CAMERA DEI DEPUTATI
Martedì 18 settembre 2012
705.
XVI LEGISLATURA
BOLLETTINO
DELLE GIUNTE E DELLE COMMISSIONI PARLAMENTARI
Affari costituzionali, della Presidenza del Consiglio e Interni (I)
COMUNICATO

TESTO AGGIORNATO AL 25 SETTEMBRE 2012

Pag. 6

UFFICIO DI PRESIDENZA INTEGRATO DAI RAPPRESENTANTI DEI GRUPPI

  Martedì 18 settembre 2012.

  L'ufficio di presidenza si è riunito dalle 12.40 alle 12.45.

SEDE REFERENTE

  Martedì 18 settembre 2012. — Presidenza del presidente Donato BRUNO

  La seduta comincia alle 12.45.

Adeguamento alla media europea degli stipendi, emolumenti, indennità degli eletti negli organi di rappresentanza nazionale e locale.
C. 5105 d'iniziativa popolare e C. 5377 Sbrollini.

(Seguito dell'esame e rinvio).

  La Commissione prosegue l'esame del provvedimento, rinviato, da ultimo, nella seduta del 13 settembre 2012.

  Donato BRUNO, presidente, nessuno chiedendo di intervenire, rinvia quindi il seguito dell'esame ad altra seduta.

Modifiche alla Parte seconda della Costituzione concernenti le Camere del Parlamento e la forma di Governo.
C. 16 cost. Zeller, C. 441 cost. Amici, C. 650 cost. D'Antona, C. 978 cost. Bocchino, C. 2168 cost. Baccini, C. 2473 cost. Casini, C. 2816 cost. Jannone, C. 2902 cost. Versace, C. 3068 cost. Luciano Dussin, C. 3573 cost. Calearo Ciman, C. 3738 cost. Mario Pepe (PdL), C. 4051 cost. Calderisi, C. 4282 cost. Sardelli, C. 4315 cost. Mantini, C. 4490 cost. Antonio Pepe, C. 4514 cost. Donadi, C. 4691 cost. Della Vedova, C. 4847 cost. Calderisi, C. 4915 cost. Vassallo, Pag. 7C. 5053 cost. Bossi, C. 5120 cost. La Loggia, C. 5337 cost. Maran e C. 5386 cost., approvato dal Senato.

(Seguito dell'esame e rinvio).

  La Commissione prosegue l'esame del provvedimento, rinviato, da ultimo, nella seduta del 13 settembre 2012.

  Donato BRUNO, presidente, comunica che è stata avanzata la richiesta che la pubblicità dei lavori sia assicurata anche mediante l'attivazione dell'impianto audiovisivo a circuito chiuso. Non essendovi obiezioni, ne dispone l'attivazione.

  Alessandro MARAN (PD) rileva come la crisi istituzionale – con la crisi fiscale e la crisi morale – costituisca il terzo pezzo che va ad ingrossare la «grande slavina» descritta da Luciano Cafagna nel celebre saggio ristampato nel ventennale di Tangentopoli. La crisi istituzionale è l'incapacità dei partiti di rimediare al peccato originale dei padri costituenti, l'insoddisfacente assetto costituzionale della forma di governo, quella partitocrazia assembleare che è all'origine della coabitazione generale e dello smembramento della sovranità, e dunque della cedevolezza dei governi di fronte a domande sociali che in altri paesi venivano controllate e indirizzate in modo più efficace.
  La ormai definitiva paralisi del negoziato in corso da molti mesi sull'auspicata riforma della legge elettorale ripropone, a suo avviso, lo scenario inaccettabile di un Parlamento inconcludente e incapace di produrre una qualsiasi concreta riforma. Si profila il definitivo blocco del processo riformatore: nessuna riduzione del numero dei parlamentari (contenuta nel testo approvato dal Senato); nessuna riforma del bicameralismo perfetto; nessuna nuova legge elettorale, che consenta ai cittadini di scegliere al contempo rappresentanti e Governo.
  Rileva come ora, in prossimità della conclusione della legislatura, si sia giunti ad un bivio: è meglio rassegnarsi all'impotenza riformatrice dell'attuale Parlamento e affidare l'elezione del nuovo Parlamento alla vecchia legge elettorale, o promuovere un ulteriore tentativo per produrre il cambiamento che tutti a parole considerano necessario ?
  Fa presente che si può propendere per la seconda soluzione a condizione che si tenga realisticamente conto delle posizioni in campo e di quanto si è prodotto finora nel voto di prima lettura, al Senato, sulla riforma istituzionale. Rileva come la I Commissione sta esaminando la riforma della Costituzione, approvata dal Senato, che introduce l'elezione diretta del Presidente della Repubblica e prevede, con soluzioni incerte e contraddittorie, un nuovo Senato «federale». Come è noto, al Senato si è prodotta una profonda divisione nel voto degli emendamenti e del testo finale, tanto da far ritenere molto difficile una definitiva approvazione della riforma, considerati i diversi rapporti di forza fra i gruppi alla Camera e le differenti posizioni espresse.
  In questo drammatico contesto di totale paralisi, ritiene sia necessario un profondo mutamento delle posizioni assunte fino ad oggi, così da consentire una lettura alla Camera del testo approvato dal Senato in grado di introdurre le modifiche sufficienti a renderlo coerente e razionale: una seria riforma della forma di governo in senso semipresidenziale, che preveda il doppio turno per l'elezione del Parlamento, accanto ad un nuovo Senato, che superi l'attuale bicameralismo perfetto e svolga prevalentemente la funzione di Camera delle Autonomie. La legislatura formalmente ha davanti ancora tempo sufficiente per svolgere questo compito. Servirebbe ciò che finora è mancato: uno sforzo convinto delle forze politiche, a partire da quelle che sostengono il governo Monti.
  Rileva come la Repubblica italiana sia già cambiata, spesso in modo involontario e imprevisto (al punto che Ilvo Diamanti l'ha definita argutamente una «Repubblica preterintenzionale») e oggi risulta incompiuta, a metà. Il nodo irrisolto non riguarda tanto, a suo avviso, la legge elettorale quanto la forma di governo, Pag. 8cioè la qualità della forma di Stato. È da tempo che la premiership è diventata la vera e fondamentale posta in gioco. Al punto che si è fatto dell'investitura popolare diretta il perno attorno al quale ruota il sistema, senza, peraltro, introdurre alcun serio contrappeso. Sono passati diciannove anni da quando i cittadini hanno risposto inequivocabilmente alla domanda alla base del referendum del 1993, in base alla quale si chiedeva se sono i partiti o i cittadini a scegliere il governo, e se questo risponde ai partiti o ai cittadini. È dal 1993 che ci si è abituati ad eleggere direttamente sindaci, presidenti di provincia e (poi) di regione.
  Nel frattempo, nella considerazione degli italiani, i partiti e il Parlamento hanno toccato il punto più basso. E si potrebbe continuare: nel 2001, i nomi di Rutelli e Berlusconi erano indicati sulla scheda elettorale; con le primarie si scelgono ormai d'abitudine i candidati per le cariche monocratiche e con le primarie sono stati scelti il segretario nazionale e i segretari regionali del Partito democratico, facendo «volare» le decisioni individuali di moltissimi cittadini là dove non erano mai arrivate, nella scelta dei massimi dirigenti. Senza contare che il quadro che emerge dalle trasformazioni degli ultimi vent'anni assegna ai vertici dell'Esecutivo italiano il predominio e la regia della produzione legislativa, autosufficienza ed espansione organizzativa e il crocevia dei rapporti con gli enti locali e la comunità internazionale.
  Evidenzia, insomma, come la politica presidenziale sia diventata ormai parte integrante della nostra scena nazionale. Anche se ancora non si è trasformata in un nuovo equilibrio istituzionale. Sbaglierà, ma non crede che il parlamentarismo limitato, il sistema tedesco (magari «alle vongole») o la riduzione dei parlamentari possano bastare: too late, too little, direbbero gli americani. Anche perché, come ha spiegato Giovanni Sartori, «la costruzione di un sistema di premiership sfugge largamente alla presa dell'ingegneria costituzionale. Le varianti britannica o tedesca di parlamentarismo limitato (di semi-parlamentarismo) funzionano come funzionano soltanto per la presenza di condizioni favorevoli». E come abbiamo visto «un passaggio «incrementale», a piccoli passi, dal parlamentarismo puro al parlamentarismo con premiership rischia di inciampare ad ogni passo». Non per caso, Sartori ritiene che «in questi casi la strategia preferibile non è quella del gradualismo, ma piuttosto una terapia d'urto. Insomma, le probabilità di riuscita sono minori nella direzione del semi-parlamentarismo, e maggiori se si salta al semi-presidenzialismo».
  Fa presente come il guaio è che oggi in molti prendono atto che non è possibile praticare la vecchia forma della partecipazione alla politica, ma continuano a ritenere che quella forma della partecipazione alla politica e quel sistema politico siano i migliori. E dunque cercano di avvicinarsi a quel modello e di salvare più elementi possibile di quella esperienza. Ma questo atteggiamento nasce, a suo avviso, da una visione statica e conservatrice.
  Evidenzia come il vecchio sistema dei partiti non torna più, neppure ripristinando proporzionale e preferenze. La «metamorfosi» è già avvenuta. Nel vecchio sistema ci si faceva cittadini nel partito e del partito, perché non si riusciva ad esserlo interamente nello Stato e dello Stato. Adesso che l'identificazione e l'appartenenza (all'ideologia, all'utopia, alla morale del partito) non ci sono più, l'unica strada praticabile è quella di esaltare la possibilità della scelta, la responsabilità della scelta, l'esercizio della cittadinanza nello Stato. Non si tratta di una questione tecnico-istituzionale, ma di una questione etico-politica. Caduti gli stimoli del passato, bisogna chiedersi come si riattiva la partecipazione alla politica. Si chiede: non è per questo che il suo partito ha scelto le primarie ? Il rispetto della competenza decisionale degli individui non è forse l'unica risposta possibile a una crisi di fiducia ormai incontenibile ?Pag. 9
  Forse si dovrebbe guardare di più alle tendenze di fondo della società, comuni a tutti i paesi avanzati: dalla struttura economica all'eguaglianza di genere, dalla natura della famiglia all'individualizzazione dei valori. In tutte le società industriali avanzate, le condizioni di prosperità economica raggiunte hanno modificato i nostri valori. Ora, rispetto alle generazioni del periodo postbellico, l'auto-espressione, la qualità della vita, la scelta individuale sono diventate centrali. E questa nuova visione del mondo si accompagna a una de-enfatizzazione di tutte le forme di autorità. Insomma, invece di essere diretti dalle élite, tutti s'impegnano in attività dirette a sfidare le élite.
  Quello che è avvenuto in questo ventennio non è una parentesi antistorica, un'invasione degli Hyksos. E non c’è modo, a suo avviso, di ripristinare il vecchio sistema con un intervento di restauro. Oggi la classe politica (tutta) e la politica come attività, sono completamente delegittimate agli occhi dei cittadini. La gente ha perso la fiducia nei partiti e il sentimento prevalente è che i politici sono inutili, non fanno il loro mestiere e pensano solo ad arricchirsi.
  Rileva come l'erosione della fiducia dei cittadini nei loro dirigenti e nelle istituzioni politiche sia diventata uno dei fenomeni più studiati dalla scienza politica negli ultimi vent'anni. Pierre Rosanvallon ha scritto «La politique à l’âge de la défiance»; e in un libro pubblicato non molto tempo fa da Polity Press con un titolo emblematico, «Why We Hate Politics», Colin Hay ha esaminato le ragioni della disaffezione per la politica e del disimpegno nelle società occidentali.
  Sottolinea quindi come bisognerà farsene una ragione: oggi nessuno partecipa più alla politica come in passato. Per questo occorre passare definitivamente da una concezione e da una pratica politica fondate su una dichiarazione e una scelta di appartenenza a quelle fondate sulla responsabilità della scelta per il governo del paese. Specie se si considera che il nostro paese deve fare i conti non solo con il malessere che, dovunque in Occidente, circonda l'attività politica, ma anche con una dirompente sfiducia nello Stato. Una costante nella storia d'Italia che la mancata modernizzazione del paese ha aggravato al punto che oggi è in discussione la stessa unità nazionale.
  Il punto (di nuovo, la questione etico-politica) è, a suo avviso, che oggi solo la leadership può essere una risposta alla crisi di legittimazione. Ogni ipotesi di riforma istituzionale che evochi il «presidenzialismo» in qualunque forma, è motivo di sospetto prima ancora che di ragionata opposizione. Ma quello che sta accadendo da mesi è la prova evidente della necessità di dotare il nostro sistema politico di competenze di governo che abbiano la legittimità e la forza di aggregare decidendo, soprattutto di fronte alla crescente dispersione delle rappresentanze degli interessi.
  Ma, allora, visto che bisogna ricostruire il sistema dei checks and balances tra poteri e istituzioni dello Stato, si chiede perché non è il centrosinistra ad avanzare e precisare il tema del (semi)presidenzialismo (non è forse una «strada europea» ?) come complemento necessario dell'Italia «federale».
  Ritiene sia tempo di riconoscere la necessità di uno Stato più leggero (il che significa ridurre le occasioni di intermediazione della politica nel funzionamento della società e dell'economia) e di istituzioni più forti.
  Ricorda come Enrico Berlinguer, nella celebre intervista concessa a Eugenio Scalfari nel luglio del 1981, espresse con parole appassionate la sua condanna del sistema dei partiti e della loro degenerazione. Ma denunciando la «questione morale» come la questione più importante del paese, senza avanzare contemporaneamente proposte ed ipotesi per la riforma delle istituzioni che, per dirla con uno slogan, «restituissero lo scettro» ai cittadini, Enrico Berlinguer condannò se stesso e il suo partito ad una pura azione di denuncia e testimonianza, altissima certo ma sterile. Pag. 10
  Oggi come allora quel che occorre è un'ipotesi di riforma delle istituzioni in grado di scongiurare davvero il rischio di un decadimento della democrazia.

  Salvatore VASSALLO (PD) rileva che una riforma istituzionale dovrebbe oggi tendere a due obiettivi fondamentali: quello di ridare legittimità al Parlamento di fronte all'opinione pubblica e quello di dare al Paese una forma di governo tale che renda chiare le responsabilità di governo.
  Quanto al primo obiettivo, ritiene che il provvedimento approvato dal Senato sia largamente insufficiente. Il problema è infatti che in nessun Paese che abbia una democrazia stabilizzata e una forma di governo parlamentare o semi-presidenziale esiste il bicameralismo perfetto, ossia un Parlamento composto da due Camere omogenee per composizione e identiche per funzioni. Si tratta di un unicum che aveva debolissime giustificazioni nel 1948 – nacque infatti per un compromesso politico che non soddisfaceva nessuno – e che non ne ha nessuna oggi che l'ambito della legislazione statale è stato progressivamente eroso dalla competenza normativa delle regioni, delle autorità indipendenti e dell'Unione europea e che il Governo, dopo le riforme del 1993, ha assunto un crescente potere normativo, attraverso la delegificazione, le deleghe legislative e un ricorso massiccio alla decretazione d'urgenza: è infatti sotto gli occhi di tutti che le proposte di legge di iniziativa parlamentare per lo più languono per anni nelle Commissioni, mentre grandi riforme sono approvate in poche ore con maxiemendamenti del Governo. In questo contesto, non c’è ragione che spieghi un Parlamento con due Camere che svolgono le stesse funzioni e per di più composto da circa mille parlamentari, salvo la resistenza corporativa dei suoi componenti.
  È indispensabile, a suo avviso, allinearsi alle altre democrazie mature, differenziare le prerogative e le funzioni delle Camere e ridurre il numero dei parlamentari. Il testo del Senato conserva invece il bicameralismo paritario, inventando, per giustificarlo, una ripartizione di competenze legislative per materia basata sui problematici elenchi di materie di cui ai commi secondo e terzo dell'articolo 117 della Costituzione e su una valutazione della materia prevalente in ogni progetto di legge affidata a due sole persone, ossia ai Presidenti delle Camere, i quali quindi da soli deciderebbero in modo insindacabile quale Camera esamina quale provvedimento.
  Quanto al secondo obiettivo, quello della revisione della forma di governo, ricorda che 15 parlamentari del gruppo del Partito democratico, tra i quali lui stesso, con una lettera aperta apparsa sulla stampa questa mattina hanno espresso al segretario del Partito il proprio convincimento che al Paese occorra la forma di Governo semipresidenziale, in quanto l'unica in grado di restituire alla politica il suo ruolo, di contrastare l'antipolitica e di dare all'Italia Governi solidi e forti, in grado di affrontare crisi drammatiche come quella attuale. Quanto al fatto che il sistema semipresidenziale rappresenterebbe un rischio per gli equilibri istituzionali, come sostenuto in diversi interventi, fa presente che la letteratura scientifica ha abbondantemente dimostrato che rischi non ve ne sono.
  Per quanto riguarda poi l'introduzione del doppio turno per l'elezione del Parlamento, anch'essa propugnata dai quindici parlamentari del Partito democratico sottoscrittori della lettera aperta, premesso che non c’è un nesso necessario tra il semipresidenzialismo e il doppio turno, sottolinea che quest'ultimo potrebbe in teoria anche da solo dar vita ad un sistema di investitura diretta del primo ministro da parte del corpo elettorale. La ragione per la quale si ritengono necessari entrambi – il doppio turno e il semipresidenzialismo – è che in un sistema partitico destrutturato come quello italiano, con un forte rischio di frantumazione dell'offerta, il doppio turno da solo potrebbe non essere sufficiente a far raggiungere gli effetti desiderati. D'altra parte, il doppio turno Pag. 11abbinato al sistema parlamentare comporta più rischi per gli equilibri istituzionali rispetto al doppio turno con sistema semipresidenziale: infatti nel primo caso, la stessa maggioranza parlamentare formatasi con il voto elettorale sceglie sia il Presidente della Repubblica, sia il Presidente del Consiglio.
  Osserva infine che il problema del semipresidenzialismo sta, casomai, nel rischio che i poteri di governo del Presidente della Repubblica entrino in conflitto con quelli del Presidente del Consiglio, in caso di distonia di orientamento politico tra i due, per cui occorre prestare attenzione ad evitare sovrapposizioni tra i loro poteri.
  In conclusione, ritiene che il dibattito sia a questo punto a un bivio. Se il Partito democratico accetterà di prendere in considerazione l'ipotesi del semipresidenzialismo, ci saranno le condizioni per lavorare seriamente; diversamente sarà meglio che il Parlamento rinunci a questo dibattito, concentrandosi su altri scenari, così da evitare di ingenerare nell'opinione pubblica l'idea che si tratti di un «teatrino» utile solo a perdere tempo per non fare l'unica riforma che gli italiani vogliono con forza, ossia la riduzione del numero dei parlamentari.

  Pietro LAFFRANCO (PdL) ritiene che la «lettera aperta», pubblicata oggi dal Corriere della sera, e scritta da quindici esponenti del Partito democratico, costituisca il vero elemento importante del dibattito odierno.
  Ritiene, infatti, che le ragioni in base alle quali il gruppo del Popolo delle libertà ha sostenuto la riforma semipresidenziale approvata dal Senato siano ormai chiare e sono state puntualmente illustrate dal collega Calderisi, in qualità di relatore.
  Ritiene quindi che la giornata odierna costituisca un momento decisivo per molti aspetti. Evidenzia, infatti, come i tempi per approvare una riforma costituzionale siano ormai molto stretti, anche nel caso di conclusione della legislatura alla sua scadenza naturale.
  Ritiene dunque che l'elemento nuovo sia rappresentato dalla proposta politica formulata da un numero congruo di esponenti del Partito democratico su cui occorre, a suo avviso, confrontarsi subito.
  Fa presente di non avere alcuna intenzione di strumentalizzare tale proposta politica ma ritiene che essa contenga elementi di straordinaria ragionevolezza.
  Rileva oltretutto come una riforma in senso semi-presidenziale sarebbe condivisa dalla grande maggioranza degli italiani. Al contempo, la riduzione del numero dei parlamentari costituirebbe una risposta importante alla crisi profonda della politica, aggravata anche da recenti comportamenti indegni; accanto a ciò si approverebbe un sistema in grado di superare l'attuale bicameralismo perfetto. Tali misure, oltre a rappresentare elementi di innovazione positivi sotto il profilo costituzionale, potrebbero contribuire a recuperare il rapporto tra politica e cittadini, attraverso uno snellimento delle procedure parlamentari, una riduzione dei tempi della politica nel dare risposte alle sfide sempre più pressanti, una diminuzione del numero dei parlamentari, già contenuta nel testo sottoposto poi a referendum nel 2006, con cui fu respinta la riforma costituzionale varata nella XIV Legislatura.
  Sottolinea quindi come, seppure ci si trovi di fronte ad un testo sicuramente «perfettibile» in taluni aspetti, la fase attuale sia di particolare rilievo, essendo tutti dinanzi ad un crinale e ad un'occasione preziosa da non perdere.
  Com’è noto, l’iter parlamentare della legge elettorale si trova ora in una situazione particolarmente complessa; nonostante ciò vi è un'occasione straordinaria davanti – quella delle riforme oggi in discussione – e sarebbe delittuoso non tenerne conto. A parte le rivendicazioni dei singoli partiti, l'unico risultato che si produrrebbe, se non si approvassero, sarebbe quello di una crescita del sentimento Pag. 12di profonda sfiducia dei cittadini verso le istituzioni.
  Evitando strumentalizzazioni, ribadisce quindi l'invito a tutti a «giocare senza carte truccate» su questo campo. Prescindendo dai tornaconti elettorali dei singoli va tenuto conto che ci si sta giocando l'ultimo residuo di credibilità nella politica e nelle istituzioni, aggravata dalla crisi economica in atto, che in gran parte viene ricondotta alla stessa politica.
  Approvare questa riforma sarebbe dunque un grande passo in avanti per l'Italia anche a livello di credibilità istituzionale.

  Oriano GIOVANELLI (PD), ritiene doveroso svolgere il suo intervento nella seduta odierna, e non rimandarlo ad altra seduta, per non lasciare senza risposta alcune argomentazioni svolte dai colleghi intervenuti prima di lui, da ultimo il collega Laffranco.
  Sono due le considerazioni che intende fare. La prima riguarda il fatto che lo sforzo per attuare una riforma costituzionale deve essere credibile, deve essere inserito in un contesto politico adeguato, deve possedere un pre-requisito di serietà. Tutte cose che, a suo avviso, mancano al testo approvato al Senato.
  Con riguardo al contesto politico, ricorda come il gruppo del partito Democratico, il secondo partito per consistenza presente in Parlamento, al Senato non ha partecipato al voto. Si rivolge in particolare ai colleghi intervenuti oggi prima di lui che si sono impegnati in riflessioni di notevole spessore sul tema del semipresidenzialismo. Ma se manca il requisito politico, viene meno tutto.
  La seconda considerazione che desidera svolgere concerne un tema di riflessione che nasce da anni di discussione sulle riforme costituzionali. Troppo spesso, infatti, si confondono i problemi strettamente e squisitamente politici con presunte carenze della Costituzione. Non è colpa della Costituzione se è caduto il secondo Governo Prodi, formato da una coalizione in cui alcuni ministri manifestavano contro il Governo; e non è colpa della Costituzione se il conflitto tra Berlusconi e Fini ha condotto in questa legislatura al venir meno di un'amplissima maggioranza. Dare la colpa della crisi della politica alla Costituzione è un travisamento e una distorsione della realtà.
  La Costituzione non rappresenta un impaccio alla vita democratica. Sicuramente sono necessari alcuni correttivi: il superamento del bicameralismo paritario, l'istituzione di un Senato federale – non certo quello prospettato nel testo di riforma approvato al Senato –, la creazione di corsie preferenziali per i provvedimenti del Governo, la riduzione del numero dei parlamentari.
  Sottolinea però come la Costituzione e l'assetto istituzionale vigente hanno permesso al Parlamento nella sua centralità di porre argine alla crisi economica e politica con la formazione del governo Monti, evitando elezioni anticipate, inevitabili con altri sistemi istituzionali. Ciò inoltre è stato possibile per il ruolo di garanzia che la Costituzione affida al Presidente della Repubblica.
  La Costituzione non è quindi la causa dell'incapacità della politica di risolvere la propria crisi ma, al contrario, costituisce un elemento fondamentale di tenuta e di equilibrio dell'intero sistema.

  Gianclaudio BRESSA (PD), intervenendo in qualità di rappresentante in Commissione del gruppo del Partito democratico, anziché in veste di relatore, sottolinea che i colleghi Maran e Vassallo sono intervenuti a titolo personale e che i quindici parlamentari, tra deputati e senatori, sottoscrittori della lettera aperta al segretario del Partito democratico rappresentano una minoranza, seppur autorevole, del partito stesso e del suo gruppo parlamentare, la cui posizione è diversa.

  Donato BRUNO, presidente, nessun altro chiedendo di intervenire, rinvia quindi il seguito dell'esame ad altra seduta.

Pag. 13

Disposizioni in materia di conflitti di interessi.
C. 442 Bressa, C. 1915 Di Pietro, C. 2664 Colombo, C. 2668 Veltroni e C. 4874 Cambursano.

(Seguito dell'esame e rinvio).

  La Commissione prosegue l'esame del provvedimento, rinviato, da ultimo, nella seduta del 13 settembre 2012.

  Donato BRUNO, presidente, nessuno chiedendo di intervenire, rinvia quindi il seguito dell'esame ad altra seduta.

  La seduta termina alle 13.30.

AVVERTENZA

  Il seguente punto all'ordine del giorno non è stato trattato:

SEDE REFERENTE

Istituzione della Commissione nazionale per la promozione e la protezione dei diritti umani.
Testo base C. 4534 Governo, approvato dal Senato, C. 1720 Giulietti e C. 1918 Maran.