TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 826 di Martedì 4 luglio 2017

 
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INTERPELLANZE E INTERROGAZIONI

A) Interpellanza

   Il sottoscritto chiede di interpellare il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti e il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, per sapere – premesso che:
   con la legge n. 443 del 2001, «legge obiettivo», e la relativa deliberazione del Cipe n. 121 del 2001, la strada statale n. 675 «umbro-laziale», ex raccordo Civitavecchia-Orte, veniva compresa tra le opere strategiche da realizzarsi ai sensi di detta legge;
   a seguito dell'intesa generale quadro, siglata tra la regione Lazio ed il Governo il 20 marzo 2002, ai sensi e per le finalità di detta legge n. 443 del 2001, in data 8 novembre 2006 è stata sottoscritta «un'intesa» tra la regione Lazio, il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti ed Anas spa, con la quale ci si impegnava reciprocamente alla realizzazione dell'opera, anche ricercando le necessarie risorse finanziarie;
   la strada statale n. 675 o «trasversale nord» si inserisce nel più ampio itinerario Civitavecchia-Orte-Terni, il cui completamento fra Orte e Civitavecchia consentirà di collegare, con strada a 4 corsie, il porto civitavecchiese con la A1, l'itinerario internazionale E45-E55 e il polo industriale di Terni;
   si tratta di un'infrastruttura inserita nella comprehensive network della rete europea Ten-T e del corridoio europeo 5 fino a Kiev;
   essa rientra nel 1o programma delle infrastrutture strategiche – sistemi stradali e autostradali del corridoio plurimodale tirrenico Nord-Europa – trasversale nord Orte-Civitavecchia;
   per terminare l'intera infrastruttura viaria, una volta completato questo tratto, dovranno ancora essere realizzati i circa 18 chilometri che da Monte Romano est portano alla strada statale n. 1 Aurelia;
   questo tratto durante il suo percorso si pone inoltre in affiancamento alla strada statale n. 1-bis, alla strada provinciale n. 42 per Blera e all'attuale strada provinciale n. 97 di Montericcio nella valle del Mignone;
   il completamento del tracciato viario tra Monte Romano est e la strada statale n. 1 Aurelia e così per il porto di Civitavecchia è di primaria importanza per la rete viaria dei territori interessati e strategica per l'economia dello scalo portuale laziale; risulta fondamentale scegliere un tracciato che consenta una razionalizzazione dei costi, mantenendoli in linea con la media europea, al fine di evitare un dispendio di denaro pubblico come pregresse esperienze italiane stanno ad attestare sia in termini economici che in tempistiche di realizzazione;
   la trasversale Orte-Civitavecchia ha un'importanza vitale per lo sviluppo economico-sociale dell'area, anche perché rappresenta un'infrastruttura in grado di unire il Mar Tirreno con il Mar Adriatico;
   essa, peraltro, eliminerebbe il «bottleneck» al porto di Civitavecchia, permettendo quindi la distribuzione di merci e persone dal porto di Civitavecchia al Centro-Nord Italia e una razionale e moderna viabilità per gli spostamenti di persone, lavoratori e studenti, ora complessivamente concentrato su un tratto stradale a due corsie la cui pericolosità è confermata dalla quantità di sinistri stradali occorsi in tale situazione;
   con la sua ultimazione si creerebbero i presupposti per l'insediamento nell'area di Civitavecchia, della Tuscia e dell'Etruria di nuovi siti produttivi che al momento non hanno mai avuto start-up a causa di mancanza di infrastrutture, consentendo allo stesso tempo il transito dei mezzi di trasporto in sicurezza, al contrario di quanto avviene oggi;
   dalla fine degli anni ’90 ad oggi, lo Stato italiano ha speso oltre 1.500.000.000 di euro per l'attuazione del piano regolatore generale del porto di Civitavecchia, sforzo economico che sarebbe vanificato circa le attese al mancato completamento degli ultimi 18 chilometri della trasversale in questione;
   la regione Lazio e l'autorità portuale di Civitavecchia, Fiumicino e Gaeta, ora autorità di sistema portuale del Mar Tirreno centro-settentrionale, hanno espresso la volontà di realizzare una «zona franca» nel porto di Civitavecchia;
   l'infrastruttura in questione detiene il triste primato nazionale di grande opera incompiuta, poiché sono più di quarant'anni che se ne attende l'ultimazione;
   è del tutto evidente la necessità di accelerare l’iter burocratico per avviare al più presto il completamento di un'infrastruttura, la cui realizzazione non è più rinviabile ed i cui fondi sono già stati stanziati e disponibili –:
   quanti e quali pareri abbia ricevuto il tracciato Monte Romano est – strada statale n. 1 Aurelia presentato da Anas spa in sede di conferenza di servizi;
   quali iniziative intendano assumere, per quanto di competenza, al fine di sbloccare la vicenda di cui in premessa e garantire un rapido completamento di un'opera, fondamentale per lo sviluppo e la sicurezza dell'intera area;
   se non ritengano opportuno assumere iniziative affinché il tratto viario Vetralla (località Cinelli)-Monte Romano, in corso di realizzazione, non si interrompa come da progetto prima del centro urbano di Monte Romano, ma si utilizzino sia le somme che le economie disponibili nel quadro economico, per una variante in corso d'opera finalizzata a poterlo bypassare, ciò al fine di evitare il transito degli automezzi commerciali e degli autoveicoli, che ancora oggi avviene obbligatoriamente tramite la via principale, con afflusso-deflusso attraverso l'antico arco delle mura perimetrali di Monte Romano, peraltro di dimensioni sottodimensionate rispetto alle attuali e moderne esigenze viarie.
(2-01787) «Scotto».
(5 maggio 2017)

B) Interrogazioni

   LATRONICO. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   nei giorni scorsi, dopo un sopralluogo degli operai, è stato chiuso al traffico dall'Anas, in entrambe le direzioni, il raccordo autostradale «Sicignano-Potenza», compreso tra lo svincolo di Balvano (chilometro 25,500) e lo svincolo di Vietri di Potenza (chilometro 20,800) per alcune lesioni al viadotto Marmo;
   la strada statale n. 407 Basentana, che congiunge il raccordo autostradale Sicignano-Potenza alla strada statale n. 106 jonica, rappresenta una delle principali arterie stradali dell'intero Mezzogiorno. Nonostante la sua strategicità, per anni, non è stata adeguatamente tenuta in sicurezza e il combinato disposto della peculiarità del tracciato, con numerosi viadotti e gallerie, e delle condizioni climatiche l'hanno resa fragile;
   è da oltre 8 anni che sul tratto autostradale Sicignano-Potenza si riscontrano problemi strutturali sui viadotti e sono in corso diversi lavori di manutenzione straordinaria che interessano alcuni tratti per i quali è già prevista la demolizione degli impalcati;
   tutto il traffico anche dei mezzi pesanti viene deviato attraverso il percorso alternativo sulla ex strada provinciale n. 94 e nelle contrade comunali di Vietri di Potenza, che presenta, purtroppo, un tracciato irregolare e la segnaletica non è indicata visibilmente;
   gli interventi sono assolutamente necessari ed evidenziano oggettive difficoltà che riguardano l'intero comprensorio in relazione alla sostenibilità del traffico di un importante raccordo autostradale –:
   quali iniziative intenda adottare il Governo per assicurare il ripristino della viabilità nei collegamenti per consentire la riapertura del tratto autostradale al fine di evitare situazioni di criticità e rischi per l'incolumità degli automobilisti. (3-03123)
(3 luglio 2017)
(ex 5-11113 dell'11 aprile 2017)

   FOLINO, FRANCO BORDO e MOGNATO. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   come si legge sulla Gazzetta del Mezzogiorno, il nuovo tratto che gli automobilisti in transito sul raccordo autostradale Sicignano-Potenza sono costretti a percorrere tra gli svincoli Balvano e Vietri, a causa della chiusura del tragitto originale, in conseguenza di una lesione comparsa sul viadotto Marmo (Potenza), è un coacervo di strade provinciali e comunali assolutamente impraticabili;
   il raccordo autostradale, compreso tra gli svincoli vietresi situati in contrada San Vito e Cugni, è completamente chiuso e tutto il traffico è deviato attraverso il percorso alternativo della strada provinciale n. 94 e nelle contrade vietresi, fino ad una settimana fa utilizzato solo dai mezzi pesanti. Il tutto a causa di due lesioni riscontrate su una trave del viadotto «Marmo» in direzione nord;
   tantissime sono le segnalazioni dei cittadini; in particolare viene segnalato che, in alcuni tratti, di sera, si viaggerebbe totalmente al buio, mentre, in altri, la carreggiata sarebbe particolarmente disconnessa, con la presenza di numerose buche non segnalate;
   l'Anas, ente proprietario del raccordo, ha dato risposte totalmente insufficienti a giudizio degli interroganti, comunicando, per il tramite del proprio ufficio stampa: «entro metà di aprile verrà aperta al traffico una bretella di circa 600 metri, attualmente in disuso, ma sulla quale Anas sta lavorando per rimetterla in uso» –:
   quali iniziative urgenti s'intendano avviare al fine di garantire il ripristino di una corretta e sicura viabilità per un tratto fondamentale e al fine di garantire un pezzo della viabilità nazionale nel contesto del Mezzogiorno;
   se, in particolare, s'intendano fornire maggiori dettagli in merito al cronoprogramma di ripristino e alla tipologia degli interventi che sono stati messi in atto da Anas sui tratti di viabilità di cui in premessa. (3-03124)
(3 luglio 2017)
(ex 5-11068 del 6 aprile 2017)

C) Interrogazione

   PAGANO e BINETTI. — Al Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale e al Ministro della difesa. — Per sapere – premesso che:
   secondo quanto diffuso da un comunicato trasmesso dall'agenzia Fides, in Pakistan sono state dichiarate illegali dal Pakistan electronic media regulatory Authority, ente del Governo pakistano, 11 televisioni cristiane;
   tale ente ha infatti emesso un'ordinanza in data 22 settembre 2016 segnalando le cosiddette «tv non autorizzate». Tra queste sono ricompresi 10 canali via cavo o su web gestiti da gruppi cristiani protestanti (quali Isaac Tv, Gawahi Tv, God Bless Tv, Barkat Tv, Praise Tv, Zindagi Tv, Shine Tv, Jesus Tv, Healing Tv, Khushkhabari Tv) e la Catholic Tv, rete cattolica diocesana di Lahore;
   nella stessa ordinanza si legge che: «tutti i direttori generali regionali sono invitati ad adottare le misure necessarie per fermare immediatamente la trasmissione dei canali tv illegali nelle rispettive regioni»;
   Catholic Tv costituisce da 17 anni l'unica televisione cattolica del Pakistan e si occupa di diffondere film di ispirazione cristiana, documentari sulle attività della Chiesa locale, talk show e interviste. Le trasmissioni vengono diffuse dalla parrocchia di san Francesco di Lahore entro un raggio di 10 chilometri, a beneficio di 8 mila famiglie cattoliche;
   tale atto è lesivo del rispetto della libertà religiosa dei cittadini cristiani pakistani che nel Paese costituiscono una minoranza;
   a tal proposito si ricorda che il Parlamento si è impegnato più volte a promuovere attività tese alla tutela delle minoranze religiose anche al di fuori dei confini statali, in ossequio anche ai principi condivisi con la comunità internazionale;
   la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, proclamata il 10 dicembre 1948 dall'Assemblea generale delle Nazioni unite e sottoscritta anche dal Pakistan, all'articolo 18 recita che: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione. Tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, in pubblico e in privato, la propria religione o il proprio credo, nell'insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell'osservanza dei riti»;
   nonostante tali principi siano riconosciuti a livello internazionale, fenomeni di intolleranza religiosa si stanno pericolosamente moltiplicando in diverse aree del mondo;
   la Costituzione del Pakistan, benché nominalmente difenda la libertà religiosa, prevede ancora l'esistenza di leggi come quelle sulla blasfemia, discriminatorie per chi non è musulmano;
   la diplomazia internazionale, in particolare l'Onu, assistono pressoché silenti alla persecuzione dei cristiani in Oriente e alla conseguente aggressione ai diritti umani che si sta concretizzando –:
   quali iniziative abbia portato avanti il Governo nelle competenti sedi europee e internazionali per la tutela della libertà religiosa nel mondo e se siano state rafforzate le politiche per la cooperazione internazionale – specialmente nei Paesi in cui le minoranze religiose sono pesantemente discriminate – al fine di favorire un cambiamento di attitudine nei Paesi in cui vengono alimentati, o in ogni caso non contrastati, l'odio e l'intolleranza;
   se si stia portando avanti un'attività di monitoraggio delle condizioni delle minoranze religiose nel mondo, al fine di poter operare un tempestivo intervento contro le intolleranze e i fanatismi religiosi di ogni genere;
   se, conseguentemente, siano state adottate iniziative per l'acquisizione di informazioni dirette sulle condizioni di vita delle comunità di minoranze religiose nel mondo e se siano stati avviati rapporti diretti con i rappresentanti di tali minoranze in Italia, al fine di realizzare interventi umanitari più efficaci;
   se siano state adottate presso il Governo del Pakistan, nel quadro dell'Unione europea o presso gli organismi internazionali, iniziative volte ad incoraggiare un'azione di rafforzamento del rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo e, in particolare, del diritto di libertà religiosa della comunità cristiana residente nel Paese.
(3-02551)
(12 ottobre 2016)

D) Interpellanza

   I sottoscritti chiedono di interpellare il Presidente del Consiglio dei ministri e il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, per sapere – premesso che:
   sull'Italia pendono ben 3 procedure di infrazione europea;
   la prima fu la procedura d'infrazione 2004/2034 (causa C 565/10): relativa agli agglomerati 10.000 a.e. che scaricano in aree cosiddette «sensibili», in ordine alla quale l'inadempienza dello Stato italiano è relativa agli obblighi di predisposizione dei sistemi di raccolta (direttiva 91/271/CEE, articolo 3) e dei sistemi di trattamento (articoli 4 e 10). La sentenza della Corte di giustizia del 19 luglio 2012 ha accertato la violazione da parte dello Stato italiano per 110 agglomerati;
   la seconda procedura d'infrazione 2009/2034 (causa C-85/13) è relativa allo stato di attuazione per gli agglomerati 2.000 a.e.; a seguito di questa procedura la sentenza della Corte di giustizia del 10 aprile 2014 ha accertato la violazione da parte dello Stato italiano per 41 agglomerati;
   la terza, partita all'inizio del 2014, è la 2014/2059, all'esito della raccolta di informazioni EU Pilot 1976/11/ENVI, relativamente agli agglomerati con carico generato superiore a 2.000 a.e.; essa riguarda la non conformità agli articoli 3, 4 e 5 per 883 agglomerati urbani e la non conformità all'articolo 5 per 55 aree sensibili;
   si apprende che l'Unione europea ha quantificato la sanzione relativa alla prima procedura di infrazione europea, sulla quale la Corte di giustizia si era espressa nel 2012. Oltre 62 milioni di euro di multa a titolo forfettario, più una sanzione supplementare di quasi 347 mila euro per ogni giorno di mancata applicazione di quanto imposto: questo il contenuto economico del nuovo ricorso contro l'Italia proposto da Bruxelles. Nel 2012 la Corte aveva stabilito che le autorità italiane stavano violando il diritto dell'Unione europea in quanto non avevano assicurato la raccolta e il trattamento adeguati dei liquami di scolo di 109 agglomerati urbani. Di conseguenza, ne aveva ordinato un'adeguata raccolta e trattamento, pena sanzioni. Alla perentoria indicazione è stato dato seguito solo in una minoranza di casi, cosicché oggi, a quattro anni di distanza, risultano essere ancora 80 i casi di violazione. Complessivamente, oltre sei milioni di persone risiedono nei centri abitati considerati dalla sentenza. La motivazione del nuovo deferimento dell'Italia risiede nel fatto che il mancato trattamento delle acque reflue «pone rischi significativi per la salute umana, le acque interne e l'ambiente marino». In particolare, viene posto l'accento sugli eccessivi contenuti di fosforo e di azoto negli scarichi, incriminati perché in grado di danneggiare sia le acque dolci che l'ambiente marino, favorendo la crescita eccessiva di alghe che finiscono col soffocare le altre forme di vita;
   fonti di stampa già annunciavano la notizia a metà settembre 2016, notizia che ora viene nuovamente confermata;
   fino all'approvazione del decreto-legge n. 113 del 2016 l'erogazione dei fondi previsti dall'articolo 7, comma 6, del cosiddetto «decreto sblocca Italia», per avviare i lavori di adeguamento dei depuratori, nonostante la nomina di diversi commissari, è stata bloccata per problemi burocratici, dovuti anche a lacune legislative come segnalato in diversi atti di sindacato ispettivo degli interpellanti e in ordini del giorno accolti –:
   se intendano fornire informazioni precise relativamente alla quantificazione delle sanzioni relative alla procedura di infrazione 2004/2034, sia in totale, sia relativamente alle singole regioni, e se trovi conferma che il pagamento delle sanzioni avverrà tramite la mancata erogazione di fondi europei alle singole regioni;
   se intendano fornire dati precisi sullo stato di avanzamento dei lavori di adeguamento richiamati in premessa a seguito del decreto-legge n. 113 del 2016.
(2-01562)
«Daga, Villarosa, De Rosa, Terzoni, Micillo, Busto, Mannino, Zolezzi, Vignaroli».
(19 dicembre 2016)

E) Interrogazione

   LATRONICO. — Al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   la promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili è regolata dalla direttiva 2009/28/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile 2009, recepita dal nostro Paese con il decreto legislativo 3 marzo 2011, n. 28 (Attuazione della direttiva 2009/28/CE sulla promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili, recante modifica e successiva abrogazione delle direttive 2001/77/CE e 2003/30/CE);
   il comma 1 dell'articolo 4 di detto decreto legislativo stabilisce che, al fine di favorire lo sviluppo delle fonti rinnovabili e il conseguimento, entro il 2020, degli obiettivi stabiliti relativamente alla quota complessiva di energia da fonti rinnovabili sul consumo finale lordo di energia e alla quota di energia da fonti rinnovabili in tutte le forme di trasporto, la costruzione e l'esercizio di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili siano disciplinati secondo speciali procedure amministrative semplificate, accelerate, proporzionate e adeguate, sulla base delle specifiche caratteristiche di ogni singola applicazione;
   il 23 giugno 2016 il Ministero dello sviluppo economico emanava il decreto «Incentivazione dell'energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili diverse dal fotovoltaico»;
   tale decreto, anziché semplificare, ha aperto numerosi dubbi interpretativi (in particolar modo, l'articolo 5), che hanno portato all'apertura di diversi contenzioni di fronte del tribunale amministrativo regionale del Lazio;
   a seguito dell'intervento delle associazioni di settore (Anev, Cpem e altre) il Gestore dei servizi energetici (Gse) sta per emanare una circolare esplicativa;
   il citato decreto ministeriale estende gli incentivi previsti dalla normativa vigente al 29 giugno 2017 (purché gli impianti siano entrati in esercizio entro tale data) e comunque fino al raggiungimento del tetto massimo stanziato pari a 5,8 miliardi di euro annui;
   fino al 1o dicembre 2017 vengono assicurati incentivi molto più bassi (si passa da 268 euro megawatt a 190 megawatt);
   come comunicato dal Gestore dei servizi energetici, il costo indicativo cumulato di tutte le tipologie di incentivo degli impianti a fonte rinnovabile è passato da quasi 5,8 miliardi di euro del 2016 agli attuali 5,4 miliardi di euro, con proiezione al 2020 a 5,2 miliardi di euro;
   da quanto appreso dall'interrogante, risulterebbe che l’iter procedurale con E-distribuzione, la società del gruppo Enel che si occupa della distribuzione di energia elettrica in Italia, non è inferiore ai dieci mesi, per colpa delle centinaia di domande di allaccio presentate, cui gli attuali organici della società non sono in grado di far fronte, anche a causa del temporaneo trasferimento di molti dirigenti e tecnici in Abruzzo per la recente drammatica emergenza sismica;
   tale situazione rischia di non consentire la certezza degli allacci entro il 29 giugno 2017, in particolare di moltissimi impianti del cosiddetto «mini-eolico», con il concreto rischio di danneggiare una vasta platea di piccoli investitori;
   ad oggi, inoltre, ancora nulla si sa sugli incentivi per il triennio 2018/2020, rendendo, quindi, ulteriormente incerto il futuro di un settore che vede impegnate molte aziende italiane e conta diverse migliaia di addetti, con il rischio concreto che il Paese non raggiunga le quote minime di energia da fonte rinnovabile concordate a livello comunitario –:
   se non ritenga di dover quanto prima assumere iniziative per provvedere al rinnovo, almeno fino al 31 dicembre 2017, dell'attuale entità dell'incentivo o, quantomeno, prospettare una soluzione per chi, per cause indipendenti dalla sua volontà, si trova nelle situazioni riportate in premessa;
   se si intenda adottare quanto prima il decreto ministeriale per il triennio 2018/2020 al fine di assicurare un periodo relativamente lungo, necessario agli imprenditori per poter programmare gli investimenti. (3-03052)
(26 maggio 2017)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE VOLTE A GARANTIRE IL FUNZIONAMENTO DELLE PROVINCE

   La Camera,
   premesso che:
    la Costituzione sancisce che la Repubblica è costituita dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato (articolo 114), che le province sono titolari di funzioni amministrative (articoli 117 e 118), hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa e risorse autonome, stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, rappresentanti le risorse con le quali possono finanziare integralmente le funzioni loro attribuite (articolo 119);
    tra le funzioni fondamentali, si ricorda, è competenza delle province, quali enti con funzioni di area vasta: la pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, nonché la tutela e valorizzazione dell'ambiente, per gli aspetti di competenza; la pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, autorizzazione e controllo in materia di trasporto privato, nonché la costruzione e gestione delle strade provinciali e relativa regolazione della circolazione stradale ad esse inerente; la programmazione provinciale della rete scolastica e la gestione dell'edilizia scolastica; la cura dello sviluppo strategico del territorio e la gestione di servizi in forma associata in base alle specificità del territorio medesimo;
    l'esito referendario negativo del 4 dicembre 2016 sulla riforma costituzionale proposta dal Governo Renzi, di fatto, riporta «in vita» le istituzioni provinciali, non essendosi manifestata la volontà popolare di eliminarle;
    tale esito stride oggi con la previsione della cosiddetta legge Delrio n. 56 del 2014, che ha smantellato le province, impoverendole di funzioni fondamentali e portando alla deregulation la gestione dell'area vasta a livello territoriale;
    necessita, pertanto, in una prospettiva di lungo periodo, un intervento normativo che adegui la citata legge n. 56 del 2014 ed al contempo delinei un ordinamento locale delle province in coerenza col dettame costituzionale;
    già la legge di stabilità per il 2015 (legge n. 190 del 2014), considerando le province quali «enti in attesa di riforma costituzionale», ha operato un taglio pari a 1 miliardo di euro nel 2015, cui si aggiunge un altro miliardo nel 2016 ed un altro miliardo ancora nel 2017;
    sulla base di una serie di interventi normativi (decreto-legge n. 201 del 2011; decreto-legge n. 95 del 2012; decreto-legge n. 66 del 2014 e, appunto, legge n. 190 del 2014) negli ultimi cinque anni c’è stata da parte dello Stato una continua riduzione di risorse alle province pari a: 1.115 milioni di euro nel 2013, 2.059 milioni di euro nel 2014, 3.241 milioni di euro nel 2015, 4.250 milioni di euro nel 2016 e 5.250 milioni di euro nel 2017 (dato che comprende anche le città metropolitane, istituite il 1o gennaio 2015);
    a fronte dei predetti tagli, le province hanno dovuto effettuare una drastica riduzione della propria spesa corrente, quantificata in 2,7 miliardi di euro dal 2013 al 2016 (2013: 7,5 miliardi di euro; 2014: 6,2 miliardi di euro; 2015: 5,2 miliardi di euro; 2016: 4,8 miliardi di euro), pari ad un 40 per cento in meno che, inevitabilmente, si riversa sui servizi essenziali erogati per la sicurezza dei territori e lo sviluppo locale;
    dal totale delle entrate di tutte le province e città metropolitane, pari a 3 miliardi e 668 milioni di euro (di cui 1,3 miliardi derivante dall'imposta provinciale di trascrizione e 2,3 miliardi dalle assicurazioni di responsabilità civili automobili), sottratto il taglio imposto dalla legge di stabilità n. 190 del 2014 (pari a 3 miliardi di euro nel triennio) e quello conseguente alla spending review di cui al decreto-legge n. 66 del 2014 (pari a 579 milioni di euro), sui territori provinciali resta appena il 3 per cento degli introiti per poter coprire le spese delle loro funzioni fondamentali;
    l'ammontare residuo di risorse a disposizione è, pertanto, decisamente ed ovviamente insufficiente, al punto che l'Upi – Unione delle province italiane ha dovuto promuovere una mobilitazione con il deposito, da parte dei presidenti di provincia, di esposti cautelativi alle procure della Repubblica, alle prefetture e alle sezioni regionali della Corte dei conti;
    secondo l'Upi, infatti, le entrate 2017 sono pari a 2 miliardi e 916 milioni di euro a fronte di uscite pari a 3 miliardi e 608 milioni di euro, escludendo l'ulteriore taglio di 650 milioni di euro, quindi con un ammanco nel 2017 per chiudere i bilanci delle sole 75 province di regioni a statuto ordinario pari a quasi 700 milioni di euro (691.954.000), il che pone le province medesime nell'oggettiva impossibilità di approvare i bilanci preventivi entro il 31 marzo 2017 secondo quanto disposto dalla legge di bilancio per il 2017;
    addirittura la stessa Sose, la società del Ministero dell'economia e delle finanze incaricata di calcolare i fabbisogni standard degli enti locali, ha quantificato in 651,5 milioni di euro la distanza tra le entrate garantite e le spese necessarie alle funzioni che ancora restano in capo alle province, nonostante l'alleggerimento della riforma cosiddetta Delrio, prime fra tutte la messa in sicurezza e la manutenzione dei 130 mila chilometri di strade provinciali e la gestione dei 5.100 edifici scolastici,

impegna il Governo:

1) ad assumere iniziative, anche normative, volte a:
   a) ripristinare le funzioni attribuite alla province ante legge n. 56 del 2014, consolidando la loro esistenza costituzionale alla luce del voto referendario del 4 dicembre 2016;
   b) individuare le risorse adeguate a copertura delle funzioni assegnate in base all'analisi reale dei fabbisogni standard, nel rispetto del dettame costituzionale di cui all'articolo 119 della Costituzione;
   c) semplificare la forma di governo degli enti attraverso una revisione della disciplina relativa agli organi, allo loro durata, al sistema di elezione ripristinandone l'elezione diretta;
   d) destinare alle province una quota del fondo Anas pari ad almeno 300 milioni di euro per la manutenzione straordinaria delle strade provinciali, così da avviare le opere necessarie per riportare in sicurezza un'importante e strategica rete viaria;
   e) assegnare alle province le ulteriori risorse necessarie a garantire l'espletamento delle funzioni fondamentali necessarie per la sicurezza dei territori ed i servizi essenziali ai cittadini, come evidenziato anche dalla Sose nel corso dell'audizione parlamentare del 16 marzo 2017 in Commissione bicamerale per l'attuazione del federalismo fiscale;
   f) riportare nei bilanci delle province i risparmi derivanti dai propri atti e provvedimenti di spending review;
   g) ripristinare l'autonomia organizzativa degli enti attraverso l'abrogazione della disposizione di cui al comma 420 della legge n. 190 del 2014;
   h) riconoscere alle province, in via straordinaria anche per il 2017, la facoltà di utilizzare gli avanzi di amministrazione per assicurare gli equilibri dei bilanci.
(1-01553)
«Simonetti, Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Busin, Caparini, Castiello, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Molteni, Pagano, Picchi, Gianluca Pini, Rondini, Saltamartini».
(21 marzo 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    la Repubblica è composta dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato (articolo 114 della Costituzione);
    le province sono titolari di funzioni amministrative (articoli 117 e 118 della Costituzione);
    le province hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa; le risorse derivanti da queste fonti consentono di finanziare integralmente le funzioni attribuite (articolo 119 della Costituzione);
    la legge n. 56 del 2014 (cosiddetta «legge Delrio»), recante «Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni», non ha abolito le province, ma le ha trasformate in enti di secondo livello, governate da sindaci e amministratori comunali;
    infatti, l'articolo 1 della suddetta legge, al comma 85, dispone che le province, quali enti con funzioni di area vasta, mantengono l'esercizio delle seguenti funzioni fondamentali:
     a) pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, nonché tutela e valorizzazione dell'ambiente, per gli aspetti di competenza;
     b) pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, autorizzazione e controllo in materia di trasporto privato, in coerenza con la programmazione regionale, nonché costruzione e gestione delle strade provinciali e regolazione della circolazione stradale;
     c) programmazione provinciale della rete scolastica, nel rispetto della programmazione regionale;
     d) raccolta ed elaborazione di dati, assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali;
     e) gestione dell'edilizia scolastica;
     f) controllo dei fenomeni discriminatori in ambito occupazionale e promozione delle pari opportunità sul territorio provinciale;
    la «legge Delrio», del resto, era solo propedeutica all'eliminazione delle province dalla Costituzione, alla loro trasformazione in «enti di area vasta» e all'assegnazione a comuni e regioni, e solo residualmente agli enti di area vasta e alle città metropolitane, secondo il principio di sussidiarietà, anche delle funzioni fondamentali che la «legge Delrio» aveva mantenuto in capo alle province;
    tale progetto complessivo di riordino delle funzioni statali si è interrotto a seguito dell'esito negativo del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, che ha avuto, fra le altre, la conseguenza di mantenere in capo alle province la loro autonomia istituzionale, finanziaria e organizzativa, in coerenza con il principio autonomistico sancito dall'articolo 5 della Costituzione, e tutte le competenze fondamentali;
    anche il trasferimento alle regioni delle competenze sottratte alle province dalla «legge Delrio» (caccia e pesca, acque, trasporto rifiuti oltre frontiera, autonomie e altro) ha visto risultati del tutto difformi da regione a regione: in quelle virtuose il trasferimento è completato, ma in molte altre il trasferimento è ancora in corso, con la conseguenza che alcune province si devono ancora occupare di funzioni che non dovrebbero essere più di loro competenza, con conseguente aggravio di costi e di personale;
    senza aspettare la conclusione dell’iter della riforma costituzionale, e della conseguente eliminazione delle province, il Governo ha ritenuto, «in attesa della riforma costituzionale», di operare comunque tagli drastici ai bilanci provinciali;
    così, nella legge n. 190 del 2014 (legge di stabilità per il 2015) ha operato, all'articolo 1, comma 418, un taglio di 3 miliardi di euro complessivi a regime del tutto insostenibile per i bilanci, così attuato: un miliardo di euro nel 2015 (decreto-legge n. 78 del 2015, articolo 1, comma 10, e tabella 2), cui si aggiunge un miliardo di euro nel 2016 (decreto-legge n. 113 del 2016, articolo 8, comma 1-bis, e tabella 1) e un miliardo di euro nel 2017 (provvedimento attuativo ancora da definire);
    la manovra finanziaria nei confronti delle province non ha operato solo un taglio, ma un vero e proprio prelievo di risorse dai loro bilanci: a giudizio dei firmatari del presente atto di indirizzo si tratta di un prelievo incoerente, perché nega il principio di autonomia finanziaria degli enti sancito dall'articolo 119 della Costituzione, e di una sottrazione di risorse proprie (le entrate dai tributi locali) che avrebbero come destinazione, secondo il dettato costituzionale, la copertura integrale delle funzioni attribuite;
    dal 2013 al 2017 alle province è stato imposto un taglio complessivo alle risorse pari a 5,2 miliardi di euro, che derivano dall'applicazione delle seguenti disposizioni: decreto-legge n. 201 del 2011 (taglio di 415 milioni di euro), decreto-legge n. 95 del 2012 (taglio di 1.250 milioni di euro), decreto-legge n. 66 del 2014 (taglio di 58 milioni di euro), legge n. 190 del 2014 (taglio 3.000 milioni di euro);
    a seguito di queste manovre finanziarie, oggi vi è uno squilibrio nei bilanci delle province che come minimo ammonta a 650 milioni di euro, come certificato anche dal Sose – Soluzioni per il sistema economico spa, società per azioni costituita dal Ministero dell'economia e delle finanze (88 per cento) e dalla Banca d'Italia (12 per cento), in audizione in Commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale il 16 marzo 2017;
    il Governo ha quindi operato come se le province fossero già svuotate delle loro funzioni fondamentali (trasporti, strade, rete scolastica, tutela ambientale e altro), rimaste in realtà sotto la loro competenza, e i tagli di bilancio conseguenti a questa logica fanno sì che un intero comparto istituzionale costitutivo della Repubblica non sarà in grado né di approvare i bilanci, né di erogare i servizi: un'evenienza che non si è mai verificata nella storia del Paese;
    di conseguenza, si evidenziano, per esempio, profonde criticità ed emergenze sulla manutenzione degli edifici scolastici di competenza (oltre 5.000), a partire dalle più elementari regole di adeguamento alle norme antincendio (le cui scadenze vengono prorogate da oltre 20 anni) o all'acquisizione dei certificati di agibilità statico-sismica;
    anche la manutenzione dei circa 130.000 chilometri di strade provinciali subisce gli effetti della mancanza di fondi, considerando inoltre che, per la viabilità provinciale, è stata introdotta, con la normativa in materia di omicidio stradale, anche la responsabilità colposa a carico dei responsabili della manutenzione e costruzione delle strade, chiaramente indicata nella circolare del dipartimento di pubblica sicurezza del Ministero dell'interno del 25 marzo 2016. Da ciò consegue il concreto pericolo di responsabilità non soltanto amministrativa, ma anche civile e penale, sia delle amministrazioni e sia, nel caso di responsabilità penali, dei funzionari e dirigenti addetti ai servizi;
    a tale proposito, occorre evidenziare che anche la Corte dei conti nella deliberazione n. 17 del 2015 della sezione delle autonomie, in cui si relaziona al Parlamento sul riordino delle province, nel richiamare l'attenzione sull'impatto delle misure conseguenti alla legge di stabilità n. 190 del 2014, le ritiene «suscettibili di generare forti tensioni sugli equilibri finanziari» ed afferma che «ancora più problematico si prefigura il taglio incrementale per il biennio 2016-2017, atteso che una volta riallocate le funzioni e le risorse a queste destinate, le province si troveranno a dover conseguire i risparmi richiesti su aggregati di spesa più ristretti e soprattutto vincolati alle funzioni fondamentali»;
    il direttore centrale della finanza locale del dipartimento degli affari interni e territoriali del Ministero dell'interno, dottor Giancarlo Verde, in un'audizione svoltasi in data 16 febbraio 2017 presso la Commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale, attesta che la riduzione delle risorse, che ammonta a circa 4,8 miliardi di euro dal 2008 al 2016, «ha condotto ad uno stato generale di disagio finanziario delle province che ha portato ad una difficoltà nell'attendere alle funzioni assegnate che si evidenzia con la flessione qualitativa e, talvolta, perfino l'assenza di importanti servizi. In alcuni casi, è stato inevitabile il ricorso alla procedura di dissesto finanziario, 4 casi da sempre, ma solo 3 nell'ultimo quadriennio. Più significativo il ricorso alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale previsto dall'articolo 243-bis del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000, a cui sono ricorse nel quinquennio trascorso ben 14 province. Pertanto quasi il 20 per cento degli enti è ricorso a misure straordinarie, percentuale che spinge a riflettere sulla grave situazione che vivono tali enti locali»;
    successivamente anche la Corte dei conti – sezione autonomie locali, in un'audizione presso la Commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale, il 23 febbraio 2017 ha ribadito che:
     a) con il venir meno, dunque, della «programmata soppressione delle province», almeno nel medio termine, sembra imporsi la necessità che, nelle politiche pubbliche di settore, l'operatività di detti enti – previsti tanto dall'articolo 114 che dall'articolo 118 della Costituzione come soggetti istituzionali destinatari di funzioni proprie e fondamentali e funzioni conferite – non risenta più degli effetti di questa prospettiva condizionata;
     b) per le funzioni fondamentali rimane, invece, la necessità di rivedere la coerenza e la congruità delle misure finanziarie adottate nell'ambito dell'intrapreso progetto di riforma, con le esigenze immediate delle amministrazioni provinciali;
     c) detti enti, nella cornice delle proprie responsabilità istituzionali e nel quadro delle proprie attribuzioni, devono poter disporre delle risorse finanziarie, di personale e strumentali necessarie per l'esercizio delle loro funzioni fondamentali e per la garanzia dei servizi essenziali per i cittadini ed i territori, sempre nell'ottica della massima razionalizzazione dell'uso delle risorse;
    i presidenti delle province, riuniti in assemblea generale alla presenza dei parlamentari della Repubblica nella giornata del 16 febbraio 2017, hanno denunciato a gran voce di trovarsi nella concreta impossibilità di erogare servizi fondamentali per la collettività, legati alle funzioni individuate dalla legge n. 56 del 2014 per province e città metropolitane;
    i presidenti delle province, nella medesima giornata, sono stati ricevuti dal Presidente della Repubblica, a cui hanno chiesto sostegno affinché il Governo agisca con tempestività e senza esitazioni e affronti e risolva le questioni di estrema emergenza che riguardano i territori, mettendo queste istituzioni nelle condizioni di garantire la sicurezza dei 130.000 chilometri di strade provinciali, delle 5.100 scuole superiori italiane in cui studiano 2.500.000 ragazzi, di realizzare gli interventi necessari a contrastare il dissesto idrogeologico;
    gli stessi presidenti delle province si sono sentiti costretti, per la prima volta nella storia, a rivolgersi alla procura della Repubblica con un esposto cautelativo, affinché si accerti di chi è la vera responsabilità di eventuali disservizi delle province;
    con il recente decreto-legge n. 50 del 2017, recante «Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo», sono stati stanziati solo 180 milioni di euro di parte corrente per scuole e strade per il 2017 a fronte di un fabbisogno certificato di 650 milioni,

impegna il Governo:

1) ad assumere iniziative urgenti, anche normative, necessarie per garantire alle province italiane, enti costitutivi della Repubblica, di far fronte alle proprie funzioni istituzionali, e in particolare volte:
   a) ad individuare le risorse adeguate a copertura delle funzioni assegnate in base all'analisi reale dei fabbisogni standard, nel rispetto dell'articolo 119 della Costituzione;
   b) a lasciare nei bilanci delle province i risparmi dei costi della politica determinati dalla gratuità totale dei presidenti e dei consiglieri provinciali, considerato che nelle province la politica ha costo zero, unico caso tra le istituzioni della Repubblica: questi risparmi devono essere messi a disposizione delle comunità locali;
   c) a ripristinare l'autonomia organizzativa degli enti, attraverso la soppressione del comma 420 dell'articolo 1 della legge n. 190 del 2014, con la possibilità di avere in organico quelle professionalità indispensabili per svolgere le funzioni che rimangono loro assegnate;
   d) in una prospettiva temporale più lunga, a promuovere una revisione della legge n. 56 del 2014 per disegnare un ordinamento locale delle province stabile e coerente con la Costituzione, considerato che a tal fine è necessario:
    1) consolidare le funzioni fondamentali previste dalla legge n. 56 del 2014, ampliare le funzioni amministrative territoriali e valorizzare con le funzioni di assistenza e di supporto ai comuni, le stazioni uniche appaltanti e i servizi pubblici locali previsti dai commi 88 e 90 dell'articolo 1, in modo da fornire indirizzi chiari anche per il riordino della legislazione regionale;
    2) semplificare la forma di governo degli enti, attraverso una revisione della disciplina relativa agli organi, alla loro durata, ripristinando un sistema di elezione diretta del presidente e del consiglio provinciale;
    3) conferire una delega per la revisione del testo unico degli enti locali, per adeguarlo alle novità in materia di comuni, province e città metropolitane.
(1-01560)
(Nuova formulazione) «Brunetta, Gelmini, Carfagna, Occhiuto, Russo, Sisto, Fabrizio Di Stefano, Centemero, Sarro».
(27 marzo 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    la Repubblica italiana «è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato», ai sensi dell'articolo 114 della Costituzione; tale articolo, riformulato con legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, conferisce evidentemente un particolare rilievo, addirittura letteralmente «costitutivo», a tutti i livelli di governo territoriale, per quanto la Corte costituzionale, sin dalla sentenza n. 274 del 2003 abbia precisato che ciò «non comporta affatto una totale equiparazione fra tali enti, con poteri profondamente diversi tra loro: basti considerare che solo allo Stato spetta il potere di revisione costituzionale e che Comuni e Province non hanno potestà legislativa;
    l'appena evidenziata complessità dei livelli di governo e soprattutto il disegno territoriale degli stessi sono, almeno nelle loro linee fondamentali, frutto di scelte ormai risalenti nel tempo, ponendo il Paese sostanzialmente di fronte a un'organizzazione amministrativa disegnata secondo i parametri di efficienza dettati nei tempi in cui i trasporti erano misurati dal tragitto quotidiano di un cavallo, risultando così incapaci di rispondere alle attuali esigenze di prestazioni di servizi e di svolgimento delle attività professionali e lavorative in generale;
    è necessario tornare a governare efficacemente il Paese, rifondando le basi di cittadinanza e ridisegnando pertanto, con coraggio e ambizione, il tessuto complesso del governo locale;
    è necessario che ciò avvenga secondo un processo che lo Stato e il Governo in particolare devono legittimare, facilitare e seguire, ma che deve realizzarsi comunque attraverso modalità bottom up, sulla base di dinamiche moderne di cooperazione tra enti su strategie di sviluppo condivise, individuando livelli di efficienza scalare a geometria variabile nell'offerta dei servizi, senza dirigismo, bensì assecondando e favorendo lo sviluppo più generalizzato di quanto in molti luoghi del Paese si sta già muovendo in questa direzione, a legislazione vigente;
    si tratta, in sostanza, di procedere con modalità profondamente diverse rispetto a quelle seguite dai Governi che si sono succeduti negli ultimi anni, che hanno operato «dall'alto», con norme astruse e contraddittorie, latrici di soluzioni spesso irrealizzabili, senza mai offrire una lettura empiricamente fondata del Paese;
    se certamente sono mancate scelte di riorganizzazione del livello regionale, rispetto al quale l'unico intervento era stato rimesso a una riforma costituzionale (bocciata dagli elettori il 4 dicembre 2016) con l'unico obiettivo di ricentralizzare (peraltro secondo modalità capaci di ingenerare ulteriore incertezza nei rapporti giuridici e di non riso vere certamente – ma anzi forse di aggravare – la conflittualità tra lo Stato e le regioni rimessa alla giurisdizione costituzionale), trascurando, invece l'attivazione di dinamiche di cooperazione macroregionale per pervenire, in un medio periodo, a una semplificazione del tessuto regionale attraverso processi condivisi di ridisegno secondo l'articolo n. 132 della Costituzione e non superando – ma anzi amplificando – il doppio regionalismo (ordinario e speciale); è soprattutto a livello locale che a parere dei firmatari del presente atto si sono realizzati gli interventi più miopi, inadeguati e inefficaci, privi di qualunque visione della riorganizzazione dell'assetto territoriale e condotti, invece, sempre e soltanto per la necessità di fare cassa;
    in quest'ambito è soprattutto l'ente intermedio, la provincia, ad avere ottenuto il trattamento peggiore. Considerata, con notevole superficialità, alla stregua di un «ente inutile», dal 2011 si è solo pensato ad una sua grossolana soppressione, a tessuto di governo territoriale invariato;
    così la «eliminazione delle Province» e divenuto uno dei primi obiettivi del Governo Monti, insediatosi in presenza di un'emergenza finanziaria, sembrando rispondere in merito al contenuto di una lettera inviata dalla Banca centrale europea precedente al precedente Governo il 5 agosto 2011, che in effetti risulta sul punto piuttosto atipica, per quanto scendeva nel dettaglio, sottolineando «l'esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province)»;
    se la «eliminazione» delle province non era realizzabile in tempi brevi, essendo queste – come abbiamo detto – previste dalla Costituzione, addirittura come «enti costitutivi» della Repubblica (tanto che, a prendere alla lettera la formulazione dell'articolo n. 114 della Costituzione ci si potrebbe chiedere se possa esistere una Repubblica senza province), il Governo Monti è comunque intervenuto addirittura con decreto-legge a svuotare l'ente intermedio di funzioni, sopprimendone gli organi elettivi, per sostituirli con altri di secondo grado (espressi, in sostanza, dai comuni appartenenti alla provincia stessa);
    la eliminazione di organi eletti a suffragio universale diretto ha anzitutto rappresentato un vulnus nella possibilità per i cittadini di influire (direttamente) nella determinazione dell'indirizzo politico provinciale, costringendoli a subire scelte politiche (e non di mera gestione, come talvolta si è provato a sostenere) degli organi di secondo livello (peraltro non del tutto adeguatamente rappresentativi dell'intero territorio provinciale), rischiando di compromettere almeno in parte, considerato il mantenimento della capacità impositiva, il principio cardine del costituzionalismo del no taxation without representation;
    la prima riforma delle province, realizzata dal Governo Monti con il decreto-legge n. 201 del 2011, convertito dalla legge n. 214 del 2011, con il dichiarato esclusivo (e sembrerebbe esclusivo) obiettivo di riduzione dei costi (la rubrica dell'articolo n. 23 reca «Riduzione dei costi di funzionamento delle Autorità di Governo, del CNEL, delle Autorità indipendenti e delle Province»), con una nuova disciplina di organizzazione (che li rende enti di secondo livello dal punto di vista degli organi) e una drastica riduzione delle funzioni attribuite è stata oggetto di ricorso di fronte alla Corte costituzionale che, con sentenza n. 220 del 2013, l'ha giudicata incostituzionale, in quanto» la trasformazione per decreto-legge dell'intera disciplina ordinamentale di un ente locale territoriale, è incompatibile, sul piano logico e giuridico, con il dettato costituzionale, trattandosi di una trasformazione radicate dell'intero sistema»;
    il radicale vizio d'incostituzionalità riscontrato ha, secondo i presentatori del presente atto, di fatto impedito alla Corte di affrontare i profili più specifici e ha aperto la strada ad un'ulteriore riforma, realizzata con la legge 7 aprile 2014, n. 56 (cosiddetta «legge Delrio» dal nome del Ministro per gli affari regionali e le autonomie del Governo Letta al quale si deve l'iniziativa);
    questa legge, pur con alcune modifiche, mantiene due aspetti della precedente riforma: un forte ridimensionamento delle funzioni delle province e la eliminazione del suffragio universale diretto per la scelta degli organi politici, ancora consegnati a una rappresentanza di secondo livello, con i limiti già evidenziati;
    nel frattempo, il Governo Renzi, insediatosi dopo il Governo Letta, presentava una proposta di legge costituzionale recante un'ampia revisione della Parte seconda della Costituzione, prevedendo, tra l'altro, la soppressione delle province dal testo costituzionale, con ciò potendo porre i presupposti per la totale eliminazione dell'ente intermedio (che, in caso di approvazione della riforma, poi invece respinta dagli elettori con il referendum del 4 dicembre 2016, sarebbe comunque stato privato di riconoscimento costituzionale);
    intanto anche la cosiddetta «legge Delrio» è stata in effetti impugnata di fronte alla Corte costituzionale, la quale, con sentenza n. 50 del 2015, ha rigettato – come noto – tutte le censure formulate, ancorché con particolare riferimento a quelle ordinamentali abbia precisato che «è in corso l'approvazione di un progetto – da realizzarsi nelle forme di legge costituzionale – che ne prevede la futura soppressione, con la loro conseguente eliminazione dal novero degli enti autonomi riportati nell'articolo 114 Cost., come, del resto, chiaramente evincibile dall’incipit contenuto nel comma 51 dell'articolo 1 della legge in esame». Si tratta di una motivazione, a giudizio dei presentatori del presente atto, del tutto singolare nell'ambito della giurisprudenza costituzionale (probabilmente non solo italiana);
    in effetti, quella revisione costituzionale – come già ricordato – è stata sonoramente bocciata dagli elettori nel referendum del 4 dicembre 2016, con la conseguenza che da più parti è stata sottolineata la necessità – anche da un punto di vista del rispetto della Costituzione – di reintrodurre un sistema di elezione diretta degli organi della provincia, non potendosi in proposito che sottolineare come – anche in base a quanto poco sopra ricordato –, anche al di là di un diretto vincolo costituzionale, ciò risulterebbe certamente più coerente con il fondamento democratico della Repubblica e quindi dei suoi enti costitutivi; ciò sarebbe anche più rispondente alla necessità che, a tutti i livelli di governo, sia data diretta espressione alla sovranità popolare, in proposito sembrando anzi da valorizzare una maggiore partecipazione dei cittadini, anche potenziando la presenza degli istituti di democrazia diretta negli statuti degli enti locali;
    la tendenza alla soppressione (o almeno al fortissimo e inadeguato ridimensionamento) delle province, pur in assenza di un più generale intervento sull'assetto del governo locale del Paese, è stata peraltro accompagnata da pesantissimi tagli di risorse, o meglio – come è stato evidenziato dall'Unione delle province italiane – un vero e proprio prelievo. In proposito basti ricordare che la legge 23 dicembre 2014, n. 190 (legge di stabilità 2015) ha previsto, all'articolo 1, comma 418, che le province e le Città metropolitane «concorrono al contenimento della spesa pubblica attraverso una riduzione della spesa corrente di 1.000 milioni di euro per l'anno 2015, di 2.000 milioni di euro per l'anno 2016 e di 3.000 milioni di euro a decorrere dall'anno 2017. In considerazione delle riduzioni di spesa di cui al periodo precedente, ripartite nelle misure del 90 per cento fra gli enti appartenenti alle regioni a statuto ordinario e del restante 10 per cento fra gli enti della regione siciliana e della regione Sardegna, ciascuna provincia e città metropolitana versa ad apposito capitolo di entrata del bilancio dello Stato un ammontare di risorse pari ai predetti risparmi di spesa». Tali pesanti tagli si aggiungono a quelli realizzati con decreto-legge n. 201 del 2011, con decreto-legge n. 95 del 2012 e con decreto-legge n. 66 del 2014, giungendo, nel 2017, a sommare una riduzione di risorse pari a 5.250 milioni di euro;
    è stato calcolato che alle province resta appena il 3 per cento degli introiti raccolti sul territorio per poter coprire le spese delle loro funzioni fondamentali, destando preoccupazione, in particolare il mantenimento di 130 mila chilometri di strade provinciali, nonché di 5.100 scuole superiori, tanto che era stato evidenziato dalla stessa società soluzioni per il sistema economico pubblico e privato (Sose) società costituita dal Ministero dell'economia, con il compito, tra l'altro, di determinare i fabbisogni standard in attuazione del federalismo fiscale, la necessità di prevedere 650 milioni di euro aggiuntivi per la spesa corrente delle province;
    le preoccupazioni per la suddetta situazione non sono state superate in sede di approvazione della cosiddetta recente «manovrina», cioè la legge di conversione del decreto-legge n. 50 del 2017, tanto che l'Unione provinciale italiana, a mezzo del suo presidente, si era rivolta anche al Presidente della Repubblica, con lettera 1o giugno 2017, evidenziando la suddetta situazione. Tuttavia, la definitiva conversione in legge del decreto-legge sopra menzionato da parte del Senato in data 15 giugno 2017, senza la previsione delle risorse ritenute strettamente necessarie, ha portato il presidente dell'Unione provinciale italiana a concludere che «è mancata la volontà di risolvere la grave emergenza per i servizi assicurati dalle province: una emergenza causata da tagli irragionevoli e ingiustificati di cui evidentemente ancora non si vuole ammettere l'errore. Saranno i mancati servizi che inevitabilmente ne deriveranno, i diritti allo studio, alla mobilità, alla sicurezza, negati in questo modo ai cittadini, a mettere Governo e Parlamento di fronte alle loro responsabilità»;
    tutto questo rende, oggi, le province enti deboli (anche dal punto di vista della legittimazione) e sempre meno capaci di svolgere anche le funzioni loro mantenute, con conseguenze negative sui servizi e quindi sulla vita dei cittadini,

impegna il Governo:

1)  ad assumere iniziative volte a:
   a) riorganizzare l'assetto del governo locale attraverso procedimenti condivisi con i territori;
   b) prevedere, nell'ambito di una riforma dell'intero quadro normativo degli enti locali, una razionalizzazione delle funzioni amministrative dei diversi livelli di governo e, in particolare, in relazione all'ente intermedio, il ritorno a un'organizzazione fondata sul suffragio universale diretto nella scelta degli organi rappresentativi, favorendo altresì forme di partecipazione dei cittadini alle decisioni pubbliche, anche contemplando l'obbligo per i comuni e le province di prevedere nei loro statuti il referendum;
   c) individuare le risorse adeguate a copertura delle funzioni assegnate in base all'analisi reale dei fabbisogni standard nel rispetto di quanto previsto all'articolo 119 della Costituzione;
   d) prioritariamente, assegnare alle province le ulteriori risorse necessarie a garantire lo svolgimento delle funzioni fondamentali assegnate, a partire dal mantenimento e dalla messa in sicurezza delle strade di competenza e degli istituti scolastici, anche sulla base delle valutazioni formulate dalla società soluzioni per il sistema economico pubblico e privato (Sose).
(1-01646)
«Civati, Marcon, Airaudo, Brignone, Costantino, Daniele Farina, Fassina, Fratoianni, Giancarlo Giordano, Gregori, Andrea Maestri, Palazzotto, Pannarale, Paglia, Pastorino, Pellegrino, Placido».
(19 giugno 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    le decisioni e le misure che hanno interessato negli ultimi sei anni la sorte delle province è l'ulteriore prova che «La distanza più breve tra due punti è la retta. In Italia è l'arabesco», in quanto la soluzione più lineare, semplice, funzionale e veloce sarebbe stata, naturalmente, quella di sopprimere le province, mediante una legge costituzionale;
    dal primo tentativo di riduzione delle funzioni delle province, di cui al cosiddetto «decreto-legge Monti», poi dichiarato illegittimo, passando per la cosiddetta «legge Delrio», sono trascorsi sei anni e mezzo;
    si segnala che il riordino introdotto dalla stessa legge Delrio fu definito espressamente «provvisorio», nell'attesa dell'abolizione per via costituzionale, nonché privo di oneri per la finanza pubblica;
    non è peregrino pensare che, evidentemente, nonostante le buone parole e i lodevoli intenti, nessun Governo abbia mai voluto davvero abolire le province;
    si segnala che, in occasione dell'esame della cosiddetta «legge Delrio», la Corte dei conti aveva evidenziato la probabilità che il riordino prospettato avrebbe potuto comportare «aggravi di spesa, confusione ordinamentale e moltiplicazione di oneri» e sottolineato che «le procedure indicate mal si concilierebbero, per la durata e la complessità, con la provvisorietà del disegno organizzativo perseguito dal provvedimento»;
    la cosiddetta «legge Delrio» ha soppresso, delle province, solo la modalità di elezione degli amministratori, mantenendo loro le funzioni originarie, anzi, incrementandole, salvo prevedere un percorso successivo di trasferimento delle funzioni e del relativo personale per il tramite dell'intervento delle regioni;
    tale percorso non è stato e non è privo di «buche», in alcuni casi voragini: per molte delle province le cui funzioni non sono state trasferite le risorse finanziarie sono insufficienti, i bilanci sono sostanzialmente al collasso, soffocati dai mutui e, anche nel caso in cui siano trasferite risorse statali per il tramite del fondo di riequilibrio, queste sono trattenute dalle banche e ben poco o nulla rimane a disposizione per il pagamento degli stipendi del personale, per lo svolgimento delle funzioni proprie e dei connessi servizi ai cittadini – in particolare quelli riguardanti le scuole e le strade;
    la Costituzione italiana contiene una serie di disposizioni inerenti alle province, in particolare con riguardo all'autonomia e all'ambito economico, in quanto le risorse finanziarie devono consentire di finanziare integralmente le funzioni attribuite;
    con tale quadro mal si concilia, anzi, secondo i firmatari del presente atto, trattasi di vera e propria violazione di principi ordinamentali e costituzionali, il limbo giuridico nel quale le province versano e i tagli subìti, in forza, anche, della previsione, evidentemente troppo azzardata, della loro soppressione, «caduta» insieme all'intero progetto di revisione della Costituzione, respinto a seguito del referendum del dicembre 2016,

impegna il Governo:

1) ad assumere iniziative per dotare le province che non sono in grado di provvedervi delle risorse necessarie a garantire, in primis, il pagamento della retribuzioni al personale, anche considerandolo creditore privilegiato e lo svolgimento delle funzioni proprie, in particolare quelle dedicate alle scuole e alle strade;

2) in ordine alla ricollocazione del personale delle province in mobilità, conseguente al disposto trasferimento di funzioni delle province, a provvedere, ferma restando la vigente disciplina in materia, alla massima ottimizzazione delle assegnazioni del personale medesimo, tenendo nel debito conto le amministrazioni, centrali e periferiche, che risultino in carenza di organico, tra le quali, ad avviso dei firmatari del presente atto, sono da considerarsi le amministrazioni della giustizia, in particolare penitenziaria e dei tribunali;

3) ad adottare iniziative per introdurre misure sanzionatorie nei confronti delle regioni, a valere sui trasferimenti statali, fatti salvi il settore sanitario e dei trasporti, nel caso di loro inadempienza in ordine al trasferimento di funzioni delle province e nel caso di mancata erogazione delle risorse dovute a ciascuna provincia per l'esercizio delle funzioni alle stesse trasferite;

4) ad assumere iniziative per dare la possibilità agli enti provinciali di apportare le necessarie correzioni al proprio bilancio – in ottemperanza ai princìpi della veridicità, attendibilità, correttezza, e comprensibilità – nei casi in cui, anche per difficoltà di comprensione della complessa normativa sulla nuova contabilità, il riaccertamento straordinario del 2015 si sia rivelato incompleto o impreciso;

5) ad assumere iniziative per estendere alle province la disciplina della ristrutturazione del debito delle regioni di cui all'articolo 45 del decreto-legge n. 66 del 2014 convertito dalla legge n. 89 del 2014.
(1-01647)
«Nesci, Dieni, Dadone, Cecconi, Cozzolino, D'Ambrosio, Toninelli, Lorefice».
(19 giugno 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    la legge 7 aprile 2014, n. 56, in prospettiva di una riforma costituzionale del titolo V della Costituzione italiana che, tra l'altro, avrebbe dovuto prevedere l'abrogazione delle provincie, ha disposto una radicale riforma della struttura istituzionale, organizzativa, nonché delle funzioni svolte, dall'ente provincia trasformandolo in un ente di area vasta al quale in via transitoria sono comunque state demandate una serie di funzioni fondamentali quali: la manutenzione, la messa in sicurezza, la gestione ordinaria e straordinaria delle strade provinciali; la gestione ordinaria, manutenzione e messa in sicurezza, nonché spese di gestione utenze, per più di 5.000 istituti scolastici secondari di secondo grado; la predisposizione di interventi e opere a difesa dell'ambiente e per il contrasto al dissesto idrogeologico; infine, la pianificazione territoriale e dei trasporti;
    nelle more dell'abrogazione delle province la legge di stabilità per il 2015 (legge n. 94 del 2014) ha operato un taglio anticipato di quasi tre miliardi di euro di risorse ai bilanci delle province e delle città metropolitane;
    la mancata attuazione della riforma costituzionale e la conseguente mancata abrogazione delle province a seguito della «bocciatura» del referendum confermativo del 4 dicembre 2016 insieme alle ulteriori riduzioni di risorse operate nel corso degli anni 2015 e 2016 nei confronti delle stesse, ha lasciato queste amministrazioni in una situazione di estrema gravità dal punto di vista amministrativo rendendo impossibile in molti casi svolgere le funzioni, anche di natura fondamentale, che la legge attribuisce loro;
    la condizione di grave difficoltà amministrativa delle province italiane è stata più volte richiamata dalla Corte dei Conti, anche nel corso di relazioni rivolte al Parlamento italiano. Nella relazione al Parlamento del 30 aprile 2015 la magistratura contabile denunciava come, a seguito dei ritardi dei trasferimenti erariali e regionali, delle reiterate manovre sul fondo sperimentale di riequilibri e, in conseguenza di una costante tensione sulle entrate, determinata dalla progressiva contrazione di quelle derivate, non sufficientemente compensata dal potenziamento delle entrate proprie, le province fossero state di fatto poste in una condizione tale da annullare qualsiasi capacità programmatoria;
    più recentemente, il 23 febbraio 2017, la Corte dei Conti, nel rapporto alle Camere sulla situazione dei bilanci delle province, ha denunciato la manifesta irragionevolezza della forte riduzione delle risorse destinate a funzioni esercitate con carattere di continuità ed in settori di notevole rilevanza sociale, denunciando inoltre il grave deterioramento delle condizioni di equilibrio strutturale dei bilanci delle province, nonché il fatto che gli interventi emergenziali previsti non hanno prodotto un rimedio organico;
    la politica di costante riduzione delle risorse in favore delle province, oltre al dissesto di tre di esse e alla condizione di pre-dissesto di altre dieci amministrazioni provinciali, ha prodotto una situazione che, nell'anno in corso, registra una carenza di risorse necessarie a garantire l'esercizio delle funzioni fondamentali e dei bisogni standard pari a 650 milioni di euro totali per tutte le province italiane;
    per l'anno 2017 a fronte di oltre 2 milioni di euro di entrate prodotte dal gettito di tributi di spettanza provinciale, circa 1 miliardo e 600 milioni di euro verrà sottratto ai territori e utilizzato dallo Stato centrale, dando vita ad una sottrazione pari al 78,4 per cento del gettito totale dei tributi propri delle province;
    la preoccupante ristrettezza di risorse con la quale le province si trovano a fare conti oltre ad impedire non solo una minima programmazione della gestione, ma anche l'impossibilità concreta di approvare il bilancio di previsione per il 2017, produce una lunga serie di conseguenze ulteriori ed effetti collaterali tutti di segno negativo;
    risorse insufficienti producono effetti sullo sviluppo del territorio con piccole e medie imprese che, nell'ultimo triennio, si sono viste quasi azzerate le commesse pubbliche. Inoltre, l'insufficienza di investimenti locali produce il progressivo deterioramento del patrimonio pubblico;
    nello specifico caso delle province, quanto precede significa mancati interventi sulle scuole, sulle strade di competenza provinciale e sulle opere di contrasto al fenomeno del dissesto idrogeologico, con conseguente aumento del rischio per la incolumità delle persone;
    le norme contenute nel recente decreto-legge n. 50 del 2017 riguardanti le province hanno previsto misure e stanziamenti di risorse del tutto insufficienti a fronte dei fabbisogni reali. Per la gestione delle strade di competenza provinciale, pari a 130 mila chilometri totali di rete viaria sono stati stanziati solo 100 milioni di euro per il 2017. A fronte di uno sbilancio di risorse pari a 650 milioni di euro per la gestione delle funzioni fondamentali sono stati stanziati 110 milioni di euro per l'anno 2017 e 80 per l'anno 2018. Anche sul fronte del personale le aperture registrate sono state minime rispetto alle esigenze più volte manifestate dalle province in merito al ripristino delle ordinarie condizioni di autonomia organizzativa in materia di personale;
    nel corso dell'esame parlamentare del disegno di legge di conversione del predetto decreto-legge n. 50 del 2017, il gruppo parlamentare Articolo 1-MDP ha sostenuto numerose proposte avanzate dall'Upi in occasione del ciclo di audizioni, come quella relativa allo stanziamento in loro favore di 650 milioni di euro e, successivamente, a seguito dell'approvazione di proposte emendative di iniziativa parlamentare si è riusciti o a migliorare in parte le disposizioni già presenti nel decreto o ad introdurne delle nuove e aggiuntive rispetto al testo originario;
    in particolare, le risorse per lo svolgimento delle funzioni fondamentali sono state aumentate a 180 milioni di euro per ciascuno degli anni 2017 e 2018. I fondi per la manutenzione ordinaria delle strade sono stati elevati a 170 milioni di euro per l'anno 2017 ed in aggiunta potranno essere destinati i proventi delle contravvenzioni elevate negli anni 2017 e 2018. Sono state incrementate di 15 milioni, sempre per il 2017, le risorse da destinare agli interventi di edilizia scolastica;
    tali modifiche devono considerarsi uno sforzo sicuramente utile ma, purtroppo, ancora non sufficiente per porre rimedio alla grave condizione di difficoltà finanziaria in cui versano le province per consentire loro di svolgere pienamente le funzioni previste per legge,

impegna il Governo:

1) ad individuare ulteriori risorse da destinare alla spesa corrente delle province al fine di consentire loro il pieno esercizio delle funzioni fondamentali e l'erogazione dei servizi essenziali;

2) ad assumere iniziative per incrementare ulteriormente le risorse da destinare alla spesa in conto capitale per la manutenzione delle strade nonché per l'edilizia scolastica, al fine di avviare un piano di investimenti volto a maggiormente tutelare la sicurezza dei cittadini;

3) a individuare gli strumenti attraverso i quali consentire alle province una vera ristrutturazione del debito, non limitandosi alla semplice rinegoziazione, come già avvenuto per le regioni;

4) ad attivarsi per consentire l'istituzione di un fondo straordinario in grado di agevolare le province in dissesto finanziario e quelle in condizione di pre-dissesto nel tornare in una condizione di maggiore stabilità finanziaria;

5) al fine di sostenere la ripresa delle province colpite dal terremoto, ad assumere iniziative per prevedere che queste siano dispensate dal pagamento del contributo alla finanza pubblica per il 2017, di cui all'articolo 1, comma 418, della legge n. 190 del 2014, ed esentate dal rispetto del saldo di finanza pubblica per gli anni 2016 e 2017, nelle medesime modalità già previsti per le amministrazioni comunali;

6) a valutare una progressiva eliminazione dei vincoli che impediscono una efficiente gestione delle risorse umane fatti salvi i vincoli di natura finanziaria di cui all'articolo 1, comma 420, della legge n. 190 del 2014.
(1-01648)
«Melilla, Albini, Capodicasa, Laforgia, Ricciatti, Mognato, Fossati, Zappulla, D'Attorre, Scotto, Roberta Agostini».
(20 giugno 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    la Costituzione, all'articolo 114, stabilisce che la Repubblica è costituita da comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato e che comuni, province, città metropolitane e regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione;
    gli articoli 117 e 118 della Costituzione attribuiscono alle province funzioni amministrative, mentre l'articolo 119 attribuisce loro autonomia finanziaria di entrata e di spesa e risorse autonome con cui finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite;
    la legge n. 56 del 2014, recante «Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni», non potendosi con legge ordinaria abolire le province, le ha trasformate in enti di secondo livello, in attesa di una loro soppressione attraverso una riforma del titolo V della Costituzione;
    la cosiddetta «legge Delrio» ha mantenuto in capo alle province, quali enti con funzioni di area vasta, alcune funzioni fondamentali, come la pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, nonché la tutela e valorizzazione dell'ambiente, per gli aspetti di competenza; la pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, l'autorizzazione e il controllo in materia di trasporto privato, nonché la costruzione e gestione delle strade provinciali e la regolazione della circolazione stradale; la programmazione provinciale della rete scolastica; la raccolta ed elaborazione di dati, la assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali; la gestione dell'edilizia scolastica; il controllo dei fenomeni discriminatori in ambito occupazionale e promozione delle pari opportunità sul territorio provinciale;
    il testo della riforma costituzionale approvato dal Parlamento non ha affrontato nel suo complesso il tema di una revisione organica dei diversi livelli di governo, a partire dalle regioni, limitandosi alla soppressione delle provincie e alla loro trasformazione in «enti di area vasta», con l'attribuzione a comuni e regioni delle funzioni fondamentali che la «legge Delrio» aveva mantenuto in capo alle province, lasciando agli enti di area vasta e alle città metropolitane le competenze residuali;
    l'esito negativo del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, lasciando inalterato il testo della carta costituzionale, ha quindi avuto come conseguenza quella di mantenere l'autonomia istituzionale, finanziaria e organizzativa delle province. Ne consegue che diviene necessario un intervento normativo che adegui cospicue parti della citata legge n. 56 del 2014, alla filosofia di fondo del dettato costituzionale, voluto dai Costituenti o, quantomeno, ponga chiarezza nelle modalità con cui è avvenuto – e sta avvenendo – il trasferimento alle regioni e ai comuni delle competenze sottratte alle province;
    la mancata attuazione della riforma costituzionale e la conseguente mancata abrogazione delle province a seguito della «bocciatura» del referendum confermativo del 4 dicembre 2016 insieme alle ulteriori riduzioni di risorse operate nel corso degli anni 2015 e 2016 nei confronti delle stesse, ha lasciato queste amministrazioni in una situazione di estrema gravità dal punto di vista amministrativo rendendo impossibile in molti casi svolgere le funzioni, anche di natura fondamentale, che la legge attribuisce loro;
    la «bocciatura» della riforma costituzionale, pone anche un ulteriore problema: la «riforma Delrio» ha previsto l'eliminazione del suffragio universale diretto per la scelta degli organi politici, che sono stati affidati a una rappresentanza di secondo livello. Tale scelta, motivata da logiche «anti-casta» e da deboli argomentazioni di ordine economico, pare ora, con il mantenimento della capacità impositiva, ex articolo 119 Costituzione, ledere uno dei principi cardine del costituzionalismo, quello del no taxation without representation e quindi negare la possibilità per i cittadini di influire direttamente nella determinazione dell'indirizzo politico provinciale, valutando, conseguentemente, l'operato dei propri rappresentanti;
    non è in nessun caso in discussione la necessità che a tutti i livelli istituzionali siano perseguite serie e credibili politiche di revisione e razionalizzazione della spesa ed è lo stesso dettato costituzionale a prevedere che le province «concorrono ad assicurare l'osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea». Tuttavia, ancor prima della conclusione dell’iter ex-articolo 138 della Costituzione e del successivo svolgimento del referendum confermativo, il Governo ha operato drastici tagli ai bilanci provinciali che hanno posto tali enti in una condizione di grave difficoltà amministrativa;
    la logica del Governo di operare come se alle province fossero già state tolte funzioni fondamentali in materia di trasporti, strade, rete scolastica e tutela ambientale ha portato un intero comparto istituzionale a non essere in grado non solo di approvare i bilanci, ma, fatto ancora più grave, all'impossibilità di erogare i servizi;
    la Corte dei conti ha ripetutamente messo in guardia parlamento ed Esecutivo su questo modo di intervenire: già durante i lavori preparatori della «legge Delrio» aveva evidenziato come il riordino prospettato avrebbe potuto comportare «aggravi di spesa, confusione ordinamentale e moltiplicazione di oneri»; nell'aprile 2015 la magistratura contabile denunciava come le province fossero state di fatto poste in una condizione tale da annullare qualsiasi capacità programmatoria; infine, nel febbraio 2017, nel rapporto alle Camere sulla situazione dei bilanci delle province, evidenziava la manifesta irragionevolezza della forte riduzione delle risorse destinate a funzioni esercitate con carattere di continuità ed in settori di notevole rilevanza sociale, con grave deterioramento delle condizioni di equilibrio strutturale dei bilanci delle province;
    i presidenti delle province nel febbraio 2017 hanno denunciato l'impossibilità di poter erogare servizi fondamentali per la collettività, quali la manutenzione degli edifici scolastici di competenza e la manutenzione dei 130 mila chilometri di strade provinciali;
    neppure in sede di conversione del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50, si è previsto di allocare almeno le risorse strettamente necessarie per risolvere questa situazione paradossale, tanto che il presidente dell'Unione provinciale italiana ha dovuto constatare come sia «mancata la volontà di risolvere la grave emergenza per i servizi assicurati dalle province: una emergenza causata da tagli irragionevoli e ingiustificati di cui evidentemente ancora non si vuole ammettere l'errore»,

impegna il Governo:

1) ad assumere iniziative, anche normative, necessarie per garantire alle province italiane di poter far fronte alle proprie funzioni istituzionali, in base all'analisi reale dei fabbisogni standard, e nel rispetto dell'articolo 119 della Costituzione, con particolare attenzione alla manutenzione delle strade e all'edilizia scolastica;

2) ad aprire un confronto in ogni opportuna sede parlamentare al fine di:
   a) rivalutare la distribuzione delle funzioni attribuite alle province dalla legge n. 56 del 2014, anche alla luce del voto referendario del 4 dicembre 2016;
   b) rivedere la disciplina relativa agli organi provinciali e alla loro durata, ripristinandone l'elezione a suffragio diretto degli organi rappresentativi;
   c) valutare la possibilità di procedere ad un'organica revisione del testo unico degli enti locali, per adeguarlo alle novità in materia di comuni, province e città metropolitane;

3) ad assumere iniziative per ripristinare l'autonomia organizzativa degli enti, attraverso la soppressione del comma 420 dell'articolo 1 della legge n. 190 del 2014;

4) ad assumere iniziative per consentire alle province in via straordinaria, anche per il 2017, di utilizzare gli avanzi di amministrazione per assicurare gli equilibri dei bilanci.
(1-01649)
«Altieri, Bianconi, Capezzone, Chiarelli, Ciracì, Corsaro, Distaso, Fucci, Latronico, Marti».
(22 giugno 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    in base al dettato costituzionale le province sono enti essenziali dello Stato, «titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze», e dotate di autonomia finanziaria di entrata e di spesa al fine di consentire alle stesse «di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite»;
    in base al Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000. n. 267, alla provincia spettavano le funzioni, amministrative che riguardavano vaste zone intercomunali o l'intero territorio provinciale nei seguenti settori: la difesa, del suolo, la tutela e valorizzazione dell'ambiente e la prevenzione delle calamità; la tutela e valorizzazione delle risorse idriche ed energetiche; la valorizzazione dei beni culturali; viabilità e trasporti; la protezione della flora e della fauna; la caccia e la pesca nelle acque interne; la gestione dei rifiuti e dell'inquinamento; servizi sanitari, di igiene e profilassi pubblica; compiti connessi all'istruzione, compresa l'edilizia scolastica;
    nel 2014, con l'approvazione della legge 7 aprile 2014, n. 56, cosiddetta legge Delrio, è stata operata una profonda riforma dell'assetto istituzionale delle province, che sono state trasformate in enti amministrativi di secondo livello, con elezione dei propri organi a suffragio ristretto, sono state ridotte le funzioni ad esse spettanti e, infine, è stata prevista la trasformazione di dieci province in città metropolitane;
    in particolare, la legge ha abolito la giunta provinciale, redistribuendo le deleghe di governo all'interno del consiglio provinciale, molto ridimensionato nel numero dei suoi membri, e ha previsto che un nuovo organo, assemblea dei sindaci, assuma il compito di deliberare il bilancio ed eventuali modifiche statutarie;
    delle funzioni rimaste in capo alle province dopo l'intervento del 2014 alcune sono essenziali per garantire l'erogazione dei servizi ai cittadini; tra queste figurano, in primissimo luogo, la cognizione e gestione delle strade provinciali, il trasporto pubblico e privato, la programmazione provinciale della rete scolastica, la gestione dell'edilizia scolastica, la polizia provinciale;
    la «legge Delrio», quindi, non ha affatto previsto una cancellazione delle province, che sarebbe dovuta avvenire in una fase successiva con il varo definitivo della legge di revisione costituzionale, e, di fatto, mai, realizzata a causa della «bocciatura» del relativo referendum popolare, ma è intervenuta in modo confuso su un riordino delle loro competenze, creando una situazione molto può caotica di quella preesistente, con risparmi illusori, che prevede un processo di attuazione decisamente lungo e complesso, e che ha privato i cittadini della libertà di scegliere da chi desiderano essere amministrati;
    l'errore di intervenire «a valle» e non «a monte» sull'assetto istituzionale dello Stato, vale a dire con una legge ordinaria invece di una legge di rango costituzionale, e i rischi che ne derivavano erano già emersi durante l'esame della «legge Delrio» in Parlamento, quando autorevoli giuristi e professori di diritto costituzionale avevano ribadito come non fosse possibile con legge ordinaria sformare gli organi di Governo da direttamente a indirettamente elettivi, e avevano sottolineato l'esigenza di procedere, invece, ad una «riforma razionale del sistema delle autonomie locali»;
    in quella fase erano stati numerosi, altresì, i dubbi sull'utilità economica della paventata riforma «mascherata» da abolizione, rispetto alla quale la Corte dei conti nella sua relazione aveva affermato che «I risparmi effettivamente quantificabili sono di entità contenuta, mentre è difficile ritenere che una riorganizzazione di così complessa portata sia improduttiva di costi»;
    stando ai dati relativi ai costi delle province prima che il Governo Renzi intervenisse sulle stesse contenuti nell'aggiornamento al documento di economia e finanza di settembre 2013 e nel sistema informativo sulle operazioni degli enti pubblici raccolti dalla Unione delle province italiane aggiornati a marzo 2014, queste costavano meno di tutti gli altri enti, vale a dire l'1,27 per cento della spesa pubblica contro l'8 per cento dei comuni, il 20 per cento delle regioni, il 60 per cento delle amministrazioni centrali e l'11 per cento degli interessi sul debito pubblico, equivalenti, in termini assoluti, in 10 miliardi di euro spesi dalle province a fronte di 67 miliardi spesi dai comuni e 164 spesi dalle regioni;
    dei 10,2 miliardi di euro di spese la quasi totalità era destinata all'erogazione di servizi essenziali alla popolazione, servizi necessari la cui prestazione a legislazione vigente non è certo scomparsa, a meno di non voler abbandonare le strade provinciali a sé stesse più di quanto non lo siano al momento o bloccare la costruzione di istituti superiori e licei, o fermare il funzionamento degli istituti scolastici provinciali;
    quello che sta accadendo, invece, in seguito ai maldestri interventi di riforma da parte del Governo è proprio questo, posto che dal 2013 al 2016 le entrate delle province sono scese del 43 per cento e la spesa complessiva si è quasi dimezzata, con una diminuzione del 47 per cento;
    inoltre, l'82 per cento delle entrate proprie vengono sottratte dai territori e trattenute nel bilancio dello Stato, in palese violazione del dettato costituzionale, che all'articolo 119 prevede che tali entrate siano destinate a finanziare i servizi locali;
    nell'ottica della riduzione delle funzioni attribuite alle province, già con la legge di stabilità per il 2015, a carico delle province è stato disposto un contributo alla finanza pubblica di 1 miliardo nel 2015, 1 miliardo nel 2016 e 1 miliardo nel 2017, cui si è aggiunta l'estensione al 2018 del contributo già previsto dal decreto-legge n. 66 del 2014 di 585,7 milioni di euro;
    tali contributi si configurano come un vero e proprio prelievo di risorse dai bilanci delle province, una sottrazione di risorse proprie derivanti dalle entrate dai tributi locali, incoerente rispetto all'articolo 199 che prevede che le stesse siano destinate alla copertura integrale delle funzioni attribuite;
    il presidente dell'Unione delle province ha affermato in proposito che si tratta di «un quadro scoraggiante, che oltre a rappresentare chiaramente lo stato di crisi finanziaria delle province dimostra come da tre anni a questa parte ci sia stato impedito di fare programmazione. La nostra capacità di investimento è crollata del 62 per cento e il patrimonio pubblico che gestiamo, 130 mila chilometri di strade e tutte le 5.100 scuole superiori italiane, si sta deteriorando in maniera pericolosa»;
    il Comitato direttivo dell'Unione delle province d'Italia, riunitosi a Roma il 1o giugno 2017, ha stigmatizzato come il decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50, recante disposizioni urgenti in materia finanziaria, e iniziative a favore degli enti territoriali, che avrebbe dovuto destinare finanziamenti aggirativi alle province per assicurarne lo svolgimento delle funzioni fondamentali e i servizi alle popolazioni residenti abbia «previsto risorse assolutamente insufficienti a garantire la sicurezza della viabilità, dell'edilizia scolastica e della tutela ambientale»;
    la carenza di risorse che grava sulle province sta impedendo lo svolgimento delle funzioni fondamentali ad esse spettanti,

impegna il Governo:

1) ad assumere iniziative per destinare alle province le risorse sufficienti ad assicurare la piena erogazione dei servizi a favore delle comunità, secondo parametri che identifichino i fabbisogni finanziari reali e consentire l'avvio dei cantieri per le opere di messa in sicurezza delle scuole, delle strade e del territorio, promuovendo lo sviluppo dell'economia locale;

2) ad adottare le iniziative opportune affinché le province siano dotate della necessaria autonomia organizzativa e siano messe in condizioni di predisporre un bilancio triennale che consenta la programmazione dell'attività amministrativa;

3) ad assumere iniziative per lasciare nei bilanci delle province le entrate derivanti dalla riscossione dei tributi locali e dai risparmi conseguiti nell'esercizio delle proprie attività, affinché le stesse possano reimpiegarle nei servizi alla collettività, nel rispetto del dettato costituzionale.
(1-01650)
«Rampelli, Cirielli, La Russa, Giorgia Meloni, Murgia, Nastri, Petrenga, Rizzetto, Taglialatela, Totaro».
(22 giugno 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    il decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 giugno 2017, n. 96, contiene varie disposizioni finalizzate a dare concreta attuazione alla legge di bilancio per il 2017 e agli accordi assunti dal Governo con gli enti locali;
    le questioni più rilevanti tra queste disposizioni interessano il comparto delle province e delle città metropolitane e consentono di gestire una fase finanziaria provvisoria e delicata, rispetto alla quale appare inevitabile una riflessione sul ruolo e sulle funzioni delle province delle regioni a statuto ordinario alla luce del risultato del referendum del 4 dicembre 2016, fermi restando i punti di forza della riforma adottata nel 2014;
    con la legge n. 56 del 2014, infatti, si è passati da un'amministrazione locale basata su due livelli di governo separati ad una concezione dell'amministrazione locale in cui i sindaci (e gli amministratori comunali) si fanno carico, per effetto della riforma del 2014, sia delle esigenze di governo di prossimità, sia delle esigenze di governo territoriale;
    le nuove province, quali enti di governo di area vasta di secondo livello, sono diventate, dunque, una sorta di «case dei comuni», all'interno delle quali vengono ricercate le soluzioni più efficienti e funzionali per rispondere alle domande dei territori, consentendo così lo sviluppo di nuove pratiche di collaborazione tra enti locali per l'erogazione di servizi di qualità ai cittadini e alle imprese, in un'ottica di semplificazione amministrativa e di riduzione dei costi;
    in tale contesto, per il 2017 e il 2018 è stato aumentato il finanziamento per l'esercizio delle funzioni fondamentali delle province fino a 180 milioni di euro e confermato quello di 80 milioni di euro a decorrere dal 2019. Per la medesima finalità sono stati attribuiti 12 milioni di euro alle città metropolitane per ciascuno degli anni 2017 e 2018, tenendo conto che dal 2019 non sarà più dovuto il contributo di 516,7 milioni di euro annui di riduzione della spesa corrente richiesto, anche per gli anni 2017 e 2018, ai sensi dell'articolo 47, comma 2, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89;
    inoltre, per l'anno 2017 sono stati autorizzati contributi di 170 milioni di euro per l'attività di manutenzione straordinaria delle strade provinciali e 79 milioni di euro finalizzati agli interventi sull'edilizia scolastica di province e città metropolitane;
    un contributo di 10 milioni di euro è stato attribuito per il 2017 alle province che hanno dichiarato il dissesto entro il 31 dicembre 2015 e che non sono state escluse dal contributo al risanamento della finanza pubblica;
    con riguardo alla finalità di favorire l'approvazione dei bilanci da parte delle province e delle città metropolitane, è stata prevista l'estensione al 2017 di talune misure, operanti in deroga alla disciplina contabile, già introdotte in precedenti esercizi finanziari, tra cui consentire di predisporre il bilancio di previsione per la sola annualità 2017 e di applicarvi al medesimo bilancio di previsione l'avanzo libero e destinato. È stata introdotta, inoltre, la possibilità di utilizzare i proventi delle contravvenzioni per finanziare oneri relativi alle funzioni di viabilità e polizia locale per migliorare la sicurezza stradale;
    in relazione al divieto posto in capo alle province delle regioni a statuto ordinario di procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato, è stata consentita la possibilità di procedere alla copertura delle posizioni dirigenziali che richiedono professionalità tecniche e tecnico-finanziarie e contabili non fungibili in relazione allo svolgimento delle funzioni fondamentali;
    infine, sono state eliminate le sanzioni a carico delle città metropolitane e delle province delle regioni a statuto ordinario, nonché della Regione siciliana e della regione Sardegna che non hanno rispettato il vincolo del saldo non negativo tra le entrate e le spese finali nell'anno 2016;
    il provvedimento, pur non risolvendo tutti i problemi aperti su questo versante, segnala la volontà di dare risposte che consentano alle province di vivere questa fase di transizione, in vista di un nuovo assetto, sia dal punto di vista istituzionale che dal punto di vista delle possibilità e delle competenze finanziarie, più stabile e definito,

impegna il Governo:

1) a proseguire nello sforzo intrapreso al fine di garantire le risorse necessarie ad assicurare l'effettivo esercizio delle funzioni fondamentali da parte delle province e delle città metropolitane, anche promuovendo le opportune modifiche alla legislazione vigente;

2) ad individuare le risorse adeguate a copertura delle funzioni statali assegnate in base all'analisi reale dei fabbisogni standard, nel rispetto dell'articolo 119 della Costituzione;

3) a verificare, per quanto di competenza, che il processo di riordino delle funzioni regionali assegnate dalle regioni alle province e città metropolitane sia garantito da una copertura finanziaria in base all'analisi dei fabbisogni standard;

4) ad adottare ogni iniziativa di competenza utile a favorire il ripristino dell'autonomia organizzativa degli enti, anche attraverso l'abrogazione delle disposizioni di cui all'articolo 1, comma 420, lettere c), d) ed e), nei limiti di quanto previsto dal comma 421, della legge n. 190 del 2014;

5) ad adottare ogni utile iniziativa di competenza che consenta, a partire dal 2018, di ristabilire la piena autonomia economica, finanziaria e organizzativa delle province e delle città metropolitane attraverso la garanzia della piena copertura delle funzioni fondamentali, superando la logica emergenziale del bilancio annuale e garantendo la corretta programmazione prevista dall'articolo 151 del Testo unico sugli enti locali;

6) ad adottare ogni iniziativa di competenza volta a favorire le modifiche più opportune della legge n. 56 del 2014 e un adeguamento del Testo unico sugli enti locali e delle conseguenti leggi regionali in materia di funzioni provinciali e metropolitane, salvaguardando il principio della natura di enti di secondo livello degli organi delle province («casa dei comuni») – la cui legittimità è stata confermata dalla Corte costituzionale – e valorizzando ulteriormente il modello di cooperazione orizzontale tra istituzioni locali, nel riconoscimento a province e città metropolitane del compito di attivare pratiche di collaborazione che favoriscano un nuovo modello di cooperazione anche tra i comuni.
(1-01652)
«Rosato, Gasparini, Marchi, Fiano, Ferrari, Carbone, Cuperlo, De Menech, Marco Di Maio, Fabbri, Famiglietti, Giorgis, Lattuca, Lauricella, Mauri, Marco Meloni, Naccarato, Nardi, Piccione, Pollastrini, Richetti, Francesco Sanna, Boccadutri, Paola Bragantini, Cenni, Covello, Dell'Aringa, Fanucci, Cinzia Maria Fontana, Giampaolo Galli, Ginato, Giulietti, Guerra, Losacco, Marchetti, Melilli, Misiani, Parrini, Pilozzi, Preziosi, Rubinato».
(30 giugno 2017)

MOZIONI IN MATERIA DI TRASPARENZA DEI CONTRATTI DERIVATI STIPULATI DAL MINISTERO DELL'ECONOMIA E DELLE FINANZE

   La Camera,
   premesso che:
    negli ultimi anni i contratti derivati stipulati dal Ministero dell'economia e delle finanze con molteplici controparti bancarie hanno generato cospicue perdite effettive e potenziali per lo Stato;
    in base a dati pubblicati ad aprile 2016 dall'ISTAT nel 2015 i contratti derivati hanno generato perdite per complessivi 6,8 miliardi di euro;
    nella risposta all'interrogazione a risposta immediata n.  3-02802 del 21 febbraio 2017, il Ministro interrogato ha reso noto, tra l'altro, che:
     a) il valore di mercato della posizione complessiva dello Stato in contratti derivati al 31 dicembre 2016 è di circa 37,8 miliardi di euro con segno negativo;
     b) nel corso del 2016 il saldo tra pagamenti e incassi del portafoglio swap è stato pari a circa 4,2 miliardi di euro;
     c) nel 2016 le banche-controparti hanno esercitato quattro swaptions con effetto complessivo sul debito contabile dello Stato pari a circa 3,2 miliardi di euro;
     d) nel 2016 lo Stato ha subìto altresì l'esercizio di una clausola di early termination inserita in un contratto di interest rate swap e, per effetto dell'estinzione anticipata del contratto, ha dovuto corrispondere alla banca-controparte un importo di un miliardo di euro circa;
    da alcuni articoli di stampa pubblicati lo scorso mese di febbraio e non smentiti dal Ministero, si è appreso che i contratti derivati chiusi anticipatamente da Morgan Stanley tra fine 2011 e inizio 2012 contenessero delle clausole di riservatezza (confidentiality) a beneficio della Banca, ma, derogabili da parte del «Tesoro» se a chiedere di conoscere i contratti siano alcune istituzioni, tra cui è compreso un ordine di un legislative body cioè un'entità legislativa tra cui – ad avviso degli scriventi – rientrano senza dubbio le Camere e le relative Commissioni,

impegna il Governo

1) al fine di innalzare il livello di trasparenza sull'operato in materia di derivati dello Stato – valendosi delle suddette deroghe contrattuali – a rendere pubblici i contratti derivati estinti anticipatamente da Morgan Stanley ed a rendere noti tutti i contratti derivati in essere o quanto meno estinti, anche con altre controparti bancarie, che non presentino clausole di riservatezza o che presentino clausole derogabili come quelle di Morgan Stanley.
(1-01594)
«Ruocco, Sibilia, Alberti, D'Uva, Pesco, Pisano, Villarosa».
(11 aprile 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    il ricorso a strumenti finanziari quali i contratti derivati da parte dello Stato Italiano non è un fenomeno recente, bensì strutturale e di lungo periodo, che ha avuto inizio tra la fine degli anni ottanta e l'inizio degli anni novanta. Finalità del ricorso agli strumenti di finanza derivata era essenzialmente quella di contrastare il rischio di cambio monetario in un periodo fortemente segnato da ampie fluttuazioni della lira;
    tali operazioni sono state di segno positivo, producendo dunque dei guadagni che hanno avuto effetti positivi di riduzione dell'indebitamento netto, nel periodo che va dal 1998 al 2005. Dopo tale anno si registra una netta inversione di tendenza, dovuta in gran parte a fattori di natura macro economica e al ciclo economico internazionale, con un aumento della spesa per interessi che ha prodotto effetti negativi sul debito;
    il ricorso agli strumenti finanziari derivati è stato molto ampio anche da parte degli enti locali a partire dalla metà degli anni Novanta con risultati in gran parte non positivi e che hanno successivamente indotto il legislatore ad intervenire più volte a partire dal 2001 proprio al fine di regolare e limitare il ricorso degli enti locali all'investimento in contratti derivati;
    la gestione dei contratti derivati è materia estremamente complessa in particolare da parte dell'amministrazione pubblica centrale, perché impone attente analisi al fine di valutare la remuneratività dell'investimento, ai fini dei conti pubblici e del bilancio statale, in un arco temporale molto esteso che va ben oltre il periodo di vigenza dell'amministrazione pro tempore che stipula il contratto o decide di avvalersi delle clausole o delle opzioni che alcuni strumenti derivati prevedono nel tempo;
    in tal senso, è estremamente indicativa la vicenda che nel 2012 vide il Governo italiano dover pagare 3,1 miliardi di euro alla banca Morgan Stanley per chiudere quattro contratti derivati e rinegoziare due coperture sulle valute. Il Governo dell'epoca, a quanto si apprese, non poté esimersi da tale ingentissimo esborso di risorse pubbliche in forza dell'applicazione di una clausola inserita nel 1994 nei contratti stipulati con Morgan Stanley e dell'esistenza della quale i membri del Governo e i dirigenti del Tesoro nel 2012 sembra non avessero piena contezza;
    proprio su tale vicenda è in corso un procedimento per danno erariale avviato dalla Corte dei Conti nell'ambito del quale la richiesta complessiva di danni ammonta a più di quattro miliardi di euro;
    al di là del procedimento giudiziario-contabile, del quale è doveroso attendere la conclusione definitiva, la vicenda del 2012 ha rappresentato un forte shock per l'opinione pubblica ed ha squarciato il velo che avvolgeva la materia relativi ai contratti derivati dello Stato;
    come rilevato da un documento redatto dall'Ufficio parlamentare di bilancio del 9 febbraio 2015 sull'utilizzo di strumenti finanziari derivati da parte dell'amministrazione centrale vi è stata e perdura un'assenza di informazione pubblica e di piena trasparenza sulla natura dei prodotti detenuti e sulle operazioni stipulate;
    gli elementi di rischio insiti nella natura degli strumenti finanziari derivati, la loro estensione temporale, e soprattutto l'utilizzo di risorse pubbliche e gli effetti che si possono produrre sul bilancio statale, richiedono di fornire un livello minimo di trasparenza, costituito da informazioni periodiche inerenti alle operazioni già stipulate e ancora in essere, quelli di nuova stipula, relativamente al valore nozionale del contratto e all'ammontare complessivo delle risorse coinvolte, alla durata, alle controparti, al loro merito di credito e al valore di mercato. Per gli strumenti di nuova stipula, dovrebbero essere fornite informazioni, almeno aggregate per tipologia e durata dei derivati, riguardanti il valore nozionale, il merito di credito delle controparti e il valore di mercato, come peraltro avviene in molti Stati europei, al fine di consentire una valutazione sulle scelte operate e sulle strategie poste in essere dal decisore pubblico;
    tale trasparenza è stata già da tempo prevista dal legislatore per gli enti locali in relazione ai contratti derivati detenuti;
    continua invece ad essere non adeguata per quanto riguarda il Governo, fatti salvi i dati forniti saltuariamente in occasione di risposte ad atti di sindacato ispettivo;
    appare condivisibile quanto sostenuto dal Ministro dell'economia e delle finanze sul livello di disclosure in riferimento agli strumenti derivati, anche in risposta ad atti di sindacato ispettivo, in ordine alla necessità di tutelare lo Stato da uno svantaggio competitivo che si potrebbe produrre nei confronti di altri operatori di mercato; purtuttavia, tale necessità può trovare un punto di equilibrio con l'esigenza di fornire strumenti basilari di conoscenza e trasparenza al fine di consentire ex post una valutazione ed un controllo sulla gestione di risorse pubbliche operata,

impegna il Governo

1) ad individuare gli strumenti e le forme di pubblicità che riterrà opportune al fine di fornire elementi di conoscenza e informazione di natura periodica in ordine alle operazioni in strumenti derivati che consentano ex post la possibilità di operare un controllo e una valutazione sulla gestione effettuata.
(1-01653)
«Melilla, Laforgia, Albini, Capodicasa, Ricciatti, Zoggia, Scotto, Kronbichler, Roberta Agostini, Zaccagnini».
(3 luglio 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    negli ultimi tempi l'attività in strumenti derivati dello Stato è stata oggetto di particolare attenzione da parte del Parlamento e degli organi di informazione;
    l'indagine conoscitiva avviata dalla VI Commissione della Camera il cui programma di audizioni si è concluso nella prima metà del 2015 ha posto in luce la necessità di maggiori informazioni in materia, su cui il livello di trasparenza risultava inferiore al resto delle attività legate alla gestione del debito pubblico;
    nel corso delle suddette audizioni è stata in larga parte colmata tale lacuna informativa e, al tempo stesso, è stato formalmente preso l'impegno da parte direttore generale del tesoro a rendere regolare il flusso informativo in un rapporto annuale sulla gestione del debito pubblico;
    si è apprezzato il rispetto di tale impegno, che ha visto una cospicua mole di dati fornita nel rapporto annuale sul debito pubblico, in cui si è dato conto delle strategie sottostanti all'utilizzo degli strumenti derivati nell'ambito della gestione complessiva e si sono illustrate in dettaglio le operazioni concluse nell'anno di riferimento, in modo tale da rendere chiari obiettivi perseguiti e risultati conseguiti in un contesto organico di integrazione delle varie attività gestionali;
    il livello di trasparenza raggiunto è ormai paragonabile a quello dei Paesi che divulgano il più ampio set di Informazioni al riguardo, senza che nessuno si spinga alla pubblicazione dei singoli contratti, viste le evidenti controindicazioni in termini di potenziali impatti di mercato;
    sono stati rispettati gli adempimenti richiesti dalla riforma della legge di contabilità (legge 4 agosto 2016, n. 163), con l'ottemperanza del dispositivo di cui all'articolo 10, comma 3, lettera f), della legge 31 dicembre 2009, n. 196, attraverso l'inserimento nella sezione II del documento di economia e finanza (DEF) di una disamina degli effetti dei flussi di cassa correlati alla gestione in strumenti derivati, sia con riferimento ai dati di consuntivo, sia esplicitando gli impatti attesi nell'orizzonte di previsione del DEF;
    permane, tuttavia, una difficoltà di lettura di taluni impatti, come recenti articoli di stampa hanno evidenziato, lasciando margini ad interpretazioni soggettive che rischiano di non essere del tutto corrette;
    il quadro complessivo richiede comunque ulteriori sforzi nel senso della trasparenza, che la rilevanza degli importi impone: in particolare, appare necessario spiegare meglio i diversi impatti non solo finanziari, ma anche di natura contabile secondo la normativa statistica europea, su saldi e stock di finanza pubblica, e utile la pubblicazione di chiarimenti su come si collegano fra loro le diverse pubblicazioni in materia, auspicabilmente integrandole ove la loro lettura non appaia di immediata comprensione,

impegna il Governo:

1) a rendere disponibile sul sito web del dipartimento del tesoro relativo al debito pubblico con maggiore frequenza, preferibilmente su base trimestrale, l'aggiornamento dei dati, oggi disponibili solo annualmente, relativi a: nozionali e valori di mercato del portafoglio derivati, stock dei titoli di Stato valorizzato non solo al valore nominale ma anche al valore di mercato, indicatori di rischio con e senza impatto dei derivati;
2) a chiarire nel rapporto annuale sul debito i legami fra le diverse pubblicazioni statistiche in materia di derivati, dando contezza dei relativi impatti su saldi e stock di finanza pubblica, integrando l'informazione ove necessario.
(1-01654)
«Marchi, Librandi, Tabacci, Locatelli, Gebhard, Giampaolo Galli, Boccadutri, Paola Bragantini, Cenni, Covello, Dell'Aringa, Fanucci, Cinzia Maria Fontana, Ginato, Giulietti, Guerra, Losacco, Marchetti, Melilli, Misiani, Parrini, Pilozzi, Preziosi, Rubinato».
(3 luglio 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    i contratti su strumenti derivati stipulati dal Ministero dell'economia e delle finanze con controparti bancarie hanno generato, negli ultimi anni, perdite enormi per lo Stato italiano e che, in base a dati dell'Istat pubblicati nell'aprile 2016, nel solo 2015 i contratti su strumenti derivati hanno generato perdite per complessivi 6,8 miliardi di euro;
    la posizione negativa complessiva dello Stato in contratti derivati al 31 dicembre 2016 ammonta a circa 37,8 miliardi di euro;
    la procura generale presso la Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per il Lazio, ha recentemente aperto un procedimento istruttorio circa l'avvenuto pagamento da parte del Ministero dell'economia e delle finanze italiano di 2,5 miliardi di euro alla banca di affari americana Morgan Stanley per la chiusura di strumenti derivati, definiti «speculativi» dalla stessa Corte, conclusosi con l'invito a fornire informazioni alle parti interessate, in particolare, all'attuale direttrice della direzione debito pubblico del Tesoro, Maria Cannata, al suo predecessore e attuale direttore generale del tesoro, Vincenzo La Via e agli ex direttori generali del tesoro, Domenico Siniscalco e Vittorio Grilli, ai quali è stato contestato un danno allo Stato quantificabile in 4,1 miliardi di euro, dei quali circa 1 miliardo alla sola Cannata;
    nel suddetto atto di citazione, la Corte ha riconosciuto come il Tesoro abbia versato nelle casse della banca d'affari Morgan Stanley 3,1 miliardi di euro pubblici per chiudere quattro contratti derivati e rinegoziare due coperture sulle valute;
    come riconosciuto dalla predetta Corte, per una commissione di 47 milioni di euro nel 2004, Morgan Stanley nel 2012 ha incassato un miliardo di euro su un solo derivato;
    nel 2011, Morgan Stanley aveva 19 contratti derivati aperti con lo Stato italiano, in diverse valute, pari a oltre 10 miliardi di euro, 2,2 miliardi di sterline, 1,1 miliardi di franchi svizzeri e 2 miliardi di dollari, con maturity dai 10 ai 40 anni e, su alcuni di questi, la predetta Corte ha riconosciuto l'esistenza di «palesi violazioni dei principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione contrattuale»;
    dall'inchiesta della predetta Corte è emerso che il Tesoro non solo non era capace di predispone i collaterali sui contratti sottoscritti, ma aveva perfino «carenza di risorse strumentali e di personale adeguato», tanto da non essere in grado di ponderare il rischio dei contratti che andava sottoscrivendo;
    nel 2016 le controparti hanno esercitato quattro swaptions con effetto complessivo sul debito dello Stato pari a circa 3,2 miliardi di euro;
    nel 2016 lo Stato ha subìto altresì l'esercizio di una clausola di early termination inserita in un contratto di interest rate swap e, per effetto dell'estinzione anticipata del contratto, ha dovuto corrispondere alla controparte l'importo di un miliardo di euro circa;
    il decreto legislativo n. 97 del 2016 ha introdotto significative modifiche al decreto legislativo n. 33 del 2013, recante disposizioni in materia di trasparenza, e il nuovo articolo 5 del suddetto decreto ha disposto il diritto di accedere incondizionatamente a tutte le informazioni e dati che le amministrazioni sono tenute a rendere pubbliche tramite inserimento sui propri siti web, prevedendo che: «Allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico, chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai sensi del presente decreto, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti secondo quanto previsto dall'articolo 5-bis»;
    il decreto del Ministero dell'economia e delle finanze del 13 ottobre 1995, n. 561 – Regolamento recante norme per la disciplina di categorie di documenti formati o comunque rientranti nell'ambito delle attribuzioni del Ministero del tesoro e degli organi periferici in qualsiasi forma da questi dipendenti sottratti al diritto di accesso all'articolo 3 non prevede che i contratti di diritto privato sottoscritti dal Tesoro con banche specialiste siano sottratti al diritto d'accesso,

impegna il Governo

1) a rendere pubblici, in versione integrale, tutti i contratti derivati in essere ed estinti dello Stato italiano, con tutte le controparti bancarie, nonché tutti gli accordi quadro («master agreement» e «schedules»), le conferme degli ordini («confirmation»), i decreti ministeriali autorizzativi e relativi all'apertura/ristrutturazione/novazione dei contratti, le attestazioni dei titoli sottostanti alle singole operazioni di copertura, i «term sheet» e il materiale illustrativo forniti dalle controparti, la documentazione che possa attestare contributori, soluzioni informatiche e modellistiche adottate per il «pricing», strutture dei tassi, di volatilità e curve di sconto «intraday», ovvero ogni documento che possa permettere o essere utile per la verifica di congruità puntuale dei prezzi negoziati con le controparti e, quindi, degli oneri e rischi preventivamente stimati dagli uffici del Ministero dell'economia e delle finanze.
(1-01655)
«Brunetta, Sandra Savino, Giacomoni, Laffranco, Alberto Giorgetti, Palese, Milanato, Prestigiacomo».
(3 luglio 2017)