TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 792 di Martedì 9 maggio 2017

 
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INTERPELLANZA E INTERROGAZIONE

A) Interpellanza

   I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, per sapere – premesso che:
   Milagro Sala, fondatrice e leader dell'organizzazione sociale argentina Tupac Amaru, oltre che deputata del Parlasur, è detenuta illegalmente insieme ad altri membri del movimento sociale dal 16 gennaio 2016. Nonostante gli appelli di Amnesty International e una risoluzione da parte del gruppo di lavoro sulle detenzioni arbitrarie delle Nazioni Unite, continua ad essere la prima prigioniera politica del Governo del Presidente Macrì;
   Milagro Sala è la leader dell'organizzazione di quartiere Tupac Amaru, il collettivo di base popolare e indigeno che lotta per i diritti economici, sociali e culturali nella provincia di Jujuy e in tutta l'Argentina. L'organizzazione è stata fondata negli anni ’90 nella città di San Salvador de Jujuy, nel nord ovest dell'Argentina al confine con la Bolivia. Questa provincia ha indicatori sociali sotto la media nazionale, per questo il lavoro dell'organizzazione si è concentrato sull’empowerment dei gruppi più vulnerabili. Dal 2004, attraverso la gestione di programmi nazionali e provinciali, la Tupac Amaru gestisce la costruzione di abitazioni, fornisce servizi sanitari e per l'istruzione, sviluppa attività di produzione e genera occupazione per oltre 4.500 persone, organizzate attraverso cooperative di lavoro;
   tanto la risoluzione del gruppo di lavoro delle Nazioni Unite quanto l'Organizzazione degli Stati americani hanno definito la detenzione come illegale. Il Primo ministro canadese, Justin Trudeau, ha menzionato la necessità della sua liberazione durante la visita presso la capitale argentina, aumentando così la pressione internazionale al riguardo. Immediatamente dopo questa dichiarazione, sei persone sono state messe in libertà, tra cui il marito di Milagro Sala;
   in particolare, il gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria ha stabilito che «la detenzione della signora Milagro Sala è arbitraria» e ha quindi chiesto «al Governo argentino di rilasciarla immediatamente». Il gruppo ha stabilito che era stata messa in atto una rete di «accuse a catena» e di processi indiziari per sostenere la detenzione a tempo indeterminato. Il gruppo ha concluso che in questo caso è stata violata l'indipendenza della magistratura. Inoltre, analizzando le ragioni giuridiche per cui Milagro Sala è privata della libertà, il gruppo ha concluso che non vi sono motivi legali per giustificare la sua detenzione. Non è dimostrato esistere il rischio di fuga o di intralcio alle indagini per giustificare la sua detenzione. Il gruppo ritiene che lo Stato abbia impedito l'esercizio del diritto di difesa di Milagro Sala per mancanza di precisione e chiarezza dei fatti contestati contro di lei e per non averla informata adeguatamente sui crimini di cui è accusata. Ha anche rilevato che, per la sua condizione di deputata del Parlasur, Milagro Sala godeva di diritti parlamentari che impedivano il suo arresto. Il Governo argentino è tenuto ad attuare le misure definite dal gruppo di lavoro. La decisione del gruppo fa seguito alla denuncia di Amnesty International, Cels e Andhes nel febbraio 1016, dopo l'arresto di Milagro Sala nella provincia di Jujuy;
   in Argentina si sono costituiti quasi 50 comitati per la liberazione di Milagro Sala e 9 all'estero, tra cui il Comitato per la liberazione di Milagro Sala italiano;
   nel mese di dicembre 2016 nel giro di 24 ore Milagro Sala è stata condannata due volte dai giudici di Jujuy. La prima volta il pubblico ministero ha chiesto e ottenuto una pena di tre anni per l’escrache (forma di denuncia pubblica attraverso affissione di locandine e distribuzione di volantini volta a screditare) realizzato nel 2009 ai danni dell'allora senatore Gerardo Morales. La seconda volta Milagro Sala è stata condannata per danno alla circolazione del traffico a causa di un sit-in pacifico che dal dicembre 2015 al febbraio 2016 si è svolto di fronte al Palazzo del Governo di Jujuy, insieme a numerose altre associazioni della provincia argentina, contro l'ondata di licenziamenti che aveva lasciato a casa migliaia di lavoratori delle cooperative. Sala è stata multata e interdetta ai pubblici uffici e cariche in associazioni per tre anni. La difesa ha sottolineato il fatto che in casi analoghi non sia mai stata contemplata l'interdizione dai pubblici uffici;
   alla luce degli ultimi avvenimenti e in concomitanza con il 16 gennaio 2017, che segna il primo anno di detenzione illegale di Milagro Sala nel carcere di Alto Comedero a Jujuy, appare inspiegabile e grave il fatto che il Governo italiano non abbia preso nessuna posizione riguardo alla vicenda –:
   quali siano i motivi del ritardo da parte del Governo nel prendere coscienza della questione e nel sostenere le risoluzioni che difendono i diritti umani, non ultima quella del gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria, richiedendo al Presidente Macrì l'immediato rilascio di Milagro Sala affinché la leader si possa difendere da donna libera;
   quali iniziative di competenza abbia intrapreso o intenda intraprendere affinché i diritti umani, quelli delle donne e dei più poveri siano rispettati e difesi in Argentina.
(2-01589)
«Martelli, Nicchi, Melilla, Palazzotto, Fratoianni, Ricciatti, Duranti, Pannarale, Scotto, Carlo Galli, Kronbichler, Franco Bordo».
(17 gennaio 2017)

B) Interrogazione

   GAGNARLI, BONAFEDE, L'ABBATE, BENEDETTI, GALLINELLA, MASSIMILIANO BERNINI, LUPO e TERZONI. — Al Presidente del Consiglio dei ministri. — Per sapere – premesso che:
   la Corte costituzionale ha bocciato la riforma della regione Toscana in termini di ampliamento degli ambiti territoriali di caccia, che scendevano a nove, corrispondenti ai territori delle ex province (con accorpamento di Firenze e Prato), dichiarandola «illegittima»;
   la riforma toscana degli ambiti di caccia prevedeva, altresì, che, con il piano faunistico venatorio, potessero essere istituti dei sottoambiti, privi di organi, per garantire una zonizzazione più omogenea;
   la Corte costituzionale, con sentenza n. 124 del 2016, ha dichiarato incostituzionale l'articolo 11, commi 2 e 3, della legge regionale n. 3 del 1994, come modificato dalla legge n. 32 del 2015, in quanto contrasta con la finalità del legislatore statale di volere, attraverso la ridotta dimensione degli ambiti stessi, pervenire ad una più equilibrata distribuzione dei cacciatori nel territorio e conferire specifico rilievo alla dimensione della comunità locale, più ristretta e più legata sotto il profilo storico e ambientale alle particolarità del territorio. Il carattere provinciale dell'ambito voluto dal legislatore toscano, quindi, al quale si lega l'istituzione di sottoambiti privi di funzioni amministrative, tradiva secondo la Corte costituzionale questa finalità;
   la Corte costituzionale indica poi uno standard minimo di tutela della fauna, cui le regioni non possono derogare al fine di valorizzare il ruolo delle comunità ivi insediate e di costituire aree dai confini naturali, anziché soltanto amministrativi;
   successivamente, la regione Toscana si è adeguata alla pronuncia della Corte costituzionale con la legge regionale 29 giugno 2016, n. 39, recante nuove disposizioni in materia di ambiti territoriali di caccia, che modifica la precedente legge regionale n. 3 del 1994, disponendo quale regime transitorio che ai comitati di gestione degli ambiti territoriali di caccia già esistenti venga affidata la gestione commissariale dei singoli sottoambiti ricadenti nei territori di riferimento, evitando così i profili di incostituzionalità segnalati dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare con nota del 21 luglio 2016;
   tuttavia, non disponendo nulla in via transitoria sulla ripartizione del patrimonio e dei rapporti giuridici attivi e passivi dai vecchi ambiti territoriali di caccia ai rispettivi sottoambiti di riferimento, di fatto, continuano a rimanere operativi i vecchi ambiti territoriali di caccia oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale. Pertanto, invece di correggere il suo operato, attualmente la regione Toscana lascia tutto invariato quantomeno fino al 31 dicembre 2016, cioè praticamente per quasi l'intera stagione, consentendo quindi, di fatto, che si cacci in condizioni di contrasto con la legge quadro (legge 11 febbraio 1992, n. 157) e con una recente sentenza della Corte costituzionale –:
   quali iniziative, anche di tipo normativo, intenda intraprendere il Governo, per quanto di competenza, con riferimento agli ambiti territoriali di caccia, alla luce di quanto esposto in premessa e in relazione alla citata sentenza della Corte costituzionale. (3-03002)
(8 maggio 2017)
(ex 5-09579 del 23 settembre 2016)

MOZIONI IN MATERIA DI ROBOTICA ED INTELLIGENZA ARTIFICIALE

   La Camera,
   premesso che:
    negli anni recenti il progresso scientifico e tecnologico ha favorito la crescita della robotica e delle intelligenze artificiali applicate, dando origine ad una profonda innovazione nel mondo della produzione dei beni e servizi, con un ampio impatto atteso in molti settori, come, per esempio, la domotica, la medicina, la difesa, i servizi alle persone;
    nel 2014 la crescita della vendita dei robot è aumentata al 29 per cento, quasi il doppio della media degli anni precedenti e le richieste di brevetto per le tecnologie robotiche sono triplicate nel corso dell'ultimo decennio; ci si attende che nei prossimi anni saranno venduti circa 35 milioni di robot personali in tutto il mondo, per uso domestico, per i veicoli senza guidatore, per l'intrattenimento, l'educazione, l'assistenza sanitaria;
    entro il 2020 si prevede che il mercato mondiale avrà un valore di oltre 150 miliardi di dollari. A livello internazionale, l'Asia è il mercato a più alto tasso di crescita, la Cina ha superato da sola l'intera Europa. L'Italia, essendo il sesto Paese del mondo produttore di robot industriali e il secondo in Europa, ha un ruolo di leadership in termini di ricerca, innovazione e produzione;
    lo sviluppo e la crescita del settore della robotica e delle intelligenze artificiali avrà effetti dirompenti dal punto di vista dell'organizzazione del lavoro, con importanti conseguenze sull'occupazione, ma anche sullo stile di vita delle persone e molti analisti sottolineano che si stanno vivendo gli albori di una «quarta rivoluzione industriale»;
    la Commissione giuridica del Parlamento europeo ha approvato una bozza di risoluzione con la quale si chiede alla Commissione europea di definire un quadro giuridico comune in materia di robotica e intelligenza artificiale. La relazione della Commissione giuridica del Parlamento europeo propone, tra le altre cose, la creazione di un sistema di registrazione di robot avanzati e invita la Commissione europea a stabilire criteri per la classificazione dei robot per individuare quelli da sottoporre a registrazione; propone anche un codice etico-deontologico degli ingegneri robotici, un codice per i comitati etici di ricerca per il loro lavoro di revisione dei protocolli di robotica e modelli di licenze per progettisti e utenti; la creazione di un'agenzia europea per la robotica e l'intelligenza artificiale al fine di fornire le competenze tecniche, etiche e normative necessarie per sostenere gli attori pubblici pertinenti, a livello sia di Unione europea che di Stati membri; suggerisce di istituire un regime di responsabilità civile e di personalità giuridica per i robot più evoluti;
    altri Stati, quali gli Stati Uniti d'America, la Gran Bretagna, il Giappone, Cina e Corea del Sud, stanno prendendo in considerazione, e in una certa misura hanno già adottato, atti normativi in materia di robotica e intelligenza artificiale e alcuni Stati membri hanno iniziato a riflettere su possibili cambiamenti legislativi per tenere conto delle applicazioni emergenti di tali tecnologie;
    alcuni Ministeri hanno già posto nella loro agenda l'approfondimento di alcune tematiche legate allo sviluppo della robotica in alcuni settori, come, ad esempio, la progettazione di strade per le auto a guida autonoma,

impegna il Governo:

1) a favorire una linea comune tra i Ministeri nell'approccio allo sviluppo sostenibile della robotica, dell'intelligenza artificiale e della sicurezza informatica; a promuovere attività di formazione, ricerca e sviluppo nelle scuole, nelle università e nei centri di ricerca italiani di tali tecnologie e a sostenerne le applicazioni alla produzione industriale e ai servizi civili in imprese consolidate e a start up innovative, in linea con quanto emerso dall'indagine conoscitiva della Camera dei deputati su «Industria 4.0: quale modello applicare al tessuto industriale italiano. Strumenti per favorire la digitalizzazione delle filiere industriali nazionali» e in linea con il piano «Italia 4.0» del Governo, tenendo conto dei problemi aperti relativi al tema della cyber-security e della rilevanza etica e dell'impatto che tali tecnologie avranno sulla società e sul mondo del lavoro;

2) ad analizzare soluzioni alternative e innovative di welfare in merito agli effetti che lo sviluppo della robotica e dell'intelligenza artificiale avrà sull'occupazione.
(1-01508)
«Rosato, Carrozza, Basso, Coppola, Boccadutri, Quintarelli, Tancredi, Miotto, Zan, Giorgis, Senaldi, Misiani, Dell'Aringa, Braga, Cinzia Maria Fontana, Cardinale, Marantelli, Montroni, Parrini, Baruffi, Murer, Lenzi, Patriarca, Carnevali, Simoni, Lodolini, Borghi, Lattuca, Realacci, Giuliani, Fossati, Casellato, Monaco, Ribaudo, Schirò, Rostellato, Grassi, Fragomeli, Giovanna Sanna, Falcone, Rocchi, Piazzoni, Catalano, Venittelli, Taranto, Albanella, Bergonzi, Marco Di Maio, Amato, Gadda, Gnecchi, Tullo, Manfredi, Campana, Mognato, Taricco, Cominelli, Paola Boldrini, Paola Bragantini, Pinna, Fontanelli, Petrini, Carrescia, Mariani, Rampi, De Menech, Capone, Zampa, Moretto, Rubinato, Albini, Arlotti, D'Ottavio, Peluffo, Colaninno, Bruno Bossio, Vico, Amoddio, Gribaudo, Malisani».
(13 febbraio 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    l'intelligenza artificiale (AI - Artificial Intelligence) crea continuamente nuovi mercati digitali che, a loro volta, possono liberare livelli di creatività, genio e produttività, con un impatto positivo sulla società. In questo modo si potrebbe raddoppiare il tasso di crescita delle economie sviluppate e aumentare la produttività del lavoro con incrementi fino al 40 per cento;
    ciò richiede però un'ampia riflessione sul modo di produrre, rafforzando i ruoli e competenze delle persone che guidano i processi di crescita e di sviluppo;
    sono già in atto nei prossimi tre anni investimenti significativi in tecnologie di intelligenza artificiale e il 31 per cento degli esperti impegnati nelle aziende a più elevato tasso di sviluppo dichiarano che la loro azienda sta pianificando il modo di utilizzare estensivamente gli studi sul comportamento dell'uomo per guidare lo sviluppo di nuove forme di customer experience entro lo stesso periodo;
    un numero elevato di imprenditori giovani e tecnologicamente evoluti prevedono di aumentare il ricorso, nella propria organizzazione, a freelance indipendenti entro il prossimo anno, per acquistare nuove competenze e maturare una nuova vision organizzativa per la propria azienda;
    cresce continuamente l'impatto del digitale nell'ambito delle diverse professioni e poco più del 50 per cento dei soggetti recentemente intervistati da Accenture (2015) pensa di rimanere nello stesso posto di lavoro per non più di cinque anni, mentre il 67 per cento vuole provare a lavorare autonomamente in futuro, proprio grazie alle nuove potenzialità offerte dalle nuove tecnologie robotiche;
    lo sviluppo delle nuove tecnologie si sta estendendo a macchia d'olio nei campi più diversi: dalla formazione alla domotica, dalla medicina, alla difesa; dai progetti nel campo dell'automazione industriale ai settori di trasporto sia in campo aerospaziale, che automotive/meccatronico; dai servizi alle persone all'utilizzo di robot di nuova generazione che è sempre più diffuso in ambito medico-chirurgico;
    ma mentre la tecnologia propone soluzioni sempre più innovative, i legislatori non riescono a stare al passo con i tempi. Non è sempre facile distinguere i livelli di responsabilità, ad esempio, se un braccio robotico va in tilt in sala operatoria, durante un intervento chirurgico;
    robotica ed intelligenza artificiale applicati alla teleriabilitazione hanno contribuito alla nascita dell'area della neuro-robotica, con lo sviluppo di piattaforme robotiche indispensabili per la ricerca di base in neuroscienze, di sistemi meccatronici per la diagnosi precoce di disturbi del neurosviluppo e di sistemi robotici indossabili ispirati al concetto innovativo di «structural embodied intelligence»;
    tra le questioni affrontate dalla commissione giuridica, istituita a livello della Commissione europea proprio su queste tematiche, i problemi tecno-scientifici mostrano importanti risvolti legali, ma anche etici, sociali ed economici; occorre definire non solo un sistema di registrazione di robot avanzati, ma anche un codice etico-deontologico per gli ingegneri robotici, un codice per i comitati etici di ricerca per il loro lavoro di revisione dei protocolli di robotica e nuovi modelli di licenze per progettisti e utenti;
    diventa sempre più urgente raggiungere livelli adeguati allo sviluppo tecnico-scientifico anche nel campo della formazione: studiare e applicare la robotica educativa non è importante soltanto per imparare a costruire o ad usare i robot, ma anche per imparare un metodo di ragionamento e sperimentazione, promuovendo attitudini creative negli studenti, compresa la loro capacità di comunicazione, cooperazione e lavoro di gruppo;
    nel 2015, la crescita della vendita dei robot si è raddoppiata rispetto alla media degli anni precedenti e i brevetti per le tecnologie robotiche si sono triplicate nell'ultimo decennio;
    l'Italia ha, nel campo della robotica, un ruolo di leadership in termini di ricerca, innovazione e produzione: è infatti il secondo Paese in Europa e il sesto al mondo come produttore di robot industriali;
    i Paesi più avanzati dell'Italia in questo campo, come ad esempio gli Stati Uniti d'America, la Gran Bretagna, il Giappone, Cina e Corea del Sud, in una certa misura, hanno già introdotto normative specifiche in materia di robotica e di intelligenza artificiale, o stanno innescando possibili cambiamenti legislativi per tenere conto delle applicazioni emergenti dall'uso di tali tecnologie;
    entro il 2020 si prevede che il mercato mondiale avrà un valore di oltre 150 miliardi di dollari, con una collocazione prevalente in Asia, soprattutto in Cina, dove l'impiego della robotica ha già superato l'intera Europa;
    lo sviluppo e la crescita del settore della robotica e delle intelligenze artificiali avrà effetti dirompenti dal punto di vista dell'organizzazione del lavoro, con importanti conseguenze sull'occupazione, ma anche sullo stile di vita delle persone, e molti analisti sottolineano che si stanno vivendo gli albori di una quarta rivoluzione industriale: la cosiddetta Industria 4.0,

impegna il Governo:

1) a favorire un approccio integrato tra i diversi Ministeri: dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca al Ministero dello sviluppo economico, dalla salute ai trasporti e alle infrastrutture, dalla difesa alla pubblica amministrazione, dall'economia al lavoro, per facilitare lo sviluppo della robotica, dell'intelligenza artificiale e della sicurezza informatica, secondo un modello di ricerca traslazionale, che permetta di superare quelle barriere e quegli steccati di tipo culturale che circoscrivono aree chiuse e non comunicanti tra di loro;

2) a promuovere attività di formazione, ricerca e sviluppo nelle scuole con riguardo a robotica e intelligenza artificiale, a cominciare dai primi livelli scolastici e con particolare attenzione alle problematiche della disabilità;

3) ad assumere iniziative per sviluppare nelle università e nei centri di ricerca italiani tecnologie ad alto livello di complessità, incoraggiando i giovani a trasformare in brevetti molte delle loro intuizioni, investendo soprattutto nei giovani ricercatori con opportuni incentivi che favoriscano il loro inserimento nei settori strategici del Paese;

4) a sostenerne le applicazioni delle nuove tecnologie alla produzione industriale e ai servizi civili, anche favorendo la nascita di start up innovative, che promuovano lo sviluppo complessivo delle aziende e favoriscano processi di cambiamento organizzativo a servizio dei cittadini;

5) ad approfondire i problemi relativi al tema della cyber-security e della rilevanza etica e dell'impatto che tali tecnologie avranno sulla società e sul mondo del lavoro, investendo energie significative nella formazione e nella riqualificazione professionale di soggetti che altrimenti resterebbero tagliati fuori da questo settore produttivo;

6) ad analizzare soluzioni alternative e innovative di welfare in merito agli effetti che lo sviluppo della robotica e dell'intelligenza artificiale avranno sulla domotica, consentendo ai soggetti più fragili di raggiungere un buon livello di autonomia personale e familiare attraverso soluzioni altamente innovative proprio per pazienti cronici e disabili, anziani, e altro;

7) a favorire a livello europeo proposte politiche che si traducano in una normativa capace di salvaguardare valori come: la dignità umana; la privacy, attraverso una corretta gestione dei dati personali; la sicurezza, evitando in ogni modo possibili manipolazioni; la non discriminazione, permettendo a tutti coloro che lo desiderano e ne hanno bisogno di accedere ai programmi che l'intelligenza artificiale consente di realizzare progressivamente; in altri termini contribuendo a creare una carta dei valori in robotica, di cui si parla da lungo tempo ma che non è ancora attiva.
(1-01558)
«Binetti, Buttiglione, Cera, De Mita, Pisicchio».
(27 marzo 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    il progresso tecnologico ha favorito la crescita dell'automazione, della robotica e delle cosiddette intelligenze artificiali;
    le nuove tecnologie sono applicate sempre più profondamente e organicamente ai sistemi produttivi, logistici e organizzativi, nonché a quelli di trasporto, andando progressivamente a svilupparsi e radicarsi nell'ambito dei servizi diretti alla persona;
    all'innovazione in senso stretto consegue un impatto in termini rigorosamente sociali e occupazionali, i cui trend e le cui prospettive destano preoccupazioni che necessitano di attenzione, analisi e soluzioni;
    con la risoluzione del Parlamento europeo n. 51 del 16 febbraio 2017 recante raccomandazioni alla Commissione concernenti norme di diritto civile sulla robotica (2015/2103(INL)) si invita la Commissione europea ad avviare una fase di analisi e monitoraggio delle tendenze occupazionali, con particolare attenzione «alla creazione, alla dislocazione e alla perdita di posti di lavoro nei diversi campi/settori di qualifica, in modo da individuare i campi in cui vengono creati posti di lavoro e quelli in cui vengono persi a seguito dell'aumento dell'uso dei robot»;
    nella medesima risoluzione si richiede che la Commissione europea analizzi i diversi scenari possibili e le relative conseguenze sulla sostenibilità dei sistemi di sicurezza sociale degli Stati membri anche in funzione dello sviluppo e della diffusione della robotica e dell'intelligenza artificiale;
    secondo gli esperti, un rischio concreto sarebbe rappresentato dal fatto che l'innovazione tecnologica comporterà sempre più un costo sociale in termini di riduzione dell'occupazione, con particolare impatto in quei settori ad alta intensità di capitale umano, tale per cui oggi i lavoratori impiegati in tali settori e quanti sono in attesa di collocazione risultano subire l'innovazione tecnologica invece di affrontarla e guidarla. A questo aspetto si aggiunge una progressiva sperequazione nella redistribuzione della ricchezza prodotta dai sistemi ad elevato sviluppo tecnologico;
    secondo quanto rilevato nella relazione Delvaux, da cui la richiamata risoluzione, «l'importanza della flessibilità delle competenze e delle capacità sociali, creative e digitali nell'ambito dell'istruzione» è tale che «oltre alle conoscenze accademiche impartite a scuola» è ormai necessario realizzare in via sistemica e strutturale percorsi di «apprendimento permanente»;
    in tal senso, la formazione in servizio può costituire un valido strumento di politica del lavoro volto a mitigare l'impatto dello sviluppo delle Information and Communication Technologies (ICT) in termini di riduzione dell'occupazione. D'altro canto, va rilevato come gli investimenti pubblici in questa direzione sono stati sempre molto deboli e comunque poco valorizzati nella pianificazione strategica e nella programmazione delle politiche pubbliche;
    serve sottolineare, ad esempio, come non esistano ricerche valutative commissionate dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali che abbiano valutato l'indice di redditività del capitale investito (ROI) nella formazione continua finanziata dai fondi strutturali e dai fondi interprofessionali gestiti dalle parti sociali;
    parimenti, le stesse attività di ricerca pubblica che sono state svolte in questa direzione stentano ad avere un seguito applicativo o operativo né vengono valorizzate, a dimostrazione dello scarso se non nullo interesse da parte del decisore pubblico;
    val la pena richiamare l'esperienza del Sistema informativo sulle professioni che da anni l'ex Isfol, oggi Istituto nazionale per l'analisi delle politiche pubbliche (Inapp), sta implementando in partnership con l'Istat, integrando dati amministrativi e informazioni prodotti da una pluralità di istituzioni sui versanti dei settori di attività economica, del mercato del lavoro e dei sistemi professionali. Il sistema fornisce un panorama completo ed analitico di tutte le professioni esercitate nel nostro Paese, la loro consistenza occupazionale attuale e le tendenze a breve e medio termine del mercato professionale nonché, i trend di cambiamento delle loro competenze;
    a livello internazionale, diversi studi (a titolo esemplificativo si veda il rapporto Investing in the Care Economy) dimostrano come gli investimenti nel welfare, ovvero nelle infrastrutture sociali, oltre a innalzare il benessere generale della popolazione, genererebbe un incremento dell'occupazione, mitigando al contempo la flessione occupazionale indotta dal pervadere dell'automazione e della robotica. Tale aspetto, nel nostro Paese, risulta ancora poco esplorato dalla ricerca economica, laddove invece si necessiterebbe di ricerche sociali ed economiche capaci di «stimare» il ritorno in questa tipologia di investimenti;
    casi di studio, come quello della sperimentazione del reddito universale di base in atto in Finlandia su duemila cittadini, alcuni esperti del settore dell'innovazione tecnologica come il patron di Tesla, Elon Musk, e aziende che fanno dell'innovazione il proprio core business, come Google, promuovono l'idea, alla luce dell'impatto dello sviluppo tecnologico sull'occupazione, di disgiungere l'idea di fonte di sostentamento, ovvero di reddito, da quella di attività svolta, ovvero di lavoro. In questo solco, si sta sviluppando l'applicazione di un reddito di base non condizionato dallo status di attività. Si tratta di una misura di sostegno riconosciuta a tutti i cittadini maggiorenni indistintamente, senza alcun requisito particolare, predisposta nell'ottica di una revisione complessiva dei trattamenti assistenziali o sociali, che permane anche, in concomitanza con altre fonti di reddito, come quella da lavoro, proprio per garantire la completa autonomia e libertà dei cittadini dal «vincolo», in termini sociali ed economici, della ricerca e del mantenimento di un posto di lavoro, spesso accettato e difeso per necessità, oltre che per dovere, invece che per effettiva e autonoma scelta,

impegna il Governo:

1) a promuovere le opportune iniziative volte a informare e sensibilizzare i cittadini sull'evoluzione tecnologica applicata agli ambiti produttivi e ai servizi, nonché sulle nuove dinamiche e ricadute in termini socio-economici ad essa connesse, finalizzate a sviluppare maggiore consapevolezza nel Paese;

2) ad istituire un osservatorio nazionale, adeguatamente organizzato, in accordo con regioni e enti locali, per la rilevazione alla luce degli sviluppi della robotica e dell'intelligenza artificiale dei mutamenti dei sistemi economici e produttivi in termini di impatto sulle competenze delle figure professionali, al fine di:
  a) mappare adeguatamente quei «nuovi saperi» e adottare le conseguenti iniziative per sviluppare percorsi di formazione continua in modo da dotare chi già è occupato, così come chi è in attesa di collocazione, delle competenze necessarie – adeguate ai diversi livelli di specializzazione – per rispondere attivamente alle sfide dell'innovazione anziché subirle (fuoriuscita dal mercato);
  b) svolgere, in maniera sistematica, indagini specifiche, a livello territoriale, per profilare ciascuna realtà territoriale secondo le caratteristiche e dinamiche peculiari del tessuto economico locale;

3) ad assumere le opportune iniziative per dare concreta operatività al Sistema informativo sulle professioni, garantendone, nell'ambito del piano nazionale cui in premessa, i processi di manutenzione ed aggiornamento;

4) a promuovere lo sviluppo di un programma di formazione più specifico e tecnico all'interno delle scuole secondarie di secondo grado, delle università e dei centri di ricerca al fine di stimolare la nascita di nuove figure professionali e nuove imprese adeguate ad affrontare le sfide poste dalla quarta rivoluzione industriale, considerando gli impatti sul tessuto sociale che essa comporta;

5) ad assumere iniziative per potenziare le misure di incentivo alle imprese per l'assunzione di personale altamente qualificato e per l'impiego di strumenti fisici o digitali ad alto valore tecnologico al fine di realizzare prodotti innovativi;

6) a promuovere iniziative normative per favorire l'adeguamento degli strumenti contrattuali esistenti, rispetto all'impatto delle nuove tecnologie nel mondo del lavoro, anche attraverso iniziative volte a rimodulare progressivamente l'orario di lavoro al fine di migliorare la conciliazione tra la giornata lavorativa e la vita familiare e sociale;

7) ad adottare le opportune iniziative per definire e sviluppare un programma di investimenti nella cura, nell'istruzione e nella salute pubblici (cosiddette infrastrutture sociali), al fine di rafforzare la rete sociale a beneficio dei cittadini, nonché migliorare e omogeneizzare gli standard minimi di vita anche grazie alla redistribuzione della ricchezza prodotta dai sistemi produttivi con elevato ricorso all'automazione e alla robotica;

8) ad assumere le iniziative necessarie per avviare, anche in conseguenza degli effetti dello sviluppo della robotica, un programma di sperimentazione di forme di reddito di base incondizionato, analogamente a quanto già in atto in Finlandia, come richiamato in premessa.
(1-01559)
«Cominardi, Della Valle, Cecconi, Chimienti, Vallascas, Cancelleri, Ciprini, Crippa, Dall'Osso, Da Villa, Fantinati, Lombardi, Tripiedi, Caso».
(27 marzo 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    negli ultimi anni l'umanità si è trovata sulla soglia di un'era nella quale robot, androidi e altre manifestazioni dell'intelligenza artificiale sembrano sul punto di avviare una nuova rivoluzione industriale, suscettibile di toccare tutti gli strati sociali;
    il 2015 è stato un anno d'oro per la robotica, ma sarà nei prossimi anni che il settore conoscerà un boom senza precedenti, come ha confermato il rapporto «The future of jobs» presentato al World Economic Forum di Davos, secondo cui, entro il 2020, il valore complessivo del mercato dei robot raggiungerà 151,7 miliardi di dollari e a trainare le vendite per la prima volta non sarà il comparto industriale, ma quello dei robot per uso privato;
    in particolare, lo sviluppo tecnologico e la riduzione dei costi di produzione hanno permesso a robot sempre più sofisticati e intelligenti di penetrare in molti altri settori: da quelli più seri come la chirurgia, la difesa o l'assistenza a quelli più frivoli come l'intrattenimento e le pulizie;
    l'Italia è tra i primi Paesi al mondo nella produzione di robotica industriale, un settore che, nel 2014, è cresciuto globalmente del due per cento, con un guadagno di sessantaquattromila milioni di euro, e il contributo dell'Europa al raggiungimento del valore è stato secondo solo all'Asia, leader indiscussa del settore che a oggi è trainato dalla Cina;
    tale scenario in rapida evoluzione rende imprescindibile la necessità che la legislazione nazionale ne valuti attentamente le implicazioni e le conseguenze legali ed etiche, senza ostacolare l'innovazione;
    in particolare, occorre un nuovo quadro di norme che disciplini la diffusione e l'impiego di robot e intelligenza artificiale, soprattutto con riferimento ai settori più delicati: dalla responsabilità civile delle macchine all'impatto sul mercato del lavoro e ai risvolti etici, dalla privacy alla tutela dei dati acquisiti e trasmessi da tecnologie che invadono sempre di più la vita dei cittadini;
    la stessa Unione europea, consapevole di tali prospettive, ha approvato la recentissima risoluzione del 16 febbraio 2017 recante raccomandazioni alla Commissione concernenti norme di diritto civile sulla robotica, partendo dalle preoccupazioni che l'avanzamento della robotica suscita sul piano sociale ed economico;
    se è vero, infatti, che la robotica e l'intelligenza artificiale potrebbero portare notevoli benefici in termini di efficienza e di risparmio economico anche in ambiti come quelli dei trasporti, dell'assistenza medica, dell'educazione e dell'agricoltura, è altrettanto vero che lo sviluppo di tale settore potrebbe comportare la sostituzione della macchina all'uomo in molti lavori, con ripercussioni negative sul piano dell'occupazione e per la sostenibilità dei sistemi di previdenza sociale;
    l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) ha calcolato che l'impatto diretto dei robot potrebbe mettere a rischio il dieci per cento dei posti di lavoro, ma spingerebbe alla modifica delle mansioni di almeno un terzo dei lavoratori, e uno dei compiti della classe politica e dirigente dovrebbe essere proprio quella di tracciare una prospettiva capace di conciliare il progresso tecnologico e quello sociale;
    sul piano istituzionale, il Parlamento chiede la creazione di un’«Agenzia europea per la robotica e l'intelligenza artificiale», che abbia il compito di fornire le competenze, anche giuridiche, necessarie per sostenere gli attori pubblici operanti nel settore;
    anche in questo settore il nostro Paese sembra silente, nonostante il Piano per l’Industry 4.0 promosso dal Ministro dello sviluppo economico e propugnato con grande entusiasmo politico-mediatico dal Governo pro tempore Renzi, che dovrebbe diventare operativo a breve;
    il piano, tuttavia, è stato pensato in termini esclusivamente fiscali, prevedendo un controvalore teorico di 13 miliardi di euro di incentivi in quattro anni, che, a loro volta, dovrebbero mobilitare 23 miliardi di euro di investimenti privati (10 in tecnologie più 11,3 in ricerca e sviluppo e 2,6 in venture capital e start-up), senza però una visione complessiva e lungimirante in termini di investimenti per la ricerca e lo sviluppo;
    l’Industry 4.0 avrà, invece, effetti enormi sulle dinamiche occupazionali, e nei prossimi anni centinaia di migliaia di lavoratori rischiano di essere espulsi dai processi produttivi, con scarse o nulle possibilità di reimpiego, mentre altri ancora, quelli che rimarranno, si vedranno probabilmente costretti ad affrontare percorsi di riqualificazione complessi e difficili, e per i nuovi saranno richieste competenze in buona parte diverse da quelle formate con l'attuale sistema universitario;
    secondo stime di Assinform, il quaranta per cento dei lavori che si svolgeranno nel mondo nei prossimi anni, oggi non esistono e tutto questo richiede politiche di sostegno al reddito e politiche attive per la formazione e la riqualificazione dei lavoratori. Nel suddetto piano c’è poco o nulla di tutto ciò;
    bisogna valutare certamente le opportunità, ma anche i rischi dell'evoluzione dell'intelligenza artificiale,

impegna il Governo:

1) ad assumere iniziative per promuovere la costituzione di un impianto regolatorio omogeneo in materia di robotica e intelligenza artificiale, favorendo altresì l'adozione di una linea comune tra i Ministeri nell'approccio alla tematica;

2) a favorire una politica di investimenti in ricerca e sviluppo in grado di fronteggiare la sfida dell’Industry 4.0, che richiede politiche industriali basate soprattutto sulla conoscenza, che rappresenta il vantaggio competitivo più importante;

3) a garantire un monitoraggio e una vigilanza costanti rispetto alle ripercussioni della nuova rivoluzione industriale sul mercato del lavoro e ad assumere iniziative per prevedere lo stanziamento degli investimenti necessari per evitare una crisi occupazionale, mantenendo costanti i saldi occupazionali attraverso politiche di ricollocamento dei lavoratori in esubero a causa del progresso della meccanizzazione dei processi produttivi, secondo una logica one to one in cui a ogni posto di lavoro perso ne corrisponda uno nuovo.
(1-01561)
«Rampelli, Cirielli, La Russa, Giorgia Meloni, Murgia, Nastri, Petrenga, Rizzetto, Taglialatela, Totaro».
(28 marzo 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    le traiettorie dello sviluppo tecnologico ed industriale degli ultimi anni hanno coinciso con l'avanzamento del peso della robotica e dell'intelligenza artificiale in tutti i campi della produzione di beni e servizi;
    allo stato, i robot operativi in tutto il mondo sono 1,8 milioni. Ma, secondo le previsioni dell’International Federation of Robotics, entro il 2019, saranno 2,6 milioni solo nelle fabbriche, con l'Unione europea nel ruolo di leader mondiale di questa espansione, e se ne venderanno 42 milioni per uso personale e domestico. Insomma, robot aspirapolvere, tagliaerba, o per la pulizia delle finestre, saranno sempre più diffusi nelle case;
    come afferma uno studio recente pubblicato dalla Pricewaterhouse Coopers, nel giro di quindici anni, il 38 per cento dei posti di lavoro disponibili oggi negli Stati Uniti potrebbero essere presi da robot. Il fenomeno riguarda anche l'Europa e l'Asia, visto che in Germania l'automazione è avviata ad eliminare il 35 per cento dei posti, in Gran Bretagna il 30 per cento e il Giappone il 21 per cento;
    la differenza tra i vari Paesi si spiega – sempre secondo gli analisti della Pricewaterhouse Coopers – soprattutto con il livello di sviluppo ed istruzione. I lavori più a rischio, infatti, sono quelli che richiedono un livello inferiore di studio per essere svolti, e in America ce ne sono di più che in Asia e in Europa. I settori dove l'avvento dell'automazione sarà più massiccio sono quelli dell'ospitalità, i servizi alimentari, i trasporti e lo stoccaggio;
    un altro segno dell'importanza che il mercato e l'economia stanno assegnando alla robotica e all'intelligenza artificiale è dato dalle recenti stime legate alle operazioni di fusione e acquisizione nel mondo. Automazione industriale, telecomunicazioni, robotica: nell'anno 2016 hanno sfiorato i 700 miliardi di dollari. Non solo: in un anno di calo generalizzato delle operazioni di fusione e acquisizione (-19 per cento, secondo i dati di Mergermarket), il comparto tecnologico ha messo a segno una crescita delle operazioni del 3 per cento rispetto all'anno precedente. Nemmeno le utilities e l'energia hanno saputo fare meglio. Tra i Paesi che hanno saputo capitalizzare al meglio lo sprint in questi settori, c’è senza dubbio la Germania, dove in generale tali operazioni nel 2016 sono cresciuto del 27 per cento. La cinese Midea – che produce elettrodomestici – ha acquistato il 94,55 per cento di Kuka, specializzata in robot industriali, per circa 4,5 miliardi di euro. L'operazione Midea-Kuka, che è stata perfezionata soltanto nel gennaio 2017, è anche la più grande acquisizione fatta dai cinesi in terra tedesca;
    Alessandro Perego, direttore del dipartimento di ingegneria gestionale del Politecnico di Milano, sostiene che i lavori che l'intelligenza artificiale mette più a rischio sono quelli «ripetitivi, più probabilmente quelli cognitivi che quelli manuali». Come sostiene Perego: «Innanzitutto sarebbe più corretto parlare di Intelligenza Artificiale, di cui fanno parte anche i robot intesi come umanoidi, ma il vero tema è quello dell'automazione delle attività, tramite software in grado di fare operazioni con le caratteristiche dell'intelligenza umana. E le professioni più a rischio non sono quelle che tutti credono»;
    il segretario al Tesoro americano Mnuchin, ha detto che l'avvento dei robot è così lontano nel tempo da non essere neppure nel radar dell'amministrazione americana e che, comunque, quando avverrà l'automazione riguarderà i lavori che pagano meno;
    ma non tutti sono d'accordo con questa impostazione. Secondo una ricerca di Manpower Group dal titolo – «Skills Revolution» – presentata al World Economic Forum 2017 di Davos. La digitalizzazione e l'automazione del lavoro rappresentano un'opportunità. L'indagine, condotta tra 18.000 datori di lavoro in 43 Paesi del mondo, affronta il tema dell'impatto della digitalizzazione sull'occupazione e dello sviluppo di nuove competenze dei lavoratori. I risultati rivelano che, a livello mondiale, oltre il 90 per cento dei datori di lavoro intervistati prevede che la propria azienda verrà impattata dalla «quarta rivoluzione industriale» nei prossimi due anni, e che questo fattore influenzerà la caratterizzazione delle competenze dei lavoratori verso una sempre maggiore digitalizzazione, creatività, agilità e «learnability», l'attitudine a rimanere costantemente aggiornati e a continuare ad imparare. L'83 per cento del campione intervistato ritiene che l'automatizzazione e la digitalizzazione del lavoro faranno crescere il totale dei posti di lavoro. Inoltre, si prevede che questi cambiamenti avranno un impatto positivo sull'aggiornamento delle competenze dei lavoratori, rispetto al quale i datori di lavoro prevedono di implementare specifici programmi formativi nel prossimo futuro. Tra i 43 Paesi oggetto dell'indagine, è l'Italia ad aspettarsi il maggior incremento di nuovi posti di lavoro grazie alla quarta rivoluzione industriale al netto di un «upskilling», un aggiornamento delle competenze, con una creazione di nuovi posti di lavoro prevista tra il 31 per cento ed il 40 per cento;
    particolarmente meritevole di attenzione appare la proposta recentemente lanciata da Bill Gates, fondatore di Microsoft, di tassare i robot che svolgono lavori umani. «Al momento se un lavoratore umano guadagna 50.000 dollari lavorando in una fabbrica, il suo reddito è tassato. Se un robot svolge lo stesso lavoro dovrebbe essere tassato allo stesso livello», ha spiegato Gates, secondo il quale l'uso di robot può aiutare a liberare un numero maggiore di persone per altri tipi di lavoro, che solo gli esseri umani possono svolgere. Fra questi l'insegnamento, la cura degli anziani e delle persone con esigenze speciali. L'uso di robot «può generare profitti con risparmi sul costo del lavoro» e quindi i robot potrebbero pagare imposte minori di quelle umane, ma dovrebbero pagarle, ha detto il fondatore del colosso informatico;
    come segnala Vincenzo Visco, «la proposta di Bill Gates di tassare i robot non è quindi stravagante perché, se la base imponibile rappresentata dal lavoro si riduce, è inevitabile che il prelievo si indirizzi, prima o poi, verso altre fonti, anche con modalità inedite». Secondo il presidente di Nens, «se i robot vengono utilizzati dalle imprese che aumentano così i loro profitti, e se la quota dei profitti sul reddito nazionale cresce, è evidente che in futuro il maggior prelievo non potrebbe che riguardare i profitti crescenti, per esempio rendendo progressive le imposte sulle società. Più difficile immaginare un sistema in cui vengono individuati i singoli robot da colpire. È chiaro comunque che le nuove fonti di produzione di nuova ricchezza sono oggi internet (e non a caso si è parlato anche di una bit tax) e l'automazione. E sono attualmente quelli ignorati o addirittura incentivati e favoriti dalle normative fiscali esistenti»;
    una risoluzione recentemente approvata dal Parlamento europeo ha chiesto norme comunitarie nel campo della robotica, per far rispettare standard etici o per stabilire la responsabilità civile in caso di incidenti che coinvolgono un'auto senza conducente. I parlamentari europei hanno chiesto alla Commissione europea di proporre norme in materia di robotica e di intelligenza artificiale per sfruttarne appieno il potenziale economico e garantire un livello standard di sicurezza e protezione. La relatrice Mady Delvaux (del gruppo parlamentare dei socialisti e democratici) ha dichiarato: «Sono lieta per l'approvazione della mia relazione sulla robotica, ma mi rammarico che la coalizione di destra formata da Alde, Ppe e Ecr si sia rifiutata di prendere in considerazione le possibili conseguenze negative sul mercato del lavoro. La coalizione ha quindi rifiutato un dibattito aperto e lungimirante, ignorando le preoccupazioni dei nostri cittadini». La risoluzione è stata approvata con 396 voti in favore, 123 voti contrari e 85 astensioni. La Commissione non sarà obbligata a seguire le raccomandazioni del Parlamento, ma in caso di rifiuto dovrà indicarne i motivi;

impegna il Governo:

1) a promuovere iniziative, anche normative, volte all'istituzione di una cabina di regia a livello governativo per garantire un approccio onnicomprensivo allo sviluppo della robotica e dell'intelligenza artificiale all'interno della pubblica amministrazione, al fine di migliorare i servizi e le prestazioni al cittadino;

2) a favorire l'introduzione di programmi su scala nazionale per potenziare l'ecosistema tecnologico e industriale legato alla robotica e all'intelligenza artificiale, a partire dalle scuole e dalle università;

3) in linea con quanto individuato dalla relazione conclusiva deliberata al termine dell'indagine conoscitiva della Commissione attività produttive della Camera dei deputati, a rafforzare i modelli produttivi tendenti a valorizzare il ruolo della robotica e dell'intelligenza artificiale, anche sulla base del programma governativo Industria 4.0;

4) a valutare, di concerto con quanto già disposto a livello comunitario e, in particolare dal Parlamento europeo, l'introduzione di uno status giuridico specifico per i robot, con particolare riferimento ai profili etici e di responsabilità civile, nonché in ambito fiscale;

5) ad avviare iniziative, anche normative, per promuovere nuovi profili occupazionali legati all'innovazione tecnologica e che compensino le possibili conseguenze dello sviluppo della robotica e dell'intelligenza artificiale sul lavoro umano.
(1-01562)
«Ricciatti, Epifani, Ferrara, Roberta Agostini, Albini, Bersani, Franco Bordo, Bossa, Capodicasa, Cimbro, D'Attorre, Duranti, Fava, Folino, Fontanelli, Formisano, Fossati, Carlo Galli, Kronbichler, Laforgia, Leva, Martelli, Matarrelli, Melilla, Mognato, Murer, Nicchi, Giorgio Piccolo, Piras, Quaranta, Ragosta, Rostan, Sannicandro, Scotto, Speranza, Stumpo, Zaccagnini, Zappulla, Zaratti, Zoggia».
(28 marzo 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    nel 2015 si sono venduti 250.000 robot in tutto il mondo, di cui 100.000 nel solo settore dell’automotive;
    la comparsa dei primi robot industriali avviene intorno agli anni Settanta, in particolare nel settore dell’automotive, in applicazioni dove l'uomo opera in condizioni di pericolo e grande fatica fisica. Per più di 40 anni l'attenzione dei progettisti si è incentrata principalmente sulla sicurezza; solo da poco si è iniziato a parlare di «collaborazione» tra uomo e macchina e di «robot collaborativi», sulla spinta di coniugare la «potenza» e la «velocità» dei robot industriali, con i sensi e l'intelligenza umana, la nuova tendenza al prodotto pensato per il singolo cliente e la necessità di affiancare i robot all'uomo in nuove applicazioni nei settori della medicina, dell'agricoltura e dell'artigianato;
    come le tecnologie Information & Communication Technology (ICT) sono diventate parte della nostra vita quotidiana, anche la robotica può e ancor più potrà, giocare un ruolo importante nel miglioramento della qualità della vita, aggiungendo all'ICT la capacità di movimento e azione nel mondo reale;
    in questo settore, l'Italia è sempre stata all'avanguardia, anche in ambito industriale, dove le aziende italiane di automazione e robotica hanno avuto e continuano ad avere posizioni di rilievo, insieme a Germania, Giappone e Stati Uniti. Nella ricerca, l'Italia è tra i Paesi leader nella robotica di servizio, nella biorobotica e nella soft robotics;
    occorre che anche in Italia sia considerata una standard practice la collaborazione università-impresa, così come accade negli Stati Uniti, in Israele e in Germania, soprattutto in un contesto di crescente innovazione tecnologica che rischia di vedere depauperate le potenzialità che il nostro Paese indubbiamente possiede;
    nei primi mesi del 2017 partiranno 17 nuovi progetti selezionati dalla Commissione europea, nell'ambito dei finanziamenti « Horizon 2020» e di questi ben 5 saranno sviluppati da centri di ricerca italiani. I 17 progetti finanziati toccano ogni settore, dalla telemedicina di SmartSurg, alle piattaforme intelligenti per la sicurezza; quasi tutti i progetti scelti sono proiettati verso le applicazioni commerciali, volte a migliorare la qualità della vita e del lavoro;
    l'utilizzo delle tecnologie digitali per la produzione di beni fisici, la robotizzazione, la tecnologia cloud, l’Internet of Things, l'impiego di intelligenze artificiali e la flessibilizzazione del mercato del lavoro costituiscono, nel loro complesso, quella che è stata definita la rivoluzione dell'Industria 4.0, che, come tutte le rivoluzioni, determinerà notevoli cambiamenti sociali, a partire dal mercato del lavoro. La rivoluzione 4.0 è destinata a investire tutti i settori di mercato e le diverse aree aziendali, generando grandi opportunità;
    su quale sarà l'impatto sull'occupazione di Industria 4.0 gli esperti non sono concordi: mentre vi è una convergenza di opinioni su alcuni punti (i robot e l'intelligenza artificiale permeeranno in breve tempo ogni aspetto della nostra vita; l'attuale formazione scolastica e universitaria non sono in grado di preparare adeguatamente le persone per le sfide del prossimo decennio; occorre cogliere l'occasione per ripensare l'attuale concetto di lavoro), diversa è la valutazione dell'impatto sulla creazione di posti di lavoro;
    secondo il World Economic Forum, entro il 2020 a fronte di 7,1 milioni di posti di lavoro persi, ne saranno creati appena 2 milioni di nuovi e ciò a causa della digitalizzazione dei processi – smart manufacturing; d'altro canto, una ricerca condotta da Manpower Group tra 18.000 datori di lavoro in 43 Paesi del mondo, rileva che oltre il 90 per cento dei datori di lavoro intervistati prevede che la propria azienda verrà impattata dalla «quarta rivoluzione industriale» nei prossimi due anni, mentre l'83 per cento del campione ritiene che l'automatizzazione e la digitalizzazione del lavoro faranno crescere il totale dei posti di lavoro;
    in questa indagine, l'Italia si attende il maggior incremento di nuovi posti di lavoro, al netto di un « upskilling», con una creazione di nuovi posti di lavoro prevista tra il 31 per cento ed il 40 per cento. Meno ottimistiche appaiono le prospettive per i datori di lavoro di Germania, Francia, Finlandia, Svezia e Svizzera, secondo cui l'impatto potrebbe essere nullo o addirittura negativo (tra lo 0 e il -9 per cento);
    l'automazione è parte di un più ampio processo di innovazione che dovrebbe favorire la domanda e di conseguenza l'offerta in settori più svariati, alimentando quindi l'occupazione, sempre che si affronti in modo determinato quel «cambiamento culturale» che Industria 4.0 impone;
    industria 4.0 sicuramente potrà far ripartire investimenti e produttività in Italia, ma indispensabile è compiere sforzi adeguati per sostenere la nascita di una nuova generazione di lavoratori digitalizzati, sia formando persone con competenze tecniche, sia riqualificando coloro che stanno già lavorando, accompagnandoli con l'acquisizione di soft skill minimi di base, sia rafforzando gli interventi sulla formazione di competenze digitali nelle piccole e medie imprese;
    sempre secondo l'analisi del World Economic Forum, il 65 per cento dei bambini che iniziano oggi il loro ciclo di studi è destinato a trovare un lavoro che oggi ancora non esiste. Proprio per questo risulta fondamentale uno sforzo congiunto tra le piccole e medie imprese e il Governo per l'attuazione delle best practice, a partire dalla scuola e dall'università, e la creazione di centri di competenza;
    la legge di bilancio 2016 ha puntato sulla conferma e sul potenziamento degli incentivi agli investimenti, tuttavia, gli incentivi fiscali, in un tessuto industriale composto da molte piccole e medie imprese, riusciranno difficilmente a stimolare investimenti in ricerca e sviluppo, soprattutto in un clima ancora caratterizzato da forte incertezza;
    la previsione, inoltre, che per accedere all'iper-ammortamento, i beni, oltre ad essere funzionali alla trasformazione tecnologica delle imprese in ottica di Industria 4.0, debbano dimostrare di essere interconnessi al sistema di gestione aziendale, rischia di escludere buona parte delle piccole e medie imprese, che dovrebbero rivedere l'intero sistema informativo interno; gli incentivi fiscali previsti, incluso il super-ammortamento, si dimostrano quindi più adatti alle grandi imprese che non alle realtà di piccole dimensioni,

impegna il Governo:

1) a porre maggiore attenzione ai problemi che riguardano la piccola e media industria nel suo processo di passaggio a «Industria 4.0», in particolare prevedendo un piano industriale ragionato, basato su quello che l'Italia può e meglio sa fare, delineando una nuova Italia produttiva con le piccole e medie imprese come protagoniste;

2) ad assumere iniziative di competenza, volte a promuovere attività di formazione, ricerca e sviluppo nelle scuole, nelle università e nei centri di ricerca, favorendo la collaborazione università-impresa e prevedendo anche l'allocazione di maggiori risorse per la creazione dei centri di competenza.
(1-01571)
«Palese, Altieri, Bianconi, Capezzone, Chiarelli, Ciracì, Corsaro, Distaso, Fucci, Latronico, Marti».
(3 aprile 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    le tecnologie innovative, che soltanto fino a qualche anno fa erano relegate al mondo della fantascienza, sono oggi una realtà che sta prendendo sempre più spazio nell'industria dei maggiori Paesi ad economia avanzata, modificandone l'organizzazione ed il processo produttivo, tanto da segnare la nascita di una nuova era industriale;
    i dati delle vendite mondiali dei robot industriali nel 2015 confermano che il settore sta vivendo una fase di espansione, raggiungendo, come conferma il rapporto « The Future of jobs», presentato al World Economic Forum di Davos, gli oltre 150 miliardi di dollari nel 2020; già nei prossimi anni il settore industriale sarà supportato dalla crescente domanda di soluzioni che interessano altri comparti dalla medicina, alla difesa e ai servizi alla persona;
    un trend di sviluppo interessante della tecnologia è raggiunto nel settore dei robot collaborativi, ossia di applicazioni capaci di affiancare l'uomo nell'espletamento delle sue attività, nel quale, in Italia, operano aziende che vantano un ruolo di primo piano nel panorama mondiale, in cui sono oltre 4 mila le aziende attive nella produzione di robot o sono interessate nella filiera produttiva;
    in un anno, tra il 2014 e 2015, il numero dei finanziamenti a start-up e aziende di robotica è stato di circa 2 miliardi di dollari; sono state 31 le acquisizioni aziendali che, nel 2015, hanno prodotto un valore pari a 1,9 miliardi di dollari;
    l'Italia è il sesto mercato mondiale dei dispositivi robotici ed il secondo in Europa, con una leadership nei settori della ricerca e dell'innovazione. I centri di ricerca italiani in robotica rappresentano, infatti, dei poli di eccellenza a livello mondiale, il cui valore supera quello industriale, e sono tra i promotori dei più ambiziosi progetti di ricerca robotica in Europa;
    a livello internazionale, le aree che più stanno investendo nel settore sono le regioni asiatiche e dell'Oceano Pacifico, con un intervento del 65 per cento sugli investimenti totali a livello internazionale, pari a 46.8 miliardi di dollari che, entro il 2019, sarà vicino al raddoppio, segnando una significativa fase di sviluppo di questi Paesi;
    in tale scenario, l'Italia potrebbe avere un discreto successo nell'attuazione di iniziative finalizzate a rendere la tecnologia parte integrante del processo produttivo. L'ambizioso progetto «Industria 4.0» promosso dal Governo, che si propone, attraverso la sola leva fiscale, di rivoluzionare il tessuto industriale del Paese, è tuttavia destinato al fallimento se non inquadrato all'interno di una visione politica più ampia in cui il progresso tecnologico coesista con quello sociale e civile;
    la rivoluzione industriale 4.0 produrrà certamente effetti dirompenti per il tessuto economico del Paese, andando principalmente ad incidere sul mondo dell'occupazione;
    nei prossimi anni si stima, infatti, che saranno centinaia di migliaia i lavoratori espulsi dai processi produttivi, con possibilità scarse o addirittura nulle di essere reimpiegati, mentre coloro che rimarranno all'interno del processo produttivo sconteranno un gap formativo-culturale e di competenze non supportato dall'attuale formazione universitaria;
    secondo il direttore occupazione, lavoro e affari dell'Ocse «la situazione è allarmante, nei Paesi Ocse dal 45 al 60 per cento della forza lavoro, in Italia quasi il 50 per cento ha zero o scarse capacità informatiche. Per questo senza un piano sul lavoro 4.0 anche le grandi opportunità di industria 4.0 possono essere messe seriamente a rischio»;
    la stessa Ocse ha calcolato che l'impatto diretto della robotica sulle dinamiche occupazionali potrebbe mettere a rischio il dieci per cento dei posti lavoro e sposterebbe alla modifica delle mansioni almeno un terzo dei lavoratori;
    anche il citato rapporto «The Future of Jobs» stima che dal 2015 al 2020 si perderanno 5,1 milioni di posti di lavoro in tredici dei Paesi più industrializzati del mondo, tra cui l'Italia; anche se non esiste una correlazione diretta tra la perdita di posti di lavoro e l'avanzamento tecnologico, lo studio ritiene che l'automazione e lo sviluppo delle intelligenze artificiali siano tra i principali fattori responsabili;
    il costo sociale in termini occupazionali che l'innovazione tecnologica inevitabilmente comporterà potrebbe essere compensato da una tassazione sui robot che svolgono lavori umani; tale proposta, lungi dal voler essere demagogica, è stata lanciata anche di recente dal fondatore di Microsoft, Bill Gates, che ha dichiarato «Se gli operai che lavorano nelle industrie guadagnano mediamente 50 mila dollari l'anno, e il loro reddito è regolarmente tassato, anche il lavoro svolto direttamente dai robot dovrebbe essere tassato allo stesso modo.» L'uso di robot «può generare profitti con risparmi sul costo del lavoro» e quindi i robot potrebbero pagare imposte minori di quelle umane, ma dovrebbero pagarle. «Non ritengo che le aziende che producono robot si arrabbierebbero se fosse imposta una tassa»;
    le occupazioni più a rischio in quanto più sostituibili dai robot, peraltro, sono quelle meno retribuite e, secondo critici e osservatori, il rischio conseguente è l'ampliamento del divario fra poveri e ricchi;
    in Europa, è stata recentemente approvata una risoluzione in materia di norme di diritto civile sulla robotica che raccomanda l'adozione un quadro di norme comunitarie per disciplinare l'impiego dei robot nella vita reale, soprattutto sotto gli aspetti della responsabilità civile delle macchine e dell'impatto sul mercato del lavoro e sulla privacy;
    il tema è estremamente delicato e merita, quindi, attenzione da parte delle istituzioni nazionali ed europee, soprattutto per quanto concerne l'impatto che l'ascesa delle tecnologie artificiali ha sulla riorganizzazione dei processi produttivi e sull'occupazione,

impegna il Governo:

1) ad assumere le necessarie iniziative affinché lo sviluppo della robotica in Italia avvenga in un contesto normativo univoco e concertato tra tutti soggetti a vari livelli interessati;

2) a presentare al Parlamento una relazione per la valutazione di rischi ed opportunità che lo sviluppo del settore della robotica e dell'intelligenza artificiale può generare per l'economia del nostro Paese;

3) a monitorare l'impatto che il progressivo impiego delle tecnologie artificiali genera sul mercato del lavoro e a prevedere l'adozione di idonee misure, anche di natura fiscale, tese alla salvaguardia degli standard di welfare, necessarie per scongiurare una crisi occupazionale, considerando anche l'opportunità della creazione di specifici percorsi formativi per la riqualificazione dei lavoratori;

4) ad assumere iniziative, per quanto di competenza, volte ad implementare la formazione scolastica delle scuole secondarie di secondo grado e quella universitaria al fine di favorire la nascita di nuove figure professionali idonee alle competenze richieste dalla quarta rivoluzione industriale ed in possesso degli opportuni skills;

5) a sostenere, in questa fase di transizione verso un'economia altamente innovativa e digitalizzata le micro e piccole imprese nel rinnovamento dei loro processi produttivi, integrandoli con quella parte del sistema industriale già interconnessa, quale presupposto per lo sviluppo di una strategia che miri alla più ampia diffusione delle tecnologie avanzate.
(1-01607)
«Allasia, Simonetti, Fedriga, Attaguile, Borghesi, Bossi, Busin, Caparini, Castiello, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Molteni, Pagano, Picchi, Gianluca Pini, Rondini, Saltamartini».
(19 aprile 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    nel 2008 è iniziata una fase di crisi che, pur riducendo il proprio impatto, non si è conclusa. La sua natura è strutturale e collegata a diverse cause. Di fatto, questa crisi ha evidenziato un cambiamento in atto, sempre più importante e dagli effetti più diffusi, nel modo di produrre, consumare, acquistare beni e servizi;
    questo cambiamento è dovuto a trasformazioni introdotte da innovazioni scientifiche e tecnologiche che influenzano la vita delle persone, in particolare le loro abitudini e i loro comportamenti. Di conseguenza, è cambiato, e sta ancora cambiando, in questi anni, lo scenario economico, sociale e persino culturale;
    una progressiva accelerazione dell'innovazione può tendere a rendere le figure professionali inadeguate nel tempo sia per la rapida obsolescenza delle competenze stesse, sia perché i compiti svolti sono parzialmente automatizzati;
    una recente ricerca dell'Ocse sul futuro del lavoro indica che in Italia il 9,6 per cento dei lavori sono caratterizzati da mansioni con una probabilità di elevata automazione ed un 34 per cento con una probabilità media di automazione che comporti cambiamenti significativi nelle mansioni svolte;
    questo fenomeno rischia di rendere subottimale ai fini della contribuzione al bene comune risorse umane importanti oltre a porre alla società, nel suo insieme, il problema del sostentamento e del welfare per queste ultime;
    l'attuale formazione prevede dei momenti della vita, nei quali una persona si forma e quelli nei quali lavora, formalmente strettamente demarcati. La formazione scolare, seguita poi da un'attività lavorativa più o meno lunga e da ulteriori eventi di formazione occasionali. La formazione in generale specializza la persona; una specializzazione che diviene parte dell'identità stessa della persona. Ciò fa sì che, una volta che la professionalità diventa obsoleta, la persona entri in crisi e si senta inutile e obsoleta a sua volta. Questo paradigma potrebbe non essere più attuale se si ipotizza verosimile che le persone, per poter stare al passo con l'accelerazione nel cambiamento che si intravede, debbano alternare nella loro vita, frequentemente, periodi di istruzione a periodi di attività lavorativa, il cosiddetto « lifelong learning» al quale il nostro sistema scolare non è preparato;
    dalla già citata ricerca dell'Ocse, emerge che in Italia, tra le persone con minore competenze per affrontare lavori a base tecnologica, solo l'8 per cento delle persone in età lavorativa partecipa a corsi di formazione;
    con insistenza si sente parlare di come intelligenza artificiale e robot possano trasformare e trasformeranno il mondo del lavoro (sia nella produzione che nel commercio);
    grazie agli sviluppi dell'elettronica e dell'intelligenza artificiale, l'automazione di attività ripetitive, sia nella manipolazione di oggetti materiali, con robot nelle fabbriche, che di manipolazione di oggetti immateriali, con infobot negli uffici, riguarderà settori progressivamente sempre più ampi dell'economia;
    l'automazione si basa sull'adozione e sulla diffusione della tecnologia; mentre alcuni lavori scompaiono, nuovi lavori sono creati direttamente e indirettamente dallo sviluppo tecnologico; tali lavori non rimpiazzano necessariamente quelli vecchi, ma sono accompagnati da un forte effetto moltiplicatore e da un aumento della produttività, essenziale per il nostro Paese con una produttività ferma da decenni;
    lo sviluppo tecnologico, inoltre, presenta prospettive che possono portare benefici alla salute, alla comunicazione, all'inclusione sociale ed al welfare, alla lotta alla fame se inserito nel quadro di politiche e strategie che riportano l'area del possibile all'interno di una visione di futuro;
    recentemente, è emersa nel dibattito internazionale la possibilità di applicare una tassa sui robot, provvedimento difficile da definire nel merito dell'applicazione e potenzialmente dannoso negli effetti in quanto tassa sugli investimenti quindi recessiva;
    non è una questione di mercato, ma di prospettiva della società, dove i sistemi continentali (più di quelli nazionali) possono interpretare un ruolo, se capaci di indicare strategie di sviluppo che generino valore e sappiano distribuirlo;
    si parla di una quarta rivoluzione industriale, dove l'automazione, internet delle cose, una diversa organizzazione delle filiere e dei rapporti tra imprese, consentirà a imprese «virtuose» di trascinare e guidare la crescita economica;
    questo «piano» è parte della strategia complessiva, la anticipa, ma allo stesso tempo evidenzia come ci siano molti aspetti, ricadute, precondizioni che richiedono una riflessione e la costruzione di strumenti e politiche per far sì che una rivoluzione tecnologica trovi corrispondenza nell'evoluzione sociale e nelle politiche nazionali ed europee;
    l'Europa, all'inizio del millennio, ha definito la propria strategia, indicando nella «Società della Conoscenza» il proprio specifico asset nel mercato globale. Questo significa che i Paesi europei riconoscono che il capitale umano e il fattore umano sono elementi su cui investire rispetto ad altri sistemi che hanno puntato, per esempio, sul costo del lavoro come leva di sviluppo. Le imprese europee, quelle sopravvissute al trauma di una competizione con sistemi con un costo del lavoro imparagonabile al nostro, hanno innovato e compreso che l'innovazione, è una leva su cui investire e attraverso la quale competere. Lo hanno fatto anche medie imprese e iniziano a farlo le reti di imprese più piccole;
    tuttavia, di fronte a questa rivoluzione, che aumenterà l'importanza di robot e intelligenza artificiale, non solo nella produzione di beni, ma soprattutto nello scambio e nell'erogazione di servizi, la politica ha il compito di interrogarsi e di prospettare scenari, definire strategie e priorità perché il mondo del lavoro, gli investimenti, il welfare possono trovare opportunità di miglioramento ed evitare rischi di impoverimento o emarginazione;
    è indispensabile attivarsi per raccogliere informazioni, dati, progetti, iniziative, proposte che consentano di definire il quadro per arrivare a promuovere politiche su alcune aree strategiche, dove le norme possano accompagnare un cambiamento virtuoso: la scuola, l'università, la ricerca, i trasporti, la comunicazione, la sicurezza informatica (solo per citare i più sensibili e diretti);
    è necessaria un'attenta analisi delle forme e delle regole del lavoro, dal momento che anche il mondo del lavoro, delle professioni, dei tempi e delle modalità di lavoro si trasformerà, così come mostrano alcuni fenomeni riscontrati in questi anni e interpretati con concezioni e regole del passato;
    va valutato l'aspetto economico e fiscale dell'impatto di una trasformazione della produzione con una forte automazione, in modo che la produzione di ricchezza sia accompagnata anche da un modello di ridistribuzione del valore generato;
    va anche considerato il fenomeno che porta le aziende, per poter meglio gestire il rischio derivato da un cambiamento sempre più vorticoso, abilitate da tecnologie di automazione del coordinamento sempre più evolute, a diventare «elastiche» ovvero a distribuire il rischio di impresa su tutto il proprio ecosistema: fornitori, partner, lavoratori. Questo tipo di impresa, in rapida diffusione, richiede un cambiamento di paradigma nella logica di protezione della persona che oggi avviene di fatto attraverso il posto di lavoro; è imperativo che altre forme vengano identificate per il futuro. Questo modello impone, inoltre, una maggiore necessità per i lavoratori di acquisire competenze di tipo imprenditoriale, obiettivo che il sistema scolare attuale non riesce a gestire;
    le premesse qui esposte lasciano aperto il campo delle possibilità, che oscilla tra rischi e opportunità,

impegna il Governo:

1) a costituire un osservatorio interministeriale, coinvolgendo i Ministeri competenti, che effettui monitoraggi, raccolte di dati ed analisi quantitative e qualitative circa l'adozione di sistemi robotici e di intelligenza artificiale, misurandone gli effetti sulla produttività e sull'occupazione e che proponga periodicamente misure ed interventi per massimizzare i benefici, mitigando gli effetti negativi;

2) a proporre nuovi strumenti e istituti per il lavoro, alla luce di uno scenario di dematerializzazione del lavoro che riduce il suo legame con i tradizionali tempi e luoghi di prestazione, e dell'incremento del lavoro autonomo;

3) ad affrontare il tema di un nuovo sistema di allocazione/riallocazione/formazione delle risorse umane che sia anche molto più attento ai percorsi imprenditoriali, considerando:
  a) l'imprenditorialità e l'incubazione di impresa a tutti gli effetti un percorso formativo tra quelli istituzionalizzati;
  b) la necessità di potenziare e rendere flessibile il sistema della formazione, puntando soprattutto su imprenditorialità, sulla risoluzione dei problemi, competenze trasversali e conoscenza della tecnologia per facilitare la nascita di nuove attività economiche ed il reimpiego delle persone;
  c) la necessità di promuovere l'apertura del sistema della formazione pubblica al mercato, favorendo l'accesso agile all'enorme quantità di offerta formativa che l'innovazione e le tecnologie stanno portando;
  d) la rivalutazione del ruolo tradizionalmente svolto da albi professionali e di nuove forme di intermediazione algoritmica da parte di piattaforme digitali;

4) a promuovere attività di studio, programmazione e incentivazione di nuove forme di welfare e previdenza, che possano accompagnare le attuali e le prossime generazioni di giovani, attraverso prime sperimentazioni di ridistribuzione del valore generato dalle migliori e più avanzate pratiche di Industria 4.0;

5) a realizzare un libro bianco di proposte in materia che riguardino i diversi Ministeri competenti, nell'ottica di un Piano nazionale per le sfide proposte dalla quarta rivoluzione industriale, considerato che l'Italia è il secondo Paese manifatturiero dell'Unione europea;

6) a promuovere, a livello europeo, un dibattito per la definizione di una proposta organica di una politica europea su questi temi per nuovi obiettivi chiave per i prossimi dieci anni.
(1-01608)
«Catalano, Quintarelli, Monchiero, Molea, Galgano, Menorello, Oliaro, Vargiu».
(19 aprile 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    i robot, in tutto il mondo, sono circa 1,8 milioni di unità, il 70 per cento dei robot è utilizzato in 5 Paesi: Germania, Usa, Cina, Giappone e Corea del Sud;
    tra il 2002 e il 2010, le unità vendute sono passate dalle 69.000 alle 121 mila e la previsione è che, nel 2018, i robot acquistati dalle aziende saranno oltre 400.000, con un incremento del 500 per cento delle vendite globali rispetto al 2002;
    in Cina, ogni 100 operai sono presenti in media 0,3 robot o cobot, mentre, in Corea del Sud, la media è di 4,3 robot ogni 100 operai;
    l'80 per cento dei robot presenti nelle industrie opera per il 43 per cento nel settore automotive, per il 21 per cento, nell'elettronica, per il 9 per cento, nell'industria del metallo e per il 7 per cento nel settore chimico industriale; si stima che, entro il 2020, il valore del mercato dei robot e dell'intelligenza artificiale raggiungerà 150 miliardi di euro;
    in Asia la domanda di robot è 3 volte superiore rispetto al resto del mondo: le previsioni per il 2018 riportano una richiesta di ben 275 mila unità solo nel continente asiatico. L'Europa e gli Stati Uniti, invece, si fermano rispettivamente a 66 mila e 48 mila. Si prevede che, entro il 2099, il 70 per cento degli attuali lavori saranno totalmente automatizzati;
    uno studio svolto in Francia afferma che dall'utilizzo dei robot e dell'intelligenza artificiale potrebbe derivare la perdita di 3 milioni di posti di lavoro; lo studio segnala come i settori nei quali si prevede una riduzione degli occupati sono i seguenti: agricoltura, costruzioni, industria, settore alberghiero, pubblica amministrazione, esercito;
    i ricercatori di Bruegel di Bruxelles hanno ipotizzato che tra il 45 per cento e il 60 per cento della forza lavoro presente in Europa potrebbe essere sostituita dai robot entro pochi decenni;
    nel rapporto Man and Machine in Industry 4.0, analizzando 23 settori diversi dell'economia tedesca, gli analisti hanno previsto che l'impatto dell'automazione sarà positivo, di circa 350 mila unità in un decennio, ma questo dato deriva dall'aumento di occupati nel settore dell'informatica di poco inferiore al milione di nuovi posti di lavoro, e dal decremento dei lavoratori impiegati nella catena di montaggio e in altri settori della produzione che vedranno una contrazione di oltre 600 mila lavoratori;
    Pew Research, con una accurata inchiesta dal titolo « Future of the internet», svolta tramite interviste che hanno coinvolto quasi duemila esperti, analisti e costruttori di prodotti tecnologici, ha evidenziato che i robot e l'intelligenza artificiale interverranno entro il 2025 nei settori della salute, dei trasporti, della logistica, dei servizi ai consumatori e della manutenzione della casa; mentre ritardi sono segnalati nella formazione scolastica e universitaria, che non appare oggi in grado di preparare adeguatamente le persone alle sfide occupazionali del prossimo decennio ed oggi appare improrogabile intervenire in tale situazione;
    la robotica e l'intelligenza artificiale imporranno il ripensamento del concetto di lavoro, dal quale deriveranno modalità di produzione con, a lungo termine, ripercussioni sull'orario di lavoro e sul tempo libero;
    secondo alcune stime, otto milioni di posti di lavoro negli Stati Uniti e 15 milioni in Gran Bretagna sono a rischio per l'automazione; le occupazioni più in pericolo sono quelle meno retribuite, il rischio è quindi che l'introduzione dei robot e dell'intelligenza artificiale possa ampliare il divario sociale tra lavoratori;
    in sede di Unione europea si è avviato un ampio dibattito, valutando al contempo soluzioni, sul rischio, come evidenziato da numerosi studi, che dalla robotica e dall'intelligenza artificiale possa derivare l'espulsione dal lavoro di milioni di persone, alle quali dovranno, in ogni caso, essere garantite forme di tutela del reddito, tutele previdenziali e garanzia di servizi sociali di sostegno; tra le ipotesi vi è la possibilità di tassare i robot per finanziare un fondo di solidarietà per i disoccupati, ovvero garantire un reddito minimo;
    è di tutta evidenza che se l'utilizzo dei robot e dell'intelligenza artificiale genera profitti, derivanti, in particolare, anche da risparmi sul costo del lavoro, è necessaria una revisione complessiva della fiscalità legata al lavoro al fine di non penalizzare ulteriormente il lavoro umano e da garantire il finanziamento degli ammortizzatori sociali e delle misure di sostegno al reddito;
    non a caso il 16 febbraio 2017 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che invita la Commissione europea ad avviare un'analisi e un monitoraggio dell'impatto dell'uso dei robot in particolare relativamente alla creazione e alla perdita di posti di lavoro e sulla capacità di sostenibilità dei sistemi di protezione sociale dei Paesi aderenti;
    uno studio dell'università di Harvard, firmato dall'economista James Besson e rilanciato dal sito del World economic forum, afferma che sarà automatizzato il 73 per cento dei servizi alberghieri e di ristorazione, il 60 per cento dei lavoratori dell'industria manifatturiera, delle attività agricole, nonché del settore dei trasporti e dell'edilizia; il 41 per cento di sostituzioni nel settore dell'arte, intrattenimento e ricreazione, il 43 per cento delle attività nei servizi finanziari;
    sempre secondo lo studio dell'università di Harvard, le sostituzioni di personale con robot e intelligenza artificiale interesserà meno i seguenti settori: gli insegnanti, con una previsione del 27 per cento di indice di sostituzione, dei dirigenti e dei manager con una previsione di sostituzione del 35 per cento, dei professionisti con una previsione di sostituzione del 35 per cento e il personale medico e sanitario con una previsione di sostituzione del 36 per cento;
    va, altresì, riconosciuto il potenziale in termini di innovazione e di economia che questo balzo tecnologico può rappresentare, se adeguatamente accolto e preparato, sia in termini sociali che di tessuto imprenditoriale ed economico, e che è fondamentale, in quest'ottica, riconoscere e supportare adeguatamente le molte realtà di eccellenza nella ricerca legata proprio al mondo della robotica e dell'intelligenza artificiale, settori per altro riconosciuti di primaria importanza anche dal Piano nazionale per la ricerca, e il ruolo chiave che queste possono ricoprire nello sviluppo culturale e tecnologico del nostro Paese;
    al momento non può non segnalarsi come da parte del Governo non sussista alcuna previsione programmatica di definizione di un quadro complessivo che risponda né alle problematiche, né alle opportunità derivanti dall'utilizzo dei robot e dell'intelligenza artificiale, di quella che molti definiscono la «quarta rivoluzione industriale»;
    in materia di robotica e di intelligenza artificiale è necessario affrontare, in tempi brevi, questioni rilevanti relative: agli investimenti nel nostro sistema di ricerca e formazione, alla revisione del sistema di sicurezza sociale, che sia in grado di affrontare i nodi quali la tutela dei lavoratori che potranno essere espulsi dai luoghi di produzione; le questioni dell'imposizione fiscale da ripensare; l'esigenza di pensare a un futuro di medio/lungo termine che porti ad una effettiva riduzione dell'orario di lavoro; l'innovazione complessiva del sistema produttivo italiano per prepararlo ad accogliere in maniera virtuosa il cambiamento in essere; questioni che vanno affrontate con interventi legislativi che non si limitano ai piani industria 4.0, in forma di forti incentivi fiscali, senza che questi siano inseriti in un contesto strutturale,

impegna il Governo:

1) ad assumere iniziative, anche di carattere normativo, che si pongano l'obiettivo di fornire un quadro di riferimento per l'utilizzo dei robot e dell'intelligenza artificiale e che affrontino questioni rilevanti quali la definizione di un quadro di sicurezza sociale, capace di affrontare le problematiche derivanti dall'impatto negativo sull'occupazione, attraverso la formazione permanente, la riduzione dell'orario di lavoro, l'imposizione fiscale, da ripensare rispetto al mondo del lavoro, l'istituzione di un reddito minimo garantito;

2) ad assumere iniziative, anche in sede comunitaria, che portino a una maggiore giustizia fiscale nei confronti dei grandi gruppi multinazionali che adottano pratiche elusive, spesso coincidenti proprio con i colossi dell’Information & Communication Technology (Ict), che sono gli attori principali della transizione in corso verso l'automazione e l'intelligenza artificiale;

3) ad assumere iniziative per dare il reale supporto finanziario ai settori della ricerca relativi alla robotica e all'intelligenza artificiale, considerati prioritari dallo stesso programma nazionale per la ricerca 2015-2020;

4) ad avviare, a livello nazionale, anche attraverso l'istituzione di un apposito Osservatorio, l'analisi e il monitoraggio permanente dell'impatto dell'uso dei robot e dell'intelligenza artificiale, in particolare individuando i settori produttivi dove si verifichino o possano verificarsi la creazione ovvero la perdita di posti di lavoro e la loro quantificazione, nonché della sostenibilità del sistema di protezione sociale del nostro Paese in relazione all'impatto della «quarta rivoluzione industriale», coinvolgendo tanto gli attori politici, sociali ed economici, quanto quelli della ricerca, al fine di individuare un quadro di azioni e di soluzioni innovative in grado di rispondere alle criticità e di creare opportunità reali per il nostro Paese;

5) a promuovere e sostenere, nelle scuole, la cultura tecnico-scientifica, nonché a promuovere e sostenere nelle università e nei centri di ricerca i già esistenti percorsi di formazione di profili professionali che siano in grado di progettare e utilizzare robot e intelligenza artificiale, in tutti i settori produttivi, che sono attualmente penalizzati dai pesanti tagli subiti nel corso degli anni;

6) ad assumere iniziative volte a prevedere, nel prossimo disegno di legge di bilancio, adeguate risorse per le forme di sicurezza sociale, di tutela del reddito dei lavoratori, della promozione della formazione di personale altamente specializzato, di finanziamento della ricerca nei settori della robotica e dell'intelligenza artificiale, di politiche industriali orientate alla riconversione tecnologica.
(1-01619)
«Civati, Airaudo, Brignone, Costantino, Daniele Farina, Fassina, Fratoianni, Giancarlo Giordano, Gregori, Andrea Maestri, Marcon, Paglia, Palazzotto, Pannarale, Pastorino, Pellegrino, Placido».
(2 maggio 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    la robotica, l'intelligenza artificiale e l'automazione in generale hanno dato un forte contributo al raggiungimento del livello di benessere di cui oggi si può beneficiare, non solo in termini di produttività, ma anche di diminuzione dei pericoli per gli esseri umani (ad esempio nei mestieri ad alto rischio infortunio). Ciò è evidente da anni nel settore privato, mentre nella pubblica amministrazione la digitalizzazione e l'automazione non hanno ancora raggiunto livelli paragonabili;
    la progressiva sostituzione dell'uomo con meccanismi automatici – unitamente al drastico snellimento e semplificazione delle norme – è razionalmente considerabile come l'unica soluzione alle piaghe della corruzione, del clientelismo e dell'inefficienza burocratica, che a loro volta rappresentano il principale ostacolo al progresso economico e sociale del Paese;
    la comprensibile volontà di tutelare posti di lavoro, nonché il permanere di forti interessi politico-clientelari, hanno finora impedito di affrontare questo tema nell'ottica dell'interesse collettivo;
    lo sviluppo della robotica e dell'intelligenza artificiale farà sì che gran parte del lavoro attualmente svolto dagli esseri umani possa essere svolto da robot, senza la possibilità di un totale recupero dei posti di lavoro persi, sollevando preoccupazioni quanto al futuro dell'occupazione; l'introduzione di una forma di reddito di esistenza dovrebbe essere presa in considerazione, al fine di mantenere la coesione e il benessere sociali;
    è evidente la crescita delle diseguaglianze, con una sempre maggiore concentrazione di ricchezza e potere nelle mani di quei pochissimi colossi mondiali che operano nel settore del web e della tecnologia (Google, Facebook, Amazon), oltre che della cosiddetta Gig Economy (Uber, Foodora);
    una parte consistente di tali profitti proviene, peraltro, dalla raccolta e vendita dei cosiddetti Big Data, ossia di tutte quelle informazioni personali che gli utenti; più o meno consapevolmente, cedono ogni giorno gratuitamente;
    l'estrazione di valore nei confronti degli utenti da parte delle piattaforme private ha accelerato la velocità di accentramento della ricchezza nelle mani di pochi, generando squilibri pericolosi per la democrazia stessa;
    è quanto mai necessario sospingere la creazione di piattaforme libere – siano esse pubbliche o «comuni» – che non estraggano valore ma lo mantengano e lo distribuiscano all'interno delle comunità che lo hanno generato;
    è fondamentale che gli Stati incoraggino e diano visibilità ad alcuni nuovi fenomeni emergenti, «dal basso», che cercano di ripristinare i valori di solidarietà sociale e dignità del lavoro, in un settore che viaggia pericolosamente verso estremi opposti come, in particolare, il fenomeno delle cooperative di piattaforma (platform cooperativism), ossia quelle imprese che utilizzano piattaforme informatiche analoghe a quelle dei «grandi marchi» sopra citati e forniscono gli stessi servizi (trasporto urbano, servizi alla persona), essendo, tuttavia, direttamente e collettivamente gestite dai lavoratori, che redistribuiscono i profitti in modo equo. Tale fenomeno, teorizzato a livello internazionale, ha tratto forte ispirazione dall'Italia, e segnatamente dalla tradizione cooperativa della regione Emilia Romagna;
    gli Stati dovranno muoversi, negli anni a venire, su due «binari» servendosi, da un lato, della tecnologia per ridurre il più possibile sprechi e costi, snellendo le pratiche burocratiche e, dall'altro, intraprendendo profonde riforme fiscali ispirate a principi di redistribuzione della ricchezza (assumeranno ovviamente fondamentale importanza gli accordi internazionali in materia di contrasto ai paradisi fiscali e ad ogni forma di evasione/elusione);
    l'andamento attuale, che tende a sviluppare macchine autonome e intelligenti, in grado di apprendere e prendere decisioni in modo indipendente, genera nel lungo periodo, non solo vantaggi economici, ma anche una serie di preoccupazioni circa gli effetti diretti e indiretti sulla società (capacità o incapacità di controllo su questa, gestione verticalistica di strumenti a diffusione di massa) nel suo complesso;
    tra le possibilità di sviluppo dell'intelligenza artificiale e, quindi, nel conseguente ventaglio di scelte dovranno, ad esempio, esser escluse tutte quelle che comportino discrimine verso persone o culture e l'ulteriore sviluppo e il maggiore ricorso a processi decisionali automatizzati ed algoritmici avranno un sempre maggiore impatto sulle scelte compiute da privati, da autorità amministrative o giudiziarie e da autorità politiche;
    sarà indispensabile garantire la possibilità di controlli e verifiche dei suddetti processi e l'inserimento di dispositivi di sicurezza al fine di essere certi che vengano rappresentati e rispettati gli intenti e le decisioni finali degli utenti;
    l'impiego dell'automazione rende necessario che tutti i soggetti coinvolti nello sviluppo e nella commercializzazione delle intelligenze artificiali integrino nel loro lavoro, fin dalla fase di progettazione, gli aspetti relativi alla sicurezza e all'etica, riconoscendo, pertanto, d'esser legalmente responsabili della qualità della tecnologia sviluppata;
    altrettanto critica è la situazione dal punto di vista della difesa della sicurezza e della privacy dei cittadini, soprattutto alla luce dell'imminente avvento del cosiddetto «Internet delle cose», in cui ad essere connessi alla rete non saranno più soltanto i dispositivi per le telecomunicazioni (computer, tablet, cellulari), ma potenzialmente qualunque strumento;
    negli ultimi due anni, si sono registrati diversi scandali di intrusione ed estrazione di dati privati da sistemi informatici vari, mostrando le carenze dell'attuale regolamentazione della rete per salvaguardare la sicurezza dei cittadini;
    adottare misure tecnologiche preventive è l'unica protezione efficace dal momento che le estrazioni di dati sono difficilmente rivelabili a posteriori e sarebbe quindi necessario muoversi in questa direzione per garantire un'efficace cybersicurezza;
    l'estrazione massiva e l'utilizzo di dati personali rappresentano un rischio per la qualità stessa della democrazia, a causa di due fattori: la rete diventerà sempre più il canale principale di informazione per la maggioranza dei cittadini e molti motori di ricerca e Social Network utilizzano i dati personali per filtrare risultati di ricerche e notizie, in modo che l'utente visualizzi solo ciò che più si confà alle proprie opinioni;
    internet, i big data e più in generale i cittadini del mondo non amano i confini, ma talvolta si rende necessario utilizzarli per proteggere le normative più evolute in termini di privacy e tutela delle collettività dagli attacchi di entità straniere o transnazionali che siano soggette a normative più rilassate o abbiano obbiettivi non compatibili con la democrazia ed il benessere dei cittadini italiani ed europei (si vedano ad esempio le rivelazioni di Snowden sulla National Security Agency o l'utilizzo dei dati degli utenti da parte di Facebook, Amazon, Apple),

impegna il Governo:

1) a valutare la possibilità di far ricorso a sistemi di intelligenza artificiale negli uffici della pubblica amministrazione, anche qualora ciò comportasse una riduzione del turn-over, al fine di migliorare la user experience dei cittadini e di impedire ab origine episodi di corruzione e clientelismo;

2) a incentivare e considerare prioritarie la ricerca e lo sviluppo di soluzioni aperte e collaborative nell'ambito della robotica e dell'intelligenza artificiale, quando esse avvengano da parte di soggetti pubblici o tramite iniziative collettive finalizzate a generare piattaforme gestite come beni comuni;

3) a privilegiare soluzioni generative di valore nei confronti della collettività, nell'ambito della robotica e dell'intelligenza artificiale;

4) ad assumere iniziative per avviare un programma di valutazione e sperimentazione di una profonda riforma del sistema economico, tributario, finanziario e del welfare per disegnare una società nuova, non più incentrata solo sul lavoro, in cui tutti gli esseri umani godano di un reddito di esistenza sovvenzionato dalla produzione industriale, in modo che chi lavora ottenga di più, ma chi non può trovare lavoro trascorra una vita degna e libera da paure esistenziali;

5) ad assumere iniziative per obbligare i produttori di automi a rispettare la privacy dei cittadini, ad utilizzare una cifratura adeguata nella loro trasmissione (garantendo loro l'accesso ai dati generati e praticando la parsimonia nell'utilizzo degli stessi; definendo una serie di limitazioni per gli automi connessi ad internet e in grado di effettuare registrazioni audio e video);

6) ad assumere iniziative per stabilire chiaramente per legge la responsabilità dei produttori di automi in caso di danni arrecati da questi ad esseri umani;

7) a promuovere, all'interno della scuola dell'obbligo, gli insegnamenti atti a comprendere il funzionamento della rete, i suoi sistemi di protezione e le sue fragilità, a chiarire gli attuali ordinamenti in termini di privacy, a fornire gli strumenti base per la comprensione di un algoritmo e dunque a incentivare un percorso formativo che si ponga come scopo ultimo quello di dar strumenti al cittadino per scegliere in materia con consapevolezza e che assicuri la fattiva democraticità del dibattito;

8) a farsi portavoce e sostenitore anche in sede europea delle proposte contenute nella presente mozione.
(1-01622)
«Baldassarre, Segoni, Artini, Bechis, Turco, Prodani, Furnari, Labriola, Lo Monte, Cristian Iannuzzi».
(3 maggio 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    lo sviluppo che, da anni, caratterizza i settori della robotica e dell'intelligenza artificiale, in continua espansione in molteplici campi – si pensi, a titolo esemplificativo, all'automazione industriale, al trasporto, alla medicina, all'edilizia ed alla domotica – hanno contribuito ad una decisa e profonda trasformazione degli stili di vita, delle abitudini, nonché dei modelli lavorativi della popolazione della maggioranza dei Paesi industrializzati, tanto da spingere alcuni analisti ad affermare che è in atto una «quarta rivoluzione industriale»;
    si stima che, entro il 2020, il mercato mondiale della robotica raggiungerà un valore pari a 150 miliardi di dollari. Attualmente, l'Asia rappresenta il mercato con il più alto tasso di crescita, mentre la Cina, singolarmente considerata, ha superato l'Europa. L'Italia riveste, nel campo della robotica, un ruolo di leadership in termini di ricerca, innovazione e produzione e rappresenta il sesto Paese nel mondo, ed il secondo in Europa, per livelli di produzione di robot industriali;
    i dati riportati all'interno del report sulle operazioni di fusioni ed acquisizioni (M&A) redatto dallo studio legale Clifford Chance mettono in luce che l'automazione industriale, le telecomunicazioni e la robotica rappresentano i settori in cui si sono registrate le maggiori fusioni ed acquisizioni nel mondo nell'anno 2016, sfiorando i 700 miliardi di dollari, con un aumento del 3 per cento rispetto all'anno precedente ed a fronte di un generalizzato calo di tali operazioni di una percentuale pari al 19 per cento. Inoltre, la Germania rappresenta il Paese che ha avuto la migliore performance, seguita dall'Italia che, dal 2007 a questa parte, ha registrato notevoli incrementi in tale settore. Lo scenario europeo è affiancato dall'imponente presenza delle imprese cinesi, che si confermano le protagoniste assolute delle maggiori operazioni di fusioni ed acquisizioni avvenute nel 2016;
    l'indagine conoscitiva su «Industria 4.0» della Camera dei deputati, predisposta con l'obiettivo prioritario di elaborare una proposta di «via italiana all'Industria 4.0», analizza i punti di forza e di debolezza del sistema industriale nazionale in relazione alla sua digitalizzazione, ed individua altresì alcune grandi sfide poste dalla rivoluzione digitale che dovrebbero essere affrontate in modo sistematico. La prima è quella dell'occupazione, che condurrà verso una profonda modifica della geografia del mercato del lavoro: secondo quanto affermato nella relazione conclusiva dell'indagine, infatti, diminuiranno le richieste di lavoro manuale poco qualificato, mentre aumenteranno le richieste di figure professionali qualificate; tutto ciò, quindi, renderà necessario affrontare la delicata questione della riconversione di molte figure professionali. Inoltre, gli strumenti digitali, che consentono una riduzione del costo ed una maggiore sporadicità del coordinamento dell'attività dei lavoratori, inducendo possibili nuove forme di instabilità lavorativa e maggiore precarizzazione rispetto al passato, inducono a prevedere nuove istituzioni di supporto. Strettamente legata a tale sfida è, poi, quella relativa alla scuola e al sistema educativo, sia sotto il profilo dell'offerta di percorsi formativi, che delle metodologie di insegnamento, al fine di garantire lo sviluppo di nuove conoscenze;
    le numerose e rilevanti sfide imposte dal crescente sviluppo delle tecnologie e dell'intelligenza artificiale non passano soltanto attraverso la messa in campo di interventi esclusivamente di carattere fiscale che, seppur, rilevanti non riescono comunque a risolvere, da soli, le questioni sollevate dal crescente sviluppo delle tecnologie, con il rischio concreto di trascurare le conseguenze che tali interventi creano all'interno del mercato del lavoro. Sotto tale profilo, emerge la crescente necessità di investire, all'interno del sistema industriale, in meccanismi di formazione professionale che tengano conto dei reali bisogni del sistema produttivo nazionale e che siano, dunque, maggiormente orientati ad affrontare tali problematiche;
    le molteplici tematiche legate alla tecnologia ed alla crescente presenza dell'intelligenza artificiale nella quotidianità rappresentano un tema strategico per l'intero Paese che, proprio per tale ragione, non può essere oggetto di scontri e divisioni politiche ma, al contrario, costituisce un'occasione affinché tutti i partiti presenti in Parlamento procedano, in uno sforzo comune, compatto ed unitario, all'individuazione delle principali linee d'intervento sul tema;
    auspicando un'ampia convergenza su un tema particolarmente rilevante, e che dovrebbe essere scevro da divisioni e conflitti ideologici, quale quello della robotica e dello sviluppo dell'intelligenza artificiale, il Gruppo Forza Italia ha inteso condividere e raccogliere, attraverso il presente atto di indirizzo, le istanze proposte dalle altre forze politiche sull'argomento, con la consapevolezza di trattare una questione su cui è opportuna la massima condivisione,

impegna il Governo:

1) a favorire una linea comune tra i Ministeri competenti in materia, nell'approccio allo sviluppo sostenibile della robotica, dell'intelligenza artificiale e della sicurezza informatica; a promuovere attività di formazione, ricerca e sviluppo nelle scuole, nelle università e nei centri di ricerca italiani di tali tecnologie e a sostenerne le applicazioni alla produzione industriale e ai servizi civili in imprese consolidate e a start up innovative, in linea con quanto emerso dall'indagine conoscitiva della Camera dei deputati su «Industria 4.0: quale modello applicare al tessuto industriale italiano. Strumenti per favorire la digitalizzazione delle filiere industriali nazionali» e in linea con il piano «Italia 4.0» del Governo, tenendo conto dei problemi aperti relativi al tema della cyber-security e della rilevanza etica e dell'impatto che tali tecnologie avranno sulla società e sul mondo del lavoro;

2) a realizzare un libro bianco in materia che riguardi i diversi Ministeri competenti, nell'ottica della redazione di un Piano nazionale per le sfide proposte dalla quarta rivoluzione industriale, considerato che l'Italia è il secondo Paese manifatturiero dell'Unione europea;

3) ad avviare, a livello nazionale, anche attraverso l'istituzione di un apposito osservatorio, l'analisi e il monitoraggio permanente dell'impatto dell'uso dei robot e dell'intelligenza artificiale, in particolare, individuando i settori produttivi dove si verifichino o possano verificarsi la creazione ovvero la perdita di posti di lavoro e la loro quantificazione, nonché monitorando la sostenibilità del sistema di protezione sociale del nostro Paese in relazione all'impatto della «quarta rivoluzione industriale», coinvolgendo tanto gli attori politici, sociali, ed economici, quanto quelli della ricerca, al fine di individuare un quadro di azioni e di soluzioni innovative in grado di rispondere alle criticità e di creare opportunità reali per il nostro Paese;

4) ad assumere le necessarie iniziative affinché lo sviluppo della robotica in Italia avvenga in un contesto normativo univoco e concertato tra tutti i soggetti a vari livelli interessati;

5) a presentare al Parlamento una relazione per la valutazione di rischi ed opportunità che lo sviluppo del settore della robotica e dell'intelligenza artificiale può generare per l'economia del nostro Paese;

6) ad assumere iniziative, anche di carattere normativo, che si pongano l'obiettivo di fornire un quadro di riferimento per l'utilizzo dei robot e dell'intelligenza artificiale e che affrontino questioni rilevanti quali la definizione di un quadro di sicurezza sociale, capace di affrontare le problematiche derivanti dall'impatto negativo sull'occupazione, attraverso la formazione permanente, la riduzione dell'orario di lavoro, l'imposizione fiscale, da ripensare rispetto al mondo del lavoro, l'istituzione di un reddito garantito minimo;

7) a sostenere, in questa fase di transizione verso un'economia altamente innovativa e digitalizzata, le micro e piccole imprese nel rinnovamento dei loro processi produttivi, integrandoli con quella parte del sistema industriale già interconnessa, quale presupposto per lo sviluppo di una strategia che miri alla più ampia diffusione delle tecnologie avanzate;

8) ad assumere iniziative, anche in sede comunitaria, che portino a una maggiore giustizia fiscale nei confronti dei grandi gruppi multinazionali che adottano pratiche elusive, spesso coincidenti proprio con i colossi dell’Information & communication technology (Itc) che sono gli attori principali della transizione in corso verso l'automazione e l'intelligenza artificiale;

9) a proporre nuovi strumenti e istituti per il lavoro, alla luce di uno scenario di dematerializzazione del lavoro che riduce il suo legame con i tradizionali tempi e luoghi di prestazione e dell'incremento del lavoro autonomo;

10) ad analizzare soluzioni alternative e innovative di welfare in merito agli effetti che lo sviluppo della robotica e dell'intelligenza artificiale avrà sull'occupazione;

11) a promuovere attività di formazione, ricerca e sviluppo nelle scuole con riguardo a robotica e intelligenza artificiale, con particolare attenzione alle problematiche della disabilità;

12) ad assumere iniziative, per quanto di competenza, per sviluppare nelle università e nei centri di ricerca italiani tecnologie ad alto livello di complessità, incoraggiando i giovani a trasformare in brevetti molte delle loro intuizioni, investendo soprattutto nei giovani ricercatori con opportuni incentivi che favoriscano il loro inserimento nei settori strategici del Paese;

13) ad assumere iniziative per dare il reale supporto finanziario ai settori della ricerca relativi alla robotica e all'intelligenza artificiale, considerati prioritari dallo stesso programma nazionale per la ricerca (Pnr) 2015-2020;

14) a sostenerne le applicazioni delle nuove tecnologie alla produzione industriale e ai servizi civili, anche favorendo la nascita di start up innovative, che promuovano lo sviluppo complessivo delle aziende e favoriscano processi di cambiamento organizzativo a servizio dei cittadini;

15) ad approfondire i problemi relativi al tema della cyber-security e della rilevanza etica e dell'impatto che le nuove tecnologie avranno sulla società e sul mondo del lavoro, investendo energie significative nella formazione e nella riqualificazione professionale di soggetti che altrimenti resterebbero tagliati fuori da questo settore produttivo;

16) a favorire, a livello europeo, proposte politiche che si traducano in una normativa capace di salvaguardare valori come: la dignità umana; la privacy, attraverso una corretta gestione dei dati personali; la sicurezza, evitando in ogni modo possibili manipolazioni; la non discriminazione, permettendo a tutti coloro che lo desiderano e ne hanno bisogno di accedere ai programmi che l'intelligenza artificiale consente di realizzare progressivamente; in altri termini contribuendo a creare una carta dei valori in robotica, di cui si parla da lungo tempo ma che non è ancora attiva;

17) a promuovere le opportune iniziative volte a informare e sensibilizzare i cittadini sull'evoluzione tecnologica applicata agli ambiti produttivi e ai servizi, nonché sulle nuove dinamiche e ricadute in termini socio-economici ad essa connesse, finalizzate a sviluppare maggiore consapevolezza nel Paese;

18) ad istituire un osservatorio nazionale, adeguatamente organizzato, in accordo con regioni e enti locali, per la rilevazione alla luce degli sviluppi della robotica e dell'intelligenza artificiale dei mutamenti dei sistemi economici e produttivi in termini di impatto sulle competenze delle figure professionali, al fine di:
  a) mappare adeguatamente quei «nuovi saperi» e adottare le conseguenti iniziative di competenza per sviluppare percorsi di formazione continua in modo da dotare chi già è occupato, così come chi è in attesa di collocazione, delle competenze necessarie – adeguate ai diversi livelli di specializzazione – per rispondere attivamente alle sfide dell'innovazione anziché subirle (fuoriuscita dal mercato);
  b) svolgere, in maniera sistematica, indagini specifiche, a livello territoriale, per profilare ciascuna realtà territoriale secondo le caratteristiche e dinamiche peculiari del tessuto economico locale;

19) ad assumere le opportune iniziative per dare concreta operatività al Sistema informativo sulle professioni, garantendone, nell'ambito del piano nazionale di cui in premessa, i processi di manutenzione ed aggiornamento;

20) ad assumere iniziative per potenziare le misure di incentivo alle imprese per l'assunzione di personale altamente qualificato e per l'impiego di strumenti fisici o digitali ad alto valore tecnologico al fine di realizzare prodotti innovativi;

21) a promuovere iniziative normative per favorire l'adeguamento degli strumenti contrattuali esistenti, rispetto all'impatto delle nuove tecnologie nel mondo del lavoro, anche attraverso iniziative volte a rimodulare progressivamente l'orario di lavoro al fine di migliorare la conciliazione tra la giornata lavorativa e la vita familiare e sociale;

22) ad adottare le opportune iniziative per definire e sviluppare un programma di investimenti nella cura, nell'istruzione e nella salute pubblici (cosiddette infrastrutture sociali), al fine di rafforzare la sete sociale a beneficio dei cittadini, nonché migliorare e omogeneizzare gli standard minimi di vita anche grazie alla redistribuzione della ricchezza prodotta dai sistemi produttivi con elevato ricorso all'automazione e alla robotica;

23) ad assumere le iniziative necessarie per avviare, anche in conseguenza degli effetti dello sviluppo della robotica, un programma di sperimentazione di forme di reddito di base incondizionato, analogamente a quanto già in atto in Finlandia;

24) a valutare, di concerto con quanto già disposto a livello comunitario e, in particolare dal Parlamento europeo, l'introduzione di uno status giuridico specifico per i robot, con particolare riferimento ai profili etici e di responsabilità civile, nonché in ambito fiscale;

25) a prevedere, nel prossimo disegno di legge di bilancio, adeguate risorse per le forme di sicurezza sociale, di tutela del reddito dei lavoratori, della promozione della formazione di personale altamente specializzato, di finanziamento della ricerca nei settori della robotica e dell'intelligenza artificiale, di politiche industriali orientate alla riconversione tecnologica.
(1-01623) «Palmieri, Occhiuto».
(4 maggio 2017)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE VOLTE ALL'IDENTIFICAZIONE DEI MIGRANTI DECEDUTI NELLA TRAVERSATA DEL MEDITERRANEO

   La Camera,
   premesso che:
    secondo i dati dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, nel 2015 – l'anno con più mortalità – sono state registrate 3.771 vittime nella traversata del Mediterraneo verso i Paesi europei e nel 2016 il numero è equivalente se non superiore; nel 2016 ha perso la vita 1 persona ogni 88 che hanno tentato la traversata, mentre nel 2015 era 1 ogni 269;
    si calcola che in totale negli ultimi quindici anni sono morte circa 30.000 persone nella traversata del Mediterraneo. Il 60 per cento di chi muore in mare resta senza nome;
    l'identificazione e il riconoscimento sono un diritto fondamentale soggettivo che tutela la dignità della persona, come previsto dalla Costituzione e dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo;
    riconoscere e dare un nome a chi muore nell'attraversare il Mediterraneo è un atto di umanità che permette alle famiglie di riavere i corpi, dar loro degna sepoltura e piangerli degnamente uscendo dal limbo angoscioso di chi non sa la sorte di un proprio congiunto, che può portare anche a problemi di salute mentale;
    dare un'identità certa alle persone morte annegate nel Mediterraneo è fondamentale per fornire le necessarie tutele giuridiche ai congiunti ed ai parenti dei deceduti, ad esempio in materia di ricongiungimento familiare ed eredità;
    dare un'identità ed un nome a chi è morto in mare aiuta altresì a ricostruire i percorsi migratori, le rotte ed anche i meccanismi di sfruttamento e degli scafisti; quindi, dare un'identità certa alle persone morte nel Mediterraneo è fondamentale anche per ragioni di sicurezza, in quanto impedirebbe l'uso dell'identità e dei documenti di persone annegate da parte di altre persone, magari con finalità criminali o terroristiche;
    il diritto internazionale dei diritti umani, specie nella Convenzione di Ginevra e nei suoi protocolli aggiuntivi, sancisce norme volte a considerare principi fondamentali per il rispetto della dignità umana anche quelli che devono essere garantiti agli scomparsi nel Mediterraneo e ai loro familiari; negare indagini adeguate può essere considerato un trattamento degradante nei confronti dei loro familiari nei Paesi d'origine, che spesso li cercano per lungo tempo, nonché una violazione dei diritti di residenti o cittadini europei. Alla pari delle vittime di altri disastri di massa, le vittime delle migrazioni non devono essere ignorate;
    il Consiglio d'Europa a più riprese ha messo in luce la necessità di risposte adeguate, come nel rapporto del Commissario dei diritti umani del 2014 dedicato alle persone scomparse, Missing persons ad victims of enforced disappearance in Europe, e attraverso la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, che ha elaborato il diritto dei familiari a conoscere il destino dei propri cari;
    tuttavia, tale diritto non sempre è riconosciuto, dato che alcune procure delle città titolari delle inchieste sui naufragi affermano la necessità del recupero delle salme come atto dovuto per i familiari delle vittime, mentre altre procure, non essendovi obbligo legale, ritengono che l'identificazione non sia utile alle indagini;
    rimane, quindi, una sorta di vuoto giuridico sui doveri di identificazione dei morti in mare, per cui non è chiaro a chi spettino le operazioni di identificazione, cosicché esse sono lasciate sostanzialmente all'iniziativa di istituzioni e operatori;
    il problema della scomparsa dei migranti del Mediterraneo è affrontato e denunciato da anni da istituzioni, quali l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, l'Organizzazione internazionale per le migrazioni, la Croce rossa internazionale;
    nel 2007 è stato istituito presso il Ministero dell'interno l'ufficio del commissario straordinario del Governo per le persone scomparse, primo del suo genere in Europa, che ha creato un registro e una banca dati di ricerca scomparsi, con competenza sui cadaveri sconosciuti dei migranti;
    l'Italia ha messo in campo attività e metodologie scientifiche di avanguardia nel campo del riconoscimento dei morti in mare senza disporre peraltro di risorse specifiche, attraverso un modello di intervento coordinato dal commissario straordinario, cui collaborano, oltre all'Università di Milano anche numerose università italiane, il Ministero della difesa con la Marina militare, la Guardia costiera, la Croce rossa militare e varie altre istituzioni;
    nel settembre 2014 il commissario straordinario per le persone scomparse, il capo del dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione del Ministero dell'interno e il rettore dell'Università degli studi di Milano sottoscrivevano uno specifico protocollo d'intesa per sviluppare azioni congiunte «in materia di riconoscimento/identificazione dei corpi senza identità appartenenti a cittadini stranieri recuperati in mare a seguito dei naufragi del 3 e 11 ottobre 2013». Tale intesa ha dato avvio a una collaborazione stabile tra l'ufficio del commissario straordinario e il laboratorio di antropologia e odontologia forense dell'Università di Milano (Labanof);
    un esempio di tale modello d'eccellenza sono i progetti messi in atto per riconoscere i morti dei naufragi del 3 ottobre 2013 (data riconosciuta come giornata nazionale in memoria delle vittime dell'immigrazione) e del naufragio del 18 aprile 2015, dopo il ritrovamento e il recupero del relitto del barcone su cui si trovavano circa 800 persone;
    tale progetto, cui hanno partecipato 10 atenei italiani su base volontaria, ha creato un modello per il trattamento dei morti e di raccolta dei dati esportabile in tutta Europa;
    si rende quindi necessario promuovere e sostenere tale attività di identificazione delle vittime al fine di facilitare e ampliare le attività di riconoscimento, raccolta dati e diffusione informazioni tra i familiari;
    il consolidamento di tale modello costituisce anche un'importante azione a livello culturale, specie tra le giovani generazioni, per creare una cultura dei diritti fondamentali che comprenda il diritto dei morti ad avere un nome,

impegna il Governo:

1) a sostenere e promuovere le task force inter-istituzionali per la raccolta dei dati al fine di promuovere l'identificazione dei corpi ancora senza nome dei migranti nel Mediterraneo;
2) a facilitare a livello nazionale la raccolta di dati post mortem sui cadaveri delle vittime al fine di raccogliere tutte le informazioni utili a portare a un'identificazione;
3) a promuovere a livello nazionale la raccolta di dati ante mortem degli scomparsi dai familiari, aiutando a costruire un'infrastruttura e punti di raccolta in Europa e nei Paesi di origine;
4) a valutare il potenziamento dell'ufficio del commissario straordinario per le persone scomparse dotandolo di un centro costi e di risorse, sia umane che finanziarie;
5) ad assumere iniziative per sviluppare la cooperazione internazionale coinvolgendo le istituzioni internazionali, l'Unione europea e il Consiglio d'Europa per condividere l'opera di identificazione tra i Paesi membri.
(1-01435)
«Santerini, Cimbro, Scopelliti, Dellai, Marazziti, Baradello, Capelli, Fitzgerald Nissoli, Fauttilli, Sberna, Piras».
(23 novembre 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    secondo i dati diffusi dall'Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), nei primi due mesi del 2017 sono morte 485 persone nel tentativo di attraversare il Mediterraneo, con un aumento di 60 unità rispetto allo stesso periodo del 2016. Di queste, 444 sono le vittime registrate nella rotta tra la Libia e l'Italia;
    nel 2016, furono quasi cinquemila i morti e i dispersi nel Mediterraneo, a fronte di più di 181 mila sbarchi; nei primi due mesi del 2017 gli immigrati arrivati sulle coste italiane sono oltre tredicimila, quasi il 75 per cento di tutti quelli approdati in Europa nello stesso periodo;
    è stato stimato che, tra il 2011 e il 2016, i morti in mare siano stati oltre 18.300; nel 2016, circa il 2,5 per cento dei migranti non ha concluso il viaggio dalla Libia all'Italia. Quasi il 60 per cento di chi muore in mare non viene identificato;
    l'identificazione e il riconoscimento dei corpi sono sia un atto di umanità volto a consentire alle famiglie di poter dare degna sepoltura ai propri cari, sia un atto fondamentale per fornire le necessarie tutele giuridiche ai congiunti ed ai parenti dei deceduti;
    il problema della scomparsa dei migranti del Mediterraneo è costantemente denunciato da istituzioni, quali l'Unhcr, l'Oim, la Croce rossa internazionale, il Consiglio d'Europa e la Corte europea dei diritti dell'uomo (Cedu), che ha sancito il diritto dei familiari a conoscere il destino dei propri congiunti;
    nel 2007 l'Italia si è dotata di un Commissario straordinario del Governo per la gestione del fenomeno delle persone scomparse, il cui ufficio è composto da dipendenti civili del Ministero dell'interno e della polizia di Stato, che coadiuvano il commissario nelle attività di monitoraggio, raccordo con gli organismi internazionali, studio comparato e analisi dei dati/informazioni sulle persone scomparse e i cadaveri non identificati acquisiti da soggetti pubblici e privati;
    la legge 14 novembre 2012, n. 203, recante disposizioni per la ricerca delle persone scomparse e, in particolare, l'articolo 1, comma 4, stabilisce l'obbligo per l'ufficio di polizia all'atto del recepimento della denuncia di scomparsa, di dare immediato avvio alle ricerche e contestuale comunicazione al prefetto «per il tempestivo e diretto coinvolgimento del commissario straordinario per le persone scomparse, nominato ai sensi dell'articolo 11, della legge 23 agosto 1988, n. 400»;
    con decreto del Presidente della Repubblica, 5 gennaio 2017 è stato confermato nell'incarico di Commissario straordinario del Governo per la gestione del fenomeno delle persone scomparse fino al 14 febbraio 2018 il prefetto Piscitelli;
    il decreto del Presidente della Repubblica 22 luglio 2009 attribuisce al commissario, tra l'altro, il compito di assicurare il necessario coordinamento operativo tra le amministrazioni dello Stato interessate a vario titolo al fenomeno delle persone scomparse, curando il raccordo con le pertinenti strutture tecniche, nonché il compito di monitorare le attività istituzionali dei soggetti impegnati nell'attività di ricerca delle persone scomparse e quello, conseguente, di analizzare le informazioni acquisite al fine di proporre alle autorità competenti eventuali soluzioni per migliorare l'azione amministrativa e l'informazione di settore;
    l'identificazione delle vittime di quella che ormai è, a tutti gli effetti, una vera tratta di esseri umani, aiuta a ricostruire i percorsi e le rotte migratorie, nonché i meccanismi utilizzati dagli scafisti, impedendo il cosiddetto «furto d'identità», pratica utilizzata dai trafficanti di esseri umani che riutilizzano identità e documenti di persone annegate;
    nel settembre 2014 il commissario straordinario per le persone scomparse, il capo del dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione del Ministero dell'interno e il rettore dell'università degli studi di Milano hanno sottoscritto uno specifico protocollo d'intesa con la finalità di promuovere e sviluppare azioni in materia di riconoscimento/identificazione dei corpi senza identità appartenenti a cittadini stranieri recuperati in mare a seguito ai tragici naufragi del 3 e 11 ottobre 2013;
    i positivi esiti riscontrati hanno portato, nel luglio 2015, alla stipula di un ulteriore protocollo volto alla gestione della fase di identificazione con metodologia scientifico-forense anche delle circa 750 vittime del naufragio del 18 aprile 2015;
    le operazioni di riconoscimento sono costose e non ci sono fondi adeguati, né a livello italiano, né a livello europeo, dove sarebbe auspicabile la realizzazione di una banca dati europea dei migranti deceduti e scomparsi, che consenta di accedere ai dati del Dna e ad altre informazioni utili per un'indagine post mortem;
    oltre alle vittime in mare, occorre tuttavia ricordare che i trafficanti non si fanno scrupoli nemmeno al momento dell'imbarco sulle coste del Nord Africa: è di questi giorni la notizia del ritrovamento presso la città di Sabrata, ad ovest della Libia, di una fossa comune contenente i corpi di 22 migranti, tutti provenienti dall'Africa sub-sahariana, uccisi dagli scafisti perché non volevano imbarcarsi per il mare agitato a causa delle cattive condizioni del tempo. La conferma di questa ennesima strage è arrivata dalla Mezzaluna rossa;
    per fermare i flussi migratori e, conseguentemente, ridurre i decessi in mare, occorre proseguire celermente nella stipula di patti bilaterali con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e fermare i migranti sulle coste extra europee. La stipula di accordi non solo deve essere ampliata coinvolgendo i Paesi della fascia Subsahariana, ma deve vedere coinvolta l'intera Unione europea;
    contestualmente, l'Italia deve operare per il passaggio alla fase 3 dell'operazione Sofia, che prevede l'ingresso di mezzi navali nelle acque territoriali libiche per fermare i trafficanti e le imbarcazioni alla partenza, ricercando l'accordo diplomatico e il consenso delle istituzioni libiche e del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite,

impegna il Governo:

1) a sostenere e facilitare le operazioni di identificazione delle vittime delle tragedie dei naufragi e a promuovere la raccolta di dati ante mortem degli scomparsi, anche potenziando l'ufficio del commissario straordinario per le persone scomparse;
2) ad assumere iniziative in sede europea per condividere l'opera e i costi delle identificazioni tra i Paesi membri, proponendo la realizzazione di una banca dati europea dei migranti deceduti e scomparsi che consenta, anche ai fini della sicurezza del continente, di accedere ai dati del Dna e ad altre informazioni utili per un'indagine post mortem;
3) ad assumere iniziative per proseguire nella stipula di patti bilaterali con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo al fine di introdurre specifici accordi volti a promuovere task force miste e favorire lo scambio di informazioni e dati per l'identificazione dei migranti deceduti e scomparsi;
4) ad implementare gli sforzi diplomatici per ottenere il consenso delle istituzioni libiche e del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite per il passaggio alla fase 3 dell'operazione Sofia, affinché possano essere meglio controllate le partenze dei migranti dai Paesi d'origine, anche al fine di prevenire i possibili decessi nella traversata del Mediterraneo.
(1-01536)
«Altieri, Palese, Bianconi, Capezzone, Chiarelli, Corsaro, Distaso, Fucci, Latronico, Marti».
(13 marzo 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    nonostante non esistano dati certi circa il numero di morti e dispersi nel Mar Mediterraneo nella traversata per raggiungere i Paesi europei, principalmente l'Italia, secondo l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), dal 3 ottobre 2013, all'indomani del naufragio a Lampedusa a cui seguirono azioni del Governo e delle istituzioni europee per intensificare le attività di ricerca nel Mediterraneo con pattuglie di soccorso e intervento, al 24 gennaio 2017, sarebbero ben 13.288 i morti e i dispersi in mare, cifra tuttavia solo stimata perché, in realtà, il numero sarebbe molto più alto;
    solo nel 2016 sarebbero quasi 5.000 le vittime dei naufragi, una cifra che non solo rappresenta un record rispetto agli anni precedenti ma è in continua crescita, proprio dal 2013 e dopo l'avvio dell'operazione Mare Nostrum: dai 3.500 morti e dispersi del 2014 ai 3.800 del 2015 fino ai 5.000 del 2016;
    parimenti, sempre nell'anno 2016, è stato registrato anche un altro record, quello di arrivi via mare, oltre 181.436 dai 42.925 del 2013, mentre, sempre secondo gli ultimi dati del Ministero dell'interno, il riconoscimento dello status di rifugiato, ai sensi dell'articolo 1 della Convenzione di Ginevra, è passato dal 13 per cento nel 2013 al 5 per cento nel 2016 e, in generale, il numero delle domande accolte, ossia alle quali è stata riconosciuta una delle tre forme di protezione è drasticamente diminuito, passando dal 60,9 per cento nel 2013 al 38 per cento registrato nel 2016;
    dal 1o gennaio al 21 febbraio 2017 sarebbero già circa 10.070 gli immigrati arrivati illegalmente dai confini marittimi in Italia, ben il 44,83 per cento in più rispetto a quelli dello stesso periodo del 2016;
    invece, nel 2010 gli sbarchi calarono del 90 per cento rispetto al 2008, passando da 36.951 a 4.406 arrivi, per effetto degli accordi bilaterali stipulati con i maggiori Paesi di arrivo e transito, dell'istituzione del fondo di cui all'articolo 14-bis del decreto legislativo n. 286 del 1998, promossa dall'allora Ministro Maroni per eseguire effettivamente il rimpatrio dei clandestini, e l'introduzione del reato di cui all'articolo 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, cosiddetto di immigrazione clandestina;
    nel 2013 tale fondo è stato di fatto svuotato con il decreto-legge n. 120, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 137 del 2013, al fine di destinarne le risorse al sistema di accoglienza;
    nel 2014 con la legge n. 67 del 2014, recante «Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio», è stata disposta l'abolizione del reato di immigrazione clandestina;
    nel 2015 degli 11 centri di identificazione ed espulsione presenti in Italia ne risultavano funzionanti solo 5, con una presenza al loro interno di soli 510 stranieri irregolari, scesi a 288 al 31 dicembre 2016;
    nel 2016 tra i Paesi di origine degli immigrati al momento del fotosegnalamento in Italia vi sono Nigeria, Guinea, Gambia, Costa d'Avorio e Senegal;
    i dati riportati in premessa confermano che, per la stretta correlazione tra le partenze e i decessi durante la traversata del Mediterraneo, le politiche che incentivano tali partenze sono estremamente pericolose e che, invece, occorre adottare misure ed iniziative immediate che blocchino tali flussi, salvando così numerose vite umane;
    recentemente la stessa agenzia Frontex ha sottolineato che «occorre impedire che gli affari dei network criminali e degli scafisti in Libia siano favoriti dal fatto che i migranti vengono soccorsi da navi europee sempre più vicino alle coste libiche: ciò fa si che i trafficanti costringano più migranti che in passato a salire sulle carrette del mare, senza abbastanza acqua né carburante», esponendoli, dunque, a maggiori rischi nella traversata;
    in particolare, secondo l'Agenzia Frontex, a produrre di fatto un effetto moltiplicatore delle partenze sarebbero proprio le sempre più numerose navi gestite da organizzazioni umanitarie (Moas, Jugend Rettet, Stichting Bootvluchting, Médecins sans frontières, Save the children, Proactiva Open Arms, Sea-Watch.org, Sea-Eye, Life boat), che navigano nelle acque tra la Libia e la Sicilia e che annoverano tra i propri finanziatori la Open Society e altri gruppi legati al milionario George Soros, il quale avrebbe promesso il 20 settembre 2016 investimenti da 500 milioni di dollari per favorire «l'arrivo dei migranti»;
    come emerso da numerose inchieste giornalistiche dei mesi scorsi, nell'ultimo anno, nonostante l'aumento delle partenze le chiamate alle forze dell'ordine sarebbero, invece, diminuite e questo perché i trafficanti, contattando direttamente le sempre più numerose navi delle ONG e sapendo di poter contare sul loro intervento, hanno incrementato i viaggi e con imbarcazioni sempre più malmesse, tanto che i decessi in mare sarebbero passati da 3.100 a 5.000 circa nel 2016;
    l'operazione Sophia, la missione navale EuNavFor Med lanciata nel 2015 con il criptico fine di «smantellare il modello di business dei trafficanti di esseri umani nel Mediterraneo centro meridionale» e il cui mandato è stato esteso nel giugno 2016 dal Consiglio dei ministri degli Esteri europei per un ulteriore anno, di fatto si limita a raccogliere in mare immigrati clandestini per portarli in Italia, come fanno anche le flotte delle operazioni Triton (Ue-Frontex) e Mare Sicuro e in precedenza l'operazione Mare Nostrum, favorendo, invece, e incoraggiando i flussi migratori illegali, a dispetto della propria missione;
    le misure previste dal memorandum siglato il 2 febbraio 2017 tra il Governo italiano e il Governo libico guidato da Fayez al-Sarraj si palesano ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo del tutto inefficaci rispetto alla finalità di contrasto all'immigrazione illegale sia perché l'autorità di Fayez al-Sarraj è limitata alla sola Tripoli sia perché non consentirà di intervenire nelle acque libiche per contrastare i trafficanti;
    indubbiamente la tratta clandestina di esseri umani, qualunque sia la rotta, è un business immorale e pericoloso per la sicurezza nazionale, nella misura in cui arricchisce soggetti criminali e va quindi scoraggiata e repressa in ogni modo;
    è innegabile che l'Italia, avendo dei confini in maggior parte permeabili come quello marittimo, necessita di particolari misure di controllo e respingimento,

impegna il Governo

1) al fine di prevenire il fenomeno dei decessi di immigrati nella traversata del Mediterraneo e le conseguenti attività di identificazione, ad assumere ogni utile iniziativa di competenza volta a disincentivare le partenze degli immigrati dai Paesi di origine e di transito, mediante una politica rigorosa finalizzata al controllo delle frontiere marittime e terrestri.
(1-01537)
«Molteni, Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Busin, Caparini, Castiello, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Pagano, Picchi, Gianluca Pini, Rondini, Saltamartini, Simonetti».
(13 marzo 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    secondo quanto riportato dall'UNHCR, il 2016 è stato l'anno record per il numero di vittime nella traversata del Mediterraneo. Dai 3771 morti e dispersi nel 2015, si è passati agli oltre cinquemila del 2016. La situazione risulta ancora più grave se si esamina la rotta del Mediterraneo centrale, ossia quella che mette in comunicazione il Nord Africa con il nostro Paese. In questo caso si passa dai 2913 decessi del 2015 ai 4527 del 2016. Al 9 marzo si contano già 522 vittime per il 2017;
    si stima che almeno il 60 per cento di coloro che perdono la vita in mare resti senza nome; l'attività di identificazione dei migranti annegati in mare è infatti un'operazione complessa, resa ancora più problematica dall'assenza di un'unica banca dati, nella quale far confluire e confrontare i dati relativi alle persone scomparse e ai corpi ritrovati e privi d'identità;
    già il 23 settembre 2014, con l'interrogazione a risposta immediata in Assemblea n. 3-01045, la Camera chiedeva al Governo l'istituzione di una banca dati in grado di raccogliere tutte le informazioni disponibili sulle persone decedute o disperse nel Mediterraneo; l'allora Ministro dell'interno Angelino Alfano, pur con tutte le misure di cautela e protezione nella trattazione di informazioni così delicate, mostrava di condividere la proposta;
    il tragico fenomeno dei naufragi nel Mediterraneo, infatti, assume rilievo anche dal punto di vista giuridico alla luce di numerose norme sancite dal diritto internazionale umanitario e dal diritto internazionale dei diritti umani, che prevedono una serie di obblighi riguardanti la ricerca e il recupero dei corpi delle vittime, il trattamento dei morti, la restituzione dei resti alle famiglie, la sepoltura e la registrazione di tutte le informazioni concernenti le persone scomparse o decedute; da un lato, si tratta di norme finalizzate a garantire un trattamento dignitoso dei corpi delle vittime; dall'altro lato, tali obblighi sono volti a garantire il diritto delle famiglie a conoscere il destino dei propri cari, anche in considerazione del fatto che le famiglie vivono in un limbo psicologico e anche legale molto oneroso; infine, si ritiene che l'identificazione dei corpi rappresenti un fattore essenziale anche nella strategia di difesa e di sicurezza nazionale e internazionale, poiché contribuisce a fare luce sui percorsi migratori, sulle rotte e sulle dinamiche di sfruttamento e di traffico, impedendo, in particolare, l'uso dell'identità e dei documenti di persone annegate da parte di altre persone, magari con finalità criminali o terroristiche;
    a seguito delle tragedie degli ultimi anni, di cui soltanto alcuni, come i naufragi del 14 marzo 2011, del 3 e 11 ottobre 2013, o del 18 aprile 2015, hanno avuto una certa risonanza sui media italiani, il problema dell'identificazione dei migranti che perdono la vita in mare è divenuto sempre più attuale e rilevante; in Italia, un ruolo di fondamentale importanza in materia è rivestito dal commissario straordinario del Governo per le persone scomparse, istituito nel 2007 al fine di fronteggiare il drammatico fenomeno delle persone scomparse, che ha promosso alcuni esperimenti pilota per quanto riguarda la raccolta dei dati ante e post mortem dei deceduti in mare, attivando proficue collaborazioni con l'Università degli studi di Milano insieme alla polizia scientifica, alla Marina militare, al gruppo psicologi per i popoli, alla Croce rossa e con gli istituti di medicina legale di numerose università italiane;
    lo straordinario impegno umanitario dell'Italia nel Golfo di Sicilia per salvare vite umane e per restituire dignità e memoria ai migranti deceduti ha goduto di un ampio apprezzamento internazionale evidenziato anche sui media di tutto il mondo; tuttavia, i risultati raggiunti attraverso la sinergia tra l'amministrazione pubblica e i centri di ricerca italiani non possono far trascurare alcuni problemi di funzionamento e di operatività che sussistono tanto nella struttura organizzativa dell'ufficio del commissario straordinario quanto sul relativo bilancio, che necessitano di essere rafforzati per fare fronte alle crescenti esigenze strutturali e finanziarie;
    anche le difficili operazioni volte al recupero del relitto del tragico naufragio del 18 aprile 2015 organizzate dal Governo italiano per procedere all'identificazione delle salme che in esso sono state recuperate, rispondevano a un preciso disegno politico volto a salvaguardare la dignità delle vittime e i valori sanciti tanto nella Costituzione italiana, quanto nelle fonti primarie del diritto dell'Unione europea; per sensibilizzare i partner europei verso un approccio più solidale e uno sforzo condiviso nella gestione delle crisi umanitarie in corso, il Governo italiano ha ripetutamente invitato le istituzioni dell'Unione europea ad adottare importanti misure simboliche, quali il posizionamento del relitto recuperato davanti alla nuova sede del Consiglio europeo a Bruxelles, come monumento a testimonianza dei valori di solidarietà, civiltà e accoglienza che l'Europa non deve trascurare, nonché monito perenne affinché tali tragedie simili non si ripetano mai più; anche il sindaco di Milano Giuseppe Sala si è fatto portatore della proposta di convertire il relitto in un monumento da posizionare a Milano, città crocevia delle migrazioni verso il Nord Europa, nel quadro di un progetto più ampio volto all'istituzione di un polo scientifico e museale per i diritti umani con un percorso sulle tecniche di recupero e d'identificazione e uno dedicato alla memoria;
    i più recenti dati ufficiali a disposizione, relativi al 30 giugno 2015, parlano di 1.421 corpi ritrovati, ma non ancora identificati nel nostro Paese, tra cui quelli di 760 di migranti annegati in mare a seguito di tragici naufragi di cui abbiamo notizia;
    un caso emblematico riguarda la scomparsa di 138 cittadini tunisini imbarcatisi tra il marzo e il maggio 2011 su quattro barconi e di cui si sarebbero perse le tracce; alcune testimonianze darebbero i migranti per approdati presso la Sicilia occidentale, ovvero, presso le isole Egadi. Tuttavia, i familiari, non avendo più avuto notizie, hanno deciso di esporre denuncia presso le autorità italiane, rimasta fino ad oggi senza un riscontro definitivo;
    il fenomeno dei migranti scomparsi assume sempre di più dimensioni di rilievo panaeuropeo e si confronta con gli ostacoli della mancanza di regole comuni agli Stati membri per quanto riguarda le procedure di identificazione e autopsia, nonché con l'assenza di banche dati che consentano la raccolta dei dati ante e post mortem per questa situazione particolare,

impegna il Governo:

1) a promuovere una comunione di sforzi tra gli Stati membri dell'Unione europea e del Consiglio d'Europa al fine di fronteggiare la tragedia umanitaria in corso nel Mediterraneo e la mancata identificazione dei corpi dei migranti deceduti, anche attraverso una rapida definizione di regole comuni per la ricerca, il recupero, l'identificazione e la gestione dei dati dei cadaveri senza nome;
2) a valutare iniziative di riforma e potenziamento, sia sul piano ordinamentale che finanziario, dell'ufficio del commissario straordinario per le persone scomparse e a sostenere le task-force inter-istituzionali da impegnare per un'ordinata raccolta dei dati post mortem e l'identificazione dei corpi ancora senza nome dei migranti;
3) a favorire un efficace scambio di informazioni con i Paesi d'origine dei migranti, a partire da quelli, come la Tunisia, che sono caratterizzati da una sufficiente stabilità politico-istituzionale, e con i partner europei, per entrare in contatto con i parenti e con i conoscenti delle persone scomparse, al fine del reperimento dei dati ante mortem e del loro incrocio con i dati post mortem;
4) ad adottare le misure necessarie per la riconversione del relitto del naufragio del 18 aprile 2015 in un monumento capace di richiamare la memoria e l'attenzione sui valori della solidarietà e della dignità umana che devono sempre ispirare e guidare le istituzioni nazionali e dell'Unione europea nella gestione dei flussi migratori.
(1-01547)
«Quartapelle Procopio, Monchiero, Locatelli, Beni, Carnevali, Tidei, La Marca, Nicoletti, Fedi, Patriarca, Zampa, Rigoni, Carrozza, Sgambato, Chaouki, Vico, Rostellato».
(20 marzo 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    in questi anni di costante emergenza l'Alto commissariato sui rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr) assieme ad altre organizzazioni internazionali che si occupano di migranti, ha stabilito alcuni criteri per tentare, nel modo più accurato possibile, di effettuare il calcolo dei morti e dei dispersi in mare, attraverso il confronto tra più fonti: le informazioni ufficiali raccolte dalle autorità locali e dai soccorritori, primi tra tutti la Guardia costiera e la Marina militare italiana, le testimonianze dei superstiti registrate dal personale che assiste i migranti dopo lo sbarco, le notizie diffuse da media o dalle organizzazioni della società civile nei Paesi di partenza, di transito e di arrivo, seppure, queste ultime, soggette a preventiva verifica;
    secondo i dati elaborati dall'Unhcr nel 2016 sarebbero state cinquemila le persone morte mentre cercavano di attraversare il Mar Mediterraneo su imbarcazioni di fortuna e cariche fino all'inverosimile, ma il risultato è pur sempre solo una stima, e il numero di persone morte e disperse potrebbe essere addirittura più elevato di quanto riportato;
    questo dato rende l'anno da poco conclusosi quello in cui è morto il maggior numero di migranti nelle traversate del Mediterraneo, con una media di 14 persone al giorno, e al contempo dimostra come l'aumento di vittime sia stato drammaticamente costante a partire dal 2008, anno in cui si è cominciato a contarli;
    l'aumento dei decessi dipende da molteplici fattori, quali in primo luogo il costante aumento del numero di persone che tentano la traversata lungo quella rotta, soprattutto dopo la chiusura della cosiddetta rotta balcanica, al quale si aggiungono la sempre maggiore spregiudicatezza e crudeltà dei trafficanti di persone che impiegano mezzi in pessime condizioni sicuri del fatto che qualcuno interverrà in salvataggio e, in ultimo, anche le condizioni meteorologiche spesso avverse;
    il 2016 ha segnato per l'Italia anche il più alto numero di richiedenti asilo a protezione internazionale, che stando ai dati del Ministero dell'interno ha raggiunto la cifra più alta mai registrata in un ventennio, oltre 123 mila, pari a quasi diecimila richieste al mese, il 47 per cento in più rispetto al 2015;
    relativamente agli esiti delle domande esaminate, poi, i dati disponibili evidenziano un aspetto importante: a fronte di un aumento di richieste diminuisce il numero di quelle che si sono concluse positivamente con il riconoscimento dello status rifugiato o di protezione sussidiaria o umanitaria, pari ad appena un terzo di quelle presentate;
    dopo la strage di Lampedusa, nella quale un peschereccio libico carico di immigrati prese fuoco a largo di Lampedusa e morirono 368 persone delle 500 a bordo, una delle stragi in mare più gravi nella storia del Mediterraneo, il Presidente della Commissione europea Juncker, aveva solennemente promesso che non ci sarebbero stati «mai più morti», ma da quel giorno ci sono state, invece, altre 13.288 vittime;
    la strage di Lampedusa ha rappresentato uno spartiacque che ha portato il Governo italiano a varare la missione militare con scopi umanitari nel Mediterraneo, Mare Nostrum, uno sforzo finanziario enorme al quale hanno fatto seguito talmente tante critiche che è stata poi sostituita da una nuova operazione coordinata da Frontex, con appena un terzo dei finanziamenti;
    il Governo e l'Unione europea tutta non possono continuare a legiferare sotto i colpi dell'emotività, come invocato a gran voce dopo ogni tragedia, magari accogliendo visioni demagogiche e dannose per l'Italia, ma soprattutto per quelle nazioni che si avrebbe l'illusione di aiutare e che invece sarebbero condannate all'estinzione: si deve regolamentare, non spalancare le frontiere;
    pensare che un Paese con oltre duemila miliardi di euro di debito, la disoccupazione giovanile al 40 per cento, in recessione da dieci anni, in fase di deindustrializzazione, possa dare soluzione a questa tragedia con i canali umanitari o con l'abolizione del reato di clandestinità è semplicemente folle;
    l'Italia non può essere lasciata sola a gestire l'emergenza nel Mediterraneo e i limiti delle operazioni sinora adottate in ambito europeo sono evidenti, basti pensare alla missione EunavforMed, bloccata da ormai diciotto mesi in attesa del passaggio alla sua cosiddetta terza fase, nell'ambito della quale sarebbe finalmente possibile neutralizzare e imbarcazioni e le strutture logistiche usate dai contrabbandieri e trafficanti sia in mare che a terra;
    il 3 febbraio 2017 è stata adottata la «Dichiarazione di Malta dei membri del Consiglio europeo sugli aspetti esterni della migrazione: affrontare la rotta del Mediterraneo centrale», con la quale, muovendo dal dato numerico che «sulla rotta del Mediterraneo centrale, tuttavia, nel 2016 si sono registrati più di 181.000 arrivi, mentre il numero di persone morte o disperse in mare ha raggiunto un nuovo record ogni anno a partire dal 2013», gli Stati firmatari esprimono la propria determinazione «a prendere ulteriori misure per ridurre in maniera significativa i flussi migratori lungo la rotta del Mediterraneo centrale e smantellare il modello di attività dei trafficanti, rimanendo al contempo vigili riguardo alla rotta del Mediterraneo orientale e ad altre rotte»;
    tra le ipotesi allo studio vi sarebbe anche quella di creare una line of protection, di fatto un blocco navale da realizzare con unità e uomini libici finanziati dalla Commissione con duecento milioni di euro a valere sul fondo fiduciario dell'Unione europea per l'Africa, volto a costituire una prima linea di difesa per impedire le partenze, dietro alla quale dovrebbero continuare ad operare le navi europee della missione «Sophia», con lo scopo di soccorrere i migranti alla deriva e di distruggere i barconi catturati;
    dopo la chiusura della rotta balcanica i migranti che salpano dalle coste libiche verso l'Italia e l'Europa meridionale rappresentano il 90 per cento del totale e, dopo l'aumento del 18 per cento degli ingressi clandestini registrato già nel 2016, per l'anno in corso l'Unione ha preso atto del fatto che «non ci sono indicazioni che il trend possa cambiare finché non migliorerà la situazione economica e politica» nei paesi di origine e in Libia, e ha stimato le persone pronte a partire dalla Libia nel corso della prossima estate tra settecentomila e il milione;
    sino ad oggi l'unico intervento promosso dall'Unione europea a contrasto dell'immigrazione illegale verso le nazioni europee che ha ottenuto successo è stata la chiusura della cosiddetta rotta balcanica, mentre è completamente fallito il piano dei ricollocamenti e, sinora, anche i primi tentativi di accordo con la Libia e con le nazioni dell'Africa settentrionale e subsahariana per combattere il traffico di esseri umani;
    i dati riportati in premessa confermano che, per la stretta correlazione tra le partenze e i decessi durante la traversata del Mediterraneo, le politiche che incentivano tali partenze sono estremamente pericolose e che, invece, occorre adottare misure ed iniziative immediate che, blocchino tali flussi, salvando così numerose vite umane;
    indubbiamente la tratta clandestina di esseri umani, qualunque sia la rotta, è un business immorale e pericoloso per la sicurezza nazionale, nella misura in cui arricchisce soggetti criminali e va quindi scoraggiata e repressa in ogni modo;
    è altrettanto innegabile che l'Italia, avendo dei confini in maggior parte permeabili come quello marittimo, necessita di particolari misure di controllo e respingimento,

impegna il Governo:

1) ad adottare ogni iniziativa utile a permettere l'identificazione dei migranti deceduti lungo la rotta del Mediterraneo, a tal fine anche prevedendo una condivisione degli oneri nell'ambito dell'Unione europea;
2) a stringere patti bilaterali con le nazioni africane che affacciano sul Mediterraneo al fine di arrestare o arginare il drammatico fenomeno dei decessi di immigrati nella traversata del Mediterraneo, e per facilitare l'identificazione delle eventuali vittime;
3) ad adottare ogni utile iniziativa di competenza volta a disincentivare le partenze degli immigrati dai Paesi di origine e di transito, mediante un'adeguata politica di controllo delle frontiere marittime e terrestri nazionali e l'adozione di un blocco navale davanti alle coste libiche;
4) a sollecitare in sede europea l'impegno per giungere tempestivamente all'avvio della terza fase dell'operazione EunavforMed, al fine di prevenire il più efficacemente possibile ulteriori perdite umane nella traversata del Mediterraneo.
(1-01554)
«Rampelli, Cirielli, La Russa, Giorgia Meloni, Murgia, Nastri, Petrenga, Rizzetto, Taglialatela, Totaro».
(22 marzo 2017)

MOZIONI CONCERNENTI LA QUESTIONE DELL'INSERIMENTO DEL COSIDDETTO FISCAL COMPACT NEI TRATTATI EUROPEI, NONCHÉ LE POLITICHE ECONOMICHE E DI BILANCIO DELL'UNIONE EUROPEA

   La Camera,
   premesso che:
    per la prima volta dalla firma del Trattato di Roma nel 1957, le spinte verso la disintegrazione prevalgono sulla costruzione di «una Unione sempre più stretta fra i popoli europei». L'Unione europea è ben lungi dalla stabilità, dalla legittimità, dallo sviluppo concertato che avevano garantito le sue classi dirigenti. Alla vigilia dei negoziati della Brexit, che rappresenta un campanello d'allarme sull'impopolarità del «progetto europeo», sembra al contrario che, questo, sia entrato in una crisi irreversibile e la sua stessa esistenza sia messa in questione;
    si sono accumulati ostacoli e contraddizioni la cui coincidenza non dipende dal caso; questi sono:
     a) persistente effetto divaricante e deflattivo dell'euro e conseguente innalzamento dei debiti pubblici in rapporto al Pil senza che si intraveda una soluzione;
     b) tragedia dei rifugiati che l'accordo con la Turchia non ha fatto che spostare temporaneamente da una frontiera all'altra;
     c) continuità delle politiche mercantiliste legate all'austerità e alla svalutazione del lavoro che accelerano la deindustrializzazione dei territori e mettono in concorrenza al ribasso i lavoratori di diverse nazionalità e liquidano le risorse del welfare;
     d) crisi delle istituzioni parlamentari nazionali;
     e) guerra lungo tutti i confini d'Europa, dall'Ucraina alla Siria alla Libia;
    l'obiettivo di un'unione sempre più stretta ha ceduto il passo a un sistema di integrazione a «varie velocità». Le celebrazioni ufficiali per il 60esimo della firma dei Trattati di Roma hanno segnato, di fatto, la decisione di disintegrare l'Europa che, lungo la rotta dei Trattati europei e del Fiscal compact, porta a disintegrare l'Unione europea, con la solita prassi di dichiarare che si tratta di un grande passo in avanti nella direzione del suo rafforzamento;
    l'unione monetaria così come è stata realizzata, all'insegna del mercantilismo tedesco e senza politiche comuni in ambito economico, fiscale e sociale, si è dimostrata insostenibile: si è realizzata attraverso una svalutazione del lavoro, la riduzione della spesa pubblica e degli investimenti pubblici, la privatizzazione del patrimonio collettivo ed ha alimentato gli squilibri geografici, ha depresso l'economia e la crescita, ha fatto crescere le diseguaglianze; l'organizzazione dell'eurogruppo presieduto da Dijsselbloom si è dimostrata per i presentatori del presente atto di indirizzo una struttura opaca, non democratica e senza regole condivise;
    l'euro-riformismo di facciata che chiede «più Europa», la riforma dei trattati, maggiore flessibilità e meno rigore, ma che in realtà si accontenta del piccolo cabotaggio e degli «zero-virgola», rispettoso di regole ingiuste e controproducenti non è una soluzione; è la continuazione di politiche neoliberiste che fanno crescere povertà e diseguaglianze;
    infatti, se le pratiche attuali dell'eurogruppo proseguiranno, si avrà presto una grave crisi politico-finanziaria italiana, che avrà ricadute anche in Germania. Si riaffaccia, inoltre, il progetto della «Kernel Europa», un'Unione europea a più velocità ed a cerchi concentrici subordinati ad un nucleo centrale. Questo piano è destinato al fallimento nel medio termine. In ogni caso, l'Italia ne verrebbe probabilmente esclusa di fatto;
    altre forze politiche nazionaliste e xenofobe premono per una disintegrazione dell'Unione europea, la fine della democrazia liberale e una ricostruzione di muri e frontiere;
    ma oltre la falsa opposizione fra Europa e Stato nazionale, la questione chiave sarà come ricostruire potere popolare per cambiare e democratizzare entrambi;
    il «Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell'Unione economica e monetaria» o «Patto di Bilancio Europeo» (cosiddetto « Fiscal compact») è un trattato intergovernativo europeo, sottoscritto dai Paesi dell'eurozona, il quale prevede, in particolare:
     a) il vincolo dello 0,5 per cento di deficit «strutturale» rispetto al Pil;
     b) l'obbligo di ridurre il rapporto debito/Pil di almeno 1/20esimo all'anno per i Paesi con un rapporto superiore al 60 per cento, come previsto dal Trattato di Maastricht;
     c) l'obbligo di mantenere al massimo al 3 per cento il rapporto tra deficit e Pil, come previsto dal Trattato di Maastricht;
    per l'Italia – vista la situazione del suo bilancio strutturale e con un rapporto debito/Pil attualmente pari a circa il 133 per cento – si tratterebbe di impostare manovre finanziarie annuali da decine di miliardi di euro, onde rispettare l'accordo;
    il Fiscal compact prevede, inoltre, l'introduzione dell'equilibrio di bilancio per ciascuno Stato in «disposizioni vincolanti di natura permanente – preferibilmente costituzionale»;
    l'Italia ha proceduto non solo al recepimento del Trattato – senza, peraltro, alcuna consultazione popolare, ma solo con un passaggio parlamentare – nel luglio 2012, ed è tra i pochi Paesi dell'eurozona che ha introdotto tale obbligo in Costituzione nel 2012 (legge costituzionale n. 1 del 2012);
    ma lo stesso Fiscal compact ha obbligato sì a introdurre principi di equilibrio dei conti «tramite disposizioni vincolanti e di natura permanente», ma con una semplice indicazione di «preferenza» per il livello costituzionale (articolo 3, comma 2). La scelta dunque di «costituzionalizzare» il princìpio dell'equilibrio di bilancio ricade pienamente nella responsabilità politica del Parlamento italiano. Ciò comporta il gravissimo effetto di rendere immodificabili le politiche del rigore anche nell'ipotesi – auspicabile e da perseguire politicamente – di un ravvedimento a livello europeo;
    l'articolo 16 del Trattato prevede che, entro cinque anni dall'entrata in vigore (1o gennaio 2013) del Fiscal compact, esso venga inserito nell'ordinamento comunitario; di conseguenza che avvenga la sua trasformazione – entro il 31 dicembre 2017 – da accordo intergovernativo in parte integrante dei trattati fondativi dell'Unione europea;
    tale trasformazione imporrà ai Paesi sottoscrittori il pieno dispiegamento dei suoi obblighi, il suo farsi parte costitutiva e fondante dell'Unione europea, e assai più difficoltoso, complesso e arduo procedere alla sua cancellazione o anche solo ad una sua revisione;
    per l'inserimento del Fiscal compact nei Trattati europei è necessaria l'unanimità dei consensi;
    il Fiscal compact è solo uno di quelli che appaiono ai presentatori del presente atto i soffocanti paletti imposti dall'inizio della crisi. Infatti, l'Europa ha adottato una serie di regole che – sommate alle storture congenite dell'unione monetaria europea – obbediscono alla stessa logica, quella di evitare la condivisione dei rischi:
     a) nel 2010-2012, il programma straordinario di acquisti di titoli di Stato (Securities Market Programme – SMP), mentre aiutava i Paesi periferici a risollevarsi, ha trasferito 10 miliardi di euro alla Banca centrale europea (Bce) (di cui oltre 2 sono andati alla Bundesbank) sotto forma di interessi pagati sui titoli coinvolti nel programma;
     b) i 2 mega-prestiti a lungo termine (LTRO) da 1.000 miliardi di euro erogati dalla Bce tra dicembre 2011 e febbraio 2012 alle banche della periferia che, con questa liquidità, hanno saldato i debiti con le banche tedesche e comprato titoli emessi dai loro rispettivi governi. Così le banche tedesche hanno ridotto la loro esposizione verso la periferia per oltre 750 miliardi di euro;
     c) a marzo 2012, il Fiscal Compact ha aggravato gli interventi di contenimento della spesa pubblica, compresa quella destinata agli investimenti infrastrutturali, il cui crollo è la causa della perdita di quasi 1/4 della nostra produzione industriale;
     d) nell'autunno 2012, l'accordo sul Meccanismo europeo di stabilità ha imposto clausole di azione collettiva (CAC) sulle nuove emissioni di titoli di Stato a partire dal gennaio 2013, con le quali una minoranza degli obbligazionisti (appena il 25 per cento +1) può bloccare la ridenominazione del debito nella nuova valuta nazionale nel caso un Paese esca dalla moneta unica;
     e) per coprirsi dal rischio del debito privato, a gennaio 2016, è entrato in vigore il bail-in che riversa sui risparmiatori domestici le perdite delle banche dovute a una prolungata congiuntura avversa;
     f) il Quantitative Easing (QE) risponde alla stessa logica di segregazione dei rischi. Le banche centrali nazionali si fanno carico della maggioranza degli acquisti di titoli emessi dai rispettivi Governi e, per farlo, si indebitano con la Bce; perciò, se un Governo non paga, a farne le spese è la sua banca centrale, mentre – proprio come in un derivato di credito – la Bce non subirà perdite. Il saldo negativo più o meno elevato dei Paesi periferici dell'eurozona all'interno del sistema Target2, in larga misura, è dovuto proprio al QE. La liquidità ricevuta dai Paesi periferici nell'ambito del QE non è andata a supportare la loro economia reale, bensì è finita all'estero, pompando il loro disavanzo Target2 e, in parallelo, l'avanzo tedesco. La somma dei saldi negativi di Italia e Spagna corrisponde quasi al surplus Target2 della Germania, cieca 720 miliardi di euro. Per l'Italia, il conto sarebbe di 363 miliardi di euro, oltre il 20 per cento del Pil;
    nel 2016, la Bce ha continuato e addirittura rafforzato la sua politica di creazione di abbondante liquidità. Ma tale politica sembra aver raggiunto i suoi limiti. Nel corso della crisi, la Bce ha acquisito nuovi ampi poteri e responsabilità, che fanno ancora di più della sua indipendenza da tutti gli organi politici dell'Unione europea una forzatura dei principi democratici;
    tali politiche, che hanno imposto l'austerità dei conti pubblici all'insieme dell'eurozona, come ha dovuto ammettere ormai anche la maggior parte degli economisti mainstream, hanno avuto effetti negativi sulla crescita economica;
    nell'ambito di un quadro di recessione globale, la zona euro mostra, infatti, particolari difficoltà e il peggioramento dell'economia si è accompagnato a una crisi sociale senza precedenti, mentre si sono sviluppati movimenti xenofobi e antieuropei; l'Europa ha risposto alla crescente instabilità dei mercati finanziari, imboccando la strada dell'austerità. A partire dalla primavera 2010, sono stati così varati programmi di riequilibrio delle bilance commerciali dei Paesi in deficit, attraverso drastici interventi sui conti pubblici, simultanei e concentrati in un lasso di tempo relativamente breve. Nei Paesi periferici, il riequilibrio della bilancia commerciale è avvenuto al prezzo di pesanti ricadute economiche e sociali (catastrofiche, nel caso greco), che hanno determinato un aumento del debito pubblico in rapporto al Pil dovuto alla recessione indotta dalle politiche di austerità;
    la gestione neoliberista della crisi economica ha aumentato le asimmetrie e le disuguaglianze esistenti all'interno dei Paesi europei e tra di loro, attuando una competizione sulla base di svalutazioni interne concorrenziali che si sono tradotte in un attacco sistematico al lavoro ed al welfare;
    nel 2008 la Germania e la Grecia avevano quasi lo stesso livello di disoccupazione, nel 2015 la Germania l'aveva ridotto dal 7,4 per cento al 4,6 per cento, mentre in Grecia è aumentato dal 7,8 per cento al 25 per cento. La gestione della crisi economica in Europa ha portato benefici al Nord contro il Sud Europa;
    in Italia, la disoccupazione è aumentata ad oltre il 12 per cento (quella giovanile oltre il 43 per cento), la capacità produttiva del sistema industriale è scesa del 25 per cento (rispetto all'inizio della crisi) e lo stesso debito pubblico è continuato a salire arrivando nel 2016 al 133 per cento sul Pil che, in 9 anni di crisi, è sceso di oltre 7 punti;
    è sostanzialmente l'analisi delle cause profonde della crisi ad essere sbagliata. Essa viene fatta risalire alla «crisi dei debiti sovrani», mentre i debiti sovrani sono peggiorati a seguito della crisi e non viceversa. Nel biennio della grande recessione, l'aumento del rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo (Pil) è stato, nei Paesi periferici, solo leggermente superiore alla media della zona euro. La sfiducia dei mercati finanziari è stata innescata dai crescenti squilibri macroeconomici tra i sistemi produttivi più forti (Germania in primis), molto competitivi e in forte avanzo commerciale, e i Paesi periferici considerati – a causa di debolezze strutturali che sono andate aggravandosi negli anni duemila – meno capaci in prospettiva di onorare i propri debiti pubblici;
    i risultati di queste politiche economiche sono stati largamente fallimentari ed hanno portato alla stagnazione e alla depressione economica. La disoccupazione è cresciuta del 40 per cento, gran parte dei Paesi della zona euro è stata colpita dalla recessione e – nonostante le politiche dei tagli – il debito pubblico è cresciuto mediamente dal 66 per cento (in rapporto al Pil) del 2008 al 93 per cento del 2015;
    pensare che il taglio nei deficit pubblici possa essere compensato dall'aumento di altre componenti della domanda aggregata è una pia illusione. Come mostrato in studi e dall'esperienza pratica (Grecia), il moltiplicatore fiscale, in una fase di recessione, è positivo e l'austerità porterà, quindi, a un calo del Pil maggiore del calo del debito, rendendo impossibile raggiungere l'obiettivo della riduzione del rapporto tra debito e Pil;
    si è attuata una transizione dei poteri dagli Stati nazionali all'oligarchia dell'Unione europea, una vera espropriazione della democrazia a favore di una tecnocrazia che risponde, di fatto, solo ai poteri finanziari e a ristretti gruppi sociali che, secondo i presentatori del presente atto, di tali politiche di austerità si stanno avvantaggiando in maniera scandalosa; tra il 1976 e il 2006, la quota dei salari (incluso il reddito dei lavoratori autonomi) sul Pil è diminuita in media di 10 punti, scendendo dal 67 al 57 per cento circa. In Italia, è andata peggio: il calo ha toccato i 15 punti, dal 68 al 53 per cento (dati dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), un trasferimento di ricchezza, a favore soprattutto del capitale finanziario, pari – in moneta attuale – a 240 miliardi di euro;
    le misure economiche varate in questi ultimi 15 anni stanno dunque minando alle radici, insieme alla dimensione sostanziale e sociale del costituzionalismo europeo, lo stesso processo di integrazione dell'Unione europea;
    l'unità politica di un popolo è data dall'uguaglianza nei diritti, stabiliti nelle Costituzioni, di quanti in esso si riconoscono, appunto come uguali. È quanto afferma lo stesso preambolo alla Carta europea dei diritti fondamentali: «l'Unione si fonda sui valori indivisibili e universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà». Prima ancora, del resto, il Consiglio europeo di Colonia del 3-4 giugno 1999 aveva dichiarato: «la tutela dei diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell'Unione europea» e «il presupposto indispensabile della sua legittimità»;
    l'Unione europea, ben più che un mercato comune, è quindi un insieme di popoli che si vogliono unificati da comuni valori di civiltà, oggi, però, posposti ai valori dei bilanci dalle inadeguate tecnocrazie comunitarie; le quali, mentre minacciano l'espulsione della Grecia, culla dell'Europa, nulla dicono delle derive autoritarie dell'Ungheria e del riemergere in tanti Paesi di rigurgiti neonazisti, antisemiti e razzisti. Ben più della libera concorrenza, l'unificazione politica dell'Europa richiederebbe, insomma, come presupposto, l'uguaglianza dei cittadini europei e l'indivisibilità dei loro diritti fondamentali;
    l'economia, che dai padri costituenti dell'Europa fu concepita e progettata come un fattore di unificazione – dapprima il mercato comune e poi la moneta unica – è oggi diventata, in assenza di politiche in grado di governarla, un fattore di conflitto e divisione;
    la ricetta giusta per uscire dalla crisi è sopperire alla carenza di domanda privata con la politica di bilancio. In un periodo durante il quale consumi ed investimenti privati faticano a crescere, è lo Stato che deve intervenire con politiche espansive, in particolare aumentando la spesa pubblica per investimenti per stimolare direttamente la domanda. Date le attuali condizioni di sottoutilizzo della capacità produttiva, è altamente probabile che lo stimolo fiscale incrementi a sua volta anche consumi ed investimenti privati, perché l'impatto positivo dell'aumento del reddito sarebbe superiore all'impatto negativo dell'aumento dei tassi di interesse. Grazie all'effetto moltiplicatore, la politica espansiva genera un aumento più che proporzionale dell’output, innescando un circolo virtuoso: maggiore produzione, maggiori investimenti e maggior capacità produttiva;
    lo stesso Presidente del Consiglio dei ministri pro tempore, Matteo Renzi, ebbe a dichiarare nel novembre 2016 che: «Nel 2017 il “fiscal compact”, le regole del pareggio di bilancio dovrebbero entrare nei trattati. Io sono nettamente contrario a questa ipotesi. Monti, Bersani e Brunetta ci hanno regalato il fiscal compact. Nel 2017 l'Italia dirà no al suo inserimento nei trattati», ed ha aggiunto: «Al netto delle elezioni francesi, tedesche e olandesi, sarà l'anno in cui, in un senso o nell'altro, si metterà la parola fine alle discussioni sulle politiche europee. La politica dell’austerity è fallita». C’è da chiedersi se il Governo attualmente in carica, sostenuto dalla stessa maggioranza parlamentare del Governo pro tempore, darà un seguito concreto a tali affermazioni;
    il pareggio di bilancio strutturale dei nostri conti pubblici, calcolato al netto del ciclo e delle una tantum, era previsto in origine nel 2014, ma è slittato di anno in anno. Lo stesso calcolo dell’output gap (la differenza tra crescita effettiva e crescita potenziale) è una costruzione artificiosa, tant’è che esistono diverse metodologie di calcolo che danno risultati molto diversi: con i criteri della Commissione europea, si è in deficit, ma per i criteri Ocse si è in surplus, mentre per i criteri del Fondo monetario internazionale si è in pareggio;
    l'inserimento del Fiscal Compact nei Trattati europei avrebbe effetti moltiplicativi di queste politiche fallimentari, oltre ad alimentare un clima di distacco e sfiducia delle popolazioni europee verso l'Unione europea. Tale clima potrebbe contribuire a determinare una vera e propria disintegrazione dell'Unione europea e portare all'acuirsi del consenso a soggettività politiche che individuano in politiche nazionalistiche e di colpevolizzazione dei migranti le responsabilità della situazione venutasi a creare;
    il dogma dell'obbedienza cieca ai parametri del Fiscal compact è stato contraddetto anche dalla sentenza della Corte costituzionale italiana n. 275 dell'ottobre 2016, dove si indica – in estrema sintesi – che servizi primari incomprimibili per i cittadini non possono venir negati da vincoli di bilancio e che il corpus normativo costituzionale nazionale ha primazia sul rispetto dei trattati medesimi (anche se inserito in un singolo articolo della Carta costituzionale). Aspetto, quest'ultimo, già sentenziato dagli organi preposti dello Stato tedesco;
    l'8 marzo 2016 la Commissione europea ha presentato una prima stesura del «Pilastro europeo dei diritti sociali». Il 31 dicembre 2016 si è conclusa la consultazione europea che ha visto la partecipazione di istituzioni, parlamenti, sindacati e associazioni; ora si tratta di procedere alla stesura definitiva che dovrà avvenire entro il 2017;
    il «Pilastro europeo dei diritti sociali» rappresenta un obiettivo condivisibile se il risultato finale è quello di fissare principi essenziali da garantire in tutti i Paesi aderenti all'Unione europea. Nel «Pilastro europeo dei diritti sociali», si afferma tra gli altri, il diritto ad un reddito minimo; ma non viene posto in essere un vincolo giuridico per stabilire a livello europeo un reddito minimo, né tantomeno per gli altri diritti sociali in esso contenuti. Se la volontà è di andare in questa direzione, allora occorre definire questo diritto e renderlo effettivo per tutti gli Stati aderenti come misura fondamentale di lotta all'esclusione sociale;
    la politica macroeconomica dell'Unione europea richiede un approccio alternativo che, nel breve periodo, generi una dinamica di sviluppo capace di auto sostenersi, che assicuri la piena occupazione e, in una prospettiva di lungo periodo, una crescita equa e capace di correggere gli evidenti squilibri macroeconomici;
    è necessario ottenere innovazioni radicali dei trattati che regolano le relazioni intraeuropee, a partire dal Fiscal compact, in almeno sei distinte aree:
     a) il requisito di bilancio in pareggio deve essere sostituito da un requisito di bilanciamento dell'economia, che includa fra gli obiettivi livelli di occupazione alti e sostenibili. Merita ricordare che, nelle versioni consolidate del Trattato dell'Unione europea e del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea ricorrono pochissime volte espressioni che impegnino l'Unione a promuovere «un elevato livello di occupazione». Tale obiettivo non risulta attualmente un impegno dell'Unione, bensì appare come l'esito dell'economia sociale di mercato fortemente competitiva, di stampo neo-liberale, che purtroppo l'Unione e le sue istituzioni (Banca centrale europea in testa) hanno promosso. La modifica dei trattati dell'Unione europea nel senso indicato può segnare il ritorno allo spirito della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione, che «pone la persona al centro della sua azione», ridisegnando la sua «costituzione economica», contro quella «costituzione finanziaria» che, acriticamente assunta, ha sottratto linfa allo spirito e alla lettera della Carta dei diritti fondamentali e alla costruzione del «popolo europeo»;
     b) in una prospettiva di lungo termine, le dimensioni del budget comunitario devono aumentare sostanzialmente, così da poter finanziare investimenti europei, insieme a beni e servizi pubblici e poter mettere in atto una politica fiscale anticiclica europea, a supporto delle politiche fiscali nazionali;
     c) piuttosto che concentrare l'attenzione solamente sulla crescita complessiva, dare priorità anche al superamento delle disuguaglianze regionali e intersettoriali;
     d) è necessaria una strategia europea per gli investimenti a lungo termine, finalizzata allo sviluppo europeo, nazionale e locale;
     e) politiche per la (re)industrializzazione dei Paesi periferici, che richiedono l'introduzione di specifiche misure protezionistiche. Le politiche anti-cicliche di breve periodo dovrebbero includere misure per la promozione di una ristrutturazione del tessuto produttivo esistente. Tutto ciò richiede, ovviamente, specifici interventi di messa in discussione dell'attuale regolamentazione europea e dell’acquis comunitario;
     f) l'odierna strategia deflazionistica di svalutazione competitiva deve essere rimpiazzata da una strategia di crescita dei salari che assicuri un'inflazione stabile e la partecipazione dei lavoratori alla crescita del reddito nazionale;
     g) vanno poste in atto misure incisive per combattere la concorrenza fiscale,

impegna il Governo:

1) ad intervenire con forza, in tutte le sedi europee, assumendo iniziative per una radicale riscrittura dei Trattati europei per ridurne le contraddizioni con i princìpi delle Costituzioni dei Paesi dell'Unione europea, nate dopo la II Guerra mondiale. In assenza di tale riscrittura, a rifiutare di inserire il Fiscal compact nei Trattati europei, opponendo il veto in sede europea;
2) a promuovere la rimozione delle disposizioni pro-cicliche (come quelle contenute nel Fiscal compact) e lo scorporo della spesa per investimenti dal calcolo del saldo strutturale dal momento che, senza investimenti pubblici, è impensabile che il Pil possa riprendere a crescere oltre lo zero virgola, e quindi permettere al Paese di creare da sé le risorse necessarie per finanziare il fabbisogno del settore pubblico e ridurne il debito;
3) a proporre la mutualizzazione dei rischi del Quantitative Easing e l'introduzione, a livello europeo, di politiche di bilancio di compensazione dei disallineamenti dei cicli economici dei vari Stati membri, esattamente come accadrebbe in una unione monetaria completata dall'unione politica (si veda l'esempio degli Stati Uniti d'America);
4) a proporre una conferenza europea sui debiti sovrani per affrontare le situazioni nazionali più critiche;
5) a proporre, in sede europea, che i titoli di Stato comprati dalle banche centrali nazionali nell'ambito del Quantitative Easing siano trasferiti nell'attivo di bilancio della Banca centrale europea e successivamente congelati a tempo indefinito, senza alcuna sterilizzazione;
6) ad assumere iniziative per reperire, in sede europea, le necessarie risorse finanziarie e, per garantire, specialmente nei Paesi più poveri, che i trasferimenti sociali ai rifugiati non siano a loro spese, e per realizzare diversi interventi di sostegno sia verso i richiedenti asilo, che verso le aree più sotto pressione dai flussi migratori considerato che entrambi gli obiettivi potrebbero essere perseguiti se l'Unione europea potesse incanalare in tale direzione almeno una parte della moneta creata attraverso il Quantitative Easing della Banca centrale europea;
7) a mettere in discussione l'aumento delle spese militari dell'Unione europea, respingendo le proposte di rafforzamento della capacità militare dell'Unione in risposta alla crisi, dato che il ricorso alla coercizione nazionale e internazionale non potrà risolvere i problemi socio-economici più di quanto non abbia fatto in passato;
8) a proporre l'utilizzazione, a livello europeo, di una quota del gettito della tassa sulle transazioni finanziarie, unitamente all'emissione di eurobond e project bond, per finanziare e promuovere l'occupazione, in particolare quella giovanile, e la riconversione ecologica del sistema produttivo;
9) a proporre la ridefinizione del ruolo della Banca centrale europea come prestatrice di ultima istanza;
10) a proporre un programma europeo, una sorta di «  social compact», per lo sviluppo sostenibile e la coesione sociale, la lotta alle disuguaglianze ed alla povertà, da concordare con gli altri partner continentali, nel quale inserire, in particolare, un'indennità di disoccupazione europea;
11) a promuovere una modifica dei Trattati e del diritto dell'Unione europea nel senso di includere la lotta alla disoccupazione e la promozione di un'elevata occupazione tra gli obiettivi principali delle politiche dell'Unione, nonché ad assumere iniziative per integrare e a modificare lo Statuto del sistema europeo di Banche centrali (Sebc) e della Banca centrale europea (Bce), al fine di includere tra i princìpi generali per le operazioni di credito a banche dell'eurozona la condizione per cui un credito viene concesso soltanto se appare promuovere sicuramente l'occupazione netta nel Paese dell'ente richiedente;
12) ad assumere iniziative per fare sì che, in sede di Unione europea, la stesura finale del «Pilastro europeo dei diritti sociali»:
   a) sia approvata definitivamente entro giugno del 2017;
   b) si riferisca espressamente all'articolo 151, paragrafo 1, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea ovvero alla armonizzazione verso l'alto, e che non si limiti alla sola necessità di una maggiore convergenza degli Stati, affermando che i principi sociali di riferimento siano da garantire in tutti Paesi aderenti all'Unione europea;

13) a sostenere, a livello nazionale, attraverso risorse adeguate, azioni, programmi ed iniziative di carattere normativo, il diritto ad un reddito minimo e tutti i diritti recati dal «Pilastro europeo dei diritti sociali»;
14) ad assumere le opportune iniziative normative al fine di cancellare le modifiche agli articoli 81, 97 e 119 della Costituzione, apportate dalla legge costituzionale n. 1 del 2012, al fine di eliminare il principio dell’«equilibrio di bilancio» e di garantire la salvaguardia dei diritti fondamentali;
15) ad assumere le opportune iniziative anche al fine di modificare i meccanismi di cui alla cosiddetta «legge rinforzata», la legge 24 dicembre 2012, n. 243, con particolare riguardo alla definizione del saldo strutturale, alla cosiddetta «regola del debito» per quanto concerne i fattori rilevanti, alla cosiddetta «regola della spesa», alle modalità del monitoraggio da parte del Ministro dell'economia e delle finanze del livello della spesa, alla definizione di eventi eccezionali, alle norme concernenti gli enti territoriali, al ruolo dell'Ufficio parlamentare di bilancio che dovrà essere di supporto del ruolo democratico e sovrano del Parlamento.
(1-01589)
«Marcon, Fratoianni, Civati, Airaudo, Brignone, Costantino, Daniele Farina, Fassina, Giancarlo Giordano, Gregori, Andrea Maestri, Paglia, Palazzotto, Pannarale, Pastorino, Pellegrino, Placido».
(11 aprile 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    il 25 marzo 2017 si sono celebrati i sessanta anni dalla firma dei Trattati di Roma e dell'inizio di un percorso che sino a tempi recenti ha assicurato non solo pace, ma anche prosperità al continente europeo;
    il testo finale della «Dichiarazione di Roma», lungi dal definire un minimo comune denominatore europeo, al fine di ottenere la sottoscrizione di tutti e 27 gli Stati aderenti e di contenere la sottolineatura che l'Unione europea è «indivisa e indivisibile», non poteva che essere il risultato di compromessi e ambiguità tali che dalla sua interpretazione ognuno si potrà appellare a ciò che più convince, interessa e conviene;
    sul problema dei profughi e migranti si limita a indicare una generica politica «efficace, responsabile, sostenibile, rispettosa delle norme internazionali», senza nemmeno accennare ad una cooperazione europea per l'esercizio di filtri più efficaci, soprattutto sul versante mediterraneo;
    ancora più evanescente appare il paragrafo dedicato all'economia, che non indica alcuna priorità decisiva, se non l'affermazione che si vuole la crescita sostenibile, la coesione, la convergenza, tenuto conto della diversità dei sistemi nazionali, la lotta contro la disoccupazione e la discriminazione e l'esclusione sociale;
    il Consiglio dei capi di Stato e di governo dell'Unione, riuniti a Bruxelles il 9 e 10 marzo 2017 ha riproposto quanto, a Versailles, Germania, Francia, Italia e Spagna, il 7 marzo 2017, avevano annunciato: l'idea di un'Europa a più velocità, che, di fatto già da alcuni decenni è attuata grazie alle varie «cooperazioni rafforzate». Un'idea che difficilmente potrà rilanciare in modo efficace il progetto europeo;
    nessuna riflessione per un rilancio di un processo di «federalismo competitivo», in cui i vari Stati competono virtuosamente tra loro per trovare le soluzioni migliori; nessuna idea per un'Unione più moderna e più giusta o per una riflessione su un modello confederale o federale; nessun accenno allo storico deficit democratico delle istituzioni europee;
    il «Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell'Unione economica e monetaria», più noto come « Fiscal Compact», all'articolo 16, stabilisce che, al più tardi entro cinque anni dalla data dalla sua entrata in vigore (1o gennaio 2013), «sulla base di una valutazione dell'esperienza maturata in sede di attuazione, sono adottate in conformità del trattato sull'Unione europea e del trattato sul funzionamento dell'Unione europea le misure necessarie per incorporare il contenuto del presente trattato nell'ordinamento giuridico dell'Unione europea»;
    tra fine 2017 e inizio 2018, quindi gli Stati membri dovranno decidere che futuro riservare al Fiscal compact e come modificarlo, ricordando che, per l'inserimento nei trattati europei, è richiesta l'unanimità degli Stati membri;
    il Fiscal compact è stato firmato in occasione del Consiglio europeo del 1o-2 marzo 2012 da tutti gli Stati membri dell'Unione europea ad eccezione di Regno Unito e Repubblica ceca (che ha aderito nel 2014);
    il suddetto trattato, concordato al di fuori della cornice giuridica dei trattati europei, all'articolo 3, ha impegnato le Parti contraenti ad applicare e ad introdurre, entro un anno dalla sua entrata in vigore, con norme vincolanti e a carattere permanente, preferibilmente di tipo costituzionale, o di altro tipo purché ne garantiscano l'osservanza nella procedura di bilancio nazionale, diverse regole, in aggiunta a e senza pregiudizio per gli obblighi derivanti dal diritto dell'Unione europea:
     a) il bilancio dello Stato dovrà essere in pareggio o in attivo; tale regola si considera rispettata se il disavanzo strutturale dello Stato è pari all'obiettivo a medio termine specifico per Paese, con un deficit che non eccede lo 0,5 per cento del Pil;
     b) gli Stati contraenti potranno temporaneamente deviare dall'obiettivo a medio termine o dal percorso di aggiustamento solo nel caso di circostanze eccezionali, ovvero eventi inusuali che sfuggono al controllo dello Stato interessato e che abbiano rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria della pubblica amministrazione, oppure in periodi di grave recessione, a patto che tale disavanzo non infici la sostenibilità di bilancio a medio termine;
     c) qualora il rapporto debito pubblico/Pil risulti significativamente al di sotto della soglia del 60 per cento, e qualora i rischi per la sostenibilità a medio termine delle finanze pubbliche siano bassi, il valore di riferimento del deficit può essere superiore allo 0,5 per cento, ma in ogni caso non può eccedere il limite dell'1 per cento del Pil;
     d) qualora il rapporto debito pubblico/Pil superi la misura del 60 per cento, le parti contraenti si impegnano a ridurlo mediamente di 1/20 all'anno per la parte eccedente tale misura. Il ritmo di riduzione, tuttavia, dovrà tener conto di alcuni fattori rilevanti, quali la sostenibilità dei sistemi pensionistici e il livello di indebitamento del settore privato;
    il Parlamento italiano, oltre a ridisegnare la propria disciplina contabile ordinaria, con la legge costituzionale 12 aprile 2012, n. 1, ha introdotto nella Costituzione il pareggio di bilancio, modificando gli articoli 81, 97, 117 e 119 della Costituzione;
    già nel gennaio 2014 la Camera dei deputati, approvando tre diversi atti di indirizzo ha evidenziato l'opportunità ed ha impegnato il Governo ad agire in sede europea per un riesame dei meccanismi posti a presidio delle regole della governance economica al fine dell'introduzione di una maggiore flessibilità degli obiettivi di bilancio a medio termine. Con lo scopo di liberare risorse da destinare alle politiche di sviluppo e crescita;
    in vista della scadenza del dicembre 2017, nell'ambito dell'Unione europea, sta operando un gruppo di lavoro sulla revisione del Fiscal compact, che starebbe seguendo l'idea di rendere il Fiscal compact più flessibile, incorporandolo, contestualmente, nel Trattato di Maastricht;
    la necessità di dover «ratificare» il Fiscal compact nei Trattati europei può costituire un'opportunità unica per inserire la norma di buon senso volta a scorporare gli investimenti che creano valore. Inoltre, è un'occasione sia per rivedere i parametri di Maastricht, che non hanno retto alla prova di circa un quarto di secolo di esperienza, sia per ripensare le basi stesse dell'unione monetaria – senza per questo percorrere la via del ritorno alle monete nazionali – a cominciare dall'esistenza di una moneta senza un bilancio comune e una condivisione dei rischi. Una tale riflessione diventa ancora più importante per l'Italia, anche in prospettiva di un probabile prossimo ridimensionamento del Quantitative easing da parte della Bce;
    il Trattato di Maastricht venne firmato nella convinzione che si sarebbe presto giunti a una piena integrazione politico-statuale europea; invece, venne creata una valuta priva di Stato e furono trasferite alle istituzioni comunitarie le politiche monetarie e la garanzia del mercato unico,

impegna il Governo:

1) nell'ambito di una revisione del Fiscal Compact, a promuovere una rinegoziazione complessiva di tutti gli altri trattati dell'Unione europea vigenti, nessuno escluso;
2) ad assumere iniziative per fare dell'Italia la promotrice e la protagonista, con le opportune alleanze, di un processo di rinegoziazione globale nell'Unione europea, nella direzione della flessibilità, del riconoscimento delle diversità territoriali, del rifiuto di soluzioni uniche – specialmente fiscali e di bilancio – imposte indiscriminatamente all'intera Unione;
3) sul piano interno, a perseguire una politica di consistente riduzione di tasse-spesa-debito, visto che non è infatti in discussione il principio astratto del pareggio di bilancio, ma il livello concreto di tassazione e di spesa pubblica al quale questo pareggio viene conseguito.
(1-01600)
«Capezzone, Palese, Altieri, Chiarelli, Ciracì, Corsaro, Distaso, Fucci, Latronico, Marti».
(18 aprile 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    nel preambolo alla carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, che a partire dal Trattato di Lisbona è stata equiparata come valenza ai trattati istitutivi dell'Unione europea si legge: «l'Unione si fonda sui valori indivisibili e universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà; l'Unione si basa sui principi di democrazia e dello stato di diritto. [...]. L'Unione contribuisce al mantenimento e allo sviluppo di questi valori comuni, nel rispetto della diversità delle culture e delle tradizioni dei popoli europei, dell'identità nazionale degli Stati membri e dell'ordinamento dei loro pubblici poteri a livello nazionale, regionale e locale; essa cerca di promuovere uno sviluppo equilibrato e sostenibile e assicura la libera circolazione delle persone, dei beni, dei servizi e dei capitali nonché la libertà di stabilimento»;
    gli articoli 99 e 104 del Trattato di Roma istitutivo della Comunità economica europea (così come modificato con il Trattato di Maastricht e dal Trattato di Lisbona) trovano attuazione attraverso il rafforzamento delle politiche di vigilanza sui deficit ed i debiti pubblici, nonché con un particolare tipo di procedura di infrazione;
    la procedura per deficit eccessivo (pde), che ne costituisce il principale strumento, è stata implementata dal Patto di stabilità e crescita (psc). Stipulato nel 1997, il Patto di stabilità e crescita ha rafforzato le disposizioni sulla disciplina fiscale nell'unione economica e monetaria, di cui agli articoli 99 e 104 del suddetto trattato di Roma, ed è entrato in vigore con l'adozione dell'euro, il 1o gennaio 1999;
    in base al Patto di stabilità e crescita, gli Stati membri devono continuare a rispettare nel tempo i parametri di deficit pubblico (3 per cento) e di debito pubblico (60 per cento del prodotto interno lordo);
    da più parti si è sottolineata l'eccessiva rigidità del patto, perché questa, se non applicata considerando l'intero ciclo economico, genera rischi involutivi derivanti dalla contrazione della politica degli investimenti;
    l'Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) ha in diversi studi fatto presente come il prodotto interno lordo non sia un indicatore esaustivo per parametrare il benessere di un Paese e dei suoi cittadini, e che bisogna tener conto anche di altri indicatori, come la qualità e il costo delle abitazioni, salari, sicurezza dell'impiego e disoccupazione, l'educazione, la coesione sociale, la qualità dell'ambiente, la salute, la sicurezza e altri;
    la politica economica europea nel suo complesso non è riuscita a risolvere gli enormi squilibri tra i Paesi dell'Unione europea, in particolare i problemi di decadimento sociale e di mancati livelli minimi di benessere dei cittadini, accentuati dalla crisi sopraggiunta a partire dal 2007;
    le misure di austerità adottate in Italia, e non solo, non hanno prodotto gli effetti positivi sperati, anzi hanno acuito effetti ciclici negativi;
    le misure di austerità avevano come scopo di diminuire la spesa pubblica e miravano a equilibrare il bilancio, con l'ovvia conseguenza di ridurre ulteriormente la spesa nazionale senza risultati notevoli in termini di crescita, recupero, nonché in termini di riduzione del rapporto debito/prodotto interno lordo;
    tali politiche di austerità hanno prodotto come risultato una riduzione della domanda aggregata e, direttamente e indirettamente, hanno indebolito il potere d'acquisto dei lavoratori (ad esempio, riducendo la spesa per i servizi pubblici, sanità e istruzione);
    le cattive performance dell'Italia, stando ai dati, sono da ricercarsi nelle cattive politiche legislative e, in particolare, relative alla non tutela dei posti di lavoro;
    oltre a essere dannose, le politiche di austerity sono anche tarate su vincoli oramai anacronistici. Il numero «3» del famoso vincolo del 3 per cento deficit/Prodotto interno lordo deriva da una mera espressione algebrica e serviva a stabilizzare il rapporto debito/Prodotto interno lordo al valore medio (60 per cento) dei primi Paesi che, negli anni ’90, sono entrati nell'Unione monetaria europea, tutto ciò a condizione che il Prodotto interno lordo reale crescesse, in media, attorno al 3 per cento annuo. Tale obiettivo (60 per cento rapporto debito/Prodotto interno lordo) e tale ipotesi (3 per cento crescita annua Prodotto interno lordo) si sono rivelati nei trascorsi 20 anni, secondo i presentatori del presente atto, palesemente irrealistici;
    tale parametro non era nato da considerazioni di tipo politico, e a maggior ragione non lo è dopo 20 anni dal suo primo utilizzo, ma è stato riutilizzato acriticamente e sistematicamente senza nessuna correlazione coi Paesi a cui si riferisce;
    oltre all'anacronismo della misura di austerity, va tenuto presente che da ricerche effettuate sia dal Fondo monetario internazionale, che in ambito accademico, emerge che, in periodo di crisi finanziaria, i moltiplicatori assumono valori molto più alti. Da ciò si desume che è proprio nei momenti di crisi che l'investimento genera i maggiori benefici;
    essendo oramai chiaro che tali vincoli sono troppo penalizzanti per la nostra economia, appare evidente che la miglior strategia da adottare per superare lo stallo in cui è precipitato il nostro Paese e rilanciarne la crescita economica, è quella di superare tali vincoli;
    servirebbero politiche, sia a livello nazionale che europeo, coerenti con un sano sviluppo delle economie europee, tendenti quindi a migliorare il benessere dei cittadini, con policy atte a aumentare gli investimenti, nonché l'occupazione e la stabilità del salario, sia con politiche di sostegno al reddito, che eliminando qualsivoglia politica di precarizzazione del mercato del lavoro,

impegna il Governo:

1) a intervenire nelle sedi europee rifiutando in modo perentorio l'inserimento del Fiscal compact nei Trattati europei, e quindi opponendo il veto dell'Italia;
2) a intervenire nelle sedi europee assumendo iniziative volte a modificare i trattati europei per promuovere il ritorno ad una Unione europea dei popoli, realmente dedita alla creazione e allo sviluppo di un'unione ove si concretizzino i valori fondamentali comuni codificati nelle Costituzioni degli Stati nella parte in cui promuovono la solidarietà tra i popoli;
3) ad assumere iniziative per rimuovere le deleterie disposizioni di austerity inserite con legge costituzionale n. 1 del 2012;
4) a intervenire nelle sedi europee, in attesa di una coerente rivisitazione dei trattati, per promuovere una interpretazione estensiva dei trattati esistenti in modo da contrastare le attuali interpretazioni promotrici di politiche di austerità e passare a interpretazioni foriere di espansione economica;
5) a intervenire, anche nelle sedi europee, per rilanciare il principio di una gestione autonoma del debito da parte degli Stati, basata non più su politiche di austerity, ma di riduzione progressiva del debito, attraverso la crescita economica;
6) a programmare una politica di crescita basata su obiettivi chiari e ben definiti e sulla promozione dell'innovazione nei settori chiave come quello dell'energia pulita;
7) ad assumere iniziative per scorporare dal computo dell'indebitamento netto gli investimenti pubblici relativi a finanziamenti per opere innovative, per la ricerca, per la salute, il benessere dei cittadini, la coesione sociale, l'occupazione e la sicurezza dell'impiego e per gli obiettivi di missione intrapresi dai Paesi per il loro rilancio economico;
8) a intervenire in sede europea per una armonizzazione interna dei montanti di surplus/deficit tra i vari Paesi dell'Unione europea;
9) a non considerare in alcun caso come vincolante l'obiettivo di mantenere al 3 per cento il rapporto deficit/Prodotto interno lordo;
10) a considerare come vincolanti gli indicatori di benessere equo  e sostenibile recentemente individuati nel documento di economia e finanza, rendendoli programmatici;
11) a promuovere misure adeguate di sostegno al reddito e di inclusione sociale, di entità non inferiore a quelle già adottate dagli altri Paesi europei, considerando anche le proposte di legge depositate in Parlamento su tali temi.
(1-01601)
«Caso, Cariello, Brugnerotto, Castelli, D'Incà, Sorial, Cecconi».
(18 aprile 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    nel suo programma legislativo per il 2017, la Commissione europea, illustrando le misure cui dar corso per assicurare «un'Unione economica e monetaria più profonda e più equa», sottolinea come il Libro bianco sul futuro dell'Europa, che dovrà indicare le tappe per riformare l'Unione europea a 27 Stati membri sessant'anni dopo i Trattati di Roma, comprenderà un ampio capitolo sul futuro dell'Unione economica monetaria, nel quale saranno incluse una revisione del patto di stabilità e crescita incentrata sulla stabilità e misure per conformarsi all'articolo 16 del Fiscal Compact ossia per integrarne il contenuto nel quadro giuridico dell'Unione europea;
    firmato in occasione del Consiglio europeo dell'1 e 2 marzo 2012 da tutti gli Stati membri dell'Unione europea a eccezione del Regno Unito e della Repubblica ceca, il Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell'Unione economica e monetaria (cosiddetto Fiscal Compact) incorpora e integra in una cornice unitaria alcune delle regole di finanza pubblica e delle procedure per il coordinamento delle politiche economiche, in buona parte già introdotte o in via di introduzione nel quadro della governance economica europea. Tra gli elementi principali ivi contenuti meritano di essere richiamati:
     a) l'impegno delle parti contraenti ad applicare e introdurre, entro un anno dall'entrata in vigore del trattato, con norme costituzionali o di rango equivalente, la «regola aurea» in base alla quale il bilancio dello Stato deve essere in pareggio o in attivo. Sotto tale profilo si evidenzia che in Italia, il 17 aprile 2012, è stata approvata la legge costituzionale n. 1 del 2012, volta a introdurre in Costituzione il principio del pareggio di bilancio, nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea. Con successiva legge «rinforzata» n. 243 del 2012, approvata a maggioranza assoluta dei membri di ciascuna Camera ai sensi del nuovo comma 6 dell'articolo 81 della Costituzione, sono state dettate le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l'equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni;
     b) l'impegno delle parti contraenti, qualora il rapporto debito pubblico/Pil superi la misura del 60 per cento, a ridurlo mediamente di 1/20 l'anno per la parte eccedente tale misura;
     c) la possibilità, per qualsiasi parte contraente che consideri un'altra parte contraente inadempiente rispetto agli obblighi stabiliti dal patto di bilancio, di adire la Corte di giustizia dell'Unione europea, anche in assenza di un rapporto di valutazione della Commissione europea;
     d) la potestà, per le parti contraenti, di fare ricorso a cooperazioni rafforzate nei settori essenziali per il buon funzionamento dell'eurozona, senza tuttavia recare pregiudizio al mercato interno;
     e) l'istituzione di «vertici euro» informali dei Capi di Stato e di governo delle parti contraenti la cui moneta è l'euro, insieme con il Presidente della Commissione europea;
    come noto, il Fiscal Compact è entrato in vigore il 1o gennaio 2013, dopo essere stato ratificato – come previsto dall'articolo 14 del medesimo trattato – da dodici Paesi dell'Eurozona (Austria, Cipro, Germania, Estonia, Spagna, Francia, Grecia, Italia, Irlanda, Finlandia, Portogallo, Slovenia), oltre che da quattro Paesi non aderenti alla zona euro (Lettonia, Lituania, Romania e Danimarca). Il nostro Paese ha ratificato il Fiscal Compact con la legge n. 114 del 23 luglio 2012. Ultimo Paese a ratificare è stato il Belgio, in data 21 marzo 2014;
    per quanto concerne il livello cui i singoli Stati membri hanno dato seguito agli impegni assunti, firmando e ratificando il Fiscal Compact, uno studio del Servizio Studi e Ricerche del Parlamento europeo (ERPS), pubblicato nel mese di giugno del 2016 (Fiscal Compact Treaty: Scorecard for 2015), evidenziava, a tre anni dall'entrata in vigore, un quadro contrastato;
    gli sforzi per rispettare i termini del Fiscal Compact – incluse le norme volte a rafforzare la disciplina di bilancio – hanno registrato forti variazioni tra uno Stato membro e l'altro. Alcuni Paesi sono riusciti a ridurre significativamente il deficit pubblico, mantenendo una posizione di bilancio solida, in linea con i requisiti del Fiscal Compact. Altri Paesi sono riusciti a tagliare il debito pubblico con la cadenza prevista dal trattato, ma altri ancora hanno realizzato progressi decisamente più limitati. Ciò ha indotto numerosi studiosi ed economisti ad affermare che il Fiscal Compact è stato «inefficace», facendo riferimento, per esempio, ai bilanci di Francia e Italia nel 2015, che risultavano entrambi palesemente disallineati rispetto al Fiscal Compact, oltre a violare gli impegni precedentemente assunti in materia di riduzione deficit. Lo studio del Parlamento europeo si sofferma sulle posizioni espresse dal Fmi e dalla Bce, che hanno entrambi sottolineato come il rispetto del quadro fiscale dell'Unione europea «sia rimasto debole», nonostante gli sforzi per rafforzare l'efficacia delle politiche economiche e il loro coordinamento. Parallelamente, la Corte dei conti europea, in un suo rapporto, ha evidenziato la crescente complessità del quadro di governance dell'economia, che rischia inevitabilmente di comprometterne l'efficacia;
    ormai si discute da anni, sia a livello parlamentare sia extraparlamentare, della necessità di porre con forza il tema della revisione del Fiscal Compact relativamente ai parametri e ai vincoli legati alla riduzione del debito, del rapporto deficit-Pil e della distinzione netta, nell'ambito del patto di stabilità, delle risorse di parte corrente da quelle in conto capitale per gli investimenti;
     già nel gennaio 2014 l'Assemblea della Camera dei deputati approvava tre mozioni, firmate sia da parlamentari di maggioranza che di opposizione e sulle quali il Governo aveva espresso parere favorevole, con cui si evidenziava l'opportunità, e si impegnava in tal senso l'Esecutivo, di agire in sede europea per un riesame degli attuali meccanismi posti a presidio delle regole della governance economica al fine dell'introduzione di una maggiore flessibilità degli obiettivi di bilancio a medio termine al fine di liberare risorse da destinare alle politiche di sviluppo economico e alla crescita;
     ciononostante, al netto degli sforzi profusi dal Governo in sede europea, sino ad oggi, purtroppo, è stato perpetuato un approccio estremamente miope e rigido nella gestione della politica di bilancio e dell'integrazione europea perché si è continuato a governare secondo principi di austerità impraticabili che hanno solo aggravato crisi e recessioni, con l'interdizione di ogni forma di eurobond garantiti pro quota dagli Stati nazionali ed una contraddizione evidente fra politica fiscale restrittiva e politica ultraespansiva della Bce che avrebbe dovuto compensarne gli effetti con la sola leva monetaria;
     a ciò si aggiungono i risultati modestissimi del cosiddetto «Piano Junker», l'arretramento degli investimenti pubblici e del loro potenziale traino agli investimenti privati, gli altissimi livelli di disoccupazione soprattutto giovanile e, infine, il dilagare di una gravissima sofferenza sociale e povertà diffusa;
     in tale contesto, appare quanto mai urgente che il Governo assuma una posizione forte, puntando innanzitutto all'eliminazione di quei paletti rigidi che oggi bloccano la crescita e gli investimenti pubblici in infrastrutture e trasporti, ricerca, innovazione, formazione, politiche per il lavoro e green economy;
     come si ricorderà anche l'ex Presidente del Consiglio dei ministri, Matteo Renzi, nel corso di un comizio svoltosi in data 29 ottobre 2016 in Piazza del Popolo a Roma, aveva dichiarato: «Noi diciamo che siccome nel 2017 casualmente a Roma si riuniranno i capi di governo e in UE arriva a scadenza il tema del Fiscal Compact, noi non accetteremo di inserirlo nei trattati UE» e il riferimento al citato articolo 16 del Fiscal Compact appariva chiaro in quanto esso prevede che «al più tardi entro 5 anni (ovverosia entro l'anno 2017), dalla data di entrata in vigore del presente trattato (1o gennaio 2013), sulla base di una valutazione dell'esperienza maturata in sede di attuazione, sono adottate in conformità del Trattato sull'Unione europea e del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea le misure necessarie per incorporare il contenuto del presente trattato nell'ordinamento giuridico dell'Unione europea»;
     del resto, appare a tutti chiara la necessità di avviare un confronto critico teso ad una revisione profonda del Fiscal Compact e delle regole europee del bilancio. Il criterio con cui affrontare questo lavoro è noto e dovrebbe essere quello, come più volte auspicato, dell'eliminazione dai vincoli di bilancio di tutte le spese pubbliche definite, con estrema cura e precisione, di investimento, secondo regole e monitoraggi costruiti in modo rigoroso a livello comunitario e applicati da organismi comunitari del tutto indipendenti dai governi e dagli apparati nazionali. Per questa quota di investimenti nazionali riconosciuti come spese di investimento dovrebbe, inoltre, risultare agevole costruire forme di copertura comunitaria a debito e/o forme di garanzia diretta e indiretta del bilancio comunitario, a cui occorrerebbe garantire uno zoccolo fiscale europeo più significativo;
     una strada per trovare una soluzione c’è ed è possibile ed il Governo ha l'opportunità e la possibilità di chiedere e ottenere una modifica del Fiscal Compact che vada nella direzione di una golden rule relativa a spese di investimento, anche nazionali, concordate con e controllate dalla Commissione europea al fine di evitare abusi e usi impropri;
     solo in questo modo l'Italia e l'Europa potranno tornare a crescere e ristabilire un clima di consenso presso le loro popolazioni;
     l'avvento di Trump e ancor prima la Brexit, il ritorno di politiche protezionistiche e di scenari geopolitici che si sperava definitivamente chiusi negli archivi del passato, non lasciano dubbi circa l'assoluta necessità di una svolta europea in questo senso. I lavoratori, i loro diritti, le tutele, il welfare subirebbero effetti devastanti da un improvviso ritorno alle monete nazionali, alle barriere doganali e valutarie, alle svalutazioni competitive, all'inflazione galoppante e un debito pubblico sempre più alto;
     per il nostro Paese la situazione appare molto delicata per diversi fattori che sono sotto gli occhi di tutti. Negli ultimi mesi, lo spread è cresciuto di circa 80 punti base; la crescita rimane stentata, e la performance dell'Italia continua ad occupare l'ultimo posto tra i principali Paesi europei; la Commissione europea ha chiesto una manovra correttiva di 3,4 miliardi di euro; a fine anno, o forse anche prima, verrà meno il Quantitative Easing della Bce, e quindi i tassi di interesse saliranno con effetti preoccupanti sui nostri conti; con la manovra del prossimo anno dovremo, inoltre, compensare le clausole di salvaguardia di poco meno di 20 miliardi di euro;
     occorre dunque una nuova strategia da declinare a livello europeo che oltre a mettere in sicurezza dei conti, punti a indirizzare tutte le risorse disponibili ad un massiccio programma di spese per investimenti (almeno mezzo punto di Pil l'anno per tre anni), spese che negli ultimi 10 anni sono state ridotte di oltre 10 miliardi di euro,

impegna il Governo:

1) ad adoperarsi, costruendo le opportune alleanze, affinché il Fiscal Compact sia modificato nella direzione di una golden rule sugli investimenti anche nazionali da esercitare almeno entro il limite del 3 per cento oppure, in caso contrario, a contrastare l'inserimento del Fiscal Compact nei Trattati europei;
2) a intraprendere ogni iniziativa di competenza presso le sedi europee volta a modificare le regole sulla misurazione del pareggio strutturale, attraverso un metodo di calcolo condiviso fra la Commissione europea, il Fmi e l'Ocse, e, in particolare, a riconsiderare quelli che per i presentatori del presente atto sono parametri astrusi e particolarmente penalizzanti per l'Italia, quali l’Output Gap e il NAWRU, in base ai quali per il nostro Paese è considerato di «equilibrio», rispetto a possibili tensioni inflazionistiche, un livello di disoccupazione oltre il 10 per cento ancora per i prossimi anni, con la conseguenza di comprimere la possibilità di adottare politiche espansive e anti-cicliche, adoperandosi affinché siano rivisti i criteri in base ai quali la Commissione calcola i disavanzi strutturali: in particolare, proponendo di rivedere il sistema di calcolo insieme a Fmi e Ocse in modo da avere valutazioni condivise a livello internazionale;
3) ad adottare iniziative presso le competenti sedi europee affinché la Germania ridimensioni il proprio surplus commerciale entro il limite indicato dai Trattati in vigore.
(1-01602)
«Melilla, Albini, Capodicasa, Laforgia, D'Attorre, Scotto, Speranza, Zoggia, Bersani, Ragosta, Epifani, Roberta Agostini, Franco Bordo, Bossa, Cimbro, Duranti, Fava, Ferrara, Folino, Fontanelli, Formisano, Fossati, Carlo Galli, Kronbichler, Leva, Martelli, Matarrelli, Mognato, Murer, Nicchi, Giorgio Piccolo, Piras, Quaranta, Ricciatti, Rostan, Sannicandro, Stumpo, Zaccagnini, Zappulla, Zaratti».
(18 aprile 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    all'origine, il fiscal compact avrebbe dovuto essere un atto europeo – si pensava a un regolamento – per «compattare» (copyright Mario Draghi) in un testo unico tutte le normative che erano state adottate nel periodo della grande crisi dell'eurozona (Six Pack, Two Pack);
    per il Regno Unito un regolamento avrebbe avuto un'influenza eccessiva anche per i Paesi non euro, limitando, per esempio, la libertà di circolazione dei servizi finanziari, e si oppose;
    per superare questa impasse si usò la formula dell'accordo internazionale, la stessa utilizzata in precedenza anche per Schengen, e fu inserito l'articolo 16, per cui a 5 anni data dalla firma (quindi nel 2017) si sarebbe valutata la possibilità di recepire l'accordo internazionale nell'ambito dei Trattati europei (come è effettivamente accaduto, in altra sede e con altri tempi, per Schengen);
    l'appuntamento dei 5 anni non è una scadenza, non è un rinnovo, non è neanche un tagliando/controllo. Al massimo, quello che un Paese può fare è, come per ogni accordo internazionale, ritirare la firma e uscire dal fiscal compact. Resta comunque, come Stato dell'Unione europea vincolato a tutte le regole del Six Pack e del Two Pack, che rimangono in vigore;
    l'unico vincolo di cui ci si libererebbe sarebbe l'equilibrio di bilancio, se non fosse che lo si è inserito nella Costituzione. Quindi si sarebbe tenuti a rispettarlo comunque, salvo nuove modifiche costituzionali;
    l'uscita da fiscal compact preclude la possibilità di ricorso, qualora ve ne fosse bisogno, alle risorse del fondo Salva-Stati;
    piuttosto, è necessario cancellare l’«imbroglio» del dopo Maastricht, e tornare al suo spirito originario con la sospensione delle norme che ne hanno modificato l'impianto iniziale;
    tornare a Maastricht significa recuperare la lezione di Guido Carli. Fu su proposta dell'allora Ministro del tesoro, infatti, che nel testo fu inserita una clausola che, con riferimento ai parametri fissati, consentiva agli Stati «di tenere conto della tendenza ad avvicinarsi al valore di riferimento e di eventuali cause eccezionali o temporanee di scostamento da quei parametri»;
    il patto di stabilità del 1997 (e le modifiche successive) ha cambiato, tra l'altro con modalità di dubbia legittimità, proprio questo punto fondamentale del Trattato, inviso ovviamente ai tedeschi, in quanto contrario alla loro dottrina calvinista e alla loro ossessione nei confronti dell'inflazione;
    così facendo, è stato dato un segnale alla speculazione e ai mercati, che si sono scatenati a scommettere sulla prevedibilità del non rispetto di quei «paletti», considerati troppo rigidi e per questo irrealizzabili. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti, soprattutto negli ultimi anni;
    è ora di tornare all'Europa vera, solidale, illuminata, lungimirante, della crescita, vincendo così anche i populismi e gli estremisti. «Sì» alla genialità di Maastricht, ma basta agli egemonismi e ai «ricatti» tedeschi;
    solo così l'Italia e l'Europa tornerebbero più forti, in grado di affrontare le sfide e le difficoltà più grandi. Abbiamo le idee e gli strumenti per ridisegnare il futuro. O ne saremo travolti;
    il trattato di Maastricht fu firmato il 7 febbraio 1992, ma il passaggio clou di tutte le negoziazioni fu l'Ecofin (riunione dei Ministri economici e finanziari) del 21 settembre 1991;
    grazie alla clausola citata, inserita su proposta italiana, gli Stati che non rispettavano i «paletti» di Maastricht non erano costretti a realizzarli attraverso un piano di rientro a tappe forzate che avrebbe richiesto misure di politica economica restrittive, bensì adottando politiche virtuose che comportassero miglioramenti progressivi. Vale a dire senza stress eccessivo, e controproducente, bensì impegnandosi a sforzi graduali e compatibili con lo stato dell'economia e del tessuto sociale e produttivo del Paese, senza costringerlo a imprese impossibili;
    viene, cioè, fissato l'obiettivo, ma il suo conseguimento è affidato alle politiche che ciascun Governo adotta autonomamente, tenendo conto delle specificità e delle concrete condizioni della propria economia. Per cui il grado di conseguimento dell'obiettivo varia da Paese a Paese e di anno in anno. «I criteri di convergenza economica rispetto a debito, deficit, inflazione e tassi di interesse da inserire nel Trattato non devono essere applicati in maniera meccanica e occorre lasciare la possibilità di sviluppare un'attenta valutazione politica», annunciò in conferenza stampa, soddisfatto, Guido Carli;
    i parametri, dunque, furono fissati, ma con una dose di flessibilità. Il deficit, per esempio, doveva essere minore o uguale al 3 per cento del prodotto interno lordo, certo, ma andava comunque tutto bene anche se i singoli Stati dimostravano che il rapporto diminuiva in modo sostanziale e continuo nel tempo, raggiungendo livelli sempre più vicini al valore di riferimento. Allo stesso modo, il debito non doveva superare il 60 per cento del prodotto interno lordo, a meno che il Paese non dimostrasse di essere in grado di ridurre quel rapporto in misura sufficiente, avvicinandosi al valore di riferimento con un ritmo adeguato;
    pochi anni dopo, nel 1997, il trattato di Maastricht è stato modificato proprio in questo punto fondamentale. Ma non attraverso un nuovo Trattato, che avrebbe comportato la ratifica dei parlamenti nazionali o un referendum popolare, come era già avvenuto per Maastricht; bensì attraverso dei regolamenti, che non necessitano di alcun via libera popolare, diretto o indiretto per via parlamentare;
    con il patto di stabilità, quindi, dei regolamenti sono stati elevati al rango di Trattati, allorquando essi possono solo disciplinare l'applicazione delle disposizioni previste dai trattati, senza mai entrare, però, in contraddizione con questi ultimi;
    i regolamenti in questione, che costituiscono il patto di stabilità, sono il n. 1466/97 e il n. 1467/97, del 17 giugno 1997, entrati in vigore a marzo 1998. Con un colpo di mano, introducono quel principio di rigidità che Guido Carli era riuscito a evitare. Pertanto il rispetto dei vincoli di bilancio diventa forzato e indipendente dai governi e dalle politiche che essi intendono implementare, nonché incurante delle fasi di congiuntura economica sfavorevole;
    inoltre, vengono inseriti meccanismi di sorveglianza e sanzionatori che, oltre a far venire meno la filosofa portante del trattato di Maastricht, tolgono di fatto agli Stati membri la piena autonomia nelle scelte di politica economica. Si realizza così, con strumenti giuridicamente inadeguati (si ripete: due regolamenti e non un trattato), il primo vero «scippo» di sovranità degli Stati nazionali da parte dell'Europa. Anzi, per essere precisi, di Germania e Francia. Il tutto senza alcun dibattito politico-parlamentare. D'altronde, i regolamenti non lo richiedevano. Tattica perfetta dell'asse franco-tedesco;
    il patto di stabilità resta in vigore fino al 6 dicembre 2011, e pochi giorni dopo, il 13 dicembre 2011, ne entra in vigore uno nuovo e rinforzato. Le misure in esso contenute, denominate six pack, sono scritte in 5 regolamenti e una direttiva approvate dal Parlamento europeo a novembre 2011. Stessi principi dei due precedenti regolamenti, stessi meccanismi di sorveglianza e sanzionatori;
    anche in questo caso (Consiglio europeo del 17 giugno 2010), qualcuno fece inserire una clausola di flessibilità, sulla linea di quanto fatto in passato da Guido Carli: l'allora Presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi, che insistette a lungo affinché nel percorso di avvicinamento agli obiettivi di bilancio si tenesse conto dei cosiddetti «fattori rilevanti», vale a dire delle specificità delle economie dei singoli Paesi, e del ciclo economico;
    in particolare, la proposta di Berlusconi era incentrata sulla previsione di «attribuire importanza maggiore ai livelli, all'andamento e alla sostenibilità globale dell'indebitamento degli Stati» e che, pertanto, nel calcolo del rapporto debito/prodotto interno lordo si comprendesse, al nominatore, oltre al debito pubblico, anche quello di famiglie e imprese;
    prendendo in considerazione l'indebitamento aggregato, infatti, l'Italia è seconda solo alla Germania. E rivedendo in tal senso i parametri del six pack, sarebbe chiamata a uno sforzo di riduzione del debito pubblico ridotto almeno alla metà rispetto alle manovre del 3 per cento annuo del prodotto interno lordo per 20 anni previste dalle regole attuali e che oggi strozzano il nostro Paese;
    è nato così il fiscal compact, approvato dai capi di Stato e di governo a Bruxelles il 2 marzo 2012, e ratificato in Italia il 19 luglio 2012. Nonostante esso rechi «Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell'unione economica e monetaria», neanche il fiscal compact ha il rango di trattato in grado di modificare Maastricht, in quanto non è stato adottato all'unanimità, visto che è mancato il voto dell'Inghilterra. Per questo oggi, a cinque anni di distanza, ci si trova a valutare, come previsto dall'articolo 16 dello stesso, la possibilità di recepire l'accordo internazionale nell'ambito dei Trattati europei,

impegna il Governo

1) ad intervenire in tutte le sedi europee, assumendo ogni opportuna iniziativa volta al ritorno all'impianto originale del trattato di Maastricht e alla sospensione di tutte le modifiche intervenute successivamente, in primis il Fiscal Compact, attraverso strumenti legislativi inadeguati e, per alcuni versi, di dubbia legittimità, che hanno squilibrato il sistema europeo.
(1-01604) «Brunetta».
(18 aprile 2017)

   La Camera,
   premesso che:
    in occasione del Consiglio europeo dell'1-2 marzo 2012 è stato firmato, da tutti gli Stati membri dell'Unione europea ad eccezione di Regno Unito e Repubblica Ceca, il Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell'Unione economica e monetaria, il cosiddetto Fiscal Compact;
    la governance economica europea aveva già iniziato a dotarsi di strumenti volti alla riduzione dei debiti dei Paesi membri in occasione della costituzione economica e monetaria: al fine di rafforzare il percorso d'integrazione monetaria intrapreso nel 1992 con la sottoscrizione del trattato di Maastricht, il quale prevedeva che non fossero superati, nel corso di un normale ciclo economico, i limiti del 3 per cento del prodotto interno lordo, per il deficit (o indebitamento netto) e il 60 per cento per il debito, si proseguì, nel 1997, con la firma del Patto di stabilità e di crescita (PSC), costituito da una risoluzione del Consiglio europeo e da due regolamenti del Consiglio del 7 luglio dello stesso anno che ne precisavano gli aspetti tecnici sul controllo della situazione di bilancio e del coordinamento delle politiche economiche e sull'applicazione della procedura d'intervento in caso di deficit eccessivi;
    con questo patto, a ciascun Stato membro veniva richiesto di conseguire un saldo di bilancio strutturale corrispondente al proprio obiettivo a medio termine (MTO) nazionale, oppure un saldo in rapida convergenza verso di esso (con una correzione annuale del saldo strutturale pari almeno a 0,5 punti percentuali di prodotto interno lordo come benchmark). Per tutti i Paesi che non l'hanno raggiunto, era richiesto un più elevato aggiustamento nelle fasi positive del ciclo economico, così da avere maggiore flessibilità in quelle negative. Per i Paesi lontani dal raggiungimento dell'obiettivo di medio periodo, i regolamenti europei richiedevano invece manovre correttive anche nelle fasi negative del ciclo, benché con uno sforzo più limitato rispetto al benchmark dello 0,5 per cento;
    con la seconda riforma del patto di stabilità e crescita nel 2011, è stato poi inserito un ulteriore requisito per gli Stati membri che non hanno raggiunto l'MTO e che presentino un livello di debito che ecceda il 60 per cento del prodotto interno lordo: assicurare una velocità di convergenza maggiore verso il proprio MTO (maggiore dello 0,5 per cento del prodotto interno lordo come benchmark nelle fasi positive del ciclo);
    il PSC è stato poi integrato al fine di introdurre margini di flessibilità per l'adozione di riforme strutturali e investimenti pubblici per un limite massimo dello 0,75 per cento del prodotto interno lordo di deviazione complessiva che si ottiene cumulando le due clausole concernenti le riforme e gli investimenti. Il Six Pack del 2011 ha previsto un'ulteriore clausola (eventi eccezionali) che permette deviazioni rispetto al percorso di raggiungimento dell'obiettivo di medio termine;
    il trattato sul Fiscal Compact arrivò in seguito alla dichiarazione dei Capi di Stato e di Governo dell'Eurozona, adottata il 9 dicembre 2011, a cui aderirono anche altri nove Stati membri (Bulgaria, Danimarca, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, e Ungheria; Svezia e Repubblica Ceca che poi, però, non firmò il trattato) in cui si prevedeva l'adozione di una serie di obiettivi e misure che rafforzassero la disciplina di bilancio e il coordinamento delle politiche economiche in base alle proposte formulate nel rapporto presentato dal Presidente Van Rompuy in attuazione del mandato Consiglio europeo del 26 ottobre 2011 per il rafforzamento economico dell'Unione;
    il nuovo trattato è stato negoziato e stipulato al di fuori del quadro istituzionale dell'Unione europea e delle procedure previste per la modifica dei Trattati, anche per le diverse divergenze che portarono, come già detto, Regno Unito e Repubblica Ceca a non firmare il documento;
    l'articolo 16 dello stesso trattato, però, stabilisce che entro cinque anni dall'entrata in vigore, sulla base di una valutazione della sua attuazione, verranno fatti i passi necessari, in conformità con le disposizioni dei Trattati dell'Unione europea, allo scopo di incorporare le norme del trattato intergovernativo nella cornice giuridica dell'Unione europea;
    tra i punti principali del trattato, si ricorda, innanzitutto, la cosiddetta «regola aurea», secondo la quale il bilancio dello Stato deve essere in pareggio o in attivo. Il bilancio è considerato in pareggio o in attivo qualora il disavanzo strutturale dello Stato è pari all'obiettivo a medio termine specifico per Paese come stabilito dal Patto di stabilità con un deficit che non ecceda lo 0,5 per cento del prodotto interno lordo. Le parti contraenti devono assicurare la convergenza verso il rispettivo obiettivo a medio termine, il cui arco temporale è proposto dalla Commissione tenendo conto i rischi di sostenibilità del Paese interessato. I progressi nel percorso di convergenza sono valutati, come precisato dall'ultima versione del progetto, sulla base di un esame del bilancio che includa l'analisi delle spese al netto delle misure discrezionali in materia di entrate, in linea con le disposizioni del Patto di stabilità come modificate dal Six Pack;
    l'articolo 3 del trattato sul Fiscal compact stabiliva infatti che gli Stati contraenti potessero temporaneamente deviare dall'obiettivo a medio termine o dal percorso di aggiustamento solo nel caso di circostanze eccezionali, ovvero eventi inusuali che sfuggono al controllo dello Stato interessato e che abbiano rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria della pubblica amministrazione, oppure in periodi di grave recessione, a patto che tale disavanzo non infici la sostenibilità di bilancio a medio termine;
    in base all'articolo 4 dello stesso trattato, si introduceva l'obbligo, per le parti, di ridurre immediatamente il valore del debito pubblico al ritmo di un 1/20 all'anno, qualora il rapporto debito pubblico/prodotto interno lordo superasse la soglia del 60 per cento. Il ritmo di riduzione di 1/20 all'anno del debito pubblico deve inoltre tenere conto di alcuni fattori rilevanti, quali la sostenibilità dei sistemi pensionistici e il livello di indebitamento del settore privato;
    simili regole di austerità, decise in un momento di gravissima crisi economica come quella che si è attraversata a partire dal 2009 e le cui conseguenze si fanno ancora sentire in molti Paesi europei, tra cui il nostro, hanno causato esclusivamente un aggravamento delle condizioni economiche dei Stati che hanno aderito al trattato;
    l'Italia, oggi, a causa di queste regole che hanno portato alle note misure montiane di «lacrime e sangue» di contenimento della spesa pubblica e di tagli indiscriminati, soprattutto alle politiche sociali, si ritrova con un tasso di disoccupazione altissimo (la media del tasso di disoccupazione dei giovani si attesta intorno al 40 per cento e quella del tasso di disoccupazione generale intorno al 12 per cento) e la crescita più lenta d'Europa, a fronte della pressione fiscale più alta d'Europa. Secondo quanto riportato in alcuni studi di settore, negli ultimi 15 anni, il risultato fiscale emerso dalla comparazione con la media europea è costantemente peggiorato: se nel 2000 sui contribuenti italiani gravava una pressione fiscale pari a quella media presente nell'Unione europea, oggi il carico fiscale è maggiore di circa 900 euro. Per le imprese, inoltre, la pressione fiscale in assoluto la più alta d'Europa, con un differenziale di 21 punti sopra la media europea;
    la carenza di lavoro e l'altissima pressione fiscale, congiuntamente alla contrazione delle politiche sociali, hanno generato, nel nostro Paese, una rapida diffusione di situazioni di disagio ed indigenza, con oltre 4 milioni di individui in povertà assoluta e l'11,9 per cento della popolazione in gravi difficoltà economiche;
    a ciò si sono aggiunte le circostanze eccezionali del sisma e dell'enorme flusso di migranti che hanno sicuramente impegnato ulteriori risorse che, seppur svincolate dai «paletti» europei grazie alla richiesta di flessibilità, hanno richiesto uno sforzo importante alla casse del bilancio statale. Mentre, però, per quanto riguarda il sisma, l'evento è effettivamente di natura imprevedibile e non controllabile, e il Governo impegnerà un miliardo di euro all'anno, secondo quanto riportato nel documento di economia e finanza 2017, l'emergenza del flusso migratorio sarebbe, invece, anche determinata dalle politiche adottate dall'attuale Governo e da quello precedente in tema di immigrazione, che anziché adottare misure ed iniziative immediate che bloccassero tali flussi, hanno incentivato le partenze dai Paesi di origine e transito degli immigrati con il miraggio di una accoglienza indiscriminata che costerà, secondo quanto riportato dalle stesse previsioni governative, ben 4,6 miliardi solo nel 2017;
    sono note le resistenze di molti Paesi europei che non vogliono partecipare alla redistribuzione dei migranti e, nonostante l'imposizione, da parte dell'Europa, al soccorso indiscriminato – a volte addirittura favorito dalle operazioni comuni – i costi sono, quasi per intero, sostenuti dal nostro Paese. Lo stesso documento di economia e finanza 2017 riporta che a fronte di una spesa di 4,6 miliardi, i contributi dell'Unione europea sono solo di 91 milioni;
    a latere del Fiscal Compact, si procedette con la modifica dell'articolo 136 del TFUE che ha previsto l'istituzione di un meccanismo permanente di stabilità (MES o ESM, European Stability Mechanism), detto anche Fondo salva-Stati, che costituisce l'altro pilastro del nuovo sistema di governance economica europea. Il MES ha sostituito gli altri strumenti di stabilizzazione finanziaria quali l’European financial stabilisation mechanism (EFSM) e l’European financial stability facility (EFSF), istituiti originariamente fino al 31 dicembre 2012, e poi prorogati fino al 30 giugno 2013;
    la modifica al suddetto articolo 136 è stata approvata con decisione del Consiglio europeo del 24-25 marzo 2011, secondo la procedura semplificata di revisione dei trattati, con cui si è aggiunto il seguente paragrafo: «Gli Stati membri la cui moneta è l'euro possono istituire un meccanismo di stabilità da attivare ove indispensabile per salvaguardare la stabilità della zona euro nel suo insieme. La concessione di qualsiasi assistenza finanziaria necessaria nell'ambito del meccanismo sarà soggetta a una rigorosa condizionalità»;
    una prima versione del trattato istitutivo del MES, sulla base della modifica all'articolo 136 del TFUE, è stata firmata dagli Stati membri della zona euro l'11 luglio 2011; tenuto conto della predisposizione del Fiscal Compact e dell'esigenza di rafforzare il meccanismo alla luce delle tensioni sui mercati del debito sovrano, il 2 febbraio 2012 è stato firmato un nuovo Trattato poi sottoposto a ratifica: in base all'articolo 1 del Trattato, il MES è costituito dalle parti contraenti quale organizzazione finanziaria internazionale con l'obiettivo istituzionale di «mobilizzare risorse finanziarie e fornire un sostegno alla stabilità». A questo scopo è conferito al MES il potere di raccogliere fondi con l'emissione di strumenti finanziari o la conclusione di intese o accordi finanziari o di altro tipo con i propri membri, istituzioni finanziarie o terzi;
    il capitale totale sottoscritto fu pari a 700 miliardi di euro, di cui 80 miliardi di capitale versato dagli Stati membri della zona euro e una combinazione di capitale richiamabile impegnato e di garanzie degli Stati membri della zona euro per un importo totale di 620 miliardi di euro;
    la ripartizione delle quote di ciascuno Stato membro al capitale del MES fu basata, analogamente all'EFSF, sulla quota di partecipazione al capitale della BCE: il nostro Paese, avendo una quota di capitale BCE pari al 12,49 per cento, partecipò al 17,86 per cento, per un totale di 125,395 miliardi di euro, pari all'8 per cento del prodotto interno lordo; in base al DEF 2012, l'Italia, tra il 2012 e il 2014 avrebbe versato nel capitale del MES 14 miliardi di euro annui. Ugualmente, nel triennio 2015-2019, il contributo resterebbe di 14 miliardi di euro all'anno;
    il MES, simile nel suo funzionamento al Fondo monetario internazionale, è attivo da luglio 2012 ed ha una capacità effettiva di prestito pari a 500 miliardi di euro. Uno Stato membro del MES può rivolgere una richiesta di assistenza finanziaria al presidente del consiglio dei governatori che assegna alla Commissione europea, di concerto con la Bce, il compito di valutare: l'esistenza di un rischio per la stabilità finanziaria della zona euro nel suo complesso o dei suoi Stati membri, a meno che la BCE non abbia già presentato un'analisi al riguardo; la sostenibilità del debito pubblico (valutazione da effettuarsi insieme al Fondo monetario internazionale, se opportuno e possibile); le esigenze finanziarie effettive o potenziali del membro del MES interessato;
    considerata la partecipazione dell'Italia al MES e considerata la situazione patrimoniale di molte banche italiane, tra cui 114 sarebbero a rischio a causa delle sofferenze presenti nei propri bilanci, non si comprende perché il Governo abbia proceduto alla ricapitalizzazione di Monte dei Paschi di Siena con i fondi dei soli contribuenti italiani o abbia dovuto chiedere l'autorizzazione alle Camere, a dicembre dello scorso anno, per contrarre maggior debito per 20 miliardi di euro da usare «a scopo precauzionale» per intervenire nelle banche e salvare i risparmiatori;
    l'applicazione meccanica dei vincoli esterni, con obiettivi di bilancio irrealizzabili, ha palesemente fallito. La politica di austerity, che ne è la diretta conseguenza, ha portato miseria in alcuni Paesi come la Grecia, ha compromesso, come già detto, prospettive di crescita e piena occupazione di altri, fra cui l'Italia, ma soprattutto ha indebolito l'Unione europea, la sua capacità di integrare e far convergere i Paesi aderenti, portandola al concreto rischio di dissoluzione;
    inoltre, si è gravemente intaccato il sistema dello Stato sociale che, smantellato, da un lato, dalla crisi finanziaria e, dall'altro, dallo svuotamento di sovranità statale ad opera dell'integrazione europea, ha lasciato un pericoloso vuoto che non è stato colmato da una adeguata struttura europea;
    le politiche keynesiane che hanno permesso la crescita e l'accrescimento del benessere degli Stati del Novecento dimostrano la fondatezza della teoria secondo la quale, in caso di congiuntura economica sfavorevole, gli Stati debbano mettere in campo delle politiche economiche espansive, favorendo gli sgravi fiscali e il sostegno ai contribuenti in difficoltà, attraverso un vasto programma di politiche sociali. Proprio quelle politiche che l'Europa ha contribuito a disfare, imponendo, come contropartita, misure di austerity che sono state criticate, non soltanto da economisti di fama mondiale, ma anche dallo stesso Fondo monetario internazionale;
    quindi, in presenza di crisi sistemiche, sembra evidente che solo l'uso della spesa pubblica, secondo una linea di politica espansiva, può limitare gli effetti di contrazione della domanda privata, poiché spetta allo Stato intervenire in momenti di recessione economica per non rischiare il crack inoltre, è necessario che le politiche economiche concentrino più risorse nel settore dell'economia reale, specie nello sviluppo dell'industria e nel sostegno alla realtà manifatturiera tipica del nostro tessuto economico, piuttosto che nel sistema bancario che si ritrova ora in condizioni patrimoniali disastrose, con grande rischio di contagio, anche grazie alla gestione dissennata da parte dei vertici orientata solo al profitto dei grandi speculatori,

impegna il Governo:

1) a farsi promotore, per quanto di propria competenza, in tutte le opportune sedi europee, di una revisione totale del trattato del Fiscal compact, in occasione della scadenza dei cinque anni al termine dei quali si dovrà negoziare l'inserimento di questo accordo all'interno del quadro costituzionale europeo, nonché di una revisione totale della normativa europea riguardante la governance economica e monetaria al fine di:
   a) rivedere tutti i parametri stabiliti dal patto di stabilità e crescita e dal Fiscal compact, congiuntamente ai vincoli sulla finanza pubblica stabiliti dal Trattato di Maastricht, in modo da tenere maggiormente conto dello stato delle diverse economie europee e del loro impatto sociale e sulla crescita dei vari Paesi, in assenza, di una politica fiscale convergente fra i diversi membri dell'Unione;
   b) rivedere, in particolare modo, i parametri del 3 per cento, del rapporto deficit/prodotto interno lordo, e del 60 per cento per il debito pubblico e rinegoziare gli obiettivi di medio termine;
   c) prevedere, in caso di recessione economica grave, un'interpretazione maggiormente estensiva delle cosiddette «circostanze eccezionali» che permettono uno scostamento dagli obiettivi di medio termine, eliminando l'obbligo di contenere il disavanzo per non inficiare la sostenibilità di bilancio di medio termine, al fine di permettere, agli Stati colpiti, di attuare le necessarie politiche anticicliche per contenere le conseguenze della crisi e aiutare più velocemente la ripresa;
   d) prevedere dei meccanismi di flessibilità più ampi per i Paesi che, per posizione geografica, sono maggiormente coinvolti nell'emergenza del fenomeno migratorio e si impegnano nel contrasto effettivo all'immigrazione irregolare anche mediante il presidio dei confini terrestri, marittimi ed aerei per impedire l'ingresso di immigrati irregolari ed il rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi privi dei requisiti per il soggiorno;
   e) prevedere un meccanismo automatico di intervento del fondo «Salva-Stati» quando la situazione patrimoniale dei maggiori istituti di credito del Paese necessiti di intervento statale tramite risorse pubbliche nazionali, dal caso della ricapitalizzazione fino alla sottoposizione a risoluzione dell'istituto, con particolare riguardo alla protezione dei risparmiatori.
(1-01609)
«Guidesi, Simonetti, Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Busin, Caparini, Castiello, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Invernizzi, Molteni, Pagano, Picchi, Gianluca Pini, Rondini, Saltamartini».
(20 aprile 2017)