbia deciso di attivare strutture o ambienti politico-istituzionali ai quali non era ignoto e con i quali manteneva rapporti. Ciò sia al fine di salvaguardare la figlia sia, eventualmente, di garantire a Morucci e Faranda una sorte che li sottraesse a una possibile vendetta brigatista.
  La verifica di un collegamento e di una compatibilità tra le due dimensioni della cattura di Morucci e Faranda, quella (accertata) per il tramite dell'AutoCia e quella (ipotizzabile) nella forma dell'autoconsegna e/o tramite Conforto potrà risultare di fondamentale importanza per comprendere il quadro nel quale fu elaborata la ricostruzione della vicenda Moro che Morucci e Faranda diffusero successivamente.
  Un secondo ambito di approfondimento attiene al tema del rapporto tra il gruppo di Piperno e le Brigate rosse, sia in relazione alla «trattativa» per la liberazione di Moro, sia in relazione alla vicenda dei covi di via Gradoli e di viale Giulio Cesare. Le evidenze documentali che la Commissione ha ripreso sul rapporto tra l'Autonomia operaia e le Brigate rosse inducono a avviare un approfondimento Pag. 137sul rapporto di Piperno e del suo gruppo con le decisioni e le operazioni delle Brigate rosse in relazione al sequestro Moro, tema oggetto anche di altri filoni di indagine.
  A tal fine, è necessario ricostruire puntualmente i movimenti del gruppo che diede vita a «Metropoli» e di Bozzi/Conforto nel periodo del sequestro, anche approfondendo la traccia indicata dal citato appunto di Andreassi del 6 luglio 1979 sul rapporto viale Giulio Cesare – via Gradoli.
  Tali accertamenti assumono valore strategico anche al fine di chiarire le dinamiche della trattativa e la consapevolezza che di essa vi fu in ambiti diversi da quelli sin qui accertati.

12. Gli approfondimenti sul bar Olivetti.

12.1. Lo stato degli approfondimenti.

  A partire dalla prima relazione, la Commissione ha ulteriormente approfondito il ruolo nella vicenda Moro del bar Olivetti, ubicato in via Fani. Precedentemente, esso era stato completamente trascurato, nonostante la sua oggettiva prossimità alla scena del crimine, che lo rendeva elemento potenzialmente significativo per l'effettuazione dell'azione militare da parte delle Brigate rosse.
  Già nella prima relazione erano state evidenziate alcune testimonianze che ricordavano come il bar fosse in realtà aperto il giorno dell'eccidio, mentre, dagli accertamenti effettuati, risultava invece che la società che gestiva il bar era fallita nel luglio del 1977 e il locale era rimasto chiuso per molti mesi, ben oltre il 16 marzo 1978.
  Inoltre, era stato approfondito il tema del coinvolgimento del titolare del bar, Tullio Olivetti, in un traffico d'armi scoperto a partire dalla fine di gennaio 1977.
  Le numerose escussioni svolte, talvolta dagli esiti contraddittori, le indagini e l'esame di filmati e foto dell'epoca, non hanno consentito di individuare elementi documentali certi in ordine all'effettiva apertura o chiusura del bar quella mattina. Tuttavia, alla luce delle nuove acquisizioni, proprio le incertezze che si evidenziano nelle testimonianze potrebbero, come si vedrà, essere lette in una luce diversa, ovvero in relazione a una accessibilità del locale a diversi soggetti, indipendentemente dal fatto che l'esercizio avesse interrotto la sua attività.
  Le attività di indagine e le audizioni effettuate dalla Commissione nel corso del 2016 hanno consentito di focalizzare ulteriormente l'attenzione su alcune evidenti singolarità relative al bar e al suo titolare, già in parte segnalate nella prima relazione.
  Si è infatti accertato che Olivetti, indicato in documentazione di polizia e dei Servizi come partecipe di una rete di interessi criminali legati al traffico internazionale di armi, fu precocemente «rimosso» dall'indagine sul traffico di armi, come peraltro confermato dal pubblico ministero titolare della stessa, Giancarlo Armati, nella sua audizione presso la Commissione, il 28 settembre 2016 (201).Pag. 138
  Le indagini a suo tempo compiute dai Carabinieri e l'istruttoria giudiziaria presentano diverse criticità, di cui la principale è proprio la mancata indagine su Olivetti e le sue attività, sebbene fossero emersi elementi che avrebbero dovuto portare a approfondimenti alla luce delle informazioni fornite all'Autorità giudiziaria e alla Polizia da Luigi Guardigli, soggetto che insieme ad altri era stato arrestato con l'accusa di essere coinvolto nel traffico internazionale di armi, e di una successiva segnalazione del SISMI, che collegava le vicende societarie del bar Olivetti all'eccidio di via Fani, segnalazione che non ebbe seguiti.
  In proposito, nell'audizione svolta presso la Commissione, il magistrato Giancarlo Armati ha sottolineato che la mancanza di approfondimenti su Olivetti derivò dal fatto che non gli furono trasmessi elementi significativi da parte degli operatori e ha affermato che, ove li avesse a suo tempo avuti, avrebbe senz'altro proceduto, come pure avrebbe approfondito la connessione – che gli appare oggi evidente – tra il bar e l'attacco di via Fani. Peraltro il generale Cornacchia, che diresse l'indagine, nel corso dell'audizione del 5 ottobre 2016 presso la Commissione (202) ha affermato che «la corresponsabilità di Olivetti in un traffico di armi e anche di munizioni» gli fu indicata da Armati, in quanto emersa dalle dichiarazioni di alcuni imputati, ma non portò a ulteriori accertamenti.
  Sulla base degli elementi sinora acquisiti sono in corso ulteriori accertamenti presso l'Arma dei carabinieri e la Guardia di finanza, allo scopo di verificare l'esistenza di altra documentazione di interesse.

12.2. L'inchiesta sul traffico internazionale di armi.

  Una breve ricostruzione della vicenda processuale, sulla scorta di quanto già esposto nella prima relazione, consente di apprezzare le conclusioni raggiunte dalla Commissione sul singolare disinteresse degli inquirenti circa Tullio Olivetti, chiamato in causa sin dall'inizio da Luigi Guardigli, principale indagato nella vicenda di traffico internazionale di armi.
  Guardigli, titolare della società RACOIN che – come egli ha riferito – trattava la fornitura di armi a Paesi africani e arabi tra cui Egitto, Algeria, Kuwait, Sudafrica, Libano e Libia, nonché a Grecia e Cipro, acquistando anche armi per conto terzi in Paesi occidentali e dell'Europa dell'Est, nell'ambito di tali attività era entrato in contatto con vari soggetti interessati all'acquisto delle armi e con esponenti della criminalità organizzata.
  Tra i suoi contatti interessati all'acquisto di armi Guardigli riferì notizie su Tullio Olivetti, indicato, nel corso di un colloquio confidenziale con il maresciallo della Polizia Gueli, come persona che «in contatto con un gruppo libanese, gli avrebbe richiesto armi e gli avrebbe introdotto un suo amico, offertosi di pagare la fornitura con dollari falsi o cocaina»; «era solita vantare alte aderenze politiche (in particolare affermava di essere in ottimi rapporti con la figlia dell'ex Pag. 139Presidente Gronchi, sua socia nella gestione del bar di via Fani)»; «era un trafficante di valuta falsa e aveva riciclato 8 milioni di marchi tedeschi, provento di un sequestro avvenuto in Germania»; «era vicina ad ambienti della criminalità organizzata; in una circostanza, nella villa di una persona presentatagli proprio da Tullio Olivetti, Guardigli aveva trovato ad attenderlo il mafioso Frank Coppola, che gli aveva chiesto di dare seguito ad una richiesta di armi fattagli da tale Vinicio Avegnano, anch'egli indicato come amico di Olivetti». Avegnano, poi, in un incontro successivo, gli aveva chiesto la «fornitura di un generatore elettronico di corrente per l'esplosione a distanza, apparato di cui gli aveva ampiamente parlato l'Olivetti, dicendogli che esso Guardigli ne era in possesso. (Da rilevare che per sua stessa ammissione il Guardigli acquista tali apparati per £ 80.000 cadauno, rivendendoli nel Libano ed ai guerriglieri palestinesi, a £ 800.000 cadauno)» (203).
  Sebbene queste indicazioni fossero pervenute alla magistratura, che aveva escusso in proposito il maresciallo Gueli e il suo superiore, Guglielmo Carlucci, vicedirettore del Servizio di sicurezza della Polizia, acquisendo agli atti delle indagini le relazioni prodotte da Gueli (204), non risulta che siano stati effettuati gli accertamenti che il caso richiedeva sul titolare del bar Olivetti.
  Lo stesso Olivetti, infatti, nonostante le indicazioni fornite alla Polizia da Guardigli, le dichiarazioni rese all'Autorità giudiziaria (205), i contatti telefonici con Guardigli (206), nonché gli esiti delle perquisizioni (207), non è mai stato escusso, non ha subito perquisizioni e non è stato oggetto di provvedimenti restrittivi.
  In atti si rileva solo che il pubblico ministero Giancarlo Armati aveva disposto una sua escussione, ma che all'atto della citazione non era stato rintracciato. Da allora, non fu più toccato dall'inchiesta.
  Allo scopo di cogliere ogni elemento utile su questa anomalia, è stato compiuto un attento esame del fascicolo processuale, custodito presso gli archivi del Tribunale di Roma e messo a disposizione della Commissione, dal quale sono emersi gli elementi che di seguito si riportano.

Pag. 140

12.3. La vicenda processuale.

  L'indagine iniziò il 29 gennaio 1977, quando il Nucleo investigativo della Legione carabinieri di Roma, con un rapporto a firma del tenente colonnello Antonio Cornacchia, riferì alla Procura della Repubblica di Roma che «questo Nucleo nel quadro delle indagini relative agli ultimi sequestri di persona avvenuti nel territorio nazionale, è venuto a conoscenza che elementi della mafia calabrese, facenti parte dei clan D'Agostino e De Stefano, sarebbero in contatto con tale Guardigli Luigi [...] Lo stesso, nel decorso mese di dicembre, si sarebbe recato ad Archi (Reggio Calabria), per prendere direttamente contatti con elementi della mafia locale e per fornire materiale tecnico (microspia e radioricetrasmittente)» (208).
  Furono, quindi, effettuate intercettazioni a carico di Guardigli, che evidenziarono, tra l'altro, conversazioni con elementi della criminalità organizzata calabrese e sospetti circa il coinvolgimento in traffico internazionale di armi.
  Nell'aprile 1977 i Carabinieri perquisirono Guardigli e diversi soggetti in contatto con lui. Nell'occasione venne rinvenuta documentazione apparentemente relativa a traffici illegali di armi.
  All'esito degli accertamenti, Guardigli – dapprima arrestato in flagranza per detenzione illegale di armi – fu colpito insieme ad altre persone da un ordine di cattura per traffico di armi, associazione per delinquere e altri reati.
  La vicenda assunse un grande rilievo di stampa, soprattutto dalla metà di maggio 1977. Tra il 14 e il 15 maggio 1977 si citano, ad esempio, i seguenti articoli: il 14 maggio 1977 «Paese Sera» titolava Fornivano armi alla mafia e a organizzazioni eversive, riportando i nomi delle persone arrestate e di quelle ricercate; il 15 maggio 1977 la notizia era ripresa da «Paese Sera», «Il Tempo», «Il Corriere della Sera», «l'Unità», «Vita».
  Dal 16 numerosi giornali, tra cui «La Stampa» e «Il Corriere della Sera» insistevano sul rapporto tra la vicenda, la massoneria e l'eversione nera, mentre, il 21 maggio, «OP» metteva in relazione l'operazione dei Carabinieri sul traffico di armi con una precedente e non pubblicizzata attività della Guardia di finanza, che avrebbe sequestrato armi sulla costa del grossetano. «OP», nello stesso giorno, accennava al coinvolgimento (da provare) di un funzionario dell'ENI indicato come vicino al Partito socialista. Di nuovo, il 22 maggio 1977, «la Repubblica», «Paese Sera» e «l'Unità» ipotizzavano un coinvolgimento del SID, mentre il 24 il periodico «Panorama» e il 29 «l'Espresso» insistevano sui rapporti con la ’ndrangheta e la massoneria.
  Infine, il 3 giugno 1977, «Il Corriere della Sera» riprendeva la notizia secondo cui Guardigli sarebbe stato minacciato da un emissario del boss De Stefano.
  Nonostante il clamore suscitato, si assistette però a un progressivo ridimensionarsi dell'inchiesta e i vari soggetti coinvolti furono progressivamente Pag. 141rimessi in libertà, come fu registrato da «l'Espresso» il 30 ottobre 1977.
  Nel dicembre 1981 il giudice istruttore Ettore Torri concluse le indagini chiedendo il rinvio a giudizio di Guardigli e di altre tre persone per reati minori ed escludendo l'esistenza di un'organizzazione dedita al traffico di armi.
  Dalla consultazione degli atti emerge che il progressivo ridimensionamento delle indagini e del ruolo di Luigi Guardigli e della società RACOIN da lui gestita è dovuto essenzialmente alle seguenti circostanze.
  In primo luogo la considerazione che le armi «movimentate» fossero in realtà inerti, da assimilare alle «armi giocattolo» (209), anche se la trasformazione delle stesse in armi vere e proprie era stata considerata in astratto possibile «ma non sulla base dei metodi impiegati dall'imputato».
  In secondo luogo l'esito delle perizie dei professori Franco Ferracuti e Aldo Semerari (210), che definivano Guardigli un soggetto con personalità mitomane. Gli stessi, peraltro, consentirono anche la scarcerazione di altri coimputati in quanto le loro condizioni sarebbero state incompatibili con il regime detentivo.
  Infine la conclusiva ritrattazione di Luigi Guardigli (211).
  Gli accertamenti e i riscontri della Commissione fanno tuttavia sorgere diverse perplessità in ordine alle riduttive conclusioni cui si pervenne.

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12.4. Gli accertamenti della Commissione e della Procura generale presso la Corte d'appello di Roma.

  Già nella precedente relazione, la Commissione aveva manifestato l'intenzione di approfondire la vicenda tramite l'acquisizione di sommarie informazioni dalle persone coinvolte.
  Gli accertamenti compiuti dalla Commissione si sono svolti in stretta sinergia con quelle coordinate dalla Procura generale presso la Corte di appello di Roma, che ha effettuato approfondimenti sul bar Olivetti in relazione all'eccidio di via Fani, anche tramite la partecipazione dell'ufficiale di collegamento della Polizia di Stato alle escussioni disposte dall'Autorità giudiziaria.
  Il 7 giugno 2016 (212) è stato escusso Luigi Guardigli che, oltre a ricostruire la vicenda fornendo diversi spunti in corso di approfondimento, ha ritrattato la sua precedente ritrattazione; ribadito la centralità del ruolo di Tullio Olivetti nel traffico di armi, con particolare riferimento a gruppi libanesi; evidenziato attività da lui svolte a sostegno di gruppi palestinesi, per motivi ideologici.
  Guardigli ha in particolare riferito che la ritrattazione era stata motivata dal timore per «avvertimenti» pervenutigli durante la detenzione da soggetti riconducibili al clan De Stefano. Ha dichiarato: «Sono stato costretto a ritrattare le accuse che avevo formulato e a smentire le cose che avevo detto non perché erano false, ma perché ho avuto paura per la mia vita. In particolare sono stato minacciato da due esponenti del clan De Stefano che erano reclusi nel mio stesso carcere. Ricordo che un giorno un detenuto di nome Luigi, che svolgeva funzioni di contabile all'interno del carcere di Rebibbia – braccio osservazione – si presentò nella mia cella unitamente ad altra persona, che però rimase fuori dalla stanza, intimandomi di firmare una lettera non scritta da me nella quale discolpavo tutte le persone coinvolte nella mia stessa inchiesta, assumendomi tutte le responsabilità in prima persona ed ammettendo di essermi inventato tutto. Nella circostanza, il Luigi mi disse chiaramente di far parte del clan De Stefano e che l'ordine di farmi firmare questa lettera proveniva direttamente da Giorgio De Stefano. Io seppi solo dopo che lo stesso Giorgio De Stefano proprio in quel periodo era deceduto. Io non firmai quella lettera, ma rimasi molto spaventato per l'accaduto, motivo per il quale chiesi a mia madre, che era l'unica che poteva venire a farmi visita in carcere, di far pervenire la lettera che non avevo firmato al dr. Armati e di rappresentare allo stesso magistrato gli atti intimidatori che avevo ricevuto». Circa le minacce ricevute si segnala che effettivamente Guardigli aveva riferito di aver subito minacce nell'interrogatorio reso al giudice Armati il 1o giugno 1977. Tale notizia fu anche ripresa in un articolo di Paolo Graldi apparso sul «Corriere della Sera» del 3 giugno 1977.
  Per quanto attiene ai rapporti con Olivetti, Guardigli ha precisato: «Anche Olivetti mi chiese una fornitura di armi per il Libano. Non Pag. 143mi chiese una grande fornitura, in quanto tale riconducibile ad una richiesta governativa ufficiale, ma mi chiese delle campionature o comunque una fornitura anomala di armi e dai discorsi che mi ha fatto mi sembrò di capire che le stesse non rientravano in una fornitura ufficiale militare, ma erano destinate ad un uso delinquenziale. Io l'ho capito ed ho informato il Maresciallo Gueli. [...] Ricordo ora che l'Olivetti per convincermi a fornire le armi ai Libanesi mi ha portato a Bruxelles, credo nella primavera del 1976, all'hotel Metropol, dove abbiamo incontrato alcuni capi tribù libanesi che mi hanno assicurato che le armi, qualora fornite, sarebbero state utilizzate per fini di liberazione nazionale. Io comunque non accettai di organizzare la fornitura di armi».
  Da ultimo, Guardigli, dopo aver riferito episodi rocamboleschi, che hanno evidenziato una personalità certamente esuberante, ha raccontato di sue attività in favore dei palestinesi che, a suo dire, sarebbero state dettate da ragioni ideologiche. Secondo Guardigli, Aldo Pascucci – personaggio legato a Tullio Olivetti ed a figure della criminalità organizzata come Giorgio De Stefano e Frank Coppola – accompagnato da un ecclesiastico gli avrebbe proposto di effettuare un trasporto di armi provenienti da Israele in favore dei cristiani maroniti del Libano. Guardigli avrebbe poi effettivamente imbarcato le armi su una nave battente bandiera cipriota, ma le avrebbe depositate in acque internazionali, consentendo ai palestinesi di acquisirle.
  Anche se il racconto pare risentire della personalità di Guardigli, si possono evidenziare, sul punto, due elementi indiretti di riscontro. In primo luogo confidenze relative alla disponibilità di materiale bellico utilizzato nei campi palestinesi erano state fatte da Guardigli anche al maresciallo Gueli che, escusso dal pubblico ministero Armati, aveva dichiarato che Guardigli gli aveva mostrato un oggetto a forma di musicassetta dicendogli che si trattava di un congegno utilizzato con successo nel Libano per far esplodere a distanza esplosivi nei campi palestinesi (213). In secondo luogo, in ordine al profilo ideologico di Guardigli risulta la sua prossimità ad ambienti di sinistra. In proposito, l'AISI ha declassificato e messo a disposizione della Commissione alcune note complete di allegati (214), risalenti al 1984, indirizzate al Dipartimento della Pubblica Sicurezza o sue articolazioni (Divisione Armi e Esplosivi), relative ad attività del «Circolo Culturale Elle GI Artisti Associati», indicato come «un centro permanente di vita associata a carattere democratico e antifascista, che non persegue fini di lucro e aderisce all'ARCI di cui condivide finalità e programmi», del quale Luigi Guardigli risulta essere uno dei fondatori e poi presidente.
  Anche in ordine alle conclusioni cui si pervenne sulle armi inerti/giocattolo sequestrate a Luigi Guardigli, che all'epoca furono ritenute innocue alla luce della asserita non idoneità dei metodi utilizzati dal predetto per renderle efficienti, sorgono perplessità.Pag. 144
  Infatti, nel corso delle indagini, sono state rinvenute significative evidenze in ordine alla possibilità di rendere efficaci le armi giocattolo, ovvero assemblare armi con componentistica proveniente proprio dalle cosiddette «pistole giocattolo» o armi di tipo diverso, ovvero, infine, riportare alla efficienza e funzionalità armi in precedenza «inertizzate».
  Questo elemento è stato pure sottolineato dal generale Cornacchia nelle sue audizioni presso la Commissione del 5 e 12 ottobre 2016 (215). In tale occasione, Cornacchia ha pure evidenziato l'esistenza di officine specializzate nel riadattare tali armi, che pertanto erano a tutti gli effetti utilizzabili in operazioni criminali.
  Proprio alcune attività di accertamento su armi a disposizione della ’ndrangheta hanno consentito di verificare la presenza, in un deposito nella disponibilità della stessa organizzazione criminale, di due mitragliette, identiche tra loro, a funzionamento automatico, ognuna completa di un caricatore bifilare da 30 colpi, che in atti erano state genericamente indicate come «tipo Skorpion».
  A conferma della possibilità che elementi della criminalità organizzata disponessero di laboratori per ripristinare armi inerti, ovvero utilizzare componentistica anche proveniente da pistole giocattolo, si rappresenta che le mitragliette in questione, da più approfonditi accertamenti sono risultate essere due armi automatiche calibro 7.65 mm, verosimilmente prodotti di tipo «artigianale», derivanti da una linea di produzione ed assemblaggio di parti di arma, ovvero dall'utilizzo di rimanenze di produzione industriale assemblate con parti progettate e costruite specificamente.
  Le armi in questione sono state sottoposte a prove di sparo e sono risultate perfettamente funzionanti.

12.5. I rapporti tra Aldo Pascucci, Vinicio Avegnano e Tullio Olivetti.

  L'esame degli atti dell'inchiesta giudiziaria ha portato a focalizzare l'attenzione sui profili di alcuni dei protagonisti più vicini a Tullio Olivetti, alcuni dei quali risultano in rapporti con la criminalità organizzata, altri con Forze dell'ordine e Servizi segreti.
  Dal momento che Guardigli ha riferito che l'attività di traffico di armi verso il Libano sarebbe stata proposta da Aldo Pascucci – soggetto in contatto con elementi di spicco della criminalità organizzata e che in passato gli aveva presentato Tullio Olivetti e Vinicio Avegnano – sono stati effettuati approfondimenti per chiarire la natura di tali rapporti ed evidenziare le rispettive posizioni nell'ambito dell'inchiesta.
  Pascucci, a suo tempo emerso dalle intercettazioni telefoniche ed oggetto di perquisizione, fu colpito, così come Guardigli e altre persone, dalla misura restrittiva. Interrogato in carcere dal sostituto procuratore Armati, spiegò di essere stato lui ad aver presentato Olivetti a Guardigli, asseritamente per la vendita di una partita di zucchero che doveva operare quest'ultimo, aggiungendo di avere presentato allo stesso anche Vinicio Avegnano.Pag. 145
  Guardigli (216), interrogato in carcere, confermò che Pascucci gli aveva presentato Tullio Olivetti e Vinicio Avegnano, aggiungendo che quest'ultimo gli aveva fatto richiesta di armi.
  Sulla base di questi elementi la Procura di Roma aveva convocato per un'escussione Avegnano e Olivetti che, a differenza di Guardigli e Pascucci, erano in stato di libertà. Avegnano era già stato «toccato» dall'inchiesta e aveva subito una perquisizione, a differenza di Olivetti, che non aveva subito alcuna iniziativa giudiziaria.
  In sede di interrogatorio, Avegnano, pur negando ogni coinvolgimento in traffici illeciti, aveva confermato di aver conosciuto Guardigli attraverso il comune amico Pascucci, mentre aveva negato di aver mai conosciuto Olivetti (217). Avegnano uscì dal processo e non fu chiesto il rinvio a giudizio nei suoi confronti.
  Olivetti, invece, citato ma non rintracciato, non fu più escusso (218), uscendo di fatto dall'inchiesta, circostanza questa oltremodo insolita sia per la natura delle dichiarazioni rese a suo carico da Guardigli, sia alla luce dei profili delle persone con cui sarebbe stato in contatto.
  Vinicio Avegnano, con precedenti di polizia perché più volte denunciato o arrestato per reati come la detenzione illegale di armi da fuoco, l'estorsione, l'emissione di assegni a vuoto ed altro, in realtà era solito collaborare con le Forze di polizia. Egli viene così descritto in una nota che il Servizio di sicurezza del Ministero dell'interno trasmise alla Procura di Roma: «Nella zona dei Castelli romani è risaputo che egli è molto addentrato negli ambienti della malavita e che egli stesso si dedicherebbe al traffico della droga. È informatore degli organi di polizia locale i quali, tramite la sue confidenze, sono riusciti a portare a termine brillanti operazioni di polizia giudiziaria. Nel gennaio 1976 collaborò attivamente e validamente con i magistrati del Tribunale di Rieti che giunsero all'arresto di sei pregiudicati della malavita romana, responsabili della rapina commessa sul treno Roma-Sulmona. Per questa sua collaborazione ricevette minacce e fu più volte inseguito da sconosciuti, per cui, per intervento del G.I. dr. Verini e del Procuratore della Repubblica dr. Lelli, entrambi del Tribunale di Rieti, gli venne rilasciato il porto di pistola dalla Questura di Roma».
  Inoltre, agli atti della Direzione centrale della Polizia di prevenzione Avegnano è noto come informatore dei Servizi.
  Di lui ha parlato anche l'estremista di destra Sergio Calore che, nel corso di una ricostruzione dei «collegamenti tra eversione di destra ed ambienti della massoneria coperta e settori militari», ha precisato che nel 1977 un altro estremista di destra, Aldo Tisei, gli riferì alcune confidenze fattegli da un ufficiale dell'Arma. L'ufficiale aveva avvisato Tisei che lui e Calore rischiavano di essere arrestati, dicendo di stare Pag. 146«attenti ad un certo Vinicio (che poi ho saputo chiamarsi Avegnano), col quale eravamo in contatti per un acquisto di armi, poiché lavorava per i servizi di sicurezza. In realtà tale informazione fu inutile in quanto avevamo già troncato ogni rapporto col Vinicio poiché le condizioni di vendita proposteci ci sembravano una truffa» (219).
  Al contrario di altri soggetti coinvolti nell'inchiesta, Vinicio Avegnano, informatore delle Forze dell'ordine, appare dunque persona consapevole e accorta, capace di far filtrare, al bisogno, informazioni, più o meno fondate. Colpisce, in questo quadro, la negazione della conoscenza con Olivetti, probabilmente ritenuto «persona da tutelare» o, al contrario, soggetto di cui diffidare. Peraltro, nel corso delle indagini l'incongruenza tra le dichiarazioni raccolte non stimolò approfondimenti.
  Anche Aldo Pascucci appare soggetto di qualche spessore criminale di cui sono descritti nel corso delle indagini i rapporti con esponenti della criminalità organizzata, in particolare Frank Coppola e Giorgio De Stefano, che peraltro risultano anche da dichiarazioni successive di collaboratori di giustizia, rilasciate in altri procedimenti (220).
  Nondimeno, anche il riferito contatto tra Aldo Pascucci e Tullio Olivetti non ha sortito l'effetto di avviare su quest'ultimo indagini che sarebbero state doverose, quanto meno per chiarire la sua posizione nella vicenda, a meno che questa non fosse già nota per altre vie agli inquirenti.
  Allo stato, si tratta tuttavia di una ipotesi di lavoro, che gli approfondimenti e le acquisizioni documentali potranno confermare o smentire.

Pag. 147

12.6. La nota del SISMI del 30 maggio 1978.

  Gli accertamenti condotti hanno dunque evidenziato diverse singolarità in relazione all'inchiesta sul traffico d'armi del 1977 e alla posizione di Tullio Olivetti.
  Un approfondimento sulla figura di Tullio Olivetti dovrebbe consentire di individuare le ragioni che condussero al fallimento della società, di cui era compartecipe, che gestiva il bar di via Fani.
  La realizzazione dell'attacco alla scorta dell'onorevole Moro presupponeva infatti o che il bar fosse chiuso o che esso, pur avendo cessato le attività, fosse rimasto accessibile, in modo da fornire protezione ai brigatisti e da occultare eventualmente borse e divise. Al contrario di quanto sinora noto, questo elemento intuitivo fu oggetto di valutazione nel corso delle prime indagini sulla strage di via Fani, ma quasi immediatamente abbandonato.
  Tra la documentazione acquisita è stata infatti individuato una nota del SISMI (221), trasmessa al Comando generale dell'Arma dei carabinieri pochi giorni dopo il tragico epilogo della vicenda Moro, il 30 maggio 1978. La nota segnalava: «Fonte informativa, da cautelare al massimo, ha richiamato l'attenzione sulla figura di Tullio Olivetti, già proprietario del bar sito in via Mario Fani, esattamente di fronte al luogo dell'eccidio. Il soggetto avrebbe compiuto un'oscura manovra commerciale, caratterizzata da uno strano fallimento che, circa otto mesi fa, comportò la chiusura dell'esercizio. È un fatto, che la preparazione e la consumazione dell'eccidio di via Fani, non sarebbe stata possibile se il bar avesse continuato l'attività; prima perché i terroristi tesero l'agguato spostandosi dietro la siepe di pertinenza del bar, poi perché la preparazione della azione sarebbe stata certamente notata dagli avventori. Olivetti, poi, avrebbe rinunciato ad un esercizio ben avviato, per intraprendere analoga attività, in altra zona di Roma, con guadagni assai inferiori a quelli possibili in via Fani. Per ultimo si rammenta che Olivetti si trovò coinvolto, qualche tempo fa, in un traffico internazionale di armi, facente capo a Luigi Guardigli. Sarebbe stato lui, infatti, (unitamente a Enzo Varano, colpito da mandato di cattura per quei fatti) a presentare al Guardigli un gruppo di libanesi, acquirenti di armi di contrabbando».
  Il Comando generale, con nota Nr. 22142/17 – 233 del successivo 8 giugno 1978, a firma del generale di brigata Mario De Sena, «girò» l'appunto del SISMI su Tullio Olivetti al Comando della 2o Divisione Carabinieri «Podgora» – S.M. – Ufficio O.A.I.O. – Sezione criminalità, con richiesta di accertamenti e notizie.
  Quest'ultimo ufficio il 2 settembre 1978, con nota nr. 370/70-51-5 non prese alcuna posizione in ordine a un presunto ruolo del bar Olivetti nella dinamica di via Fani e si limitò a trasmettere al Comando generale un breve appunto, contenente, oltre la completa identificazione di Tullio Olivetti e della moglie e la circostanza che Olivetti era stato il maggiore azionista della spa «Olivetti Ristoranti», fallita con sentenza del 22 dicembre 1977, altre brevi informazioni.Pag. 148
  Si osservava in particolare che Olivetti «non risulta svolgere in Roma attività commerciale di alcun genere; è stato coinvolto – in modo marginale, senza che siano emerse responsabilità a suo carico – in un traffico di armi, in relazione al quale sono state tratte in arresto persone a lui legate da vincoli di amicizia e di interesse; negli ambienti da lui frequentati viene considerato elemento di dubbia moralità, capace di commettere reati contro il patrimonio e la fede pubblica; colpito da ordine di carcerazione per conversione di pena pecuniaria, è ricercato in quanto irreperibile da circa un anno; ha precedenti per reati contro le leggi sanitarie, bancarie e commerciali».
  Nella sua audizione presso la Commissione, Giancarlo Armati (222) ha definito il bar come «elemento chiave del sequestro Moro», sottolineando, sulla base di un nesso logico, che «se il bar fosse stato aperto, allora io ci vedrei un possibile coinvolgimento di Olivetti, che non è del tutto da escludere, perché, secondo me, il bar era aperto».
  Sempre in audizione, il generale Cornacchia, ha riferito di non aver avuto mai contezza di questa segnalazione, pur essendo stato il titolare delle indagini su Luigi Guardigli, nonché impegnato nelle investigazioni per il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro (223). Non risulta inoltre che della segnalazione sia stata informata l'Autorità giudiziaria.
  È pertanto necessario verificare se l'informazione trasmessa dal SISMI, di sicuro rilevante non solo per il suo contenuto, ma anche perché acquisita meno di un mese dopo l'omicidio Moro e quando ancora la vicenda del traffico di armi che aveva visto il coinvolgimento del segnalato Olivetti non era stata ancora chiusa, sia stata meglio approfondita e abbia formato oggetto non solo di comunicazione, ma anche di specifiche indagini disposte dall'Autorità giudiziaria.
  Naturalmente, se la trattazione di questa significativa notizia si fosse limitata al breve quadro informativo fornito al Comando generale la circostanza sarebbe significativa, perché evidenzierebbe una tendenza a evitare qualsiasi accostamento tra la vicenda dell'eccidio di via Fani e il bar Olivetti ed il suo titolare, già lambito da una delicata indagine nella quale pure la sua posizione fu in qualche modo accantonata.
  In questa senso anche la circostanza, riferita dal generale Cornacchia, di non aver mai avuto notizia di questa segnalazione, assumerebbe, se confermata, un certo rilievo, perché evidenzierebbe nuovamente una tendenza a non portare fino in fondo le indagini su Olivetti. Sarebbe stato infatti non solo naturale, ma addirittura doveroso informare l'ufficiale incaricato delle indagini sul traffico di armi che aveva visto emergere la figura di Tullio Olivetti e impegnato nelle attività sull'eccidio di via Fani e sul sequestro e sull'omicidio del Presidente Moro.
  Le singolarità di questa vicenda, dunque, evidenziano la necessità di approfondire ulteriormente le ricerche non solo per identificare la fonte informativa citata nella nota del SISMI, ma anche per ricostruire tutti gli eventuali, ulteriori, «passaggi» di gestione della notizia e ricercare ulteriore carteggio sulla vicenda.Pag. 149
  Un riscontro indiretto di un possibile ruolo del bar Olivetti nella dinamica di via Fani è giunto da un documento della Stasi, reso noto da un ricercatore italiano in una rivista scientifica (224). Il documento è un riepilogo del sequestro Moro, comparato al sequestro Schleyer, redatto l'8 giugno 1978 dal Dipartimento scorte della Stasi, che si occupava della sicurezza dei politici della Repubblica Democratica tedesca.
  Il documento cerca di evidenziare i punti di forza dell'azione brigatista, sulla base di «informazioni a disposizione degli organi di polizia e di sicurezza italiani». Alcune delle informazioni riportate sembrano delineare una buona conoscenza della vicenda; altre, come quella della messa fuori uso della rete telefonica, non sono state provate o appaiono inesatte.
  Nel documento si afferma che «alcuni degli attentatori si sono trattenuti, prima di entrare in azione, in un bar che dà sull'incrocio».
  Gianluca Falanga, che ha pubblicato il documento, è stato audito dalla Commissione (225) e ha affermato che, sebbene non sia possibile, allo stato, individuare la fonte della notizia, questa potrebbe essere pervenuta alla STASI tramite il principale canale attivo in quella fase, ovvero le comunicazioni di polizia che venivano trasmesse dalla Polizia italiana alla Polizia tedesco-occidentale (BKA), che era fortemente infiltrata da agenti della Stasi.
  Colpisce in ogni caso la contestualità cronologica del documento con la nota del SISMI che poneva il medesimo problema di un ruolo del bar nell'operazione compiuta dalle Brigate rosse.

12.7. Gli incroci tra la ’ndrangheta e il traffico di armi.

  È proprio dall'ambiente calabrese dei sequestri di persona e da non meglio indicate «informazioni confidenziali» ricevute dall'Arma che partì l'indagine sulla società di Luigi Guardigli e sul traffico di armi.
  Infatti, il 29 gennaio 1977 la Legione Carabinieri di Roma – Nucleo investigativo, diretto dal tenente colonnello Cornacchia, chiese alla Procura di Roma un decreto di perquisizione nei confronti di Guardigli, asseritamente emerso nell'ambito di indagini su sequestri di persona come contatto romano dei clan mafiosi calabresi D'Agostino e De Stefano.
  Nel fascicolo processuale, peraltro, sono presenti due copie leggermente diverse del rapporto del 29 gennaio 1977, delle quali solo una firmata dal tenente colonnello Cornacchia.
  Nel rapporto a firma Cornacchia non sono presenti i riferimenti all'Arma di Reggio Calabria come ente pure impegnato nelle indagini nelle quali sarebbe emerso il nome di Guardigli, che sono invece presenti nell'altro rapporto con firma diversa (226).
  Le indagini, peraltro, hanno documentato rapporti tra Guardigli ed esponenti del clan De Stefano.Pag. 150
  Guardigli, prima di essere arrestato, ebbe a riferire al maresciallo Gueli del Servizio di sicurezza della Polizia che si sarebbe rifiutato anche di rifornire di armi il «mafioso Giorgio De Stefano» di Reggio Calabria, presentatogli da «Aldo» (227), il proprietario della villa di Grottaferrata.
  De Stefano gli avrebbe anche richiesto la fornitura di una microspia per intercettare i suoi avversari, si sarebbe incontrato a Reggio Calabria con Guardigli per effettuare un sopralluogo e quest'ultimo avrebbe ricevuto un assegno di un milione di lire, che fu effettivamente sequestrato nel corso delle perquisizioni, come risulta in atti. Anche dalle intercettazioni emerge una telefonata in cui Aldo Pascucci «passa» a Guardigli tale Giorgio, identificato dai Carabinieri in Giorgio De Stefano, dell'omonimo clan mafioso di Archi (RC). Da altre telefonate emergono inoltre possibili traffici illeciti (228).
  Nel rapporto riepilogativo dei Carabinieri (229) che ipotizza l'esistenza di un'associazione per delinquere finalizzata al traffico di armi, munizioni e congegni micidiali, si rappresenta la circostanza che Guardigli avrebbe trattato in particolare con Giorgio De Stefano, contattato mediante la mediazione di Aldo Pascucci, una partita di pistole italiane e straniere e di materiale elettronico utile sempre per fini militari, ricevendo, come anticipo, la somma di tre milioni e mezzo di lire, con assegno emesso sulla BNL di Reggio Calabria.
  Nella recente escussione Guardigli ha confermato l'esistenza di rapporti con De Stefano, la circostanza di essersi recato a Reggio Calabria per consegnare a De Stefano una microspia e di aver ricevuto in compenso uno o due assegni.
  Peraltro, a dire di Guardigli, la sua ritrattazione, che ebbe un fortissimo sull'esito della vicenda processuale, fu provocata proprio dalle minacce ricevute da personaggi della criminalità organizzata legati al clan De Stefano. Durante le fasi del processo Giorgio De Stefano fu assassinato e, naturalmente, non si procedette più a suo carico.
  Gli ambienti della malavita organizzata calabrese sembrano quindi aver avuto un ruolo di rilievo nella vicenda Guardigli-Olivetti. Tale ruolo è stato peraltro sottolineato anche dalla pubblicistica, sulla base degli articoli di stampa pubblicati nel 1977, fino a ipotizzare una relazione tra il traffico d'armi e un presunto progetto golpista di Giorgio De Stefano, il quale avrebbe tentato di acquistare armi e congegni esplosivi, per dare vita a una sorta di nuova rivolta di Reggio Calabria (230).
  Le indagini della Commissione sulla vicenda Olivetti hanno evidenziato la presenza, nell'inchiesta sul traffico di armi del 1977, di diversi personaggi legati alla criminalità organizzata, che furono indicati come protagonisti anche in alcune delle fasi più oscure della vicenda Moro, soprattutto in relazione ad attività della criminalità, Pag. 151sensibilizzata ad attivarsi per avere informazioni sul luogo della prigionia.
  Sono vicende più volte emerse, in parte esplorate, ma che possono essere messe in relazione con le evidenze emerse nell'inchiesta sul traffico di armi.
  Anche la possibile presenza in via Fani di Antonio Nirta, esponente della ’ndrangheta, deve essere valutata alla luce di alcune circostanze emerse nel corso dell'inchiesta e, in particolare, al coinvolgimento nell'inchiesta sul traffico di armi di Giorgio De Stefano.
  Rimandando ad altra sezione per ulteriori elementi, si ricorda che Saverio Morabito, collaboratore di giustizia, elemento della malavita milanese e già inserito in posizioni di vertice nella ’ndrangheta, escusso nel 1992 dalla Procura della Repubblica di Milano, aveva riferito che alcuni dei membri di spicco della ’ndrangheta sarebbero inseriti nella massoneria ufficiale, come ad esempio la famiglia Nirta di San Luca.
  Di questa famiglia, sempre a dire di Morabito, faceva parte Antonio Nirta, detto «due nasi» data la sua predilezione per la doppietta (che, in Calabria, è denominata «due nasi»), che avrebbe avuto contatti con la Polizia o con i servizi segreti e – secondo quanto Morabito avrebbe appreso da Domenico Papalia e da Paolo Sergi – avrebbe partecipato al sequestro Moro. Morabito, tuttavia, non seppe precisare se Antonio Nirta fosse tra «quelli che hanno operato materialmente in via Fani [...] se abbia preso parte al rapimento materiale o è stato uno di quelli che sparava» (231).
  Si ricorda a tale proposito che l'onorevole Benito Cazora, oltre a aver riferito al pubblico ministero Luigi De Ficchy di contatti con un criminale comune di origine calabrese, Varone, che avrebbe segnalato via Gradoli, nel corso del sequestro fece una telefonata a Sereno Freato, segnalando la necessità di avere le foto del 16 marzo, perché dalla Calabria («da giù») gli sarebbe stato comunicato che in una foto si individua un personaggio a loro noto.
  A proposito di Antonio Nirta furono a suo tempo evocati rapporti «equivoci» con ambienti istituzionali (232).
  Fu indicato da «pentiti» come in stretti rapporti con l'allora colonnello dell'Arma Francesco Delfino, originario di Platì, che avrebbe ricevuto da Nirta informazioni relative a sequestrati nell’hinterland milanese che venivano «liberati» con operazioni di polizia dopo che avevano già pagato il riscatto.
  Sempre secondo dichiarazioni di collaboratori di giustizia già acquisite dalla Commissione Stragi, Nirta sarebbe stato legato al colonnello Delfino in quanto simpatizzante della destra eversiva e, in virtù di questo legame ideologico, che condivideva con la famiglia De Stefano, avrebbe tentato di inserire nel contesto ’ndrangheta l'eversione di destra, in ciò agevolato dal colonnello Delfino, massone e legato alla P2.
  In sostanza, Antonio Nirta è indicato come ’ndranghetista presente in via Fani, massone, di estrema destra, legato alla famiglia De Stefano, implicato in sequestri di persona e collegato al colonnello dei Carabinieri Francesco Delfino.Pag. 152
  La famiglia dei De Stefano risulta peraltro legata a quella dei Nirta anche per affinità ideologiche.
  Un altro nominativo emerso nel traffico d'armi, quello di Frank Coppola, è stato più volte evocato in relazione al possibile coinvolgimento di ambienti criminali ’ndranghetisti nelle vicende relative a contatti con la ’ndrangheta per l'individuazione della prigione di Moro.
  In merito si ricordano le dichiarazioni di Vincenzo Vinciguerra, elemento della destra eversiva, il quale riferì sulla conoscenza fatta in carcere con Francesco Varone detto Rocco. Questi gli aveva raccontato che si era incontrato con Benito Cazora, il quale gli avrebbe chiesto di attivarsi per trovare la prigione di Aldo Moro. Dopo un certo periodo di infruttuosa attività sarebbe stato convocato a Pomezia, in casa di Frank Coppola. Qui un'altra persona avrebbe detto a Varone di sospendere le attività per ricercare Moro, anche offrendo denaro e, alla domanda della ragione di tale richiesta, gli sarebbe stato risposto: «Quell'uomo deve morire» (233).
  Il citato intervento di Frank Coppola – che secondo quanto dichiarato da collaboratori di giustizia non fu l'unico – diretto a vanificare ed interrompere l'impegno di affiliati alla criminalità per ricercare la prigione di Moro, richiama ancora una volta la vicenda del traffico d'armi scoperta nel 1977.
  Secondo Guardigli, infatti, Coppola fu interessato in relazione alla vicenda della richiesta di fornitura di armi per il Libano.
  Come si è detto, anche dalle attività di intercettazione dell'Arma dei carabinieri fu evidenziata una telefonata di Guardigli ad un'utenza del Ministero dell'interno, nel corso della quale lo stesso riferì al maresciallo Gueli che verso le 17 sarebbe arrivato a casa sua Frank Coppola.
  In proposito, è doveroso segnalare che, a differenza di quanto emerso rispetto a De Stefano, nel carteggio processuale non si rinvengono riscontri in ordine alle attività di Coppola, sul quale Guardigli successivamente sosterrà di aver mentito per cercare la benevolenza della Polizia e divenire un informatore.
  Nell'ultima escussione Guardigli ha invece confermato di aver conosciuto Coppola nel 1976 e di averlo rivisto almeno in un'occasione nel 1977.
  Si ricorda infine che anche Tommaso Buscetta riferì di un tentativo di adoperarsi per la liberazione di Moro, promosso da Ugo Bossi, un criminale comune vicino a Francis Turatello. Anche in questa vicenda si registra un intervento di Frank Coppola che, secondo quanto riferito da Bossi in un interrogatorio del 22 aprile 1993, si sarebbe recato a Milano proprio per scoraggiarlo a proseguire la sua opera per ottenere notizie utili a liberare Moro (234). Sarebbero quindi due, riferiti ad attivazioni in ambienti criminali diversi, gli interventi di Frank Coppola per «bloccare» le iniziative finalizzate a ottenere informazioni utili per una positiva ricostruzione della vicenda Moro.

Pag. 153

12.8. Ipotesi di approfondimento.

  Conclusivamente, si osserva che le acquisizioni compiute dopo la prima relazione evidenziano la necessità di indagare su un possibile legame tra il traffico d'armi scoperto 1977 e la vicenda Moro, sul quale la documentazione esaminata consente comunque di formulare alcune ipotesi.
  Il riesame complessivo dell'inchiesta e le nuove escussioni inducono infatti a rivalutare la fondatezza delle affermazioni di Guardigli, anche sulla base del fatto che emergono in atti le sue relazioni sia con ambienti criminali sia con grossi produttori e mediatori di armi italiani, che secondo una notizia non confermata raccolta dal maresciallo Gueli avrebbero garantito a Guardigli una provvigione del 4 per cento, e come il mercante svizzero Gunther Leinhauser, noto, tra l'altro, per forniture illegali dal Medio Oriente ai Paesi Baschi e all'Irlanda del Nord.
  Gli elementi su cui appare necessario svolgere ulteriori approfondimenti sono soprattutto tre.
  In primo luogo è necessario approfondire il tema del rapporto tra il traffico di armi gestito da Guardigli e la vicenda Moro. Come sopra ricordato, le dichiarazioni di Guardigli e i riscontri documentali evidenziano l'esistenza di un nodo di traffici di armi che era in relazione sia con il clan Di Stefano sia con il mondo libanese e palestinese. Parte non secondaria del traffico era la commercializzazione di armi «sceniche» facilmente modificabili ed efficientabili anche da officine di tipo artigianale.
  Al contrario di quanto affermato nel già citato appunto «segretissimo» della Questura del 27 settembre 1978, il cartucciame Fiocchi destinato all'esportazione e probabilmente rientrato in Italia via Medio Oriente era compatibile con armi di questo tipo.
  Poiché tali traffici potevano realizzarsi solo grazie alla consapevolezza di una serie di soggetti – criminali e non – occorre verificare se la necessità di tutelare la riservatezza di quei traffici possa aver prodotto l'assenza di indagini sul bar Olivetti e la figura del suo titolare. Specifiche indagini avrebbero infatti fatto riemergere una vicenda di traffico di armi, che sotto più aspetti, avrebbe creato forti imbarazzi.
  In secondo luogo, occorre rivalutare, sulla base dell'appunto del SISMI del 30 maggio 1978 e di ulteriori evidenze documentali, la funzione del locale nella logistica di via Fani. La convergenza di diversi elementi (l'appunto, la nota della Stasi, le riflessioni di Armati e Cornacchia) su una funzione del bar nella dinamica di via Fani inducono a ricercare ogni possibile ulteriore evidenza sull'agibilità del locale nel periodo dell'agguato. In proposito si ricorda che già nella prima relazione erano state richiamate le testimonianze, non univoche, di Francesco Pannofino, Diego Cimara e Alessandro Bianchi sull'apertura del bar, nonché quella, più antica, resa da Paolo Vitale nel 1978. Alla luce di tali evidenze, occorre dunque tornare ad approfondire la tesi, affermata dai brigatisti, secondo cui essi avrebbero atteso l'arrivo delle auto al servizio di Aldo Moro nascosti dietro le fioriere prospicienti il bar. Infatti, un'agibilità del locale ed eventualmente la sua frequentazione da parte di soggetti implicati nel Pag. 154traffico d'armi porterebbe a una diversa ricostruzione, che renderebbe ragione dei dubbi sull'efficacia delle fioriere come riparo per uno stazionamento che poteva durare un lasso di tempo non trascurabile.
  Infine, proprio a partire dalla vicenda del traffico d'armi e dei personaggi legati alla ’ndrangheta che vi sarebbero stati coinvolti, è possibile avviare nuovi approfondimenti circa il ruolo della criminalità organizzata nella vicenda Moro. Sotto questo punto di vista appare particolarmente rilevante la presenza di personaggi come Frank Coppola e della cosca De Stefano, a cui erano legati i Nirta, sia nella vicenda del traffico d'armi sia nella vicenda dei tentativi, bloccati, di acquisire notizie utili alla liberazione di Moro per il tramite della ’ndrangheta.
  La stessa tematica della presenza di Nirta in via Fani, ipotizzabile sulla base delle immagini d'epoca, delle dichiarazioni di Saverio Morabito e della telefonata di Cazora a Freato, può essere rivalutata proprio in relazione all'esistenza del traffico d'armi e all'eventuale coinvolgimento in esso di Tullio Olivetti, per il quale esistono evidenze documentarie, sebbene egli non sia stato perseguito nell'inchiesta Armati/Torri.

13. Altri filoni oggetto di indagine.

13.1. La RAF e i rapporti con il terrorismo tedesco.

  In questa seconda fase dei lavori si è cercato di sviluppare, attraverso specifiche deleghe a collaboratori della Commissione, quella serie di elementi logici e fattuali che depongono, almeno a livello di ipotesi, per un coinvolgimento operativo, dell'organizzazione terroristica tedesca RAF (Rote Armee Fraktion) nella vicenda del sequestro e della morte di Aldo Moro.
  Tale partecipazione, sia in ambito investigativo sia nella copiosa pubblicistica e nel giornalismo d'inchiesta, è stata sempre ipotizzata come altamente probabile.
  Al fine di comprendere meglio il tenore degli incontri tra appartenenti alle BR e alla RAF, che atti processuali (sentenza-ordinanza di rinvio a giudizio del giudice istruttore Ferdinando Imposimato del 12 gennaio 1982) danno per avvenuti a Milano in epoca antecedente al sequestro Moro, si sono svolte attività finalizzate ad individuare la donna, ovvero le donne che fungevano da interpreti in occasione di tali incontri.
  La Commissione, tramite suoi collaboratori, il 17 novembre 2015 ha escusso Vito Messana, che negli anni ’70 faceva parte di un movimento terrorista denominato Azione Rivoluzionaria che si ispirava al terrorismo tedesco («Movimento 2 giugno»). Messana, pur non appartenendo direttamente alle Brigate rosse, è uno dei terroristi che, all'epoca del sequestro Moro, erano detenuti e per i quali era stata richiesta, dalle stesse Brigate rosse, la liberazione.
  Messana ha dichiarato di non essere a conoscenza «di fatti specifici o comunque di una diretta partecipazione» di gruppi tedeschi al sequestro Moro. Ha però riferito che, nel corso della sua detenzione presso le carceri di Nuoro e di Bergamo, nei primi anni ’80, aveva stretto rapporti, prima epistolari e poi di conoscenza personale, con Pag. 155Johanna Gabriele Hartwig, originaria di Norimberga, detenuta nelle carceri italiane in quanto appartenente ad Azione Rivoluzionaria, che in seguito sposò. La Hartwig gli riferì di essersi trovata in carcere insieme a Inge Kitzler, anche lei tedesca e brigatista, moglie del brigatista Andrea Coi, di origine sarda, e che la stessa Kitzler fece da interprete in un incontro, avvenuto a Milano nei primi mesi del 1976, tra i vertici delle Brigate rosse ed i vertici della RAF tedesca.
  Messana ha inoltre riferito di altri incontri operativi successivi al sequestro Moro, che, secondo quanto raccontatogli da Moretti, non avevano prodotto «alcuna intesa operativa a causa della differenza di mentalità e di prospettiva, essendo le BR proiettate più sul mondo operaio, mentre la RAF sul cosiddetto «terzo mondo»».
  Gli episodi raccontati da Messana sono stati evidenziati anche nell'audizione di Gianluca Falanga. Sulla base della documentazione consultata presso gli archivi della Stasi, Falanga ha sottolineato che nel 1983 Brigitte Heinrich, un'estremista tedesca reclutata dalla Stasi che aveva vissuto diversi anni in Italia, soprattutto a Milano, dove aveva avuto una serie di frequentazioni in aree prossime al brigatismo, raccontò al maggiore Voigt della Stasi che una donna, il cui nome è stato obliterato negli atti, faceva da interprete fra la RAF e le BR, in un periodo anteriore al 1979. Tale donna non si identificherebbe con Ingeborg Kitzler, ma sarebbe la persona che la sostituì nella funzione di interprete.
  Allo scopo di meglio precisare questi elementi, il 23 luglio 2016 la Commissione, tramite suoi collaboratori, ha escusso a sommarie informazioni Andrea Coi e Ingeborg Kitzler, sua compagna. Coi ha confermato che la sua compagna fu utilizzata come interprete in un incontro tra militanti italiani e della RAF, su richiesta di Raffaele Fiore. La Kitzler ha confermato l'episodio, ricordando di essere andata in treno a Milano e di aver incontrato poche persone di nazionalità italiana e tedesca, ma senza essere in grado di fornire altre precisazioni.
  Comunque si tratta di dichiarazioni probabilmente molto limitative dei rapporti tra le due organizzazioni RAF e BR in quanto sia Andrea Coi, elemento di spicco della colonna torinese scarcerato dopo quasi trent'anni di detenzione, sia la moglie hanno offerto la netta percezione di soggetti non completamente distaccati dall'ideologia che li ha portati alla loro militanza e poco disponibili quindi a ricostruire pienamente la storia e i rapporti intrattenuti dalle Brigate rosse.
  Sul punto è stato escusso a sommarie informazioni anche Patrizio Peci, il 29 ottobre 2016. Peci ha ricordato lo stesso episodio dell'incontro milanese in questi termini: «L'unica circostanza che posso riferire è legata alla necessità di disporre di un interprete in occasione di una riunione che doveva tenersi a Milano tra elementi della RAF, la cui identità non conosco, e Lauro Azzolini. Fu scelta per questo incarico la compagna di Andrea Coi, un militante della colonna torinese, di nome Ingeborg, tedesca e giunta da poco tempo in Italia. La donna andò effettivamente a Milano, ma l'esito dell'incarico che le fu affidato fu infelice. Parlando non molto bene l'italiano traduceva a stento e a un certo punto Azzolini si accorse che non rendeva affatto il senso dei concetti che egli voleva esporre ai tedeschi». Per quanto concerne tali dichiarazioni, si segnala che Peci, con riferimento alla Pag. 156questione del secondo interprete che avrebbe sostituito la Kitzler, ha riferito di non essere a conoscenza della circostanza, mentre all'epoca del suo pentimento, sentito il 2 aprile 1980 dalla magistratura, aveva dichiarato di essere a conoscenza che si trattava di una donna che sarebbe stata arrestata a Milano.
  È stato anche acquisito un memorandum redatto nel 1980 dal KGB sul terrorismo italiano pubblicato, con un commento dello studioso Fernando Orlandi, dal CSSEO – Centro Studi sulla Storia dell'Europa Orientale con sede a Levico.
  Tale memorandum fa parte di un corpo di documenti provenienti dai Servizi di sicurezza bulgari reso pubblico da una Commissione di divulgazione istituita in Bulgaria dopo il cambio di regime del 1990. Il memorandum, che è tra i non molti documenti non distrutti, è stato sicuramente ottenuto nell'ambito degli scambi informativi tra i Servizi di sicurezza bulgari e il KGB ed è uno dei rarissimi documenti divenuti accessibili tra quelli elaborati dal KGB sul terrorismo italiano. Nel documento (235), che contiene una ricostruzione delle varie tappe del terrorismo brigatista in Italia, si afferma che a partire dal 1979 il terrorismo italiano «ha superato le frontiere nazionali» e che nell'ultimo periodo si è avuta notizia di «incontri che hanno avuto luogo fra rappresentanti delle organizzazioni terroriste di diversi paesi del mondo ai quale hanno partecipato anche gli italiani». In particolare, per il caso Moro si afferma che alla preparazione del piano per il sequestro hanno partecipato membri del gruppo terrorista della Germania occidentale Baader-Meinhof mentre altri legami sarebbero stati attivati con l'organizzazione palestinese FPLP e con terroristi francesi.
  Tale conclusione potrà essere approfondita anche nella rogatoria di cui tra poco si dirà.
  Nel complesso le attività investigative svolte confermano l'esistenza di contatti tra le Brigate rosse e la RAF fin da epoca precedente al sequestro Moro. È ragionevole ritenere che la natura di tali contatti non sia stata di carattere esclusivamente politico, ma abbia attinto anche il livello logistico – operativo. Tale profilo potrà essere meglio approfondito attraverso ulteriori, specifiche attività investigative.
  Allo scopo di realizzare ulteriori approfondimenti, nel mese di maggio 2016, collaboratori della Commissione si sono recati in missione in Germania, così da approfondire il tema dei legami logistico – operativi tra le Brigate rosse italiane e la RAF. All'esito di un confronto operativo con magistrati del Bundesgerichtshof, si è convenuto di avviare una specifica richiesta di assistenza giudiziaria, finalizzata all'effettuazione di una serie di attività investigative, quali, sinteticamente: l'identificazione ed escussione della persona che per un certo periodo di tempo ha svolto in Italia il ruolo di interprete negli incontri tra la RAF e le BR; l'escussione del terrorista tedesco Pag. 157che – secondo diverse informative dell'Arma dei carabinieri – si incontrò con Gallinari a Roma alla fine del 1977, nonché di una serie di altri terroristi tedeschi che risultano presenti in Italia nel 1977-1979; l'escussione di alcuni ufficiali della Stasi, che gestirono infiltrati.
  Parallelamente a tale attività saranno compiuti ulteriori approfondimenti – anche tramite assistenza giudiziaria – in relazione a tematiche già emerse nella prima Relazione sull'attività svolta, tra le quali quella dell'avvistamento, da parte del quindicenne Roberto Lauricella, di due autoveicoli con targa tedesca – con a bordo rispettivamente due e cinque persone, di cui una armata – avvenuto nel pomeriggio del 21 marzo 1978 a Viterbo.

13.2. La criminalità organizzata.

  Il 1o maggio 1978 la registrazione di una telefonata intercorsa tra Benito Cazora e Sereno Freato introdusse negli atti di indagine sul sequestro di Aldo Moro un inequivoco riferimento a un personaggio intraneo ad ambienti ’ndranghetisti che sarebbe stato ritratto in una fotografia «presa sul posto quella mattina lì».
  Con ogni verosimiglianza, le circostanze alle quali fa riferimento Cazora sono quelle dell'eccidio di via Fani.
  Come è noto, verso le 9 «di quella mattina lì», Gherardo Nucci, un autoriparatore che abitava al civico 109 di via Fani, parcheggiata la propria auto a pochi metri dall'incrocio con via Stresa, si trovò di fronte alla scena della strage appena consumata. Nucci raggiunse immediatamente il proprio appartamento e scattò dal terrazzo le prime foto. Dal terrazzo vide attivare un'auto della polizia a sirene spiegate. Nucci dichiarò a suo tempo che «quando scattai le foto dalla terrazza, sul posto non era ancora sopraggiunta alcuna auto della polizia. Solo pochi istanti dopo aver scattato i primi tre o quattro fotogrammi sopraggiunse la macchina [della polizia]».
  La moglie di Nucci, Maria Cristina Rossi, presso l'ufficio del pubblico ministero Luciano Infelisi, consegnò il materiale fotografico, che in seguito risultò smarrito.
  Le indagini compiute sulla vicenda dei rullini fotografici, di cui si è dato contro nella prima relazione, hanno fatto ipotizzare che la scena del crimine possa essere stata ritratta nell'immediatezza anche da altri soggetti e conseguentemente circolarono più rullini di cui si è persa traccia.
  Perfino una parte del materiale fotografico (tre rullini) realizzato da Antonio Ianni, operatore dell'Ansa di Roma, potrebbe essere stato parzialmente disperso o trafugato. Ai collaboratori della Commissione Ianni ha infatti dichiarato il 14 luglio 2015: «I miei colleghi dell'Ansa mi hanno riferito che una mattina avevano rinvenuto l'archivio fotografico della redazione dell'Ansa completamente a soqquadro. Non sono in grado di dire se questo episodio sia collegato al caso Moro, ma posso dire che oggi dall'archivio fotografico dell'Ansa mancano molte delle fotografie appartenenti ai tre rullini che ho scattato il giorno 16 marzo 1978».
  L'informazione appresa da Cazora circa la possibilità di individuare in una foto un «personaggio» noto ai suoi interlocutori calabresi acquista rilievo ulteriore alla luce delle singolari vicende sopra richiamate.Pag. 158
  La Commissione ha deciso di avversi della collaborazione del Reparto Investigazioni Scientifiche di Roma dei Carabinieri di Roma, cui sono state trasmesse stampe fotografiche acquisite presso i quotidiani «Il Tempo», «la Repubblica» e «Il Messaggero» con la richiesta di verificare se un soggetto maschile in esse ritratto in via Fani in piedi fra altre persone possa identificarsi nel malavitoso calabrese Antonio Nirta, classe 1946.
  Il RIS, dopo aver indicato gli esami effettuati (analisi e selezione delle fotografie potenzialmente utili; ottimizzazione e/o stampa delle stesse; attività di confronto tra immagini), ha illustrato i criteri identificativi così concludendo: «La statura del soggetto ritratto nelle fotografie in reperto viene attestata in 167,9 cm: compatibile con la statura di Antonio Nirta registrata in sede di fotosegnalamento [...] (236); la comparazione dei piani dei due volti è risultata compatibile. Ciò implica una tipologia di scheletro facciale con le stesse proporzioni anatomiche sul piano sagittale e, quindi, medesimo rapporto di sviluppo osseo. Pur essendo una forma di compatibilità il livello non è quantificabile a causa della carenza di elementi statistici presenti nella letteratura scientifica di settore. È tuttavia utile ad accertare l'assenza di caratteri di netta esclusione. Le caratteristiche del volto, prese singolarmente, mostrano numerose analogie. La scarsa qualità dell'immagine e gli artefatti, tuttavia, non permettono una chiara definizione, consentendo la sola valutazione di elementi macroscopici e generali dal limitato potere discriminatorio. Poiché di tali elementi non vi è statistica di frequenza nella popolazione, non è possibile affermare il calcolo statistico del livello di probabilità» (237).
  Queste le conclusioni del RIS: «Gli elementi in comparazione risultano non sufficienti ad esprimere un giudizio scientificamente affidabile riconoscendo, tuttavia, nei reperti analizzati, l'assenza di elementi di netta dissomiglianza che, qualora presenti, sarebbero indicativi di un'esclusione dell'identità del soggetto della foto con Antonio Nirta. Alla luce di quanto sopra, il livello statistico di compatibilità calcolato per la valutazione antropometrica (1<LR≤10 corrispondente a «limitati elementi a supporto dell'ipotesi...»), può solo essere aumentato. Seppur di un valore non qualificabile, che fa tendere la compatibilità al grado successivo : «Discreti elementi a supporto dell'ipotesi di riconducibilità» che il soggetto delle foto in esame sia Antonio Nirta».
  Le criticità derivanti dalla scomparsa di materiale fotografico realizzato in via Fani immediatamente dopo l'agguato mortale dunque vengono amplificate dagli esiti degli accertamenti scientifici sulle fotografie edite. Peraltro, ulteriori accertamenti in corso sono orientati all'esame un altro volto che compare nel materiale disponibile, per verificare la sussistenza di elementi di compatibilità con altro esponente della criminalità organizzata, già segnalato nell'immediatezza dei fatti come possibile partecipante al sequestro Moro.Pag. 159
  La vicenda Nirta non è nuova alle indagini sul caso Moro. Va infatti ricordato che la Procura di Roma ha a suo tempo svolto indagini preliminari nei confronti di Antonio Nirta, alias «due nasi», nell'ambito del procedimento penale numero 16033/93–R, instaurato a seguito della trasmissione da parte del pubblico ministero di Milano, Alberto Nobili, di copia dell'ordinanza cautelare emessa il 2 ottobre 1993 nella cosiddetta «Operazione Nord-Sud» (procedimento penale numero 443/93 c/o Agil Fuat 164).
  L'origine dell'ipotesi di una presenza di Nirta sta, come sopra ricordato, nelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Saverio Morabito che affermò di aver appreso (tra il 1986 e il 1990) da Paolo Sergi che il Nirta aveva avuto un ruolo nel sequestro Moro, ed aveva esternato il convincimento che «due nasi», fosse stato confidente del colonnello Francesco Delfino. Quest'ultima circostanza fu smentita da Delfino nell'interrogatorio reso al pubblico ministero Nobili l'11 novembre 1993. Il 25 novembre 1994, il giudice per le indagini preliminari Guido Piffer del Tribunale di Milano archiviò il procedimento instaurato nei confronti dell'ufficiale, non senza perplessità sulla veridicità delle sue dichiarazioni.
  I pubblici ministeri di Roma hanno in seguito esaminato Deflino nell'ambito del processo Moro quinquies, ricevendo dichiarazioni conformi alle precedenti. Sergi ha negato di aver effettuato tali rivelazioni, così come ha fatto Domenico Papalia (che, secondo Morabito, aveva confermato la rivelazione di Sergi, senza parole ma con eloquente espressione).
  Sempre nell'ambito del procedimento 16033/93, il collaboratore di giustizia Antonio Sestito, di estrazione ’ndranghetista, ha dichiarato che, allorquando chiese a Francesco Molluso un mitra per uccidere tale La Rosa, apprese da quest'ultimo che si trattava di un'arma «sporca», perché aveva sparato durante il sequestro Moro. Ma Molluso ha smentito il tenore di quella conversazione.
  Infine, numerosi brigatisti, esaminati sul punto, hanno escluso il coinvolgimento di Nirta. Il 28 febbraio 1996 il giudice per le indagini preliminari D'Angelo ha disposto, in conformità della richiesta del pubblico ministero (datata 15 gennaio 1996), l'archiviazione del procedimento contro Nirta.
  Se questa è stata la definizione giudiziaria delle indagini nei confronti di Antonio Nirta, si deve tuttavia rilevare che il procuratore Antonio Marini dinanzi alla Commissione Stragi (9 marzo 1995) ha rivisitato il tema dei rapporti Nirta-Delfino, prendendo in considerazione anche l'ipotesi che quest'ultimo, grazie a Nirta, avrebbe intercettato Alessio Casimirri durante la fase preparatoria del sequestro Moro. Da ultimo, lo stesso Marini, audito dalla Commissione il 4 marzo 2015, ha dichiarato «infondate» le dichiarazioni sulla presenza di Nirta, pur non escludendo un ruolo della ’ndrangheta nel sequestro Moro.
  In questa situazione ancora non definita, la Commissione è impegnata a verificare l'esistenza di ulteriori prospettive di interesse per l'attuale inchiesta, nel contesto della più vasta tematica del ruolo della criminalità organizzata nella vicenda del sequestro e dell'uccisione di Aldo Moro. All'esito della missione di un consulente della Commissione presso la Procura della Repubblica di Reggio Calabria, Pag. 160si è delineato un possibile sviluppo degli elementi sopra indicati in due direzioni.
  In primo luogo, assume rilievo la ricerca e la sistematica rilettura di contenuti dichiarativi formatisi nel tempo circa la disponibilità da parte di appartenenti a ’ndrine di un'arma adoperata nella strage di via Fani.
  È infatti indispensabile approfondire e attualizzare uno dei punti più rilevanti della richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero Marini: la notizia circolata in ambiente ’ndranghetista dell'esistenza di un'arma «sporca» impiegata a via Fani. Tale accertamento ha particolare rilevanza in questo ambito, in quanto utile a superare anche talune possibili incoerenze descrittive.
  Si collocano in questo quadro le attività di comparazione balistica sui reperti di via Fani e di via Caetani, promosse dalla Procura di Roma, nell'ambito del coordinamento tra la Commissione, la Procura della Repubblica di Roma e quella di Reggio Calabria. In particolare, la Procura della Repubblica di Roma sta procedendo al conferimento di un incarico di consulenza tecnico balistica sui reperti di via Fani e di via Caetani.
  Dal nuovo filone di indagine potrà emergere un definitivo chiarimento in ordine all'ipotesi della conservazione da parte della ’ndrangheta di un'arma coinvolta nell'eccidio di via Fani.
  Allo stesso modo appare meritevole di esplorazione la riferita vicenda di un duplice omicidio di appartenenti alla famiglia Strangio, collegato alla determinazione di Nirta di fornire un contributo all'azione di via Fani: un contributo non meglio individuato, forse di natura logistica, come ad esempio il recupero di persone o di armi. Del resto anche un mero ruolo logistico appare compatibile con i contenuti della conversazione telefonica intercorsa tra Cazora e Freato.
  Una ulteriore tematica oggetto di approfondimenti è quella dei rapporti tra Mario Moretti e il contesto reggino, che è stata evocato, da ultimo, nella seduta del 3 novembre 2016, nella quale il generale Cornacchia ha riferito di avere appreso da una sua fonte attiva che Moretti si recò in Calabria, ma non è stato in grado di riferire indagini specifiche. Cornacchia si riferiva con ogni evidenza alla nota vicenda dei viaggi compiuti tra la fine del 1975 e l'inizio del 1976 in Calabria insieme a Giovanna Currò, nome sotto cui si celava probabilmente Barbara Balzerani. Da quanto sinora accertato emerge l'ipotesi che questi viaggi potessero essere legati o a traffici d'armi o al riciclaggio di proventi di sesquestri.
  In proposito si ricordano le dichiarazioni rese il 14 settembre 2015 da Raffaele Cutolo a ufficiali di polizia giudiziaria delegati e magistrati consulenti della Commissione. Cutolo ha riferito di aver appreso presso il carcere di Ascoli Piceno, ove si trovò ristretto, che «vi furono contatti tra BR ed ambienti ’ndranghetisti» ed ha precisato che parlando del sequestro Moro aveva saputo che «i brigatisti si erano rivolti anche alla ’ndrangheta per rifornirsi di armi». Ha quindi precisato che siffatta informazione gli era pervenuta da un detenuto di origine reggina, più anziano (che dal punto di vista delle dinamiche criminali era collocato in posizione non conflittuale con il clan di Paolo De Stefano). Il verbale delle suddette dichiarazioni è stato trasmesso all'Autorità giudiziaria.

Pag. 161

14. Conclusioni.

  Come si è già sottolineato, la relazione dà conto delle risultanze delle principali attività di indagine in corso, nei limiti in cui possono essere rese pubbliche. Tali risultanze saranno poi approfondite e integrate nella relazione finale che la Commissione deve presentare a norma dell'articolo 2, comma 1, della legge istitutiva.
  Pur consapevole del cospicuo lavoro che deve essere ancora svolto, la Commissione ritiene di poter esprimere alcune valutazioni, anche nella prospettiva della relazione finale.
  Nel complesso, gli approfondimenti compiuti in questa relazione, che non esauriscono certo la complessità della vicenda Moro, confermano i profili di criticità che – come già sottolineato nella prima relazione – appaiono caratterizzare la gestione politica e le indagini.
  Ciò risulta innanzitutto nella vicenda del bar Olivetti e del suo titolare. Già nella prima relazione si era segnalato il caso eclatante della completa assenza di indagini sulla proprietà e gestione di un locale, la cui chiusura aveva un'importanza decisiva ai fini dell'attuazione dell'operazione «militare» delle Brigate rosse. I nuovi elementi documentali acquisiti dalla Commissione, nonché le testimonianze rese dal dottor Armati e dal generale Cornacchia, confermano in maniera definitiva che la figura di Tullio Olivetti non fu adeguatamente approfondita in due momenti nel quale emerse un suo possibile ruolo criminale: nel 1977, quando fu chiamato in causa nell'ambito di un traffico di armi; nel giugno 1978, quando il SISMI ipotizzò una connessione tra il fallimento del bar Olivetti e l'effettuazione della strage di via Fani, che non produsse esiti investigativi di rilievo. Allo stato non è stato ancora chiarito in maniera definitiva il significato di tali omissioni investigative. Tuttavia, occorre rilevare che la vicenda fa emergere un possibile intreccio tra il caso Moro e una corrente di traffico d'armi che coinvolgeva sia la criminalità organizzata che l'area mediorientale e sul quale occorre compiere ulteriori e – si auspica – definitivi approfondimenti.
  Anche l'approfondimento della tematica del Superclan e della scuola Hypérion, sulla scorta della documentazione acquisita e delle prospettive aperte dalle numerose audizioni dedicate a questa questione, evidenzia i limiti delle indagini a suo tempo compiute. L'analisi del persistente ruolo giocato in ambito internazionale da alcuni esponenti del vecchio Superclan e del filo che potrebbe legare le BR e il gruppo di Corrado Simioni, inducono a porre, con rinnovata forza, la questione di un possibile ruolo di Hypérion nel sequestro Moro. Su questo tema, peraltro, le acquisizioni documentali sin qui compiute saranno integrate quanto prima con specifiche attività di indagine.
  Le «zone grigie» che vanno emergendo non riguardano esclusivamente le indagini compiute a suo tempo e i loro limiti ma anche, e in maniera tutt'altro che marginale, la versione brigatista codificatasi sulla base del «Memoriale Morucci» e degli interventi pubblicistici di molti terroristi a partire dalla fine degli anni ’80. In questo ambito hanno particolare rilievo gli accertamenti in corso – nel quadro del coordinamento con la Procura di Roma – sulla vicenda dell'abbandono delle auto utilizzate dai brigatisti nell'agguato di via Fani e sulla possibile presenza di locali a disposizione dei brigatisti nell'area della Pag. 162Balduina. La Commissione intende chiudere nei tempi più solleciti l'indagine su questo filone, dalla quale potrebbe emergere una ricostruzione del sequestro Moro o, quanto meno, delle sue prime fasi profondamente diversa da quella sin qui nota.
  Gli approfondimenti sull'arresto di Morucci e Faranda hanno dimostrato l'efficacia di un approccio che combina nuovi accertamenti, anche testimoniali, con una rilettura sistematica degli atti formati dalle precedenti Commissioni e dall'autorità giudiziaria o acquisiti dalla Commissione.
  Relativamente a questo tema, l'inchiesta ha consentito di mettere alcuni punti fermi sulla scoperta del covo di viale Giulio Cesare n. 47, ma anche di evidenziare uno scenario più complesso, che chiama in causa la possibilità che l'arresto di Morucci e Faranda sia stato politicamente negoziato e, in questo ambito, il ruolo di Giorgio Conforto, agente del KGB noto ai Servizi italiani ben prima della scoperta di Morucci e Faranda nell'appartamento di sua figlia e inspiegabilmente mai oggetto di indagini. La Commissione ritiene particolarmente rilevante concludere gli approfondimenti necessari a chiudere questo filone di indagine, compiendo estese indagini sul tema del rapporto BR/Autonomia e sulle trattative promosse dalla segreteria del PSI per il tramite di Franco Piperno e Lanfranco Pace.
  Gli approfondimenti sul ruolo dei movimenti palestinesi e del centro SISMI di Beirut, che si prevede di integrare anche con escussioni dedicate, evidenziano l'importanza della dimensione internazionale della vicenda Moro. Nel caso dei palestinesi, gli approfondimenti hanno consentito di gettare nuova luce sulla vicenda delle trattative per una liberazione di Moro e sul tema dei canali di comunicazione con i brigatisti, ma anche di cogliere i condizionamenti che poterono derivare dalla collocazione internazionale del nostro Paese e dal suo essere crocevia di traffici di armi con il Medio Oriente, spesso tollerati per ragioni geopolitiche e di sicurezza nazionale. In questo ambito gli approfondimenti si indirizzeranno anche ad altri attori internazionali, anche per acquisire elementi sulla circolazione degli scritti di Moro e su un loro uso politico internazionale durante o successivamente il sequestro.
  In vista della conclusione dei lavori e della redazione della relazione finale, la Commissione intende riprendere sia le tematiche già esposte nella precedente relazione – dalla ricostruzione della scena del crimine di via Fani alla questione delle «fonti» e degli «infiltrati» – sia gli ulteriori percorsi evidenziati nella presente relazione sui temi della criminalità organizzata e dei rapporti tra le BR e le RAF sia anche avviare accertamenti sugli ambiti ancora non affrontati della vicenda Moro, al fine di realizzarne una complessiva rilettura

   (1) I dati e le informazioni riportate nella presente relazione si riferiscono all'attività svolta dal 5 novembre 2015 al 1o dicembre 2016. Non è stata compresa la sintesi dell'audizione di Alberto Franceschini, pure richiamata nella seconda parte del documento, in quanto questa è iniziata nella seduta del 27 ottobre 2016 e non si è ancora conclusa

   (2) L'esame del periodico, che era un quindicinale, evidenzia che solo nel numero che reca la data del 30 maggio 1978, alle pagine 53-57 (Le lettere di Aldo Moro) furono pubblicate alcune lettere di Moro; si tratta di otto lettere, identificate in «Critica sociale» con le seguenti date: 24 marzo (è la lettera a Cossiga recapitata il 29 marzo e pubblicata l'indomani in vari quotidiani), 4 aprile (è la lettera a Zaccagnini recapitata il 4 aprile e pubblicata l'indomani in numerosi quotidiani), 10 aprile (è la lettera riguardante Taviani, recapitata il 10 aprile e pubblicata l'indomani in vari quotidiani), 20 aprile (è la lettera a Zaccagnini recapitata il 20 aprile e pubblicata il 22 aprile su «la Repubblica»), 23 aprile (è la lettera a Zaccagnini recapitata il 24 aprile e pubblicata l'indomani in numerosi quotidiani), 29 aprile (è la lettera alla DC recapitata il 28 aprile e pubblicata l'indomani sul «Messaggero»), 1o maggio (è la lettera al Presidente Leone recapitata il 29 aprile e pubblicata il 4 maggio in numerosi quotidiani), ancora 1o maggio (è la lettera a Craxi recapitata il 29 aprile e pubblicata il 1o maggio sul «Corriere della Sera»). Tutte le lettere pubblicata in «Critica sociale» dopo l'assassinio di Moro erano quindi già state pubblicate in diversi quotidiani durante il sequestro

   (3) Da successivi accertamenti compiuti è emerso che Andreini ottenne il passaporto nel luglio 1979

   (4) Firenze, Ponte alle Grazie, 2011

   (5) Si fa in particolare riferimento agli atti presenti nella Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, 5, soprattutto vol. XXX e vol. XLIII), senza citarli singolarmente

   (6) Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, 5, vol. XXX, p. 309)

   (7) Ivi, pp. 106-107

   (8) Ivi, pp. 41-42

   (9) Ivi, pp. 97-98

   (10) Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, 5, vol. XLII, pp. 579-583)

   (11) Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, 5, vol. XXX, p. 106)

   (12) Ivi, p. 110

   (13) Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, 5, vol. XLIII, pp. 943-946)

   (14) Cfr il documento 329/3 dell'Archivio della Commissione, Sommario informativo contenente una sintesi degli esiti delle prime indagini svolte in relazione alla strage di via Fani – Sintesi delle principali operazioni di polizia giudiziaria coordinate dalla Questura di Roma a partire dal 16/03/1978 fino al 07/05/1978

   (15) Come precisato nella prima relazione, la Guardia di finanza stilò, a richiesta della Commissione Stragi, un rapporto sull'attività svolta nei giorni del sequestro, ove è riferito quanto acquisito da una fonte riservata. La presente Commissione all'esito degli accessi finalizzati all'acquisizione di atti e documenti relativi all'appunto sulla localizzazione di un covo-prigione dello statista nelle adiacenze di via Licinio Calvo (redatto immediatamente dopo il sequestro Moro), ha acquisito agli atti, grazie alla collaborazione del Comando generale della Guardia di finanza, la documentazione pertinente, a cui si farà riferimento nelle pagine successive

   (16) Appunto acquisito all'Archivio della Commissione

   (17) Atti acquisiti all'Archivio della Commissione

   (18) Il terzo appunto, al contrario dei due precedenti, è pubblicato. Cfr. Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, 5, vol. XXXVIII, pp. 32-35)

   (19) Appunto, a firma del prefetto Emanuele De Francesco, in data 6 ottobre 1981, relativo alle ipotesi a suo tempo formulate dalla Polizia in merito alla prigione dell'onorevole Moro e ad alcune dichiarazioni rese da Renzo Rossellini su suoi rapporti con l'ufficio politico della Questura di Roma. Lo si veda in Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, 5, vol. CXXV, pp. 32-35).
  Si evidenzia che nel suo intervento il prefetto De Francesco riferì elementi informativi provenienti dalla Guardia di finanza, ma tuttavia presenti anche in un articolo dello scrittore italoamericano Di Donato

   (20) Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, 5, vol. XXIII, pp. 307-335)

   (21) Ivi

   (22) Ivi

   (23) Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, 5, vol. XXXIV, p. 612)

   (24) Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, 5, vol. XLIII, pp. 963-970)

   (25) La Commissione ha acquisito, principalmente, due complessi documentali. Con lettera del sottosegretario Minniti del 20 gennaio 2015 è stato versato un complesso (documento 21/2 della Commissione) di circa 12.000 documenti del DIS, dell'AISE e dell'AISI. Si tratta di documenti versati all'Archivio centrale dello Stato nel 2014 nella versione non obliterata (l'obliterazione riguarda i dati sensibili). Con lettera del sottosegretario Minniti del 2 aprile 2015 è stato versato un secondo complesso (documento 91/2 dell'archivio) di circa 3.000 documenti, prevalentemente di documenti dell'AISE. Si tratta in questo caso di documenti versati all'Archivio centrale dello Stato nello stesso 2015

   (26) Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, 5, vol. I, pp. 131-137)

   (27) Documento SISMI del 18 febbraio 1978 dell'Ufficio «R» che informa il Reparto «D», specificando «Vice Direttore Informato»

   (28) Documento SISMI con protocollo nr. 1/204/RR del 18 febbraio 1978

   (29) Documento SISMI Protocollo nr. 04/4104/R/1 del 18 febbraio 1978

   (30) Documento SISMI Protocollo nr. 04/4094/R/1 del 18 febbraio 1978

   (31) Documento SISMI Protocollo nr. 04/4095/R/1 del 18 febbraio 1978

   (32) Documento SISDE Protocollo nr. 580 del 22 febbraio 1978

   (33) Si tratta dei Centri di Torino, Trieste e Perugia

   (34) Appunto al Questore, 22 febbraio 1979, inoltrato al Capo della Polizia il 22 febbraio 1979 trasmesso alla Commissione dalla Direzione centrale della polizia di prevenzione

   (35) Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, 5, vol. XLI, pp. 917-918)

   (36) Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, 5, vol. LXXXVIII, pp. 504-505)

   (37) Per completezza si segnala che in un'informativa di polizia del 21 ottobre 1978 si riportava che Rana aveva segnalato un furto di autoradio e, nella stessa occasione, aveva affermato di aver subito sette o otto furti analoghi (non denunciati) in via Savoia, nel periodo da gennaio alla fine di febbraio 1978 (Archivio della Commissione Stragi, doc. 7.a.1.43.1)

   (38) Documento con Protocollo nr. 04/12097/R/1 del 17 maggio 1978

   (39) Messaggio al Raggruppamento Centri CS e a tutti i centri del 19 maggio 1978 (Prot. 1/12072/3/1)

   (40) Si veda Appunto per il Signor Direttore del SISMI, 15 maggio 1978. Nel successivo Appunto (Prot. 04/169/1) del 6 giugno 1978 si proponeva di lasciar cadere la fonte, in quanto «emergono, sostanzialmente, elementi di conferma in ordine ai sospetti, man mano insorti, sulla possibilità di portare avanti un'azione che, fin dall'insorgere, non offriva sufficienti garanzie di praticabilità»

   (41) Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, 5, vol. 106, p. 9)

   (42) Archivio della Commissione Stragi, doc. 6.b.3.19

   (43) Tutti i documenti citati provengono da un fascicoletto dedicato, acquisito all'Archivio della Commissione (DOC. XXI/2, 2113,1,7)

   (44) Rapporto n. 050001/DIGOS del 18 agosto 1978 (Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia Doc. XXIII, 5, vol. XXXIII, p. 135)

   (45) Rapporto n. 050714/DIGOS del 31 agosto 1978 (Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia Doc. XXIII, 5, vol. CXV, pp. 924 e ss.)

   (46) Da Ufficio R a Capo Reparto «R-S», 18/03/1978 n. 536/060

   (47) Per chiarezza si osserva che Abu Hol è spesso chiamato nei documenti dei Servizi italiani Abu Howl (riferimento anche al nome in codice con cui era indicato «gufo», in inglese owl), mentre Nemr Hammad è spesso indicato come Nemr Hammadi. Abu Hol fu poi assassinato a Tunisi nel 1991 insieme a Abu Iyad

   (48) Messaggio da Ufficio R a Capo Reparto R-S, del 18 marzo 1978

   (49) Messaggio da Collegamento 113, n. 952 del 30/03/1978. Sin dalla fine degli anni ’60 Farouk Kaddumi era uno dei leader dell'OLP. Nemr Hammad era, dal 1974, rappresentante OLP in Italia. Abu Anzeh Saleh fu in seguito arrestato per la vicenda dei missili di Ortona

   (50) Messaggio 05/742/060 del 16 aprile 1978

   (51) Da collegamento 113 ore 22.50 del 24 aprile 1978 Personale per Direttore Generale

   (52) Da collegamento 113 ore 9.30 del 25 aprile 1978

   (53) Minuta di appunto, datato 28 aprile 1978

   (54) Minuta di appunto indirizzato al Ministro della difesa, «Ministro dell'interno informato», del 28 aprile 1978

   (55) Le lettere sono citate sulla base dell'edizione a stampa A. Moro, Lettere dalla prigionia, a cura di M. Gotor, Torino, Einaudi, 2009

   (56) L'errore nel cognome è nella lettera

   (57) C. Granata, Curcio e i BR in carcere a Torino accettano uno scambio con Moro, in «La Stampa», 25 aprile 1978

   (58) Per i riferimenti alle due interviste, cfr F. Cossiga, Non vidi le carte ma l'ho sempre saputo, in «Corriere della Sera» 15 agosto 2008, e D. Frattini, « Trattai io il lodo Moro. Mani libere a noi palestinesi», in «Corriere della Sera», 14 agosto 2008

   (59) Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, n. 5, vol. XXIII, pp. 280-281)

   (60) Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, n. 5, vol. LXXXVII, pp. 507-550)

   (61) Messaggio del 22 giugno 1978 da Seconda divisione ricerche a prima divisione Sicurezza, protocollo 1116/060, non diramato enti collegati

   (62) M. Scialoja, Il caso Moro in Parlamento. Giusto, sbagliato, omissis...in «l'Espresso», 29 ottobre 1978

   (63) «Critica sociale», 4 maggio 1979, p. 18

   (64) Il documento, ricevuto alle ore 11.30, ha per oggetto: armi fornite da palestinesi a terroristi italiani

   (65) Seguito messaggio del 9 gennaio 1981, ricevuto alle ore 12.30

   (66) Documento riportante in intestazione RIC H, 091700/A

   (67) Documento riportante in intestazione RIC H, 091700/A – terza parte

   (68) Documento riportante in intestazione RIC H, 091915/A

   (69) Documento riportante in intestazione RIC H, 091915/A – terza parte

   (70) N° 36/6/04 del 23 giugno 1982, con oggetto: pistole mitragliatrici Sterling cedute dagli inglesi alla Tunisia

   (71) Nota nr. 4115/01 dell'8 luglio 1982

   (72) Vedi documento SISMI nr. 37/6/04 del 29 marzo 1982

   (73) Tribunale Civile e Penale di Roma – Ufficio Istruzione Sezione 1a – Consigliere Istruttore Dr. Achille Gallucci – Procedimento penale a carico di appartenenti alle così dette «Brigate Rosse» per l'omicidio della scorta dell'On. Moro ed il sequestro di questi, avvenuto in Roma il 16 marzo 1978, in via Fani. Relazione Tecnico Balistica eseguita da Ugolini, Iadevito, Lopez: «Perifericamente alle capsule dei bossoli calibro 9 mm Parabellum è la vernice sigillante verde chiaro caratteristica della fabbricazione Giulio Fiocchi a partire dal secondo semestre dell'anno 1965 (fino al 1976-77), ne fanno eccezione i bossoli senza data i quali, oltre a distinguersi dalla capsula stagnata e quindi bianca e lucente, dall'anello sigillante in vernice color verde – bleu di tonalità nettamente fuori standard. Da ciò si evince che tali bossoli fanno parte di stock di fabbricazione non destinata alle forniture standard dell'Esercito, della Marina e della Aeronautica militare italiane, ove per altro si obbliga il fornitore ad apporre sul piano del bossolo i dati riferentesi all'anno di fabbricazione [...] le cartucce usate sono tutte di fabbricazione italiana della Giulio Fiocchi di Lecco: di standard militare italiano le 9 mm Parabellum recanti le date (69;70;73;77) e non di standard militare italiano quelle senza data sempre in calibro 9 mm Parabellum»

   (74) V. Tessandori, Caso Moro. Torna la pista del Cairo. Identificato un «br» di via Gradoli, in «La Stampa», 13 agosto 1978

   (75) G. De Palo, Disarmo. Perché parlarne solo all'ONU  ?, in «L'Astrolabio», 14 giugno 1978

   (76) Si rammenta che 31 di queste cartucce sono state rinvenute a Gardone Val Trompia in un reperto con dicitura «armi sequestrate a Giordano Antonio [...] nel covo B.R di via Cornelia 148 a Roma»; 8 cartucce più un bossolo con le medesime caratteristiche sono stati rinvenute in un reperto con dicitura «materiale sequestrato in occasione dell'arresto di Seghetti Bruno»; 12 cartucce nel reperto relativo a armi e materiale sequestrato nel covo B.R. di via U. Pesci 20 a Roma

   (77) Nota CESIS Nr. 2113.1.5/17/4 con oggetto: strage di via Fani. Perizia balistica

   (78) Appunto per l'On.le Presidente del Consiglio dei Ministri nr. 2113.1.5/21/4 del 18 gennaio 1991

   (79) Appunto per l'On.le Presidente del Consiglio dei Ministri nr. 2113.1.5/43/4 del 5 febbraio 1991

   (80) Nota CESIS 2113.1.5/152/4o dell'11 marzo 1991

   (81) Note CC N. 314/359-4 di prot. 1978 del 15 marzo 1991 e N. 314/359-7 di prot. 1978 del 21 marzo 1991

   (82) Nota CESIS N. 2113.1.5/4 del 25 marzo 1991

   (83) La presente sezione si basa su un contributo redatto dal senatore Federico Fornaro

   (83) Vedi doc. 455/1. Il tema è stato oggetto di numerosi studi. Tra i più recenti: S. De Prospo e R. Priore, Chi manovrava le Brigate rosse  ? Storia e misteri dell'Hyperion di Parigi, scuola di lingue e centrale del terrorismo internazionale, Firenze, Ponte alle Grazie, 2011, e P. Calogero, C. Fumian e M. Sartori, Terrore rosso. Dall'autonomia al partito armato, Roma-Bari, Laterza, 2010

   (84) Per tutti il rapporto del CESIS del 1984 Terrorismo. I collegamenti internazionali, in Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, n. 5, vol. XXVIII, pp. 822 e ss.)

   (85) Resoconto stenografico dell'audizione dell'11 novembre 2015 di Pietro Calogero presso la Commissione

   (86) Resoconto stenografico dell'audizione del 27 ottobre 2016 di Alberto Franceschini presso la Commissione

   (87) Ivi

   (88) Doc. 385/1, Gianni Mulinaris, Dichiarazioni concernenti la scuola di lingue Hypérion con allegati

   (89) Resoconto stenografico dell'audizione del 27 ottobre 2016 di Alberto Franceschini presso la Commissione

   (90) Il convegno, a cui parteciparono un centinaio di persone, in realtà si svolse in una trattoria di Costaferrata, frazione di Casina, in provincia di Reggio Emilia

   (91) S. Flamigni, La sfinge delle Brigate rosse, Roma, Kaos, 2004, p. 57

   (92) P. Gallinari, Un contadino nella metropoli, Milano, Bompiani, 2008, p. 78

   (93) Resoconto stenografico dell'audizione del 28 ottobre 2015 di Duccio Berio presso la Commissione

   (94) Resoconto stenografico dell'audizione del 27 ottobre 2016 di Alberto Franceschini presso la Commissione. Franceschini, ha invece confermato che Simioni e i suoi «volevano sviluppare di più questo spirito comunitario [...] e i discorsi che venivano dagli Stati Uniti, dal movimento americano, sulle nuove possibilità di relazioni famigliari eccetera»

   (95) Ivi

   (96) Ivi

   (97) P. Gallinari, Un contadino, cit., p. 80

   (98) Vedi AA.VV., Sequestro di verità. I buchi nero del delitto Moro, Roma, Kaos edizioni, 1984, p. 190

   (99) Vedi S. De Prospo e R. Priore, Chi manovrava le Brigate rosse  ?, cit., pp. 73-77

   (100) Il testo del necrologio è pubblicato in S. Flamigni, La sfinge, cit., p. 130

   (101) Nella sua audizione Franceschini ha derubricato l’«indegnità morale» a una «questione di donne»

   (102) «la Repubblica», 28-29 gennaio 1983

   (103) Altre fonti indicano una collaborazione di Simioni con la sede milanese dell'USIS, mentre all'estero avrebbe lavorato per Radio Free Europe, il cui quartier generale era a Monaco di Baviera

   (104) Doc. 455/1 dell'Archivio della Commissione, Documentazione relativa alla vicenda della scuola di lingue Hypérion con riferimento a Paolo Graldi; Stralcio Sentenza Ordinanza Imposimato su »Metropoli”; Stralcio Sentenza Ordinanza Mastelloni

   (105) Nella sua audizione del 27 ottobre 2016, Franceschini ha raccontato che Simioni «girava per le punte avanzate del movimento – io me lo ricordo a Trento – proponendo di fare un giornale quotidiano del movimento, dicendo che era fondamentale, se si voleva fare sviluppare questo, e faceva capire che i soldi per poter mettere in piedi un'impresa del genere ce li aveva»

   (106) G. Fasanella e A. Franceschini, Che cosa sono le BR, Milano, Rizzoli, 2004, p. 54. Nella sua audizione Franceschini ha confermato questa sua convinzione maturata nel tempo: «Sì. Io materialmente non ne ho le prove, però da una serie di ragionamenti che mi faccio dico: «Sì certamente lui è uno...». Del resto ci sono i famosi viaggi che andava a fare a Parigi. Lui stesso lo dichiara, a un certo punto, a Savasta, che è un pentito»

   (107) A. Cornacchia, Airone 1, Mantova, Editoriale Sometti, 2016, p. 208

   (108) Nella sua citata audizione presso la Commissione, Franceschini ha indicato come data di abbandono di Moretti «maggio 1970» e come data di rientro «marzo 1971»

   (109) G. Fasanella G. e A. Franceschini, cit., p. 54

   (110) M. Moretti, Brigate rosse. Una storia italiana, Milano, Anabasi,1994, pp. 16-17

   (111) Resoconto stenografico dell'audizione del 28 ottobre 2015 di Duccio Berio presso la Commissione

   (112) Resoconto stenografico dell'audizione del 27 ottobre 2016 di Alberto Franceschini presso la Commissione

   (113) M. Clementi, La pazzia di Aldo Moro, Milano, Rizzoli, 2006, p. 21

   (114) G. Fasanella e A. Franceschini, Che cosa sono le BR, cit., p. 77

   (115) Archivio Commissione parlamentare Mitrokhin, doc. 40, p. 161. Il documento è pubblicato in S. Flamigni, La sfinge, cit., p. 79

   (116) Doc. 455/01, citato

   (117) S. Flamigni, La sfinge, cit., pp. 88-89

   (118) Ivi

   (119) Ivi, p. 127

   (120) Preso in affitto dal settembre 1978. Cfr. Doc. 414/1 dell'Archivio della Commissione

   (121) Dal marzo 1976 alla fine del 1977, Ivan Maletti affittò un alloggio in Corso del Popolo 211/213. Dalle due utenze telefoniche di Mestre furono effettuate numerose telefonate in Italia e in Francia, nel periodo che va dal secondo trimestre 1977 al terzo trimestre 1978, con conseguente pagamento di bollette per somme «molto consistenti» (Doc. 414/1, citato)

   (122) Doc. 414/1 e doc. 455/1 dell'Archivio della Commissione

   (123) Sentenza-ordinanza contro Abu Ayad e altri 204/83 AGI, emessa il 20 giugno 1989

   (124) Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, n. 5, vol. CIII, p. 306)

   (125) Ibid

   (126) E. Sogno con A. Cazzullo, Testamento di un anti-comunista, Milano, Mondadori, 2000

   (127) Si riferisce all'onorevole Alberto Malagugini, dirigente di primo piano del Partito comunista

   (128) Nel marzo del 1975 il generale Dalla Chiesa indirizzò alla Procura generale di Torino un esposto-denuncia contro il giudice De Vincenzo. Le accuse contro il magistrato si rivelarono infondate. Nel dicembre 1979 Ciro De Vincenzo lasciò la toga. Cfr. V. Tessandori, BR Imputazione banda armata, Milano, Baldini&Castoldi, 2000, pp. 342-344

   (129) G. Fasanella e A. Franceschini, cit., p. 129

   (130) Resoconto stenografico dell'audizione del 28 ottobre 2015 di Duccio Berio presso la Commissione

   (131) Ivi

   (132) Azionisti del CIIT erano Françoise Tuscher e Alberto Pinotti

   (133) Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, n. 5, vol. CIII, p. 305)

   (134) Ivi, p. 306

   (135) Ivi, p. 345

   (136) Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, n. 5, vol. CIII, pp. 62-64)

   (137) Nel corso dell'audizione di Duccio Berio è emerso un particolare nuovo: Hypérion aveva tra le sue attività collaterali anche una organizzazione, Gentil Fantôme, che si occupava di servizi di pulizia a domicilio sul modello di Gentle Ghost analoga organizzazione inglese

   (138) All'epoca dirigente della squadra mobile di Roma, De Sena fu inviato in Francia, agli inizi del 1979, per indagare su Hypérion. Grazie alla collaborazione con i funzionari dei Renseignements généraux del Ministero dell'interno francese, che misero sotto controllo i telefoni di Hypérion, fu così scoperta l'esistenza di questa villa di campagna in Normandia, di una sede londinese e di quella a Bruxelles. Sulle indagini vedi anche l'audizione presso la Commissione di Ansoino Andreassi, il 21 gennaio 2016

   (139) Audizione di Pietro Calogero, cit

   (140) L'esistenza di una sede londinese di Hypérion è stata negata da Berio nella sua audizione in Commissione

   (141) Doc. 414/1 dell'Archivio della Commissione

   (142) Doc. 455/1 dell'Archivio della Commissione

   (143) Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, n. 5, vol. CIII, p. 345)

   (144) Ivi, p. 342

   (145) In realtà si tratta di Ivana Polesan (1942), residente anagraficamente a Venezia Mestre in Corso del Popolo 215 interno 6, moglie separata di Attilio Galli

   (146) Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, n. 5, vol. CIII, p.341)

   (147) Sentenza-ordinanza contro Abu Ayad e altri 204/83 AGI, emessa il 20 giugno 1989, p. 127

   (148) Ivi, p. 128. Nell'audizione, Duccio Berio ha detto di non ricordare questo suo viaggio a Roma durante il sequestro Moro

   (149) Doc. 454/1 dell'Archivio della Commissione. Negli archivi dell'Opera Romana Pellegrinaggi, a cui la Commissione ha chiesto informazioni, non risulta traccia dell'incontro. Doc. 478/1 dell'Archivio della Commissione

   (150) Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, n. 5, vol. CIII, p. 333)

   (151) Ivi

   (152) Sentenza-ordinanza contro Abu Ayad e altri 204/83 AGI, emessa il 20 giugno 1989, p.128

   (153) Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, n. 5, vol. CIII, p. 335)

   (154) Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, n. 5, vol. CIII, p. 341)

   (155) Ivi, p. 366

   (156) Doc. 414/1 dell'Archivio della Commissione. Sulla questione vedi anche V. Satta, Il caso Moro e i suoi falsi misteri, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006, p. 114

   (157) Nella sua audizione, Duccio Berio ha affermato: «Noi non abbiamo mai avuto contatti neanche col professor Negri. Anche sul piano politico era veramente un'altra cappella. Non ha mai messo piede a Hypérion. Posso certificarlo»

   (158) Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, n. 5, vol. CIII, p. 458 e vol. LVIII, p. 603)

   (159) A. Franceschini e A. Samueli, La borsa del Presidente, Roma, Ediesse, 1997, p. 63

   (160) Appunto del SISDE al Segretario generale del Cesis, 3 ottobre 1984, con allegate fotocopie delle lettere «acquisite in via informale» (Archivio della Commissione Stragi)

   (161) Appunto del SISDE al Ministero dell'Interno, Gabinetto – Segreteria speciale, 5 ottobre 1984, acquisito all'Archivio della Commissione

   (162) Doc. 6.a.20.101.1 dell'archivio della Commissione Stragi, Promemoria: disponibilità di Valerio Morucci e Adriana Faranda a rispondere alle domande di Francesco Cossiga, 10 luglio 1985

   (163) Commissione Stragi, Doc. Moro XI-XIII, 009.006.a.20.36.64.6. Le successive citazioni del «Memoriale» sono tratte da questo documento

   (164) Ibid

   (165) A. Moro, Lettere... , cit., p. 168

   (166) Resoconto stenografico dell'audizione del 18 maggio 2000 di Franco Piperno presso la Commissione Stragi

   (167) Doc. 753/1 dell'Archivio della Commissione, Nota riguardante la sorveglianza di polizia svolta nei riguardi di Franco Piperno (CERPET) nell'aprile del 1978

   (168) Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, n. 5, vol. CXIII, pp. 1-35)

   (169) Resoconto stenografico dell'audizione del 13 novembre 1980 del generale Arnaldo Ferrara presso la prima Commissione Moro

   (170) Resoconto stenografico dell'audizione del 12 luglio 2016 di Claudio Signorile presso la Commissione

   (171) Commissione Stragi, Doc. Moro XI-XIII, 009.006.a.20.36.64.6

   (172) In quell'occasione Signorile dichiarò: «Io ero nello studio dell'onorevole Cossiga, perché cercavo anche con Cossiga di capire, di sollecitare, di premere perché da parte di autorevoli esponenti della Democrazia cristiana ci fosse qualche segnale che consentisse se non altro — questa era l'espressione usata — di interrompere i termini, cioè di far capire che c'era qualche possibilità. Ricordo che proprio mentre stavamo parlando, verso le 11, arrivò la telefonata che annunciava che il delitto era stato compiuto». Non risulta che Cossiga abbia smentito la ricostruzione

   (173) M. Scialoja, Un sinistro dibattito tra i brigatisti: lo ammazzo o non lo ammazzo  ?, in «l'Espresso», 23 aprile 1978

   (174) Nelle dichiarazioni rese all'Autorità giudiziaria il 30 agosto 2000, Piperno e Pace collocano l'incontro a luglio (Piperno) e a luglio-settembre (Pace). Cfr., anche per quanto segue, la raccolta dei materiali nel Doc. 737/1 dell'Archivio della Commissione

   (175) Ivi. Dichiarazioni rese il 30 agosto 2000 al ROS dei Carabinieri nell'ambito del Procedimento penale n. 3186/00 K

   (176) Dichiarazioni di Michele Galati del 9 aprile 1982 al giudice istruttore di Venezia Carlo Mastelloni (Doc. 234/1 dell'archivio della Commissione)

   (177) Materiali raccolti nel Doc. 234/1 dell'archivio della Commissione

   (178) Ivi

   (179) Cfr. dichiarazioni di Antonio Savasta, nell'interrogatorio reso il 6 febbraio 1982 ai pubblici ministeri di Padova Pietro Calogero e Carmelo Ruberto. Per ulteriori riferimenti cfr. documento 234/1 dell'Archivio della Commissione

   (180) In particolare, nelle dichiarazioni rese all'Autorità giudiziaria il 30 agosto 2000, Pace precisò che, poco dopo la fuoriuscita di Morucci e Faranda, «venne però sotto casa mia Seghetti, il quale mi disse che Gallinari mi voleva parlare. Gallinari si trovava a poca distanza, si avvicinò e questi mi disse che Morucci e Faranda erano dei traditori e per ciò condannati a morte. Io dissi a Gallinari che lui non era un tribunale e che quindi non aveva diritto di emettere sentenze di morte e che comunque io avevo già spiegato a Morucci e Faranda che avrebbero dovuto restituire quello che si erano portati dietro dopo la loro uscita dalle BR. Gallinari prese atto e rimase convinto di quello che io gli dissi tanto che dopo qualche tempo le BR recuperarono parte di quanto era stato asportato»

   (181) Il complesso delle dichiarazioni rese da Conforto, Piperno, Pace, Morucci e Faranda, relativo alla latitanza e all'approdo nell'appartamento di viale Giulio Cesare è stato raccolto nel Doc. 532 (Argomenti emersi nel corso dell'audizione del prefetto Ansoino Andreassi) e nel Doc. 685 (Relazione sulla vicenda giudiziaria di Piperno e Pace), entrambi redatti da Paolo Scriccia, depositati nell'Archivio della Commissione, a cui si fa rinvio, anche per quanto segue

   (182) Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, n. 5, vol. XXVI, pp. 221-225)

   (183) Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, n. 5, vol. XXXVI)

   (184) Atti acquisiti dalla Commissione Mitrokhin, busta 169

   (185) Atti acquisiti dalla Commissione Mitrokhin, n. 136.5

   (186) Informativa del 14 gennaio 1972 del Raggruppamento Centri Cs al Reparto D del SID

   (187) Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, n. 5, vol. XXVI, pp. 221-225)

   (188) Dichiarazioni rese da Andreini, Bozzetti e Piano al giudice Rosario Priore: Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, n. 5, vol. XLIII, pp. 102-103; 106-111; 133-134)

   (189) V. Morucci, La peggio gioventù, Milano, Rizzoli, 2004, p. 208

   (190) Per il parere della procura cfr. Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, n. 5, vol. CV, p. 65). Per l'assoluzione cfr. Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, n. 5, vol. XXXVII, pp. 381-400)

   (191) La Commissione ha compiuto su questo tema uno specifico approfondimento. Cfr Doc. 662/1 dell'Archivio della Commissione, Relazione sugli avvocati Alfonso Cascone e Rocco Ventre, redatta da Paolo Scriccia

   (192) Pubblicato in Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (Doc. XXIII, 5, vol. XXXVI, pp. 229-245)

   (193) Ivi, pp. 221-227

   (194) Ivi

   (195) Cfr. ad esempio «La Stampa» e «l'Unità», 31 maggio 1979

   (196) A. Tessari, Raccontando Marco Pannella... a ruota libera, Milano, Mimesis, 2012, pp. 63-65

   (197) Informativa del 14 gennaio 1972 del Raggruppamento Centri Cs al Reparto D del SID

   (198) M. Moretti, Brigate rosse. Una storia italiana, Milano, Anabasi, 1994, p. 114

   (199) Memoriale Morucci-Faranda, cit.; M. Moretti, Brigate rosse, cit., p. 114

   (200) Resoconto stenografico dell'audizione del 28 settembre 2016 di Giancarlo Armati presso la Commissione

   (201) Resoconto stenografico dell'audizione di Antonio Federico Cornacchia del 5 ottobre 2016 presso la Commissione

   (202) Si tratta di notizie riportate nei promemoria dell'8 febbraio 1977 e del 15 febbraio 1977 redatti dal maresciallo di Polizia Giuseppe Gueli, all'epoca in servizio all'epoca presso il Servizio di sicurezza del Ministero dell'interno (trasmessi alla Commissione dalla Direzione centrale della polizia di prevenzione [d'ora in poi DCPP] con nota n. 224/SCA Div.1o/Sez.3/16899/15 del 18 dicembre 2015, allegati 2 e 3)

   (203) Il 7 maggio 1977 il Servizio di Sicurezza della Polizia trasmise alla Procura di Roma (dottor Armati) – a seguito di una richiesta verbale effettuata lo stesso giorno – una nota relativa a Guardigli comprendente carteggio originato dal Servizio di sicurezza e trasmesso all'Ufficio politico della Questura di Roma, nonché i due promemoria citati, dell'8 e del 15 febbraio 1977 (DCPP nota n. 224/SCA Div.1o/Sez.3/16899/15 del 18 dicembre 2015, allegato 23)

   (204) Anche in sede di interrogatorio, Guardigli ha confermato con delle precisazioni, quanto oggetto delle sue rivelazioni al maresciallo Gueli. (DCPP nota n. 224/SCA Div.1o/Sez.3/16899/15 del 18 dicembre 2015, allegato 28)

   (205) I Carabinieri, in un rapporto al pubblico ministero Armati del 24 aprile 1977, trasmettono le relazioni di servizio relative all'intercettazione telefonica di Guardigli, ed emergono contatti con Olivetti, tra cui una conversazione così riassunta nel brogliaccio: «Luigi chiede di Tullio e gli domanda se per domani mattina può consegnargli l'assegno. Negativa la risposta. L'utenza chiamata è 3452463». (DCPP nota n. 224/SCA Div.1o/Sez.3/16899/15 del 18 dicembre 2015, allegato 19)

   (206) Il 6 aprile 1977 la perquisizione nell'abitazione di Guardigli portò al suo arresto per il rinvenimento di armi e munizioni detenute irregolarmente. Risulta anche il sequestro, in una cartellina e di un manoscritto datato 24 gennaio 1977, «contraddistinto dal nome «Tullio» riguardante operazioni finanziarie, offerta di prodotti e forniture di materiale bellico». (DCPP nota n. 224/SCA Div.1o/Sez.3/16899/15 del 18 dicembre 2015, allegato 15)

   (207) Richiesta di perquisizione trasmessa dalla Legione Carabinieri di Roma – Nucleo investigativo alla Procura della Repubblica di Roma, 29 gennaio 1977, Prot. 1671/3 di Protocollo «P»

   (208) Come riportato nell'ordinanza di rinvio a giudizio – sentenza istruttoria di proscioglimento del giudice istruttore Torri, nella casa di Guardigli erano stati sequestrati nove modelli di pistola calibro 9 con canna otturata. Anche nella sentenza d'appello contro Guardigli Luigi e altri si dava prima atto che presso l'abitazione di Guardigli era stata trovata una pistola calibro 22 e «molte pistole giocattolo», spiegando poi che sulla base della «valutazione effettuata dal punto di vista tecnico [...] la trasformazione delle pistole giocattolo in armi vere e proprie – nel che si condensava l'accusa – è risultata si possibile, ma non sulla base dei metodi impiegati dall'imputato, né tantomeno con l'utilizzo del munizionamento eletto; le trasformazioni attuate dal Guardigli sono definite grossolane e tali da non aver in nulla trasformato l'arma giocattolo» (DCPP nota n. 224/SCA Div.1o/Sez.3/16899/15 del 18 dicembre 2015, allegati 62 e 63)

   (209) Guardigli nella relazione peritale fu definito «una personalità mitomane, con una condizione psicopatica di vecchia data, e, allo stato, permanente. I suoi atti e le sue dichiarazioni sono espressioni sintomatologiche di tale anomalia» (DCPP nota n. 224/SCA Div.1o/Sez.3/16899/15 del 18 dicembre 2015, allegati 48 e 49)

   (210) A partire dal 20 giugno 1977 hanno inizio una serie di confronti tra gli indagati, gestiti dal pubblico ministero Armati o dal giudice istruttore Torri. In tale fase, Guardigli in varie occasioni dichiara di essersi inventato fatti e circostanze interessanti da fornire poi al Servizio di sicurezza al fine di essere «assunto» come informatore. In particolare, in un verbale di confronto con Spadaro Patané del 22 giugno 1977, Guardigli ammette «tutto quanto ho raccontato al maresciallo Gueli è praticamente inventato e cioè tutto quello che riguarda la mafia e il traffico di armi». Successivamente, il 13 luglio 1977, Torri interrogò in carcere Guardigli. Questi, nel ricostruire dalle origini la storia e le attività della società RACOIN, specie in relazione al commercio di armi, e nel riassumere i suoi rapporti con la Polizia, dichiarò: «Io da tempo nutrivo il profondo desiderio di entrare a far parte dei servizi di controspionaggio in quanto sono molto appassionato tale genere di attività [...] il maresciallo Giuseppe Gueli [...] mi disse che faceva parte del Servizio di Sicurezza della Polizia[...] mi propose di lavorare esclusivamente per lui [...] sarei stato ricompensato con un mensile fisso più il rimborso spese [...] avendo capito che gli premeva sapere cose inerenti covi e attività di extraparlamentari, mafia e deposito armi, cominciai a raccontargli fatti da me del tutto inventati o ingranditi. Pensavo che quella fosse l'unica occasione che mi si presentava per entrare nei servizi di spionaggio e perciò non volevo perderla». Poi, il 14 luglio 1977, nell'ambito di un confronto tra Guardigli e il marescialli Gueli, il primo dichiarò di essersi inventato tutti i fatti riportati al Servizio di sicurezza (DCPP nota n. 224/SCA Div.1o/Sez.3/16899/15 del 18 dicembre 2015, allegati 43,47 e 50)

   (211) Luigi Guardigli è stato escusso il 7 giugno 2016 su delega della Procura generale presso la Corte di appello di Roma (Procedimento penale n. R.G.P.G.n. 3/2014 – R.G.P.M.13369/2015) alla presenza dell'Ufficiale di collegamento della polizia di Stato delegato dalla Commissione. Previa autorizzazione della Procura Generale, gli atti sono stati trasmessi alla Commissione tramite la DCPP con nota n. 224/SCA Div 1/ Sez. 3/11477/16 del 20 luglio 2016

   (212) Escussione del maresciallo Giuseppe Gueli effettuata dal pubblico ministero Giancarlo Armati il 30 maggio 1977 (DCPP nota n. 224/SCA Div.1o/Sez.3/16899/15 del 18 dicembre 2015, allegato 35)

   (213) Note SISDE N. 5.12493 – 1 (Q.2/R/12) datata 30 aprile 1984; N. 5.12493 (Q.2/R/12) datata 2 maggio 1984 e N. 5.25759 (Q.2/R/12) del 3 settembre 1984, trasmesse alla Commissione previa declassifica dalla DCPP con nota n. 224/SCA DIV 1o/ Sez 3/1821/16 del 5 settembre 2016

   (214) Resoconto stenografico dell'audizione di Antonio Federico Cornacchia del 5 e del 12 ottobre 2016 presso la Commissione

   (215) Interrogato in carcere il 20 maggio 1977 dal sostituto procuratore Armati (DCPP nota n. 224/SCA Div.1o/Sez.3/16899/15 del 18 dicembre 2015, allegato 28)

   (216) Interrogatorio del 24 maggio 1977 di Avegnano Vinicio, innanzi al sostituto procuratore Armati (DCPP nota n. 224/SCA Div.1o/Sez.3/16899/15 del 18 dicembre 2015, allegato 31)

   (217) Il 24 maggio 1977 il Nucleo investigativo dei Carabinieri di Roma informò la Procura di aver notificato l'invito in Procura per lo stesso 24 maggio 1977 ad Avegnano, mentre non era stato possibile rintracciare Olivetti in quanto «a dire della signorina Murgi Laura [...] cassiera del ristorante Olivetti sito in via Flaminia 716, trovavasi fuori Roma» (DCPP nota n. 224/SCA Div.1o/Sez.3/16899/15 del 18 dicembre 2015, allegato 30)

   (218) Verbale di confronto tra militanti dell'organizzazione «Ordine Nuovo», Paolo Aleandri e Sergio Calore, effettuato nell'ambito del procedimento penale sulla strage di Bologna dal sostituto procuratore Libero Mancuso il 13 dicembre 1984 (DCPP nota n. 224/SCA Div.1o/Sez.3/16899/15 del 18 dicembre 2015, allegato 64). La fonte di tali notizie viene indicata come il capitano dei Carabinieri Vecchioni, che faceva parte del gruppo «comandato dal Colonnello Cornacchia». Il colonnello Cornacchia, escusso sul punto su delega della Procura generale presso la Corte di appello di Roma (Procedimento penale n. R.G.P.G.n. 3/2014 – R.G.P.M.13369/2015) alla presenza dell'ufficiale di collegamento della Polizia di Stato delegato dalla Commissione (DCPP nota n. 224/SCA Div 1/ Sez. 3/11477/16 del 20 luglio 2016), ha nettamente smentito la circostanza, affermando che il nome Vecchioni non gli diceva nulla

   (219) In un rapporto dell'Arma del 12 febbraio 1977, relativo alla prima fase delle indagini, si delinea lo «spessore» di Pascucci, evidenziando alcune telefonate intercettate, effettivamente sospette sotto il profilo del traffico di armi, tra cui quelle di Guardigli con lo stesso Pascucci. In particolare, in una telefonata di Pascucci il 9 febbraio, quest'ultimo «passa» a Guardigli tale Giorgio, identificato dai Carabinieri in De Stefano Giorgio, dell'omonimo clan mafioso di Archi (RC). Nell'informativa viene anche evidenziata una telefonata di Guardigli l'11 febbraio 1977 verso una utenza del Ministero dell'interno, nel corso della quale riferisce a tale «Giuseppe» (il maresciallo Gueli) che verso le 17 arriverà a casa sua «la prima persona dell'elenco che lui ha fornito, cioè Frank Coppola». Guardigli, peraltro, riferirà allo stesso Gueli di aver incontrato Frank Coppola a casa di Pascucci; dette affermazioni furono confermate all'Autorità giudiziaria sino alla ritrattazione: «Per quanto riguarda il mio incontro con Frank Coppola nella villa di Frascati del Pascucci, incontro che ho confermato di aver avuto anche nell'interrogatorio reso ieri alla S.V., debbo ammettere di essermi sbagliato perché io Frank Coppola non l'ho mai visto. In casa del Pascucci c'erano varie persone fra cui un signore anziano che non so che rapporto di parentela avesse con il Pascucci. Fu quest'ultimo a parlarmi di «Zi’ Ciccio» e cioè Frank Coppola a proposito della mia richiesta se conoscesse qualcuno interessato a case prefabbricate. Il Pascucci mi disse che si sarebbe interessato e che molto probabilmente il Coppola avrebbe avuto interesse alla cosa».Quest'ultima dichiarazione, seppure riduttiva del ruolo di Frank Coppola, fornisce comunque ulteriore conferma dell'esistenza di rapporti tra il predetto e Aldo Pascucci. (DCPP nota n. 224/SCA Div.1o/Sez.3/16899/15 del 18 dicembre 2015, allegati 9 e 51)

   (220) La nota è contenuta tra il materiale del Comando generale dell'Arma dei carabinieri relativo al filone Moro, trasmesso alla Commissione il 12 novembre 2015 dal Ministero della difesa. Si tratta della nota originata dal SISMI N. 01/993 del 30 maggio 1978. Allo stato non sono stati riscontrati altri seguiti

   (221) Resoconto stenografico dell'audizione del 28 settembre 2016 di Giancarlo Armati presso la Commissione

   (222) Resoconto stenografico dell'audizione del 5 ottobre 2016 di Antonio Federico Cornacchia presso la Commissione

   (223) G. Falanga, Schleyer e Moro: due sequestri illustri a confronto: un documento inedito della Stasi, in «Storiografia» XVIII, 2014, pp. 91-107. Il documento è riprodotto alle pp. 102-106

   (224) Resoconto stenografico dell'audizione di Gianluca Falanga, 20 luglio 2016

   (225) Agli atti della Commissione è stata acquisita copia dei due rapporti dei Carabinieri del 29 gennaio 1977. (DCPP nota n. 224/SCA Div.1o/Sez.3/16899/15 del 18 dicembre 2015, allegati 6 e 7)

   (226) «Aldo» si identifica per Pascucci Aldo, persona che avrebbe presentato Tullio Olivetti a Guardigli

   (227) Si vedano i rapporti dei Carabinieri del 18 febbraio e del 20 aprile 1977. (DCPP nota n. 224/SCA Div.1o/Sez.3/16899/15 del 18 dicembre 2015, allegati 10 e 18)

   (228) Del 20 aprile 1977 (DCPP nota n. 224/SCA Div.1o/Sez.3/16899/15 del 18 dicembre 2015, allegato 18)

   (229) M. Guarino, L'intreccio inconfessabile tra ’ndrangheta, massoneria e apparati dello Stato, Bari, Dedalo, 2004

   (230) Nota DIA n. 123/GAB( (2o) di prot. 997/2015/NC del 7 agosto 2015

   (231) Nota DIA n. 123/GAB( (2o) di prot. 997/2015/NC del 7 agosto 2015

   (232) Richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti del senatore Andreotti per l'omicidio Pecorelli, pp. 30-31 (Senato della Repubblica, XI legislatura, Doc. IV, n. 169)

   (233) Ivi

   (234) Il ragionamento portante del documento esprime la valutazione che i Servizi segreti italiani sarebbero riusciti a penetrare all'interno dell'organizzazioni terroriste e ad orientarne l'evoluzione e, dopo aver ottenuto informazioni sui crimini in preparazione, avrebbero reagito soltanto contro quelli che non rientravano nei loro piani politici, creando in tal modo le condizioni per l'attività di alcuni gruppi a loro utili o al contrario soffocandone altri. In questa «riconversione» dell'azione dei terroristi «direttamente o indirettamente» i Servizi segreti sarebbero stati «coinvolti e portano la responsabilità per l'uccisione di Aldo Moro». Tutto ciò in un quadro orientato contro gli interessi del PCI al quale comunque non vengono risparmiate critiche

   (235) Il RIS precisa che «pur essendo, questo, un forte elemento di compatibilità fra le due immagini, tale statura risulta essere prossima alla media della popolazione dell'epoca, rendendo meno discriminatorio tale parametro»

   (236) Doc. 709/01 dell'archivio della Commissione.