CAMERA DEI DEPUTATI
Martedì 22 settembre 2009
220.
XVI LEGISLATURA
BOLLETTINO
DELLE GIUNTE E DELLE COMMISSIONI PARLAMENTARI
Affari sociali (XII)
COMUNICATO
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AUDIZIONI

Martedì 22 settembre 2009. - Presidenza del presidente Giuseppe PALUMBO. - Interviene il viceministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali Ferruccio Fazio.

La seduta comincia alle 12.05.

Audizione del viceministro della lavoro, della salute e delle politiche sociali, professor Ferruccio Fazio, sui rischi per la salute della popolazione derivanti dalla diffusione in Italia del virus A-H1N1 e sulle iniziative adottate dal Governo per fronteggiare l'eventuale epidemia.
(Svolgimento, ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del regolamento, e conclusione).

Giuseppe PALUMBO, presidente, avverte che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata, oltre che mediante impianti audiovisivi a circuito chiuso, anche attraverso la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati. Introduce quindi l'audizione.

Il viceministro Ferruccio FAZIO svolge una relazione sui temi oggetto dell'audizione.

Intervengono per formulare quesiti ed osservazioni i deputati Lucio BARANI (PdL), Domenico DI VIRGILIO (PdL), Paola BINETTI (PD), Luciana PEDOTO (PD), Luciano Mario SARDELLI (Misto-MpA-Sud),

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Luisa BOSSA (PD) e Donato Renato MOSELLA (PD), il quale invita, altresì, la presidenza a valutare l'opportunità che la Commissione sia convocata permanentemente, per seguire gli sviluppi della situazione oggetto dell'audizione.

Giuseppe PALUMBO, presidente, osserva che l'esigenza prospettata dal collega Mosella potrà essere valutata in sede di ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi.

Intervengono quindi per formulare quesiti ed osservazioni i deputati Laura MOLTENI (LNP), Vittoria D'INCECCO (PD), Maria Antonietta FARINA COSCIONI (PD) e Giuseppe PALUMBO, presidente.

Il viceministro Ferruccio FAZIO fornisce ulteriori precisazioni.

Giuseppe PALUMBO, presidente, ringrazia il viceministro per l'esauriente relazione svolta e dichiara conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 13.25.

N.B.: Il resoconto stenografico della seduta è pubblicato in un fascicolo a parte.

SEDE CONSULTIVA

Martedì 22 settembre 2009. - Presidenza del presidente Giuseppe PALUMBO. - Interviene il sottosegretario di Stato per il lavoro, la salute e le politiche sociali Eugenia Maria Roccella.

La seduta comincia alle 13.30.

Norme in favore dei lavoratori che assistono familiari gravemente disabili.
Nuovo testo unificato C. 82 Stucchi e abb.

(Parere alla XI Commissione).
(Seguito dell'esame e conclusione - Parere favorevole con osservazione).

La Commissione prosegue l'esame del provvedimento in titolo, rinviato nella seduta del 16 settembre 2009.

Giuseppe PALUMBO, presidente, ricorda che nella seduta del 16 settembre scorso è stata svolta la relazione e sono intervenuti alcuni deputati.

Carmelo PORCU (PdL), relatore, ribadisce la sua proposta di parere favorevole con osservazione (vedi allegato), preannunciata nella seduta precedente.

Nessuno chiedendo di intervenire, la Commissione approva la proposta di parere del relatore.

La seduta termina alle 13.35.

SEDE REFERENTE

Martedì 22 settembre 2009. - Presidenza del presidente Giuseppe PALUMBO - Interviene il sottosegretario di Stato per il lavoro, la salute e le politiche sociali Eugenia Maria Roccella.

La seduta comincia alle 13.35.

Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento.
C. 2350, approvata in un testo unificato dal Senato, C. 625 Binetti, C. 784 Rossa, C. 1280 Farina Coscioni, C. 1597 Binetti, C. 1606 Pollastrini, C. 1764-bis Cota, C. 1840 Della Vedova, C. 1876 Aniello Formisano, C. 1968-bis Saltamartini, C. 2038 Buttiglione, C. 2124 Di Virgilio e C. 2595 Palagiano.

(Seguito dell'esame e rinvio).

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La Commissione prosegue l'esame del provvedimento, rinviato, da ultimo, nella seduta del 16 settembre 2009.

Giuseppe PALUMBO, presidente, avverte che è stato richiesto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sia assicurata anche attraverso l'attivazione dell'impianto audiovisivo a circuito chiuso. Non essendovi obiezioni, dispone l'attivazione del circuito.

Massimo POLLEDRI (LNP) osserva che dibattito sul «fine vita» ha assunto carattere di complessità e, per molti aspetti, di confusione, sul piano del merito e, parallelamente, sul piano del metodo. Vi è necessità di chiarezza, al tempo stesso, quanto: ai termini che vengono adoperati; ai principi cui si fa riferimento; agli obiettivi che si intendono raggiungere; al ruolo della magistratura italiana e di talune sue autorevoli pronunce; alle conseguenze di un intervento legislativo nella materia, pur finalizzato ad arginare lo straripamento dei giudici; alla configurazione del nuovo assetto normativo; alle modalità politiche per giungervi. Su ciascuno di questi aspetti, se si prova a fare un confronto con l'esperienza che il Parlamento italiano ha vissuto fino al 2004 a proposito della proposta di legge sulla fecondazione artificiale - materia egualmente complessa e fonte, per una lunga fase iniziale, di confusione -, si colgono nella situazione attuale più differenze che analogie.
Per quanto scontato possa apparire, il punto di partenza è il valore della vita e i quesiti che ruotano attorno ad esso: la domanda, cioè, se la vita abbia sempre, in ogni momento e in ogni circostanza, un identico valore o se si debba riconoscere, come si sostiene da parte dei fautori del testamento biologico, che esiste una vita «meramente biologica», che per sua natura non è libera e, dunque, non è dignitosa o è meno dignitosa, di guisa che, in taluni casi, è consentito al tutore del malato incapace di esprimere la volontà di interrompere la vita «meramente biologica» di quel paziente (vengono subito alla mente i casi di Eluana Englaro e di Terry Schiavo), o se, ancora, costituisca esercizio di un diritto la scelta di una «morte dignitosa» che cancelli una vita pur cosciente e non meramente biologica, ma divenuta per il paziente insopportabile. Qui riaffiora il ricordo del «caso Welby»,della sentenza penale e della decisione disciplinare che lo hanno concluso. La sentenza del Giudice dell'udienza preliminare. di Roma e il provvedimento dell'Ordine dei medici di Cremona hanno affermato che Piergiorgio Welby non aveva solo il potere di rifiutare la ventilazione artificiale che lo teneva in vita, ma aveva il diritto soggettivo di farlo e di ottenere per questo l'assistenza medica necessaria; e perciò il medico che lo ha assistito è stato assolto con l'impegnativo dispositivo: «per adempimento di un dovere».
In base a queste pronunce, sembra dunque che si configurino ipotesi di «vita di minor valore», o a causa dell'incoscienza irreversibile del soggetto o a causa delle sofferenze che lo coinvolgono. In questi casi, si dovrebbe dare spazio all'interruzione della vita: non solo nel senso che viene rispettata la volontà attuale del paziente che rifiuti una cura pur utile, ma nel senso che le strutture mediche sarebbero tenute (o quanto meno legittimate) a rimuovere i meccanismi che tengono in vita il paziente e a prestargli assistenza in una simile operazione. Questa rimozione o rinuncia alle cure potrebbe poggiare anche su una volontà espressa ma non attuale del paziente (testamento biologico o - ciò che è diventato equivalente - dichiarazione anticipata di trattamento), o sulla decisione di un terzo, che trovasse un qualche appiglio in una scelta del paziente solo ipotizzata o supposta.
Addirittura, dalle decisioni della Corte di cassazione e della Corte di appello di Milano sul «caso Englaro» emerge, capovolgendo un ordine logico, che solo una espressa, preventiva scelta del paziente in favore della vita potrebbe impedire al tutore di ordinare di «staccare la spina». Questa tematica, sull'esistenza di circostanze in cui la vita è meno meritevole di essere vissuta, interferisce, in qualche misura, con un'altra tematica, da porsi e da

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affrontare in termini assolutamente laici: con la domanda se la vita costituisca un bene disponibile e, dunque, se la scelta di morte compiuta per sé da un soggetto imponga ad altri (medici e non) un obbligo di attenersi a questa opzione.
A suo avviso, queste vicende si pongono, con tutta evidenza, oltre e al di fuori delle ipotesi di rifiuto dell'accanimento terapeutico: almeno se si segue l'opinione espressa dal Consiglio superiore della sanità in data 20 dicembre 2006, in base alla quale «nell'accezione più accreditata, per accanimento terapeutico si intende la somministrazione ostinata di trattamenti sanitari in eccesso rispetto ai risultati ottenibili e non in grado, comunque, di assicurare al paziente una più elevata qualità della vita residua, in situazioni in cui la morte si preannuncia imminente e inevitabile». Proprio alla stregua di questa definizione, si può ricordare che nei casi prima indicati la morte non si è mai presentata come «imminente»; anzi, è stata proprio la «non imminenza» della morte a giustificare la richiesta di porre fine alla vita del paziente e, dunque, a sollevare il problema se debba essere rispettato il suo rifiuto delle cure.
Spesso si richiama come risolutiva, in proposito, la Convenzione di Oviedo, in specie agli articoli da 5 a 9, relativi al «consenso informato». Lasciando da parte ogni considerazione circa il valore giuridico di tale Convenzione, va osservato, in primo luogo, come essa non contenga univoci elementi per consentire l'interruzione di una cura medica nei confronti di un paziente incapace di intendere e di volere, persino quando tale interruzione abbia formato oggetto di esplicite pregresse manifestazioni preventive dei desideri del paziente stesso. Prevede infatti l'articolo 9 della Convenzione: «i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell'intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione». Dunque, non afferma che tali desideri debbano essere necessariamente osservati da chi è legittimato a decidere e, in particolare, che debbano essere osservati quando la loro applicazione risulti mortale.
Si richiama spesso anche la Costituzione, facendo riferimento ai «trattamenti sanitari cui nessuno può essere obbligato» in forza del comma 2 dell'articolo 32. È evidente, a suo avviso, che alimentazione, idratazione e respirazione non costituiscono interventi sanitari; ciò senza trascurare che la Costituzione, a differenza della Convenzione di Oviedo, consente gli interventi sanitari contro la volontà del paziente, purché ciò avvenga in base ad una disposizione di legge. Dunque, afferma l'esistenza di valori che possono prevalere sulla volontà del paziente, valori fra cui non è azzardato collocare anzitutto la vita del paziente stesso.
Si aggiunge, sempre a sostegno del testamento biologico, che se alimentazione, idratazione e ventilazione artificiali fossero escluse dall'ambito delle «cure mediche», ciò contrasterebbe con l'articolo 13 della Costituzione, che tutela la libertà personale; e quindi si afferma che una alimentazione, una idratazione o una ventilazione polmonare imposte violerebbero la libertà personale garantita dall'articolo 13 della Costituzione. Ora, a parte la considerazione che anche l'articolo 13 permette interventi pubblici limitativi della libertà del soggetto, si chiede se con questo si pensi di sostenere che un ordinamento non può imporre né vita né morte, e quindi deve mostrarsi neutrale rispetto all'una o all'altra opzione e lasciare gli individui liberi di scegliere. Le conseguenze di una eventuale risposta affermativa sarebbero inquietanti: si potrebbe cioè sostenere che commetta violenza privata colui che trattenga l'aspirante suicida in procinto di gettarsi nel vuoto o il medico che pratichi la lavanda gastrica a chi ha tentato di darsi la morte con il veleno, magari lasciando un ultimo messaggio in cui esprime la puntuale volontà di morire.
Si chiede, altresì, se esista il diritto al suicidio (e il corrispondente dovere di assecondarlo). Queste considerazioni portano a esaminare un ulteriore conseguente quesito: esiste, e a quali condizioni, un

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«diritto al suicidio», inteso come scelta consapevole della morte? L'esempio più noto, ma certo non unico, è dato dalla contrarietà da parte dei testimoni di Geova delle trasfusioni di sangue. Se è vero che la Corte di Cassazione ha aperto varchi eutanasici con la sentenza Englaro, è altrettanto vero che due sentenze della Suprema Corte (23 febbraio 2007, n. 4211 e n. 23676 del 15 settembre 2008) hanno respinto le richiesta proposta da testimoni di Geova di essere risarciti per l'essere stati sottoposti a sgradite procedure di trasfusione di sangue (nel secondo caso è stato riconosciuto il diritto al risarcimento per i danni, ma perché la trasfusione aveva determinato un'infezione). In entrambi i casi la Cassazione ha fondato la pronuncia sulla circostanza che il paziente non avrebbe espresso un adeguato «informato dissenso» dalla terapia. Nella più recente delle due sentenze ha però affermato che i medici sono tenuti a rispettare l'»informato dissenso» del paziente, purché la di lui volontà sia «espressa, inequivoca, attuale, informata». Probabilmente non si è riflettuto a sufficienza su queste impegnative circostanze richieste dalla Cassazione per il consenso, che non rinviano a una dichiarazione riguardante un futuro incerto, come è la c.d. «d.a.t.», ma esigono attualità e concretezza di un quadro patologico e/o traumatologico, cui riferire l'espressione del consenso da parte non di un soggetto di genere, bensì di un «paziente».
È vero che, applicando i criteri enunciati nella sentenza 23676/2008, non sarebbe possibile interrompere l'alimentazione di Eluana Englaro. Tale sentenza ammette infatti che le decisione di rifiutare cure mediche può essere demandata a un terzo solo quando il terzo è stato indicato dal paziente stesso quale rappresentante ad acta; attribuisce rilevanza solo a un rifiuto di cure espresso e inequivoco, formulato quando il paziente è consapevole della scelta fra la vita e la morte; dunque, mai potrebbe assumere rilievo giuridico il generico orrore nei confronti di uno stato di vita vegetativa espresso in un remoto passato da Eluana.
Le diverse risposte a questo insieme di angosciosi quesiti trova radice nella domanda di fondo dalla quale siamo partiti: la vita umana ha sempre ed in ogni momento della vita un uguale valore? A prescindere dalle sofferenze che la accompagnano? A prescindere della coscienza di sé che assista l'essere umano? Se la risposta è sì, mai potrà essere consentito ad un terzo di decidere l'interruzione di quelle misure che mantengono in vita l'essere umano. In quest'ottica, il tutore ha il compito di operare le scelte migliori per conservare in vita il proprio tutelato e favorirne la guarigione. Dunque potrà autorizzare un'operazione rischiosa che comporti speranze di guarigione; ma non potrà eseguire una mirata scelta di morte.
L'opzione cui aderisce può apparire rigida: pone dei limiti a quella autodeterminazione che tutti tendono istintivamente a rivendicare. Avrebbe imposto di dire di «no» a Piergiorgio Welby che invocava la morte; di opporre un rifiuto al padre di Eluana, che chiedeva di essere liberato dall'angoscia. Sono argomenti che pesano sulla coscienza di ciascuno. Ma chi sostiene l'opzione opposta deve a sua volta esser consapevole di altri contrapposti problemi etici e giuridici: dove si arresti tale autodeterminazione; se non si vada verso un «diritto al suicidio» (in contrasto con la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo del 29 aprile 2002, caso Petty contro Regno Unito). Inoltre, la sentenza della Corte di cassazione n. 21748/2007 e il conseguente decreto della Corte d'appello di Milano sul caso Englaro, come pure la sentenza del Giudice dell'udienza preliminare di Roma sul «caso Welby», pongono in essere una implicita, ma chiara pressione psicologica su migliaia di persone che non si rassegnano a «staccare la spina» a un proprio caro, né a chiedere la morte come via d'uscita del proprio tormento. Se la cosiddetta «dolce morte» è soluzione percorribile, e quasi valorizzata dai provvedimenti giudiziari, ci si potrebbe chiedere perché accanirsi a tenere occupata una stanza di ospedale; perché stravolgere la vita propria e magari anche quella di persone care, per la cura

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di un malato la cui vita è consentito troncare. Diviene, insomma, a portata di mano una soluzione, la morte, che, secondo la Corte di appello di Milano, costituisce espressione del «diritto alla dignità individuale del malato incapace» e sarebbe il naturale sviluppo di una personalità libera e positiva.
L'apprezzamento per la «dolce morte», contenuto nei provvedimenti giudiziari in questione, e la parallela affermazione del «diritto alla morte» aprono la porta a un «dovere della morte», non ignoto all'esperienza umana (si pensi alle ipotesi di «suicidio d'onore» o di abbandono alla loro sorte dei vecchi e degli inabili, di cui parla la storia). Mentre l'affermazione di un diritto a rifiutare cure mediche può condurre al riconoscimento di un vero e proprio «diritto al suicidio», ben più ampio e coinvolgente della mera liceità del suicidio. Si chiede, al riguardo, se sia possibile limitare il «diritto alla morte» ai soli casi in cui tale opzione sia mediata attraverso il rifiuto di una prestazione medica (così come sostiene la sentenza penale sul «caso Welby») o se, invece, la logica del sistema non porti a ritenere esercizio di un diritto anche la ricerca della morte con operazioni attive quali l'ingerimento di veleni.
Se una legge è, dunque, necessaria, non è però necessaria una legge qualunque. È necessaria una legge che, partendo da una assoluta chiarezza concettuale e terminologica, pervenga a norme altrettanto definite. Se si accettasse come inevitabile l'introduzione delle dichiarazioni anticipate di trattamento, ciò equivarrebbe ad ammettere il principio secondo cui la vita è un bene rinunciabile e tale rinuncia costituisce esercizio di un diritto; così facendo, però, sarebbe difficile sottrarsi alle logiche conseguenze di questo principio, anche in termini di qualificazione dell'idratazione, dell'alimentazione e della ventilazione. Un principio come questo avrebbe, in altri termini, una propria «forza espansiva», tale da travolgere tutti i limiti e i formalismi in cui un legislatore, pur accorto, pensasse di imbrigliarlo; anzi, lo sforzo di formalizzare il più possibile una dichiarazione anticipata di trattamento (presenza del notaio, termine di validità, etc.) avrebbe come effetto quello di rendere la «dichiarazione anticipata» ancora più vincolante per chi fosse chiamato a darle attuazione.
Ciò senza trascurare che l'applicazione concreta della legge sarà affidata a una magistratura che, ripudiando la linea interpretativa dell'articolo 32 della Costituzione seguita fino al 2006, ha operato una scelta politica di campo netta in favore delle pratiche eutanasiche e della disponibilità della vita umana: giungendo ad affermare - come si è appena ricordato - che la tutela della vita del malato costituisce un pubblico interesse inferiore e subordinato alle volontà manifestate dal paziente verbalmente anche anni prima che si verifichi la situazione di malattia. Per questo solo una legge chiara e puntuale potrà indurre la magistratura ad adeguarsi a opzioni di vita da parte del Parlamento, mentre una legge equivoca verrà sicuramente interpretata come elemento di continuità con la odierna giurisprudenza.
Come firmatario, in particolare, della proposta di legge n. 1968-bis Saltamartini (analoga, per molti versi, al disegno di legge 1188 Bianconi presentato al Senato), si dichiara ben consapevole che il favore per la vita e il conseguente obbligo del medico di operare per la salute incontrano un limite invalicabile nella libera disponibilità da parte di ciascuno del proprio corpo: il singolo (ovviamente maggiorenne e capace di intendere e volere) è legittimato a rifiutare intrusioni sul proprio corpo che pure potrebbero salvargli la vita. Non è quindi consentito trascinare sul tavolo operatorio il malato per sottoporlo a un'operazione che rifiuta in piena coscienza. Per una forma di rispetto della volontà del malato dissenziente, si esclude che questo intervento possa essere compiuto anche quando il paziente perde conoscenza dopo aver espresso la chiara volontà di non essere curato con quelle modalità. Questa è però una eccezione al principio del favor vitae che, proprio perché è tale, richiede una piena, informata

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ed attuale volontà del paziente espressa in prima persona nell'imminenza dell'intervento; cioè quando egli è nelle condizioni di operare un'opzione vera e consapevole.
Questa scelta peraltro impone al medico di non operare l'intrusione che pur potrebbe salvare il malato, ma non può vincolarlo a operare una intrusione di segno opposto, per esempio rimuovendo i dispositivi salvavita che siano già stati collocati. La missione del medico è salvare la vita: egli può essere - in questa sua opera - paralizzato dal dissenso del paziente, ma non gli è consentito agire, anche su richiesta del paziente, mediante atti che portano alla morte.
Non vi è, a suo avviso, alcuna ragione di principio per escludere che il medico possa tenere conto dei desideri espressi dal paziente prima dell'insorgere dello stato di malattia. Si possono anche disciplinare le forme di manifestazione di questi desideri, ma un punto appare inderogabile: questi desideri comunque espressi, comunque denominati, non possono comportare la rinuncia - ora per allora - a forme di cura o di assistenza che appaiano necessari per la vita del paziente.
Se si afferma l'esistenza di un diritto del singolo a una qualsiasi forma di «testamento biologico» che consenta la scelta di morte, la logica e la coerenza di questa scelta porteranno ad aggirare tutti i limiti e i vincoli posti al concreto esercizio di questo presunto diritto. Una volta affermato che l'opzione di morte è un diritto, non esiste alcun ragionevole motivo per subordinare questa opzione a forme o limiti determinati. E tutte le forme e i limiti potranno essere superati da un accertamento giudiziario della volontà.
Il consenso informato cancella quel «paternalismo medico» che è stato spesso esercitato nei confronti di un malato considerato mero, inconsapevole destinatario di cure, ma non trasforma il medico in un passivo esecutore dei desiderata del paziente. In altre parole, non contrattualizza il rapporto medico-paziente. Appare perciò doveroso che la legge scongiuri - almeno in questo settore - un pericolo che incombe sulla professione medica: la sua trasformazione da attività mirata a un risultato di salute e di benessere del paziente, in un'attività burocratica, di cui il primo precetto sia «tener a posto le carte»; il pericolo, cioè, che la responsabilità, invece di costituire una spinta a ben operare, costituisca una remora, se non un ostacolo.
Da quanto finora esposto, emergono i tre punti inderogabili su cui si fondano le proposte di cui è firmatario: il paziente in cura può rifiutare intrusioni sul proprio corpo anche quando siano in grado di salvargli la vita, ma per il medico resta la piena autonomia, in ossequio ai principi della propria professione, di prospettare al paziente ipotesi di cura con probabilità di successo e, quindi, di provocare un mutamento della decisione dell'interessato. In nessun caso il medico sarà tenuto a dare corso alla volontà del paziente che solleciti un'intrusione tale da determinare la sua morte, per esempio neutralizzando gli apparati che lo tengano in vita; tale facoltà spetta esclusivamente a un soggetto qualificabile come «paziente», perciò non hanno alcun valore le dichiarazioni di volontà preventive volte a escludere, per il futuro, trattamenti utili alla sopravvivenza; missione del medico è la cura del malato, secondo scienza e coscienza, e non quella di costituire uno strumento passivo di attuazione delle volontà del singolo; in particolare, il medico non può essere vincolato a cagionare la morte del paziente.

Laura MOLTENI (LNP) fa presente che l'intervento appena svolto deve intendersi come intervento a titolo personale e che sono iscritti a parlare anche altri colleghi del suo gruppo.

Giuseppe PALUMBO, presidente, osserva che tutti gli interventi, a quanto gli risulta, sono svolti dai colleghi a titolo personale.

Lino DUILIO (PD) fa presente, in premessa, di voler esprimere un ringraziamento al relatore in Commissione, onorevole Di Virgilio, per la relazione di ampio respiro con la quale ha introdotto l'esame

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di un tema al quale crede nessuno possa avvicinarsi se non con «timore e tremore».
È un ringraziamento non formale, perché vi ha trovato, tra l'altro, una sincera tensione verso l'ascolto delle diverse posizioni, la giusta sottolineatura dell'assoluto valore della vita, il conseguente ribadimento del rifiuto di ogni forma di eutanasia, il rigetto sia dell'abbandono che di ogni pratica di accanimento terapeutico, il richiamo del rischio di quello che ha definito «un eccesso di norma» in questo nostro tempo sociale, la fondamentale importanza delle cure palliative (sulle quali crede di poter dire che la Camera abbia, nei giorni scorsi, fatto un iniziale buon lavoro), il riferimento ad una dichiarazione anticipata di trattamento (DAT) che sia espressione di autodeterminazione della persona, ma con un possibile «spiraglio» di revisione ad evitare che si trasformi in una «presunzione fatale» sul proprio destino, «senza tener conto - come l'onorevole Di Virgilio ha affermato - dei mutamenti, delle trasformazioni, delle sorprese che la vita sa riservare ogni giorno».
Desidera ringraziare, altresì, i colleghi che sono intervenuti sinora, dai quali ha imparato molte cose e che, tutti, hanno affrontato il tema in discussione con serietà e profonda tensione morale.
Non intende, con questa premessa, spingersi oltre, fino ad arrivare ad esprimere un giudizio su alcune questioni aventi peraltro peculiare valore politico, questioni ancora più complesse che formano oggetto del testo licenziato dal Senato.
Prima di addentrarsi, peraltro, nel campo controverso delle questioni di merito, vorrebbe, nel poco tempo che ha a disposizione, dichiarare, con onestà intellettuale, le sue convinzioni (che, sottolinea, non sono certezze) ed argomentare la sua posizione sull'attività di normazione (o di «metanormazione», come sostiene taluno) che si sta svolgendo.
Per quanto concerne il valore della vita, ritiene che ciascuno porti in Parlamento le proprie convinzioni, che risalgono a motivazioni e fondamenti diversi, di ordine religioso, morale, sociale e culturale. Sulla base di questo essere espressione di convincimenti e valori di riferimento, e senza trascurare la dovuta consapevolezza di esercitare in questa sede un ruolo di rappresentanza che rinvia a cittadini elettori portatori di opzioni e valori differenti, si sento, in coscienza, di esprimere una preliminare, personale convinzione sul valore della vita.
Crede che il valore assoluto della vita costituisca oggi un principio unanimemente acquisito nella società. Tale principio, però, gli pare risenta progressivamente della tendenza, tipica dell'epoca contemporanea e moderna, a perimetrare nell'esclusiva sfera materiale del corpo il suo connotato di valore. Con la conseguenza, inesorabile, di far nascere alcune contraddizioni e di vedere assurgere «la qualità» ad unico criterio di misura del valore dell'esistenza umana. Dal che deriva, ulteriormente, che la decisione «finale» su di essa è frutto di un procedimento puramente «razionale» dell'individuo, in buona sostanza legato alla valutazione della condizione oggettiva e materiale in cui si trova il suo corpo ed al suo «diritto proprietario» di decidere su di esso.
La sua convinzione sul tema è leggermente diversa. Se gli è consentito un riferimento letterario che spera non venga considerato una civetteria intellettuale, la riepilogherebbe nelle parole che Fedor Dostoevskij mette in bocca al protagonista del romanzo «Delitto e castigo», Raskolnikov. Il quale, fermatosi a parlare, in una trattoria malfamata, con Duklida, «una giovane di circa trent'anni, butterata, tutta lividi, col labbro superiore gonfio», che evidentemente in quel posto vendeva per necessità il suo corpo, dice: «Dove ho letto, dove ho letto che un condannato a morte, un'ora prima di morire, dice o pensa che se gli toccasse vivere su un'alta cima, su una roccia, o su di uno spiazzo tanto stretto da poterci posare solamente i suoi due piedi - e intorno a lui ci fossero degli abissi, l'oscurità eterna, un'eterna solitudine e un'eterna tempesta - e dovesse

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rimaner così, in un arscin di spazio, per tutta la vita, per mille anni, in eterno - preferirebbe viver in quel modo che morire subito? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere come che sia, ma vivere!... Che verità! Che verità!, Signore! È vile l'uomo!... Ed è vile chi per questo lo chiama vile».
Ecco, dichiara di concordare con questa affermazione, e ciò anche a prescindere da riferimenti di fede o religiosi. Pensa che la vita abbia significato in ogni suo istante vitale, e che ognuno di questi istanti abbia valore in sé, non predeterminabile.
È dunque perplesso anche sul fatto che possa darsi la possibilità di una decisione «in anticipo» sul momento ultimo della vita: si chiede, cioè, se possa avere un senso assumere «in anticipo» un impegno su una successiva decisione irreversibile, quando in quel momento successivo il naturale richiamo della vita potrebbe riservare una «sorpresa», per richiamare il termine del relatore, dapprima imprevedibile.
Con il conforto di queste convinzioni, ma interessato e sinceramente attento agli elementi di verità che ritiene esistano in ciascuna posizione, sostiene l'opportunità che, su un terreno per tanti versi così sdrucciolevole come quello di disciplinare per legge la materia del fine-vita, sarebbe meglio fermarsi e non fare alcuna legge o, al massimo, varare una norma essenziale su alcune questioni che richiamerà brevemente alla fine dell'intervento.
Innanzitutto, crede che sancire il diritto a stabilire, tanto più per via formale, il momento della fine della propria esistenza significhi, lo si ammetta o meno, teorizzare una sorta di «reductio ad unum» della vita, cioè sostenere che essa diventa esclusivamente corpo, con lo spirito che scompare dall'orizzonte della umana riflessione. Annota, incidentalmente, che parla intenzionalmente di «spirito», mentre, secondo i suoi principi, dovrebbe parlare di «anima». Ma sa bene che in questa sede tale riferimento verrebbe letto come eccessivamente legato ad un fondamento cristiano, che peraltro si sente di testimoniare con profonda convinzione. Ma, per l'economia di questa discussione, gli basta riferirsi allo «spirito» o a quello che si potrebbe anche definire «soffio vitale». Ebbene, escludendo evidentemente le situazioni scientificamente diagnosticabili come vita vegetativa, si chiede se la vita possa essere ridotta al solo corpo, se la ragione, in nome della religione della libertà, possa occultare ogni discorso su quell'imponderabile dimensione interiore che è lo spirito. E si chiede, inoltre, cosa possa sapere la scienza dello spirito, quando essa, attraverso la tecnica, si cimenta nella possibilità di un atto che, nella sua ambivalenza, può risolversi in un esercizio di onnipotenza, sia che prolunghi artificialmente l'esistenza umana sia, all'opposto, che di quella esistenza produca con efficacia la fine.
La discussione in corso su come disciplinare ex lege il momento finale della vita incorpora una dimensione proprietaria estremizzata del corpo, segnando una via ideologica alla questione, non casualmente analogica sul piano tecnico-giuridico, come il rimando di senso della semantica utilizzata per l'occasione non fatica a far intravedere (il riferimento, evidentemente, è all'utilizzo del termine «testamento» per definire - come per l'eredità - l'atto a cui affidare la volontà finale di ciascuno sulla propria vita).
Sulla linea di questa progressiva tendenza, nel dibattito intorno alla legge sul cosiddetto «testamento biologico», polemiche vivaci oppongono le posizioni di coloro che appartengono al partito del «diritto alla vita» rispetto a coloro che teorizzano il «diritto alla libera scelta». In particolare, gli appartenenti a questo «secondo partito» sostengono che deve essere approvata una legge secondo la quale ciascuno decide «per sé e da sé», in tal modo lasciando a ogni cittadino la libertà di comportarsi secondo il proprio orientamento.
Una tale impostazione verrebbe opposta ai cosiddetti fautori del «diritto alla vita», i quali avrebbero il torto di voler imporre a tutti la propria concezione etica,

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dimenticando che uno stato laico deve rispettare la libera opinione di tutti i suoi membri.
Anche su questo aspetto, nutre qualche perplessità, in quanto quella addotta gli sembra un'argomentazione debole, per molti versi superficiale, se non ingannevole. Sostenere, infatti, quella tesi significa misconoscere che sostenere il diritto per tutti di fare ciò che si crede rappresenta una posizione speculare ed «ideologica» anch'essa. Rimettere, infatti, in ciascuno il fondamento del diritto di vivere o meno, affermare cioè il principio etico di autodeterminazione, è una posizione che porta anch'essa nel dibattito politico un punto di vista etico. Punto di vista, certo, rispettabile, ma anch'esso «di parte», obiettivamente «costrittivo», nel caso venisse sancito per legge, nei riguardi di tutti coloro che sostengono il principio della intangibilità (o della sacralità) della vita.
La questione, molto intricata, è quella che il relatore ha ben riepilogato, sostenendo che «è quindi necessario elaborare una legge che contempli il rispetto dell'esercizio della libertà del soggetto, come garantita dalla Costituzione, con la tutela della dignità di ogni uomo nonché del valore dell'inviolabilità della vita».
Orbene, il ricorso alla legge, quale strumento per disciplinare un momento così importante e così peculiare della vita qual è quello della sua fine, costituisce, io credo, la spia di una pretesa velleitaria, frutto di razionalismo ed illuminismo, oltre che indice di un pericolo, quello di consentire l'intrusione dello Stato in uno spazio che deve essere gelosamente custodito al privato.
Ricorrendo alla legge, la cultura cosiddetta «liberale» realizza un paradosso, quello di consegnare, attraverso la pretesa della norma «generale» e «astratta», la libertà e la responsabilità dell'individuo al suo antagonista di sempre, che è proprio lo Stato. Tutto questo in un tempo nel quale si assiste, per altro verso, proprio alla crisi della legge «generale» ed «astratta», con la proliferazione di differenze che reclamano una disciplina sempre più «concreta» e «particolare», diversa da situazione a situazione.
Ma al di là di questa critica, è convinto che alla legge non si possa chiedere di dare delle risposte a delle questioni «ultime»; si può chiederle forse, al massimo, di dare risposte a quelle «penultime». È convinto, come anche altri ritengono, che la democrazia sia stata organizzata per trovare soluzioni a questioni abbastanza simili, rispetto alle quali la legge «astratta» rappresentava e può ancora rappresentare una buona approssimazione delle soluzioni necessarie.
Andare oltre è, dunque, velleitario e non garantisce, oltretutto, che non esplodano più problemi di quanti, con la legge, non si pensi di risolvere.
Come sarà apparso oramai chiaro, egli si ritrova nelle ragioni del cosiddetto «terzo partito», fatto da coloro (purtroppo minoritari) che teorizzano la necessità di una «zona grigia» - affidata alla autoregolazione sociale - in materia di disciplina del fine-vita. Questa posizione parte dalla convinzione che una legge sulla fine della vita diventi il tentativo di imporre, in modo astratto se non ideologico, i canoni della ragione o della fede in un campo dove l'esperienza umana si fa inevitabilmente solitaria ed incomunicabile, unica e particolare, diversa da ogni altra, impossibile da «incasellare» in una fattispecie generale, codificata per tutti.
In quel momento, può intervenire solo la pietas, la trama di affetti e di relazioni umane che circondano il malato, l'amore riconosciuto dell'altro, la paziente dedizione del medico curante, insomma una «comunità amante», che accompagna la persona nel suo ultimo viaggio. Oltretutto, è noto che il soggetto, quando può determinarsi liberamente, ha diritto a rifiutare le cure. Si pone dunque un problema di uguaglianza con situazioni nelle quali il soggetto non sia più in grado di agire liberamente. Ma gli pare chiaro che si tratti di condizioni diseguali e quindi non assimilabili da un punto di vista giuridico. Ne dovrebbe derivare, anche sotto questo profilo, l'inopportunità di irrigidire in una formula

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normativa la molteplice varietà del reale. Si tratterebbe della grevità della politica, piuttosto che della plasticità del diritto.
È la persona che soffre, insieme e dentro quella comunità, a decidere nella discrezione e nella tenerezza di quei momenti su come procedere e, se necessario, cosa decidere. E ove ci fosse stata una precedente, esplicita dichiarazione di intenti sul da fare, «allora per ora», è sempre nella discrezione e nella pietas di quella comunità che se ne terrà conto e saranno prese le decisioni più sagge.
Nella essenzialità di un eventuale atto normativo, quando proprio lo si volesse predisporre, il compito dello Stato potrebbe ridursi ad una duplice funzione: quella di apprestare le migliori condizioni, strutturali, di assistenza domiciliare e di cure palliative, per favorire il più sereno e meno doloroso decorso della malattia; quella di garantire la necessaria trasparenza del percorso terapeutico finale, prevedendo l'obbligo di evidenze formali che affranchino dal rischio di possibili abusi.
Ma si tratta, come si vede, di ben altro rispetto a quello di cui si discute dopo l'approvazione del testo del Senato ed in presenza delle tante proposte di legge depositate alla Camera.
Se proprio si vorrà approvare una legge, mentre conferma tutte le proprie riserve e le proprie perplessità sull'opportunità di questa attività di normazione, confida almeno che, grazie all'attività emendativa, emerga una legge quanto più possibile equilibrata.

Antonio PALAGIANO (IdV) chiede al presidente di poter intervenire nel corso della prossima seduta, essendo iniziata la seduta dell'Assemblea.

Giuseppe PALUMBO, presidente, fa presente che, finché in Assemblea non avranno luogo votazioni, la Commissione potrà proseguire nell'esame del provvedimento e che, in Aula, è stato appena annunciato che, tra venti minuti, avranno luogo votazioni.

Antonio PALAGIANO (IdV) fa presente che, dovendo recarsi in Assemblea, vorrebbe invertire l'ordine degli interventi suo e della collega Codurelli, che si è dichiarata disponibile.

Giuseppe PALUMBO, presidente, osserva che, se i due deputati interessati sono d'accordo, è certamente consentita un'inversione nell'ordine dei rispettivi interventi. Dà quindi la parola all'onorevole Codurelli.

Lucia CODURELLI (PD) rileva che la proposta di legge che il Senato ha approvato e che ora è all'esame della Commissione non è, nel suo insieme, condivisibile, perché contrasta con il presupposto sul quale si fonda il cosiddetto testamento biologico: il rispetto della volontà della persona di decidere se continuare o sospendere i trattamenti sanitari che la riguardano.
Nel contempo, è importante sottolineare come da una lettura dei resoconti degli interventi svolti in Commissione - alle cui sedute non ha potuto partecipare, perché impegnata presso la XI Commissione - emerge un'ampia volontà di approfondire, senza deleteri ideologismi, le ragioni e il senso che devono informare un provvedimento tanto delicato. Dal relatore Di Virgilio e dai colleghi è scaturita una discussione all'altezza del tema, in un clima che si augura permanga anche in seguito e sia di preludio ad una decisione finale condivisa, rispettosa della dignità della persona e praticabile, quale il Paese attende dopo il confronto pubblico che ha accompagnato l'ultimo periodo dell'esistenza di Eluana Englaro.
È con questo spirito e con questo proposito che ha sottoscritto la proposta di legge n. 1606 Pollastrini, che cerca di definire un quadro complessivo sul consenso informato, la dichiarazione di volontà anticipata nei trattamenti sanitari, nonché in materia di cure palliative e di terapia del dolore. Proprio in questi giorni tale ultimo aspetto ha trovato alla Camera una soluzione unanime, rispondendo finalmente

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alla necessità di servizi in grado di garantire la dignità e la non sofferenza della persona nel fine-vita.
Pensa che tutti abbiano attraversato esperienze dolorose, dovute alla sofferenza e alla perdita di persone care, e abbiano sperimentato come queste finiscano per incidere sulle convinzioni più intime e profonde di ciascuno. Pertanto, quando si trattano questi temi, c'è l'assoluta necessità di assumere un atteggiamento di totale rispetto, soprattutto quando si svolge una funzione pubblica. Come parlamentare della Repubblica, e dunque come legislatore, avverte la responsabilità di contribuire a definire una sintesi legislativa più alta possibile.
Il suo gruppo chiede che si apra in Commissione prima, e poi in Aula, un vero confronto, iniziando con l'ascoltare anche i medici, le società scientifiche, i giuristi, i filosofi; rifuggendo dalla tentazione di scrivere una legge col metro dell'ideologia o sull'onda emotiva della dolorosa vicenda di Eluana Englaro. O, peggio ancora, una legge come moneta di scambio per ricucire i difficili rapporti tra il Presidente del Consiglio e il Governo del Vaticano, facendo scempio dell'indipendenza e della laicità dello Stato italiano, nonché dell'articolo 32 della Costituzione.
Sarebbe saggio se si assumesse come punto di partenza il documento approvato nel convegno dell'Ordine dei medici a Terni, che chiede al legislatore di intervenire su questa materia formulando un «diritto mite», come già affermato dalla nostra capogruppo Livia Turco.
La strada che auspica, perciò, è quella di valorizzare la relazione di cura tra il medico, il paziente, il fiduciario e i familiari, perché il compito del legislatore è proprio quello di favorire, e non ostacolare, questa relazione, che si basa sulla autonomia decisionale della persona adeguatamente informata e sull'autonomia e responsabilità del medico.
Avverte l'amarezza di infinite discussioni che si svolgono sulla pelle di persone sofferenti alle quali non viene riconosciuto il diritto di decidere su come deve essere trattato il loro corpo giunto al termine dell'esistenza, impedendo ai familiari e fiduciari di far rispettare la volontà del loro caro non più cosciente.
Questa amarezza diventa ancor più insopportabile perché questo corpo e questo spirito sofferente è stato usato in troppe occasioni per condurre uno scontro politico e istituzionale di proporzioni gigantesche: contro la Costituzione che affida all'individuo ogni decisione sul trattamento sanitario del proprio corpo, contro il principio di laicità e di indipendenza dello Stato italiano, contro la funzione del Parlamento di ricercare una sintesi, una legge condivisa dalle diverse sensibilità rappresentate.
È quindi necessario abbandonare i toni forti e gli eccessi ideologici, per favorire la ripresa di un autentico dialogo tra le posizioni e arrivare alla definizione di un nuovo testo, che contenga norme che siano minime, essenziali ed appropriate.
Richiama l'esempio storico della legge n. 194 del 1974, con la quale il Parlamento dimostrò di saper ascoltare la voce delle donne. Da questo derivò una legge equilibrata, il cui valore sta nell'aver riconosciuto piena responsabilità morale alla decisione delle donne e, contemporaneamente, nell'aver considerato la vita del feto come un valore da proteggere e tutelare, ponendo limiti e condizioni alla interruzione volontaria di gravidanza.
Allo stesso modo, oggi si dovrebbe guardare all'assoluta peculiarità della vita allo stato neurovegetativo permanente e irreversibile e cogliere l'importanza di un testamento che rispetti la volontà anticipata e l'autodeterminazione del soggetto in condizione di incoscienza.
Il testo approvato al Senato, in cui idratazione e nutrizione artificiali addirittura diventano obbligatori, contraddice la Costituzione, perché siamo al paradosso che, oggi, un individuo cosciente può rifiutare di assumere nutrienti e acqua attraverso sonde, mentre questo non è consentito alla persona in fase terminale e non più cosciente, nonostante che abbia a suo tempo anticipato questa volontà mediante la sottoscrizione del cosiddetto testamento biologico. L'onorevole Calgaro, a

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proposito, ha sottolineato come sinora ci si è soffermati poco sui risvolti assurdi che questa soluzione comporterebbe.
Ma a rendere non emendabile il testo approvato al Senato è il fatto che esso tende costantemente a non separare il confine tra sospensione dell'accanimento terapeutico ed eutanasia, laddove quest'ultimo aspetto non ha e non deve avere proprio alcun rapporto con la proposta di legge in esame. Le «dichiarazioni anticipate» e l'eutanasia rientrano nella questione di fine-vita, ma sono due aspetti profondamente diversi, indipendenti e come tali vanno trattati.
Le scoperte tecnico-scientifiche degli ultimi decenni consentono di prolungare la vita in modo considerevole, anche quella priva di coscienza e puramente biologica. È inevitabile che il ricorso a tali nuove opportunità ponga la questione del rispetto della persona e, di conseguenza, del diritto della stessa ad esprimere il proprio punto di vista, a tutela del piano di cura che sia il più coerente possibile con il suo essere.
Appare pertanto non solo auspicabile, ma doverosa, la formulazione di una norma legislativa che dia valore legale alle «dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario» delle persone che vogliano stabilire il tipo e l'intensità delle cure cui accetterebbero di venire sottoposte in caso di malattia più o meno grave, quando non fossero più in grado di esprimere la loro volontà. A ciò andrebbe associata la nomina di una persona fiduciaria del paziente, garantendo che le dichiarazioni anticipate vengano rispettate. Altrettanto importante è il diritto della persona a rifiutare o interrompere le terapie mediche, discendente dal principio enunciato dal secondo comma dell'articolo 32 della Costituzione, secondo il quale «nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge». Il Comitato nazionale di bioetica ha afferma, nell'anno 2003, che le dichiarazioni anticipate di trattamento si iscrivono in un positivo processo di adeguamento della nostra concezione dell'atto medico ai principi di autonomia decisionale del paziente.
È necessario uno sforzo per recuperare ed approfondire il senso della dignità della morte come naturale processo evolutivo della vita. Vita vissuta appieno in tutte le sue componenti, dall'inizio alla fine, in tutte le sue più intime dimensioni e sfaccettature.
In un documento redatto dal Comitato nazionale di bioetica nell'ottobre 2008 sono espressi concetti attuali e, a suo avviso, estendibili al caso di direttive anticipate. In particolare, si sottolinea come sia possibile determinare in modo corretto l'accanimento clinico attraverso l'integrazione dei parametri scientifici e oggettivi del medico e la percezione soggettiva del paziente. Inoltre, che la rinuncia ai trattamenti è indipendente all'accertamento di accanimento terapeutico.
L'espressione «l'ho lasciato morire» avrebbe senso solo se vi fosse stata una qualunque possibilità di mantenere il paziente in vita, ma quando la morte è nelle cose non si può più scegliere tra la vita e la morte; l'unica scelta possibile è come il paziente deve morire e come evitare che soffra. In prossimità della morte sono particolarmente forti, da un lato, il pericolo di andare incontro a sofferenze incredibili, dall'altro di perdere il controllo di sé e di vedere perciò compromessa la propria dignità. Occorre riflettere profondamente sul «morire con dignità umana»: significa per tutti affrontare l'evento morte con serietà, serenità e coraggio.
Sottolinea quindi che non esiste, come si tenta di far credere, un partito favorevole alla vita e uno contrario ad essa. In realtà, ci sono visioni diverse su come affrontare le fasi terminali della vita, che si possono riassumere tra quanti ritengono che tutte le decisioni in ultima istanza spettino al malato (ovvero al tutore nominato dall'interessato) e tra chi reputa invece opportuno che alcuni atti medici e paramedici possano essere sottratti alla volontà del paziente.
Le sue convinzioni la portano a difendere strenuamente l'autodeterminazione

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della persona che rifiuta l'accanimento e una sopravvivenza artificiale, puramente biologica, senza alcuna coscienza. Ogni famiglia che ha vissuto questa esperienza, ne è certa, non vorrebbe più vedersi imporre regole che aggiungerebbero una sofferenza ad altra sofferenza, completamente inutile, come è avvenuto con il caso di Eluana Englaro.
Dichiara di non voler imporre agli altri individui scelte che fanno parte della sua visione della vita e della morte, della sua dimensione spirituale, della sua storia umana e sociale. L'aspetto più drammatico, quello che in troppi casi segna la morte della pietà, è, a suo avviso, proprio la mancanza di reciprocità nel rispetto della libera volontà della persona nell'ultima fase della sua esistenza.
C'è quindi bisogno di una legge che sia una utile e rispettosa, che consenta al malato in fase terminale di decidere della propria esistenza o che consenta di affidare ad altri la sua volontà, garantendogli che questa sia tutelata, così come deve essere riconosciuto ad una coppia il diritto di utilizzare i ritrovati della ricerca scientifica per far nascere una nuova vita o per tentare di prevenire l'insorgenza di alcune gravi malattie nel nascituro, senza costringerla ad andare oltre confine per avere quello che l'Italia nega. Vorrebbe che quanti levano grida di dolore ogniqualvolta si minacci l'integrità di una cellula staminale, assumessero la stessa rigorosa determinazione nella difesa della vita di tante persone abbandonate a se stesse e destinate a morire con sofferenza, per fame, per malattie, per violenze, per razzismo e per indifferenza.

Il sottosegretario Eugenia Maria ROCCELLA precisa che il testo trasmesso dal Senato non concerne l'alimentazione e l'idratazione dei malati in stato terminale. Ricorda, altresì, che una commissione istituita presso il Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali ha espunto la nozione di «stato vegetativo permanente» dal glossario che ha compilato, perché essa non appare corretta dal punto di vista scientifico.

Giuseppe PALUMBO, presidente, nessun altro chiedendo di intervenire, rinvia quindi il seguito dell'esame ad altra seduta.

La seduta termina alle 14.30.

AVVERTENZA

Il seguente punto all'ordine del giorno non è stato trattato:

INTERROGAZIONI

5-01451 Duilio e Codurelli: Applicazione della legge n. 210 del 1992 in materia di indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da trasfusioni e vaccinazioni obbligatorie.

ERRATA CORRIGE

Nel Bollettino delle Giunte e delle Commissioni parlamentari n. 212 del 29 luglio 2009, a pagina 185, seconda colonna, trentanovesima riga, la parola «d)» è sostituita dalla seguente: «c)».

Nel Bollettino delle Giunte e delle Commissioni parlamentari n. 212 del 29 luglio 2009, a pagina 185, seconda colonna, quarantaquattresima riga, la parola «e)» è sostituita dalla seguente: «d)».

Nel Bollettino delle Giunte e delle Commissioni parlamentari n. 212 .del 29 luglio 2009, a pagina 186, prima colonna, quattordicesima riga, la parola «f)» è sostituita dalla seguente: «e)».