TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 634 di Mercoledì 8 giugno 2016

 
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PROPOSTA DI LEGGE DI CUI SI PROPONE L'ASSEGNAZIONE A COMMISSIONE IN SEDE LEGISLATIVA

alla IX Commissione (Trasporti):
TULLO ed altri: «Modifiche al codice della navigazione in materia di responsabilità dei piloti dei porti». (2721)
(La Commissione ha elaborato un nuovo testo).

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE VOLTE A FAVORIRE L'ACCESSO AGLI STUDI UNIVERSITARI, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AD UN'EQUA RIPARTIZIONE DELLE RISORSE SUL TERRITORIO NAZIONALE

   La Camera,
   premesso che:
    l'Italia nel 2014 è stato lo Stato membro dell'Unione europea con la minore percentuale di giovani laureati: con il 23,9 per cento si colloca, purtroppo, all'ultimo posto fra i 28 Stati membri, paragonato al 49,9 per cento della Svezia, al 47,7 per cento del Regno unito, ma anche al 31,3 per cento del Portogallo e al 25 per cento della Romania;
    sono dati inquietanti che fanno riflettere profondamente sullo stato di salute delle nostre università italiane e sulle scelte fatte negli ultimi vent'anni con la consapevolezza della necessità, non più procrastinabile, di analisi più approfondite sull'argomento ma anche di un complessivo ripensamento dell'indirizzo di governo che riguardi l'istruzione superiore che significa produzione culturale del Paese, formazione delle classi dirigenti e, in particolare, di quel capitale umano di qualità che è il fattore produttivo decisivo nell'economia di un Paese, specialmente in un paese così diverso al suo interno come l'Italia;
    l'Europa si è data l'obiettivo, nel 2020, di avere il 40 per cento di giovani laureati. L'obiettivo italiano alla stessa data è pari al 26-27 per cento, che continuerebbe a collocarla all'ultimo posto, rischiando di essere superata anche dalla Turchia. La regione con la percentuale maggiore di laureati, il Lazio (31,6 per cento), si colloca su livelli pari al Portogallo. Quattro regioni italiane, tutte del Mezzogiorno, sono fra le ultime dieci nella graduatoria delle 272 europee; la Sardegna (17,4 per cento) è penultima: la sua percentuale di giovani laureati è superiore solo alla regione ceca dello Severozápad;
    il nostro Paese nel giro di pochi anni, ha vissuto un disinvestimento molto forte nella sua università, in totale controtendenza rispetto a tutti i Paesi avanzati che continuano invece ad accrescere la propria formazione superiore. Mentre il finanziamento pubblico delle nostre università italiane si contraeva del 22 per cento, in Germania cresceva del 23 per cento; persino i Paesi mediterranei più colpiti dalla crisi hanno ridotto di meno il proprio investimento sull'istruzione superiore;
    i fondi del diritto allo studio universitario sono distribuiti alle regioni secondo criteri che generano gravi sperequazioni a danno delle regioni del Sud;
    per effetto di tale distribuzione il 75 per cento degli studenti che, secondo la Costituzione italiana, avrebbero diritto a beneficiare di borse di studio e non ne beneficiano sono iscritti nelle università del Sud;
    il rapporto della Fondazione Res, recentemente presentato, fotografa la condizione degli atenei italiani, da Nord a Sud, come un costante, inesorabile declino a cominciare dalla caduta delle immatricolazioni: dal 2003-04 si riducono di oltre 66.000 unità, fino a meno di 260.000 nel 2014-15 (–20,4 per cento). Fra tutti i Paesi avanzati solo la Svezia e l'Ungheria sperimentano un decremento più forte. Al contrario, gli immatricolati crescono sensibilmente nella media dei Paesi dell'Ocse e a ritmi particolarmente sostenuti, oltre che negli emergenti, in Germania e Regno unito. Il calo delle immatricolazioni, sempre dal 2003-04, è poi differenziato per territori: è particolarmente intenso nelle isole (–30,2 per cento), nel Sud continentale (–25,5 per cento) e nel Centro (–23,7 per cento, specie nel Lazio); più contenuto al nord (–11 per cento);
    è grave il fenomeno migratorio di diplomati che, in numero di 24 mila, ogni anno abbandonano le regioni del Sud per studiare in università del Centro e del Nord e questo aggrava la già depressa situazione del Meridione;
    la mobilità studentesca è un fenomeno estremamente positivo, perché rappresenta un'esperienza di vita indipendente per i giovani, consente la scelta del corso di studio più adatto e una competizione sana tra atenei, ma è una mobilità a senso unico, da Sud verso Nord. Nel 2014-15 oltre 55.000 studenti si sono immatricolati in una regione diversa da quella di residenza;
    al Nord questo fenomeno riguarda il 17,8 per cento degli immatricolati, che rimangono quasi tutti (5/6) all'interno della circoscrizione. Al Centro è meno rilevante (14,5 per cento degli immatricolati), specie per gli studenti toscani e laziali, ma orientata di più verso l'esterno: metà di chi cambia regione va al nord, un terzo rimane al Centro, un sesto va al Sud;
    al Sud la mobilità è molto maggiore: riguarda il 28,9 per cento degli immatricolati, 4 su dieci si spostano al Nord e altri 4 al Centro. È la mobilità dei circa 29.000 immatricolati (in un anno) meridionali il fenomeno più importante, con una mobilità interna al Mezzogiorno assai contenuta e un flusso in uscita dalla circoscrizione a cui non corrisponde un flusso in entrata;
    la mobilità solo in direzione d'uscita è negativa perché genera da una parte una perdita per le aree di origine in termini di capitale umano, dall'altra un trasferimento di reddito a favore delle regioni di entrata per il mantenimento dei figli fuori sede sostenuto dalle famiglie. La scelta del trasferimento è riconducibile a più fattori e, in particolare, a una più elevata capacità attrattiva di singoli atenei centro-settentrionali, nonché alle maggiori prospettive occupazionali nei mercati del lavoro del nord una volta conseguita la laurea;
    Molise (49,5 per cento), Trentino Alto Adige (47,8), Abruzzo (41,3) sono le regioni più piccole che nell'anno accademico 2014-15, hanno mostrato indici di attrattività più elevati spiegabili soprattutto con la qualità della vita urbana (Trento) o con la posizione geografica, come nel caso di Abruzzo e Molise. Le regioni medie e medio-grandi maggiormente attrattive sono tutte localizzate al nord: spiccano in particolare l'Emilia Romagna e la Lombardia. Al contrario risulta estremamente ridotta l'attrattività delle università meridionali, tutte largamente al di sotto della metà della media nazionale, ad eccezione della Basilicata che sfiora il 20 per cento, grazie alla specificità di alcuni indirizzi di studio;
    altro punto di grande criticità è quello dei docenti universitari che fra il 2008 e il 2015 si sono ridotti del 17,2 per cento; il calo è stato notevolmente più intenso di quello registrato in ogni altro comparto del pubblico impiego, ben cinque volte maggiore di quanto avvenuto nella scuola. La diminuzione del personale docente di ruolo è stata dell'11,3 per cento al nord, ma del 18,3 per cento nel Mezzogiorno e del 21,8 per cento nelle università del Centro a causa dei blocchi del ricambio, in presenza dei pensionamenti. Ad esempio nel triennio 2012-14 il turn over (assunzioni in percentuale dei pensionamenti) è stato pari al 27,3 per cento. Il blocco del turn over negli atenei ha comportato un sensibile invecchiamento del personale docente, attualmente i dati disponibili ci dicono che un terzo dei professori ordinari ha più di 65 anni;
    la spesa totale (pubblica e privata) per l'istruzione universitaria, riportata dal rapporto annuale Education at a Glance dell'Ocse (2014) e misurata rispetto al Pil (2011), è in Italia sui livelli più bassi fra tutti i Paesi dell'Ocse: gli unici Paesi con livelli comparabili sono Ungheria e Brasile; per tutti gli altri, europei ed extraeuropei, il livello è significativamente superiore. Nel 2011 il totale della spesa (pubblica e privata) era in Italia dell'1 per cento del Pil, contro una media ocse dell'1,6 per cento e dei Paesi europei membri dell'Ocse pari all'1,4 per cento: i grandi Paesi europei si collocano fra l'1,2 per cento e l'1,5 per cento; la stessa Turchia è all'1,3 per cento; gli scandinavi su livelli superiori, gli Stati uniti sono al 2,7 per cento;
     il fondo di finanziamento ordinario delle università (Ffo), nasce nel 1993, come veicolo di finanziamento «omnibus» all'interno del quale fare ricadere sia gli interventi per il funzionamento sia allocazioni «premiali» ed è stato proprio questo l'errore di fondo, sarebbe stato meglio fin da allora prevedere due diversi canali di finanziamento: uno destinato, appunto, alle spese ordinarie e un altro, con funzione premiale e incentivante. Fino al 2008 la dimensione del fondo cresce, anche se aumentano le quote relative degli atenei del Nord e del Sud, rispetto a quelli del Centro e delle isole. Con i provvedimenti presi a partire dal 2008, con la cosiddetta Riforma Gelmini (legge n. 240 del 2010), l'investimento destinato alle università si riduce drasticamente. Il fondo di finanziamento ordinario diminuisce ai livelli di metà anni novanta. Sul totale delle entrate degli atenei diminuisce sensibilmente il peso delle risorse attribuite dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca (e in particolare del fondo di finanziamento ordinario), a vantaggio della contribuzione studentesca e di finanziamenti di soggetti terzi, specie privati. Questo cambiamento produce un significativo impatto territoriale, perché colpisce in particolare le università collocate nelle aree meno ricche del Paese;
    l'analisi di tutti questi dati porta a delle conclusioni chiare, risulta necessario ed urgente ripensare questi meccanismi di finanziamento, basandosi su una distinzione netta fra fondi destinati al funzionamento del sistema universitario e fondi premiali destinati alla ricerca, ripristinando una sufficiente quota di finanziamento per tutti gli atenei, a copertura delle funzioni di didattica e di ricerca di base, e con l'allocazione di risorse aggiuntive, finalizzate alle grandi priorità di ricerca del paese, sulla base di criteri di valutazione della ricerca, abbandonando formule e algoritmi onnicomprensivi che hanno dimostrato negli ultimi anni di non essere adeguati alla complessità della realtà,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative per incrementare il fondo del diritto allo studio;
   ad assumere iniziative per modificare i criteri di distribuzione del fondo per il diritto allo studio applicando la regola delle quote capitarie e suddividendo quindi il fondo tra le regioni esclusivamente in base al numero di idonei ai benefici;
   ad assumere iniziative per incrementare sensibilmente il fondo di finanziamento ordinario delle università per avvicinarlo a quello degli altri Paesi europei;
   a promuovere una radicale revisione dei meccanismi di finanziamento per le attività di ricerca;
   ad assumere iniziative per immettere nuovi docenti e ricercatori a copertura dei previsti pensionamenti;
   ad adottare iniziative per applicare una deroga temporanea di almeno 5 anni per le università del Sud, in relazione alle norme restrittive inerenti al rapporto tra numero di docenti e attivazione dei corsi di studio, consentendo di attivare corsi di studio, indipendentemente dal numero dei docenti, per dare risposte alle esigenze ogni anno manifestate dai diplomati.
(1-01192) (Nuova formulazione) «Pisicchio, Palese».
(9 marzo 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    gli articoli 33 e 34 della Costituzione pongono i princìpi fondamentali relativi all'istruzione con riferimento, rispettivamente, all'organizzazione scolastica e universitaria e ai diritti di accedervi e di usufruire delle prestazioni che essa è chiamata a fornire. Organizzazione e diritti sono aspetti speculari della stessa materia, l'una e gli altri implicandosi e condizionandosi reciprocamente. Non c’è organizzazione che, direttamente o almeno indirettamente, non sia finalizzata a diritti, così come non c’è diritto a prestazione che non condizioni l'organizzazione;
    l'articolo 33, dopo aver stabilito, al primo comma, che «l'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento» e, al secondo comma, che la «Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi», prevede, tra gli altri per le università, «il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato». «Secondo la Costituzione, l'ordinamento della pubblica istruzione è dunque unitario ma l'unità è assicurata, per il sistema scolastico in genere, da “norme generali” dettate dalla Repubblica; in specie, per il sistema universitario, in quanto costituito da “ordinamenti autonomi”, da “limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”»;
    gli «ordinamenti autonomi» delle università, cui la legge, secondo l'articolo 33 della Costituzione, deve fare da cornice, non possono considerarsi soltanto sotto l'aspetto organizzativo interno, manifestantesi in amministrazione e in normazione statutaria e regolamentare. Per l'anzidetto rapporto di necessaria reciproca implicazione, l'organizzazione deve considerarsi anche sul suo lato funzionale esterno, coinvolgente i diritti e incidente su di essi. La necessità di leggi dello Stato, quali limiti dell'autonomia ordinamentale universitaria, vale pertanto sia per l'aspetto organizzativo, sia, a maggior ragione, per l'aspetto funzionale che coinvolge i diritti di accesso alle prestazioni;
    in questo modo, all'ultimo comma dell'articolo 33 viene a conferirsi una funzione, per così dire, di cerniera, attribuendosi alla responsabilità del legislatore statale la predisposizione di limiti legislativi all'autonomia universitaria relativi tanto all'organizzazione in senso stretto, quanto al diritto di accedere all'istruzione universitaria, nell'ambito del principio secondo il quale «la scuola è aperta a tutti» (articolo 34, primo comma) e per la garanzia del diritto riconosciuto ai «capaci e meritevoli, anche, se privi di mezzi» «di raggiungere i gradi più alti degli studi» (articolo 34, terzo comma);
    la conclusione cui così si perviene attraverso la specifica interpretazione degli articoli 33 e 34 della Costituzione è, del resto, confermata e avvalorata dai «principi generali informatori dell'ordinamento democratico, secondo i quali ogni specie di limite imposto ai diritti dei cittadini abbisogna del consenso dell'organo che trae da costoro la propria diretta investitura» e dall'esigenza che «la valutazione relativa alla convenienza dell'imposizione di uno o di altro limite sia effettuata avendo presente il quadro complessivo degli interventi statali nell'economia inserendolo armonicamente in esso, e pertanto debba competere al Parlamento, quale organo da cui emana l'indirizzo politico generale dello Stato» (si confronti la sentenza n. 383 del 1998 della Corte costituzionale);
    non può negarsi che il diritto costituzionale allo studio, come ricostruito dalla riportata giurisprudenza costituzionale, imponendo scelte pubbliche d'insieme, inerenti alla determinazione delle risorse necessarie per il funzionamento delle istituzioni universitarie, per la garanzia del diritto alla formazione culturale (sancita dall'articolo 2 della Costituzione) e alle scelte professionali di ciascuno (articolo 4) risulti, soprattutto negli ultimi anni, drammaticamente compromesso;
    il sistema di finanziamento pubblico del diritto allo studio universitario avviene attraverso tre voci ovvero:
     a) il fondo integrativo statale;
     b) il gettito derivante dalla tassa regionale per il diritto allo studio;
     c) le risorse proprie delle regioni, pari almeno al 40 per cento dell'assegnazione del fondo integrativo statale;
    negli ultimi anni il diritto allo studio universitario è stato umiliato a causa del sempre più frequente fenomeno dello studente idoneo a percepire la borsa di studio ma non beneficiario a causa delle insufficienti risorse stanziate dallo Stato;
    nonostante le nuove regole sul diritto allo studio, conseguenti alla «riforma Gelmini» dell'università, abbia causato un numero di studenti idonei a percepire la borsa di studio inferiore rispetto al passato, le regioni non riescono, comunque, ad assegnare le borse a tutti i richiedenti che ne hanno diritto;
    l'Italia si colloca negli ultimi posti in Europa per investimenti sul diritto allo studio, tant’è che in diversi Stati dell'Unione europea l'iscrizione all'università è gratuita e la borsa di studio garantisce tutti gli studenti privi di mezzi;
    in Italia, a beneficiare di borse di studio è circa il 7 per cento degli studenti, per una spesa complessiva pubblica 258 milioni di euro, contro il 25,6 per cento della Francia (1,6 miliardi di euro), il 30 per cento della Germania (2 miliardi di euro) e il 18 per cento della Spagna (943 milioni di euro);
    in particolare, l'importo della tassa per il diritto allo studio è stabilito dalle regioni e dalle province autonome e può essere articolato in 3 fasce. La misura minima della fascia più bassa della tassa è fissata in 120 euro e si applica a coloro che presentano una condizione economica non superiore al livello minimo dell'indicatore di situazione economica equivalente corrispondente ai requisiti di eleggibilità per l'accesso ai livelli essenziali delle prestazioni (lep) del diritto allo studio. I restanti valori della tassa minima sono fissati in 140 euro e 160 euro per coloro che presentano un indicatore di situazione economica equivalente rispettivamente superiore al livello minimo e al doppio del livello minimo previsto dai requisiti di eleggibilità per l'accesso ai livelli essenziali delle prestazioni del diritto allo studio. Il livello massimo della tassa per il diritto allo studio è fissato in 200 euro;
    l'attuale normativa prevede che l'impegno delle regioni in termini economici maggiori rispetto a quanto previsto dall'articolo 18, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 29 marzo 2012, n. 68, sia valutato attraverso l'assegnazione di specifici incentivi nel riparto del fondo integrativo statale di cui al comma 1, lettera a), dello stesso decreto legislativo, e del fondo per il finanziamento ordinario alle università statali che hanno sede nel rispettivo contesto territoriale;
    i criteri per il riparto del fondo integrativo per la concessione di prestiti d'onore e di borse di studio sono stabiliti dall'articolo 16 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 9 aprile 2001;
    analogo discorso, circa i limiti che il legislatore statale deve porre all'autonomia degli atenei al fine di garantire la piena attuazione della Costituzione, deve riferirsi alla determinazione delle tasse d'iscrizione all'università. Attualmente anche la contribuzione richiesta agli studenti rappresenta, infatti, un ostacolo alla formazione;
    il decreto del Presidente della Repubblica n. 306 del 1997 regolamenta la disciplina in materia di tasse di iscrizione all'università a carico degli studenti. Tale regolamento prevede che ogni università abbia piena autonomia nella determinazione dell'entità e delle regole della tassazione studentesca rispettando criteri di equità, solidarietà e progressività, tenendo in considerazione la condizione economica dello studente;
    oltre ai contributi universitari, ogni studente è tenuto a versare all'università anche la tassa di iscrizione, fissata inizialmente in trecentomila lire ed aggiornata annualmente con decreto del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. L'importo della tassa di iscrizione è identica per tutti gli atenei italiani;
    la contribuzione totale versata dallo studente universitario è la risultante della somma tra la tassa di iscrizione definita annualmente dal Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca e i contributi universitari decisi autonomamente da ogni singola università;
    come contrappeso all'autonomia delle università, per evitare che queste possano stabilire importi contributivi troppo alti, il regolamento stabilisce che la somma delle contribuzioni versate da ogni singolo studente ogni anno alla propria università non possa eccedere il 20 per cento del finanziamento ordinario dello Stato all'ateneo;
    il citato regolamento stabilisce alcuni principi, seguendo criteri più specifici, che prevedono anche la garanzia dell'accesso ai capaci e ai meritevoli privi di mezzi e la riduzione del tasso di abbandono degli studi;
    tale disciplina in materia di contributi universitari è rimasta inalterata fino alle modifiche apportate dalla normativa sulla spending review (decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135), che ha disposto (con l'articolo 7, comma 42) l'introduzione dei commi 1-bis, 1-ter, 1-quater e 1-quinquies dell'articolo 5 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 306 del 1997;
    le modifiche apportate dal citato decreto-legge n. 95 del 2012 entrano nel merito dei limiti della contribuzione studentesca modificando i criteri per individuare la tassazione massima a carico dello studente. In sostanza, viene modificato il calcolo del limite del 20 per cento dell'ammontare della contribuzione studentesca totale (la somma di tutte le tasse pagate dagli studenti in un singolo ateneo) rispetto al finanziamento ordinario assegnato dallo Stato alla singola università;
    con le novelle introdotte dal decreto-legge n. 95 del 2012, ai fini del calcolo della contribuzione studentesca totale, è stata scorporata la contribuzione degli studenti fuori corso. Come conseguenza non sono più considerate, ai fini del calcolo della contribuzione totale versata dagli studenti alle università, le somme pagate dagli studenti fuori corso che, in media, rappresentano il 40 per cento degli iscritti;
    tale novità comporta, di fatto, un aumento del limite massimo di contribuzione sia per gli studenti in corso che per quelli fuori corso; inoltre, è eliminato qualsiasi limite alla determinazione dell'importo della contribuzione studentesca per gli studenti fuori corso;
    il citato decreto-legge n. 95 del 2012 prevede, inoltre, entro tre anni dalla entrata in vigore, un aumento significativo della tassazione per tutti gli studenti;
    il fondo per il finanziamento ordinario delle università (ffo) è relativo alla quota a carico del bilancio statale delle spese per il funzionamento e le attività istituzionali delle università, comprese le spese per il personale docente, ricercatore e non docente, per l'ordinaria manutenzione delle strutture universitarie e per la ricerca scientifica e della spesa per le attività sportive universitarie;
    negli ultimi anni il fondo per il finanziamento ordinario è sensibilmente diminuito; per questa ragione, le università che si sono trovate a superare il limite del 20 per cento sono numerose, ben due delle università statali su tre nell'anno accademico 2011/2012;
    alcune università (Insubria, Milano statale, Milano Bicocca, Napoli Partenope, Urbino, Venezia Ca’ Foscari, Venezia Iuav) hanno superato anche il 30 per cento e una (Bergamo) addirittura il 40 per cento;
    di fatto le modifiche apportate dal decreto-legge n. 95 del 2012 al decreto del Presidente della Repubblica 25 luglio 1997, n. 306, scaricano sugli studenti i tagli apportati al fondo per il finanziamento ordinario nel corso degli anni dai vari Governi alla guida del nostro Paese;
    gli atenei che, fino al 2013, non hanno rispettato il tetto massimo degli introiti derivanti da tasse e contribuzione studentesche previste dal decreto del Presidente della Repubblica 25 luglio 1997, n. 306, sono stati avvantaggiati dal reclutamento e dalle quote premiali, nonostante fossero in difetto fino all'entrata in vigore delle disposizioni normative introdotte dal decreto-legge n. 95 del 2012;
    dal 2007 alcune associazioni studentesche universitarie hanno avviato una serie di ricorsi amministrativi contro quegli atenei che superavano il limite del 20 per cento stabilito dall'articolo 5, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 25 luglio 1997, n. 306;
    dopo l'accoglimento, nel marzo del 2011, del primo ricorso sulla contribuzione studentesca presentato nel 2007 (registro generale 599) al tribunale amministrativo regionale dell'Abruzzo contro l'Università di Chieti Pescara, si sono moltiplicati i ricorsi in vari atenei italiani;
    di fatto, le disposizioni normative introdotte dal decreto-legge n. 95 del 2012 hanno rappresentato una sanatoria per le università che fino al 2012 non rispettavano quanto stabilito dal decreto del Presidente della Repubblica 25 luglio 1997, n. 306;
    si ritiene necessario, in considerazione di quanto esposto, prevedere l'esonero dal pagamento (della contribuzione studentesca per gli studenti meno abbienti introducendo una no tax area per indicatori della situazione economica equivalente al di sotto dei 20 mila euro. Secondo i dati forniti dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca l'ammontare del fondo di finanziamento ordinario 2017 si attesta intorno ai 7.003 milioni di euro, mentre il gettito complessivo della contribuzione studentesca intorno ai 1.497 milioni di euro;
    al fine di non ridurre le già esigue risorse destinate al sistema universitario, risulta doveroso rimborsare alle università il mancato gettito derivante dall'introduzione della no tax area attraverso un incremento dedicato del fondo di finanziamento ordinario,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative volte a modificare la disciplina attualmente vigente sulla contribuzione studentesca alle università statali stabilendo un'area di reddito entro cui lo studente sia esente dal pagamento della contribuzione (fascia no-tax) per tutti gli studenti con Isee al di sotto dei 20.000 euro;
   a dare pronta attuazione a quanto previsto dall'articolo 20 del decreto legislativo 29 marzo 2012, n. 68, attivando l'osservatorio nazionale per il diritto allo studio universitario e, in particolare, creando un sistema informativo, correlato a quelli delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano, per l'attuazione del diritto allo studio, anche attraverso una banca dati dei beneficiari delle borse di studio;
   ad assumere iniziative normative, a garanzia dell'effettività del diritto allo studio sancito dalla Costituzione, volte ad incrementare le risorse destinate al diritto allo studio universitario con l'obiettivo di far sì che gli strumenti e i servizi per il conseguimento del pieno successo formativo nei corsi di istruzione superiore siano a disposizione di una platea di studenti che sia almeno corrispondente ad un quarto degli iscritti, in modo da allinearsi agli standard della Germania e della Francia;
   al fine di implementare l'utilizzo delle nuove tecnologie nonché di agevolare lo studio universitario a distanza, ad assumere iniziative per incrementare le risorse destinate alla didattica universitaria digitale;
   al fine di garantire il diritto alla prosecuzione degli studi e alla soddisfazione professionale di ciascuno, ad assumere iniziative per rimodulare l'attuale sistema di accesso per i corsi di laurea a numero programmato.
(1-01268) «Vacca, D'Uva, Brescia, Simone Valente, Luigi Gallo, Marzana, Di Benedetto, D'Incà».
(13 maggio 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    le norme in materia di diritto allo studio universitario trovano il loro fondamento nella Costituzione che all'articolo 3, comma 2, affida alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese e, all'articolo 34, prevede, tra l'altro, che i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi e stabilisce che la Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso;
    la Costituzione stabilisce, all'articolo 117, comma 2, lettera m), che è competenza dello Stato stabilire i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale;
    alle regioni spetta in via esclusiva la potestà legislativa in materia di diritto allo studio;
    la legge delega n. 240 del 2010, cosiddetta riforma Gelmini, in attuazione delle norme costituzionali è intervenuta in materia prevedendo la revisione della normativa in materia di diritto allo studio e la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni che devono essere erogate dalle università italiane;
    tra gli obiettivi principali perseguiti dalla legge n. 240 del 2010 ci sono stati quelli di rafforzare le opportunità di accesso all'istruzione superiore per gli studenti provenienti da situazioni socioeconomiche sfavorite e di promuovere il merito tra gli studenti;
    in attuazione della delega è stato approvato il decreto legislativo n. 68 del 2012, che prevede la partecipazione di soggetti diversi, ciascuno nell'ambito delle proprie competenza, ad un sistema integrato di strumenti e servizi al fine di garantire il diritto allo studio;
    il finanziamento per il diritto allo studio universitario riesce a coprire appena il 73 per cento circa delle richieste e questa percentuale registra una tendenza a diminuire: dal 74,25 per cento del 2013/14 si è passati al 73,89 per cento del 2014/15;
    questi dati rappresentano la situazione a livello nazionale, ma la percentuale di copertura delle richieste non risulta omogenea tra le varie regioni e la distribuzione del fondo per il diritto allo studio evidenzia forti sperequazioni al livello regionale;
    il meccanismo di ripartizione dei fondi statali alle regioni è basata sulla loro ricchezza per cui quelle che riescono ad assegnare un maggior numero di borse di studio perché più ricche ottengono paradossalmente maggiori fondi dallo Stato; tale distribuzione attiva un circolo vizioso per cui alle regioni del Sud vanno meno risorse rispetto a quelle del Nord;
    un alto grado di istruzione rappresenta un aspetto fondamentale per il progresso sia economico sia sociale di un Paese, tanto più in un'economia globalizzata e basata sulla conoscenza, nella quale è necessario disporre di una forza lavoro qualificata per poter competere in termini di produttività, qualità e innovazione; livelli bassi di istruzione terziaria, infatti, agiscono da ostacolo per la competitività e possono compromettere la capacità del nostro Paese di generare «crescita intelligente»;
    ampliare l'accesso all'istruzione superiore aumentando la partecipazione ai corsi di istruzione terziaria in particolare del membri dei gruppi svantaggiati, appare una scelta necessaria anche in considerazione degli obiettivi che l'Unione europea ha indicato ai propri stati membri. La strategia Europa 2020 è stata adottata per innovare Lisbona 2001, per rispondere alle nuove priorità che la crisi economica ha posto e che hanno portato l'Unione europea a riconoscere l'urgenza di promuovere una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva caratterizzata da alti livelli di occupazione, produttività e coesione sociale. La Strategia Europa 2020 si è posta cinque obiettivi, tra questi investire in istruzione, innovazione e ricerca, per sviluppare una economia basata sulla conoscenza e sulla innovazione, indicando tra i traguardi prioritari da raggiungere entro il 2020 quello di portare almeno al 40 per cento la percentuale di popolazione in possesso di un diploma universitario o di una qualifica simile in età 30-34 anni;
    conoscenza, ricerca, sviluppo appaiono quindi quali tasselli fondamentali di un quadro strutturale generale volto a rispondere alle carenze strutturali che l'economia europea ha mostrato ma per poter raggiungere questi risultati l'Europa richiede ai Paesi membri di adottare a livello nazionale provvedimenti che si adattino alla specifica situazione locale; attraverso la crescita del livello generale di istruzione;
    la quota di popolazione con un'istruzione terziaria nella Unione europea dei 28 è in costante aumento ma tra i territori in cui si registra un andamento di segno inverso ci sono quattro regioni che si trovano nell'Italia meridionale: Basilicata, Campania, Sardegna e Sicilia;
    secondo il rapporto Education at a glance 2015 in Italia solo il 34 per cento dei giovani, a fronte di una media Ocse del 50 per cento, consegue un diploma d'istruzione terziaria,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative volte a garantire pari opportunità di accesso all'alta formazione universitaria, all'alta formazione artistica e musicale, agli istituti tecnici superiori, attraverso una effettiva implementazione del diritto allo studio, che valorizzi i talenti delle studentesse e degli studenti in linea con gli obiettivi della Strategia UE 2020 e i livelli europei ed internazionali;
   ad assumere le iniziative necessarie a portare l'investimento della quota di prodotto interno lordo nel comparto universitario al livello degli altri Paesi dell'Ocse, dell'Unione europea e del Consiglio d'Europa, potenziando le sinergie tra atenei, istituti per l'alta formazione ed istituti tecnici superiori, e tessuto produttivo, anche attraverso l'attuazione di un sistema duale sul modello europeo.
(1-01283) «Centemero, Occhiuto».
(23 maggio 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    la Costituzione all'articolo 3, secondo comma, sancisce che: «la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese»; questo è il principio cardine da cui nasce il diritto allo studio; mentre all'articolo 34, la Costituzione prevede che: «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso»;
    per quanto attiene all'organizzazione necessaria a rendere effettivi i diritti suddetti, la Costituzione statuisce, all'articolo 117, secondo comma, lettera m), che è competenza dello Stato stabilire i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Alle regioni spetta in via esclusiva la potestà legislativa in materia;
    il finanziamento per il diritto allo studio universitario, a livello nazionale, copre poco più del 70 per cento delle richieste effettive, con una continua tendenza al ribasso, con forti disparità tra le regioni del Paese;
    in Italia solo il 34 per cento dei giovani, contro una media Ocse del 50 per cento, consegue la laurea; secondo quanto emerge dai dati raccolti dal Censis, le università italiane stanno perdendo sempre più immatricolati, 78.000 in meno negli ultimi dieci anni, trend che continua ad allontanare l'Italia dalla possibilità di raggiungere il 40 per cento di laureati entro il 2020 come stabilito a livello europeo;
    le cause di tale calo di immatricolazione sono molteplici: il restringimento dei canali di accesso all'università, il numero programmato dei corsi di laurea, programmi di studio troppo antiquati e carenza di adeguati finanziamenti regionali;
    allarmante è non soltanto l'emorragia dei giovani studenti universitari, ma anche la fuga di coloro che hanno già conseguito una laurea, a riprova che, sempre più spesso, chi possiede qualità e titoli sceglie di massimizzarli puntando dove maggiori sono le opportunità economiche e d'impiego. Il trasferimento degli studenti italiani post-laureati, peraltro, rappresenta una perdita non soltanto in termini di risorse umane ma anche in termini economici, il cui costo è stato stimato in 23 miliardi di euro,

impegna il Governo

ad assumere iniziative per prevedere un impegno sempre maggiore di risorse, attraverso il costante aumento dell'investimento di quote di prodotto interno lordo nel comparto universitario, per portarlo al livello degli altri Paesi dell'Ocse, al fine di migliorare la situazione attuale che accresce il divario tra i ceti sociali ed economici, in netto contrasto con il dettato costituzionale.
(1-01289) «Borghesi, Allasia, Attaguile, Bossi, Busin, Caparini, Castiello, Fedriga, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Invernizzi, Molteni, Picchi, Gianluca Pini, Rondini, Saltamartini, Simonetti».
(25 maggio 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    la Costituzione italiana prevede il principio di uguaglianza sostanziale, in base al quale «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese»;
    la medesima Costituzione prevede quale specificazione, all'articolo 34, quarto comma, che «La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso»;
    tra il 2008 e il 2014, secondo i dati dell’European university association public funding observatory, l'investimento pubblico si è ridotto del 21 per cento in termini reali e tra il 2014 (unico anno in cui il livello di investimenti aveva ripreso a crescere almeno rispetto al 2013) al 2015 si è assistito a una nuova riduzione;
    secondo l’«Education at a glance 2015», l'annuale pubblicazione Ocse che analizza i sistemi di istruzione dei trentaquattro Paesi membri e di altri Stati partner, l'Italia destina soltanto lo 0,9 per cento del prodotto interno lordo all'istruzione terziaria, la seconda quota più bassa tra i Paesi dell'Ocse dopo il Lussemburgo, mentre Paesi come Canada, Cile, Corea, Danimarca, Finlandia, Stati Uniti, hanno dedicato quasi il 2 per cento, o una quota superiore, del prodotto interno lordo all'istruzione terziaria;
    in particolare, i fondi destinati alla copertura delle borse di studio, che rappresenterebbero, in diretta attuazione del dettato costituzionale, uno strumento per garantire l'accesso agli studi universitari anche da parte di chi non può permetterselo in base al reddito familiare e alle proprie forze, sono sempre insufficienti e infatti ci sono molti aventi diritto che ne rimangono privi;
    negli ultimi anni, infatti, il diritto allo studio universitario è stato privato di effettività a causa del sempre più frequente fenomeno per cui uno studente risulti idoneo a percepire la borsa di studio ma non possa esserne beneficiario a causa delle insufficienti risorse stanziate dallo Stato (tanto da avere fatto notizia la circostanza per cui una regione nel 2016 risulterebbe in grado finalmente di avere la copertura del 100 per cento per l'erogazione delle borse di studio);
    infatti, nonostante le nuove regole sul diritto allo studio, conseguenti alla «riforma Gelmini» dell'università, abbiano causato un numero di studenti idonei a percepire la borsa di studio inferiore rispetto al passato, le regioni non riescono, comunque, ad assegnare le borse a tutti i richiedenti che ne hanno diritto;
    sullo specifico fondamentale punto del diritto allo studio è in corso una mobilitazione studentesca alla quale anche Alternativa libera-Possibile ha fornito il proprio apporto al fine di presentare una proposta di legge di iniziativa popolare per garantire l'effettività e l'omogeneità delle prestazioni, destinate ad assicurare la copertura totale delle borse di studio, l'efficienza e l'adeguatezza dei servizi e la fascia di esenzione dalle tasse; definire l'ammontare della borsa di studio sulla base di parametri oggettivi e prevedere ulteriori interventi di attuazione del principio di uguaglianza sostanziale ed effettività del diritto allo studio universitario (dall'assistenza assistenza sanitaria gratuita nella regione in cui ha sede l'università, anche se non si tratta di quella di residenza, alla tariffa agevolata per la mensa e altro);
    secondo i dati dell'anagrafe del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca il numero degli immatricolati è passato da trecentotrentaseimila nell'anno accademico 2003/2004 a duecentosettantamila nel 2014/2015 e dati simili risultano da studi dell'Ocse (dai trecentotrentacinquemila del 2004/2005 a duecentosettantamila del 2014/2015); risulta che siano stati persi circa quattrocentosessantatremila studenti in dieci anni;
    negli ultimi anni c’è stato peraltro anche un sensibile calo delle immatricolazioni: secondo il rapporto Res «Università in declino. Un'indagine sugli atenei da Nord a Sud», a cura di Gianfranco Viesti, «rispetto al momento di massima dimensione (databile, a seconda delle variabili considerate, fra il 2004 e il 2008) al 2014-2015 gli immatricolati si riducono di oltre 66 mila unità, passando da circa 326 mila a meno di 260 mila (con una riduzione del 20 per cento), tanto da portare alla conclusione che “l'Italia ha compiuto, nel giro di pochi anni, un disinvestimento molto forte nella sua università”»;
    secondo gli obiettivi «Europa 2020» fissati dalla Commissione europea, tra quattro anni dovrebbero esserci, nell'Unione europea, il 40 per cento di giovani laureati, ma l'obiettivo italiano alla stessa data è pari al 26-27 per cento (partendo dal 21,7 per cento del 2012), che continuerebbe a collocarla all'ultimo posto,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative per prevedere una maggiore e crescente destinazione di risorse al comparto universitario per portarlo al livello degli altri Paesi dell'Ocse;
   ad assumere iniziative normative a garanzia dell'effettività del diritto allo studio universitario previsto dalla Costituzione, aumentando in particolare le risorse destinate al relativo fondo.
(1-01293) «Brignone, Civati, Andrea Maestri, Pastorino, Matarrelli, Artini, Baldassarre, Bechis, Segoni, Turco».
(7 giugno 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    secondo l'edizione 2015 del rapporto internazionale Education at a glance prodotto dall'Ocse, solo il 42 per cento degli italiani inizia gli studi universitari, valore che è il più basso in Europa (a parte il Lussemburgo che non ha università) e il penultimo nell'Ocse (davanti solo al Messico), a fronte di una media europea del 63 per cento e di valori massimi che superano l'80 per cento; gli studenti universitari italiani dovrebbero, quindi, aumentare almeno di metà anche solo per raggiungere la media europea, addirittura raddoppiare per raggiungere i Paesi europei più avanzati;
    secondo il medesimo rapporto, l'Italia, per percentuale di laureati nella fascia 25-34 anni, occupa adesso l'ultimo posto nell'Ocse con il 24 per cento (dopo essere stata a lungo penultima davanti alla Turchia), a fronte di una media europea del 39 per cento; il numero dei laureati italiani dovrebbe, quindi, aumentare di oltre il 60 per cento per raggiungere la media europea, mentre l'obiettivo del 40 per cento fissato da «Europa 2020» è ormai del tutto irraggiungibile per il nostro Paese;
    la percentuale di laureati italiani scende poi al 17 per cento nella fascia 25-64 anni, di nuovo la più bassa nell'Ocse, e, se si analizza il dato su base regionale come ha fatto il gruppo di ricerca coordinato da Gianfranco Viesti nel suo recente rapporto «Università in declino» pubblicato da Donzelli nel 2016, si vede che ai valori più alti (20 per cento) toccati dal Lazio, comunque pur sempre ben lontani dalla media europea, vi sono valori inferiori addirittura al 14 per cento in Puglia e in Sicilia, dello stesso ordine di quelli di Cina, Indonesia o Sudafrica;
    nemmeno l'andamento recente delle immatricolazioni induce a ben sperare poiché, come già evidenziato dal Consiglio universitario nazionale sin dal 2013 e come documentato un mese fa dal XVIII rapporto Almalaurea appena pubblicato, dopo l'aumento registratosi dal 2000 al 2003, legato soprattutto al rientro nel sistema universitario di fasce di popolazione adulta dopo la riforma dell'ordinamento degli studi nel 1999, si è verificato un vistoso calo del 20 per cento dal 2003 al 2015 (in valori assoluti si sono perse circa 70.000 matricole), solo in piccola parte mitigato dal leggero aumento del 2 per cento registrato nell'ultimo anno accademico;
    il dato delle immatricolazioni è anch'esso molto differenziato tra le regioni: infatti il calo di matricole tocca il –30 per cento al Sud, il –22 per cento al Centro ed è pari solo al –3 per cento al Nord; del resto anche il rapporto di Viesti valuta che circa i due terzi delle matricole mancanti abitino nel Meridione e nelle Isole, mentre, in valori assoluti, le università campane e quelle siciliane hanno avuto 6.500 matricole in meno tra il 2009 e il 2013, 5.000 in meno quelle pugliesi;
    tali dati evidenziano, tra l'altro, un accresciuto flusso di giovani meridionali che vanno a studiare nelle università del Centro-Nord – fenomeno di mobilità di per sé non negativo nella misura in cui consente ai giovani di esprimere al meglio il proprio talento e le proprie capacità in sedi e tipologie di studi che ritengono più consone alle loro aspirazioni – ma che si sta trasformando in una vera e propria emigrazione intellettuale;
    a questo proposito il rapporto Almalaurea, relativamente ai laureati magistrali a 5 anni dal conseguimento del titolo, evidenzia che, tra i residenti nel Nord Italia, l'88 per cento ha svolto gli studi universitari e attualmente lavora nella propria area di residenza, mentre l'unico flusso uscente di una certa consistenza (7 per cento) dipende dal trasferimento all'estero; invece, tra i laureati di origine nell'Italia meridionale, il 53 per cento ha trovato lavoro al Nord, mentre solo l'11 per cento di chi si è laureato al Nord rientra dopo gli studi nella propria regione di origine;
    dati sostanzialmente simili riguardo alla mobilità interregionale durante gli studi universitari sono stati ricavati anche da un gruppo di ricerca guidato da Pasqualino Montanaro, ricercatore presso la Banca d'Italia, utilizzando l'Anagrafe nazionale degli studenti universitari nell'ambito del progetto Achab (Affording college with the help of asset building), gestito da un consorzio di enti pubblici o privati senza fini di lucro e finanziato dall'Unione europea;
    il basso numero di studenti e laureati italiani dipende anche da un inefficace sistema di orientamento pre-universitario: il rapporto Anvur 2016 sullo stato del sistema universitario, presentato il 24 maggio 2016, certifica un tasso di abbandoni che tocca il 38,5 per cento a dieci anni dall'immatricolazione e soprattutto che tocca il 19,6 per cento a soli due anni dall'immatricolazione (abbandoni precoci), anche se si registra un piccolo miglioramento rispetto al rapporto 2014;
    lo stesso rapporto evidenzia che il tasso di abbandoni precoci è maggiormente concentrato tra i diplomati degli istituti tecnici e processionali e tra gli studenti del Meridione e delle Isole;
    tra le ragioni che spiegano il basso numero di studenti e di laureati deve sicuramente annoverarsi anche il limitato impegno nazionale nel campo del diritto allo studio universitario, nonostante il recente e molto significativo aumento dello stanziamento statale che è passato dai 162 milioni del 2015 ai 217 del 2016: infatti nel 2014/2015 solo l'8,2 per cento degli studenti italiani ha ottenuto la borsa di studio e solo il 10,3 per cento è stato destinatario di un qualche intervento di diritto allo studio, a fronte di valori superiori al 30 per cento in Francia, Inghilterra e Svezia, superiori addirittura all'80 per cento in Olanda, Danimarca, Finlandia;
    è ancora purtroppo sussistente la categoria degli idonei non beneficiari, cioè studenti valutati come idonei, per ragioni di reddito e di merito, a ottenere la borsa di studio ma che non la ricevono per mancanza di fondi, categoria di cui fa parte circa un quarto degli idonei (oltre 45.000 studenti); anche in questo caso si registrano notevoli differenze a livello regionale: la percentuale di idonei non beneficiari è inferiore al 10 per cento in tutte le regioni del Nord e del Centro, salvo Piemonte e Lazio, mentre è superiore al 40 per cento in Piemonte, Campania, Calabria, Sardegna, con un picco negativo di oltre il 65 per cento in Sicilia;
    eppure la borsa di studio si dimostra strumento abbastanza efficace: come mostra una ricerca condotta dall'Osservatorio regionale del Piemonte sotto la guida di Federica Laudisa, i borsisti abbandonano gli studi universitari il 13 per cento di volte in meno dei non borsisti e conseguono in media 13 crediti formativi in più ogni anno rispetto ai non borsisti;
    anche sul fronte delle contribuzioni alle università da pagare da parte degli studenti (le cosiddette tasse universitarie), le università italiane si dimostrano alquanto esose con i loro studenti: per entità delle tasse pagate dagli studenti, l'Italia è al terzo posto in Europa dopo la Gran Bretagna e l'Olanda, con poco meno di 2.000 euro annui in media, mentre in molti Paesi europei, tra cui la Germania e tutte le nazioni scandinave, l'istruzione universitaria è gratuita o quasi;
    il risultato è che nel nostro Paese le condizioni economiche e culturali delle famiglie di origine pesano molto più che in altri sul successo scolastico e sul reddito dei figli: ad esempio il rapporto annuale dell'Istat valuta che il livello professionale del capo famiglia e la proprietà della casa di abitazione porta ai figli un vantaggio reddituale del 14 per cento in Italia ma dell'8 per cento in Francia, mentre il figlio di un genitore laureato dispone in Italia di un reddito mediamente superiore del 29 per cento al figlio di genitori con la licenza media;
    riguardo, infine, all'efficacia sociale di possedere un titolo di studio universitario, non solo i laureati hanno una speranza di vita maggiore di 3,8 anni rispetto a chi ha raggiunto solo la licenza media, ma, nonostante la lunga crisi economica globale, hanno ancora oggi occasioni di occupazione e livello di reddito ben maggiori dei diplomati; ad esempio il rapporto annuale dell'Istat certifica che nel 2007 la disoccupazione nella fascia 25-34 anni era del 9,5 per cento tra i laureati ma del 13,1 per cento tra i diplomati, mentre nel 2014 (dopo sette anni di crisi) ambedue le percentuali erano molto cresciute attestandosi al 17,7 per cento per i laureati, ma ben al 30 per cento per i diplomati; dati simili sono forniti anche dal XVIII rapporto Almalaurea che indica nel 67 per cento il tasso di occupazione dei laureati magistrali a un anno dal conseguimento del titolo, in piccola ripresa dopo la lunga crisi che lo ha fatto scendere dall'82 per cento del 2008 al 66 per cento del 2014;
    il XXI rapporto sulle retribuzioni, pubblicato recentemente dal gruppo privato OD&M consulting, mostra altresì che il neolaureato in ingresso guadagna di più di un lavoratore senza laurea con alle spalle già 3-5 anni di anzianità; inoltre il titolo di laurea mitiga anche il differenziale retributivo tra uomini e donne rispetto a quello presente tra i non laureati;
    i dati esposti nelle premesse, provenienti da agenzie internazionali e da accurate ricerche, acclarano il fatto che l'Italia soffre di un serio ritardo nella diffusione della formazione universitaria nella popolazione, sia in generale, sia nella fascia più giovane, e che non si registrano purtroppo segnali di inversione di tendenza e di recupero;
    gli stessi dati evidenziano ancora una volta il profondo divario sociale ed economico che caratterizza le regioni italiane: a pagare il prezzo più elevato di questo depauperamento di capitale umano sono le regioni del Mezzogiorno, continentali e insulari, dove si registra la diminuzione più marcata di immatricolati e i flussi più significativi di mobilità giovanile unidirezionale verso le altre regioni, ma non mancano segni di difficoltà anche nelle aree interne e marginali del Settentrione e del Centro;
    nonostante che la ripresa sia stata finalmente agganciata dopo la lunga crisi globale, grazie alle politiche del Governo sul mercato del lavoro e ad altre specifiche scelte di natura sociale ed economica per incrementare la domanda interna, occorre anche tener conto che la disuguaglianza nella distribuzione del reddito è aumentata nel primo decennio del secolo e quindi sembra opportuno realizzare interventi redistributivi che incidano, in particolare, sui meccanismi che conducono alla formazione dei redditi primari e, quindi, aiutino gli individui a dotarsi di capacità meglio remunerate sul mercato del lavoro, come, ad esempio, tutte le politiche dell'istruzione;
    ciò che è stato realizzato nell'ambito scolastico con gli ingenti investimenti e le riforme messe in campo dalla legge n. 107 del 2015, deve ora essere esteso alla formazione post-secondaria, in quanto conseguire un titolo di studio superiore non solo permette di realizzare l'apprezzabile obiettivo di una società forte di competenze di cittadinanza, competitiva e dinamica, ma porta evidenti vantaggi ai singoli cittadini interessati;
    occorre, dunque, rimuovere gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento di quest'obiettivo, agendo sia sul lato del diritto allo studio che su quello della contribuzione universitaria per dare supporto alle famiglie di studenti universitari che devono affrontare i costi degli studi; la gracilità degli attuali sistemi determina una perdita netta di talenti e di opportunità, individuali e per l'intero Paese, e perpetua l'immobilità sociale ed economica, la rigidità delle rendite di posizione e la sclerosi delle corporazioni di cui soffre l'Italia;
    in questo ambito, una particolare attenzione deve essere rivolta alle sperequazioni esistenti tra le diverse aree territoriali del Paese, a danno soprattutto delle regioni meridionali e delle aree interne e marginali, che sono probabilmente tra le cause delle gravi difficoltà economiche e sociali di queste aree e della loro maggiore difficoltà di ripresa;
    a seguito dell'entrata in vigore delle norme del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 159 del 2013 adesso si dispone di uno strumento raffinato ed efficace, l'indicatore della situazione economica equivalente o Isee, per valutare il reddito e il patrimonio di chi richiede di accedere alle prestazioni sociali, in particolare delle famiglie degli studenti universitari, ai quali è specificamente destinato l'articolo 8 del sopra citato provvedimento di riforma dell'Isee;
    a seguito dell'entrata in vigore del decreto ministeriale n. 893 del 2014, è entrato in funzione nel 2015 uno strumento introdotto dalla legge n. 240 del 2010, cioè il costo standard per studente, che è certamente un metodo molto innovativo e trasparente per ripartire una parte della quota base del fondo di finanziamento ordinario delle università statali, metodo certamente da consolidare e potenziare dopo aver provveduto ad individuare e a correggere gli aspetti che si fossero rivelati più deboli rispetto agli obiettivi e alle prescrizioni della legge;
    tra gli aspetti del costo standard per studente che si sono rivelati più problematici vi sono:
     a) la quantificazione dei costi di studenti in ritardo, perché studenti part-time, rispetto all'attuale sistema on-off (1 gli studenti in corso, 0 gli studenti fuori corso);
     b) l'addendo perequativo, che dovrebbe essere per legge commisurato ai differenti contesti economici, territoriali e infrastrutturali in cui opera l'università, ma che nel 2015 ha pesato per una percentuale minima sul costo standard totale: meno del 6 per cento per la Sicilia, circa del 3 per cento per la Sardegna, rispetto alla Lombardia;
     c) la dimensione delle classi ottimali, uniforme in tutta Italia in modo indipendente dai territori e quindi dalle diverse densità di popolazione e disponibilità di infrastrutture per la mobilità e l'ospitalità degli studenti, che si riflette pesantemente sul finanziamento assegnato alle università con corsi di studio di dimensioni sub-ottimali,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative per stabilizzare definitivamente il fondo integrativo per il diritto allo studio al valore stanziato per il 2016 dall'ultima legge di stabilità, come primo passo per consolidare il diritto allo studio universitario e per garantire la borsa di studio a tutti gli idonei, con l'obiettivo di una crescita graduale del fondo per raggiungere almeno i valori medi europei;
   ad emanare quanto prima, superando la normativa pregressa che risale al 2001, il decreto ministeriale previsto dall'articolo 7, comma 7, del decreto legislativo n. 68 del 2012, con un duplice obiettivo: da un lato aggiornare e rendere maggiormente omogenei a livello nazionale i requisiti di merito dello studente e di reddito e patrimonio della famiglia (Isee) per accedere alle prestazioni del diritto allo studio universitario; da un altro lato, stabilire i criteri di ripartizione del fondo integrativo sulla base del fabbisogno regionale – come stabilito dall'articolo 18, comma 1, lettera a), del decreto legislativo n. 68 del 2012 – rendendo altresì vincolante per le regioni lo stanziamento di risorse proprie, oltre al gettito della tassa regionale per il diritto allo studio, in misura pari ad almeno il 40 per cento del fondo integrativo statale ricevuto;
   nel rispetto dell'autonomia delle università e con l'intento di rendere più equa e progressiva l'imposizione, a valutare la possibilità di assumere iniziative per passare dall'attuale sistema di controllo della contribuzione universitaria nelle università statali collegato ad un limite massimo sul gettito totale (articolo 5, commi 1, 1-bis e 1-ter, del decreto del Presidente della Repubblica n. 306 del 1997) ad un nuovo sistema collegato invece ad un limite massimo della contribuzione che deve essere pagata da ciascuno studente di famiglia con Isee medio-basso, fino anche a pervenire, per Isee bassi, ad annullare tale contribuzione con una specifica no-tax area;
   ad assumere iniziative per disporre che una quota del fondo di finanziamento ordinario delle università statali, nonché, relativamente alle regioni dell'obiettivo convergenza, una quota del fondo di sviluppo e coesione previsto dal decreto legislativo n. 88 del 2011 sia destinata alle università a parziale compensazione della riduzione di gettito che deriva loro dagli studenti che non pagano contribuzioni o le pagano in misura molto ridotta, anche per diminuire l'effetto finanziario disincentivante dell'immatricolazione di studenti di famiglie poco abbienti;
   a valutare la possibilità di rivedere, dopo il primo anno di applicazione, le modalità di calcolo del costo standard dello studente, in particolare per quanto riguarda:
    a) il calcolo degli studenti part-time, per i quali è ancora mancante una chiara normativa di riferimento;
    b) l'addendo perequativo, per tener meglio conto, come prescrive la legge n. 240 del 2010, dei «differenti contesti economici, territoriali e infrastrutturali» in cui operano le università;
    c) il calcolo del finanziamento spettante a ciascun ateneo in presenza di corsi di studio con numero di studenti iscritti in corso inferiore alla dimensione ottimale;
    d) una migliore articolazione, rispetto alle diverse classi di corsi di laurea e ai diversi territori di riferimento delle università, delle dimensioni ottimali dei corsi di studio in termini di numero di studenti;
   ad assumere iniziative, per quanto di competenza, per ampliare e pluralizzare l'offerta formativa universitaria e per rafforzare le attività di orientamento pre-universitario per contrastare il fenomeno del calo delle iscrizioni e soprattutto degli abbandoni precoci, con particolare riguardo agli studenti del Mezzogiorno e tenendo anche conto delle caratteristiche e delle aspirazioni dei diplomati degli istituti tecnici e professionali.
(1-01294) «Ghizzoni, Coscia, Vezzali, Covello, Dallai, Piccoli Nardelli, Ascani, Blazina, Bonaccorsi, Carocci, Coccia, Crimì, D'Ottavio, Iori, Malisani, Malpezzi, Manzi, Narduolo, Pes, Rampi, Rocchi, Sgambato, Ventricelli, Molea».
(7 giugno 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    secondo l'ultimo rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca dell'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR 2016), nonostante la crescita degli ultimi anni, l'Italia rimane tra gli ultimi Paesi in europa per quota di popolazione in possesso di un titolo d'istruzione terziaria, anche tra la popolazione più giovane (24 per cento contro 37 per cento della media UE e 41 per cento media OCSE nella popolazione 25-34 anni); così il nostro Paese ha colmato la distanza in termini di giovani che conseguono un diploma di scuola secondaria superiore, ma presenta tassi di accesso all'istruzione terziaria ancora più bassi della media europea e OCSE (42 per cento contro 63 per cento nella media UE, 67 per cento media OCSE);
    nonostante si sia realizzata in un contesto di tagli al diritto allo studio – spesso operati a livello regionale – che intaccano l'uguaglianza delle opportunità richiesta dalla Costituzione, la mobilità degli studenti tra atenei è recentemente aumentata in tutte le aree del Paese, specialmente a livello di lauree magistrali; così la quota di quanti studiano fuori regione è salita dal 18 per cento del 2007-2008 al 22 per cento nel 2015-2016 a beneficio soprattutto degli atenei del Centro-Nord;
    secondo i dati OCSE (Education at a Glance 2015) la spesa in istruzione terziaria in Italia risulta inferiore a quella media OCSE, sia in rapporto al numero degli studenti iscritti sia in rapporto al prodotto interno lordo; così, nel 2015, le somme stanziate dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca per il finanziamento del sistema universitario e per il sostegno agli studenti e al diritto allo studio ammontano a 7,25 miliardi di euro, mentre nel 2016 l'ammontare previsto è di 7,34 miliardi di euro – valori simili a quelli del 2013 e 2014, ma lontani dal massimo raggiunto nel 2009 di 8,44 miliardi di euro;
    la principale criticità del sistema di diritto allo studio è rappresentata dalla cronica carenza di risorse, dal fatto che quelle disponibili non sempre vengono erogate in maniera tempestiva, e dall'incertezza circa la permanenza del sostegno da un anno all'altro. Inoltre, permane una eterogeneità (tra regioni e, all'interno delle stesse, tra i diversi atenei) nei requisiti di accesso e nei tempi di erogazione dei benefici; il 47,3 per cento della spesa regionale per gli interventi di sostegno agli studenti è così coperto dalla tassa universitaria regionale e, negli ultimi anni, quest'ultima è stata elevata a 140 euro nella maggior parte delle regioni;
    senza un aumento complessivo delle risorse investite nella formazione terziaria e nella ricerca e una maggiore diversificazione dell'offerta appare difficile conseguire gli obiettivi della strategia «Europa 2020» e si rischia di rimanere lontani dagli altri Paesi europei, che si prefiggono di investire il 3 per cento del Pil nella ricerca (a fronte dell'obiettivo nazionale dell'1,5 per cento) e di conseguire una quota pari al 40 per cento di giovani con titolo di formazione terziaria (contro il 26 per cento in Italia),

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative volte a migliorare la ripartizione delle risorse, sostenendo con più decisione aspetti come il diritto allo studio e le prospettive di carriera dei migliori giovani studiosi e delle migliori giovani studiose;
   a valutare l'opportunità di assumere iniziative volte a differenziare il sistema nazionale di istruzione terziaria affinché non solo aumenti l'impegno nella riduzione degli abbandoni e nel recupero dei ritardi, ma si arrivi anche a un ampliamento dell'offerta didattica in direzione tecnico-professionale, e non solo universitaria.
(1-01295) «Marzano, Nesi, Marcolin, Matteo Bragantini, Prataviera, Labriola, Faenzi, Parisi, D'Alessandro, Lainati, Locatelli, Di Lello, Prodani, Pastorelli».
(7 giugno 2016)

INTERROGAZIONI A RISPOSTA IMMEDIATA

   BECHIS, ARTINI, BALDASSARRE, SEGONI, TURCO, BRIGNONE, CIVATI, ANDREA MAESTRI, MATARRELLI e PASTORINO. — Al Ministro per le riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento. — Per sapere – premesso che:
   il fondo per le politiche della famiglia istituito nel 2007 prevedeva inizialmente anche il sostegno alle adozioni internazionali, mentre adesso tale sostegno dovrebbe essere coperto dal fondo per le adozioni internazionali istituito appositamente assieme alla relativa Commissione;
   attualmente la Commissione per le adozioni internazionali presso la Presidenza del Consiglio dei ministri è l'autorità centrale in materia di adozioni internazionali nel nostro Paese e garantisce che le adozioni dei bambini stranieri avvengano nel rispetto dei principi stabiliti dalla Convenzione dell'Aja del 1993;
   il fondo per le adozioni internazionali aveva come unica finalità il rimborso delle spese sostenute dai genitori adottivi per l'espletamento della procedura di adozione del minore straniero e, come ribadito dal Ministro per gli affari regionali e le autonomie, in audizione in Commissione giustizia alla Camera dei deputati, è necessario «valutare con attenzione la necessità di sostenere lo sforzo delle famiglie per giungere alle adozioni rafforzando le specifiche agevolazioni fiscali già previste per le spese sostenute nei casi di adozioni internazionali (...) come occorrerebbe garantire sul piano ordinamentale la rimozione di ogni ostacolo economico e sociale che possa rendersi d'impedimento all'accesso all'adozione, in armonia con il disposto dell'articolo 3, secondo comma, della Costituzione»;
   nel corso dell'audizione di cui in premessa si è inoltre sottolineata «la necessità di un efficientamento delle procedure di adozione, in una prospettiva di semplificazione e di riduzione delle tempistiche e di contenimento della spesa»;
   essendo stato costituita la Commissione per le adozioni internazionali, il fondo per le adozioni internazionali si sarebbe dovuto utilizzare per lo scopo per il quale è stato istituito e già nel 2013 le famiglie che hanno adottato minori nell'anno 2011 – che hanno regolarmente depositato nei tempi previsti dalla legge la documentazione necessaria al fine di vedersi corrisposta la quota parziale di rimborso – hanno chiesto alla Commissione per le adozioni internazionali informazioni circa i tempi e le modalità previsti per il rimborso delle spese per le adozioni internazionali sostenute, ricevendo in risposta dalla Commissione per le adozioni internazionali che era stato istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri il «fondo per il sostegno delle adozioni internazionali», finalizzato al rimborso delle spese sostenute dai genitori adottivi per l'espletamento della procedura di adozione;
   tuttavia i genitori adottivi sono dovuti spesso ricorrere ad altre forme di finanziamento vista la farraginosità e il costo elevato del percorso adottivo –:
   se il Ministro interrogato possa garantire che il fondo per le adozioni internazionali mantenga la finalità di rimborsare le spese sostenute dai genitori adottivi per l'espletamento della procedura di adozione del minore straniero. (3-02295)
(7 giugno 2016)

   SCOTTO, QUARANTA, D'ATTORRE, COSTANTINO, AIRAUDO, FRANCO BORDO, DURANTI, DANIELE FARINA, FASSINA, FAVA, FERRARA, FOLINO, FRATOIANNI, CARLO GALLI, GIANCARLO GIORDANO, GREGORI, KRONBICHLER, MARCON, MARTELLI, MELILLA, NICCHI, PAGLIA, PALAZZOTTO, PANNARALE, PELLEGRINO, PIRAS, PLACIDO, RICCIATTI, SANNICANDRO, ZARATTI e ZACCAGNINI. — Al Ministro per le riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento. — Per sapere – premesso che:
   in data 20 ottobre 2014, quando la I Commissione della Camera dei deputati stava ancora esaminando il testo della riforma costituzionale in sede referente, il Ministero dell'economia e delle finanze (dipartimento della Ragioneria generale dello Stato) ha ricevuto una nota da parte del gabinetto del Ministro interrogato relativa all'atto Camera n. 2613, «Disposizioni per superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del titolo V della seconda parte della Costituzione», nell'ambito della quale venivano richiesti elementi informativi relativi all'impatto economico del provvedimento in termini di risparmi per la finanza pubblica;
   il successivo 28 ottobre 2014, il Ragioniere generale dello Stato, con nota protocollo n.83572, ha rappresentato una serie di informazioni dalle quali si desume che, in termini di risparmi diretti e accertati, l'impatto economico del testo di riforma costituzionale poteva essere stimato in soli 57,7 milioni di euro;
   in particolare, il Ragioniere generale dello Stato ha evidenziato che, con riferimento alle modifiche derivanti dalla riduzione del numero dei componenti del Senato (esclusi quelli nominati dal Presidente della Repubblica) da 315 a 95 e dalla limitazione dell'attribuzione delle indennità solo ai componenti della Camera dei deputati, la minore spesa conseguente è stimabile in circa 49 milioni di euro;
   con riguardo alla prevista soppressione del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro (Cnel) si legge che essa produrrebbe risparmi ulteriori pari a 8,7 milioni di euro, rispetto a quelli già previsti ed indicati nella relazione tecnica del disegno di legge di stabilità per il 2015 pari a euro 10.019.227 annui;
   circa la stima dei risparmi di spesa che deriverebbero alla finanza pubblica dalla soppressione delle province prevista dall'articolo 28, il Ragioniere generale dello Stato segnalava che gli stessi non erano allo stato quantificabili e che i risparmi di spesa in questione potranno essere quantificati solo a completa attuazione della legge n. 56 del 2014 con cui si prevede il riordino del comparto;
   e anche con riferimento ai possibili risparmi derivanti dalle disposizioni che intendono fissare l'indennità dei consiglieri regionali pari a quella prevista per i sindaci dei comuni capoluogo di regione e l'abolizione di rimborsi o analoghi trasferimenti monetari in favore dei gruppi politici presenti nei consigli regionali, ha rappresentato di non disporre di elementi utili da fornire in merito;
   nella Gazzetta Ufficiale del 15 aprile 2016 è stato pubblicato il testo della legge costituzionale (C. 2613-D) approvato da entrambe le Camere, in seconda deliberazione, a maggioranza assoluta dei componenti –:
   se il Ministro interrogato confermi quanto descritto in premessa e sia in grado di fornire con la massima sollecitudine al Parlamento una nota evidentemente successiva ma in ogni caso asseverata dal Ragioniere generale dello Stato, dalla quale emerga in modo inconfutabile il dato, ribadito in più di una occasione alla stampa nazionale dallo stesso Presidente del Consiglio dei ministri, di 1 miliardo di euro di risparmi ottenuti dalla riforma costituzionale. (3-02296)
(7 giugno 2016)

   BRAMBILLA. — Al Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale. — Per sapere – premesso che:
   in molti Paesi asiatici – come la Cina, il Vietnam e la Corea del Sud – è culturalmente accettabile, legale o tollerato consumare carne di cane. In alcuni casi la tradizione risale a 4-5 secoli fa e comunque solo in tempi relativamente recenti i cani sono stati considerati e trattati come animali da compagnia;
   secondo l'organizzazione World dog alliance (Wda), con sede ad Hong Kong, 30 milioni di cani all'anno sono macellati, cotti e mangiati in Asia. Circa 70 su cento sono animali da compagnia sottratti alle famiglie;
   Paesi come le Filippine (già da decenni) e Taiwan (nel 2001) hanno approvato leggi che vietano il commercio e il consumo di carne di cane. Il divieto è in vigore anche ad Hong Kong, mentre è rimasto a livello di proposta (2010) in Cina, tuttavia le numerose organizzazioni protezioniste locali impegnate nella campagna contro questo business fanno notare che, anche laddove esistono divieti, i controlli sono scarsi e la legge frequentemente elusa;
   a Yulin, città-prefettura della regione autonoma di Guangxi, nella Repubblica popolare cinese, si svolge ogni anno, il 21 giugno, il «Festival della carne di cane al solstizio d'estate» – un'iniziativa privata nata in anni recenti ma fondata su vecchie usanze – durante il quale sono macellati, cotti e mangiati oltre 10 mila cani: animali detenuti in gabbie piccolissime e affollatissime, uccisi con metodi crudeli e spesso scuoiati ancora vivi. Per la prima volta nel 2015 sono stati aggiunti al menu anche i gatti. Ciò che avviene a Yulin è ampiamente documentato, con sanguinosa evidenza, dai media di tutto il mondo, da filmati di turisti, da video facilmente reperibili su Youtube o servizi analoghi;
   il festival di Yulin è oggetto di una protesta globale, che coinvolge milioni di persone con numerose petizioni lanciate (o rilanciate) su internet. Tra queste la campagna della Lega italiana per la difesa degli animali e dell'ambiente, rappresentante per l'Italia della Wda. Al presidente della Wda, Genlin, si deve anche uno sconvolgente documentario di 90 minuti sul fenomeno del traffico e del consumo di carne di cane in Asia, «Eating happiness», del 2015;
   secondo il quotidiano inglese Express, nell'edizione del 25 maggio 2016, un gruppo di attivisti cinesi ha intercettato sulla superstrada di Tianjin, nei pressi di Pechino, un camion stracarico di gabbie con cani malati e feriti diretto a Yulin, l'ha bloccato e tenuto «sotto assedio» per tre giorni, finché i cani non sono stati liberati. Gli animali erano allo stremo, disidratati, coperti di ferite e di pustole. Moltissimi portavano collari e medagliette, chiaro segno del fatto che si trattava di animali da compagnia rubati;
   cadono invece tra luglio e agosto in Corea del Sud – Paese che nel 2018 ospiterà i XXIII Giochi olimpici invernali – i cosiddetti Bok Nal, i «giorni del cane». Secondo il calendario lunare sono i più caldi dell'anno. In questo periodo è costume mangiare carne di cane che, stando alla superstizione locale, «rinfresca e rinvigorisce» il corpo. Non si sa esattamente quanti animali perdano la vita, ma stime prudenziali parlano di 1-2 milioni sui 5 consumati ogni anno: cani sottratti alle case, catturati per strada, trasportati dai villaggi o dagli allevamenti in condizioni igieniche spaventose, spesso torturati (alcuni credono che la carne così diventi più tenera), uccisi a mazzate e macellati con metodi crudeli;
   nel novembre 2015 il Governo britannico, su sollecitazione di alcuni membri del Parlamento, ha assunto alla Camera dei Comuni l'impegno di rappresentare ai Governi interessati, anche tramite gli ambasciatori, le preoccupazioni e le istanze emerse durante il dibattito parlamentare sul commercio e il consumo della carne di cane;
   nei giorni scorsi è stata presentata al Congresso degli Stati Uniti d'America una risoluzione che condanna il festival di Yulin e chiede alle autorità cinesi di mettere fine al commercio della carne di cane –:
   se non ritenga di compiere tutti i passi opportuni, possibilmente coinvolgendo i partner europei e l'Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, per sollevare la questione del commercio e del consumo della carne di cane con i Governi dei Paesi dell'Estremo Oriente dov’è diffusa tale pratica, in particolare per chiedere alle autorità cinesi di porre fine al massacro di Yulin e a quelle coreane, anche in relazione agli imminenti Giochi di Pyeongchang, di vietare il consumo e il commercio della carne di cane, causa di abusi ripugnanti e di ingiustificabili sofferenze. (3-02297)
(7 giugno 2016)

   TERZONI, MASSIMILIANO BERNINI, BENEDETTI e ZOLEZZI. — Al Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:
   si è appreso da fonti di stampa, in data 2 giugno 2016, che la procura di Novara ha chiesto ventisette rinvii a giudizio per il «caso Est Sesia». Al vaglio del giudice ci sarebbero 41 capi di imputazione per reati dall'associazione per delinquere alla truffa, dal peculato al falso in atto pubblico, dalla turbativa d'asta all'abuso d'ufficio;
   tra i personaggi rinviati a giudizio risulta esserci anche il comandante nazionale del Corpo forestale dello Stato, Cesare Anselmo Patrone, che nel 2012 nel ruolo di componente di una commissione di collaudo per lavori ai ponti sul canale Quintino Sella avrebbe redatto un verbale falso; nell'ambito del procedimento penale il Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali ha manifestato l'intenzione di costituirsi parte civile;
   già dal 2015 erano stati presentati diversi atti di sindacato ispettivo nei quali si evidenziavano le criticità connesse alla modalità della sua nomina a capo del Corpo forestale dello Stato, alla permanenza al vertice della struttura per oltre 12 anni a partire dal 2004, alla circostanza che durante tale arco temporale sia risultato coinvolto in inchieste e procedimenti giudiziari dai quali emergono molteplici profili che avrebbero reso consigliabile un suo avvicendamento;
   il 27 settembre 2015 il Fatto quotidiano ha pubblicato un'intercettazione telefonica risalente al 24 agosto 1994, che vedrebbe coinvolti l'avvocato Cipriano Chianese, considerato dalla procura di Napoli il presunto inventore dell'ecomafia in Campania, e l'attuale capo del Corpo forestale dello Stato, Cesare Patrone, da cui emergerebbe una certa familiarità tra i due; familiarità denunciata per la prima volta in un'informativa depositata nel 2013 dal poliziotto Roberto Mancini, ammalatosi di tumore per aver fronteggiato la criminalità ambientale e morto nell'aprile 2014. Nel gennaio 2015, il Ministero dell'interno lo ha riconosciuto vittima del dovere;
   nel 1994 Cesare Patrone era già un funzionario del Corpo forestale dello Stato e Cipriano Chianese era un avvocato imprenditore della provincia di Caserta, che, seppur prosciolto dal giudice dell'udienza preliminare, nonostante «il contributo causale reso dallo stesso fosse stato pacificamente ammesso», era già stato arrestato per associazione mafiosa, perché coinvolto nel traffico illecito dei rifiuti campani;
   ad una richiesta di chiarimenti in Commissione d'inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, da parte del deputato del MoVimento 5 Stelle, Francesco D'Uva, in merito ai suoi rapporti con Chianese, a luglio 2015 Cesare Patrone rispose «non ricordo assolutamente chi sia Chianese, non ricordo di averlo incontrato venti o trent'anni fa». Un'affermazione che, alla luce di quanto documentato da il Fatto quotidiano, parrebbe essere del tutto falsa;
   oltre a quanto sopra esposto, si ricorda che in data 13 agosto 2015, sulla Gazzetta Ufficiale n. 187, è stata pubblicata la legge 7 agosto 2015, n. 124, recante «Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche», il cui articolo 8, comma 1, lettera a), prevede, tra l'altro, l'eventuale assorbimento del Corpo forestale dello Stato in altra forza di polizia;
   il Consiglio dei ministri, nel corso della riunione n. 101 del 20 gennaio 2016, ha approvato, in esame preliminare, uno schema di decreto legislativo recante l'assorbimento di parte del personale del Corpo forestale dello Stato nell'Arma dei carabinieri. L'articolo 12, comma 2, di tale schema di decreto stabilisce che: «Il Capo del Corpo forestale dello Stato, con proprio provvedimento (...) individua, sulla base dello stato matricolare, l'Amministrazione, tra quelle indicate al comma 1, presso la quale ciascuna unità di personale è destinata a transitare (...)»; questo significa che l'ingegner Cesare Patrone deciderà autonomamente il destino di circa 7.000 uomini e donne del Corpo forestale dello Stato;
   tutte le sigle sindacali rappresentanti gli uomini e le donne del Corpo forestale dello Stato, per quanto sopra citato, hanno espresso forti perplessità sul ruolo di Cesare Anselmo Patrone quale comandante nazionale del Corpo forestale dello Stato e sulla sua responsabilità nella gestione della fase di transizione;
   il citato schema di decreto legislativo è stato annunciato all'Assemblea della Camera dei deputati il 26 maggio 2016 (atto n. 306) ed assegnato alle Commissioni I affari costituzionali e IV difesa, V bilancio, Commissione parlamentare per la semplificazione e il termine dell’iter è stato fissato al 25 luglio 2016 –:
   se, anche alla luce degli ultimi eventi giudiziari di cui in premessa, non ritenga opportuno assumere le iniziative di competenza per procedere all'immediata sostituzione dell'ingegnere Cesare Patrone nell'incarico di comandante nazionale del Corpo forestale dello Stato in tempo utile per lo svolgimento degli adempimenti del decreto sopra citato e alla revoca immediata dell'incarico dell'ingegner Cesare Patrone quale coordinatore del gruppo di lavoro sulla «Terra dei fuochi». (3-02298)
(7 giugno 2016)

   COVA, CARRA, OLIVERIO, LUCIANO AGOSTINI, ANTEZZA, CAPOZZOLO, CUOMO, DAL MORO, FALCONE, FIORIO, LAVAGNO, MARROCU, MONGIELLO, PALMA, PRINA, ROMANINI, SANI, TARICCO, TERROSI, VENITTELLI, ZANIN, MARTELLA, CINZIA MARIA FONTANA e BINI. — Al Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:
   la filiera nazionale suinicola, con circa 4.000 allevamenti, 70 macelli e 200 prosciuttifici è un settore di forte rilevanza economica, ma sta vivendo negli ultimi anni un periodo di grande difficoltà con continue chiusure di allevamenti; si è assistito anche ad una contrazione della consistenza delle scrofe attive nel circuito tutelato, dovuta in parte all'adeguamento alle normative europee in materia di protezione e benessere animale introdotte dalla direttiva 2008/120/CE;
   ad un aumento complessivo dei capi macellati, ad un peso vivo superiore a 160 chilogrammi, ha corrisposto un andamento in controtendenza delle macellazioni di suini pesanti certificati per la produzione dei salumi dop. Infatti, le macellazioni dei dop sono diminuite nel 2014 del 3 per cento;
   il valore della produzione suinicola è stata superiore ai 2 miliardi di euro e nell'anno 2014 l’export di salumi ha raggiunto un valore di circa 1,2 miliardi di euro, con un bilancio attivo di circa 1 miliardo di euro; in Italia, nel 2014, sono stati allevati, macellati circa 8.700.000 suini e di questi sono stati certificati 7.930.000 suini del circuito dop;
   risulta evidente la rilevanza economica e numerica della filiera dop e la conseguente necessità di migliorare la gestione aziendale attraverso una diffusa consulenza agronomica e veterinaria per consentire agli allevatori dei suini di migliorare le proprie produzioni, valorizzare gli investimenti, aumentare le produzioni, ridurre i costi di gestione e contemporaneamente migliorare la riproduzione delle scrofe, il contenimento della mortalità neonatale dei suinetti, garantire il loro accrescimento secondo i disciplinari per evitare scarti;
   il prosciutto dop arriva a coprire poco più del 50 per cento dell'intera carcassa suina macella, è necessario valorizzare anche i tagli differenti dai prosciutti nella filiera delle dop, poiché, se anche i prosciutti cotti, pancette, salumi e mortadelle acquistassero un valore aggiunto come prodotti provenienti da una filiera dop o inseriti come igp, il valore finale della carcassa dei suini sarebbe maggiore e gli allevatori avrebbero un maggiore ritorno economico;
   è necessario promuovere anche una filiera suinicola che non si basi solamente sul «suino pesante italiano» e che offra al consumatore dei tagli, salumi, insaccati o prosciutti di qualità provenienti da allevamenti italiani e trasformati in Italia;
   l'istituzione della Commissione unica nazionale suini non sta dando i risultati attesi e il prezzo viene fissato in modo unilaterale da parte degli allevatori e non viene poi rispettato, soprattutto da parte dei macellatori e dei trasformatori –:
   se il Ministro interrogato non ritenga di adottare le iniziative di competenza volte alla revisione del sistema di funzionamento della Commissione unica nazionale suini per ridare slancio alla filiera, attraverso soprattutto un rafforzamento delle gestioni aziendali e la valorizzazione dell'intero animale sul mercato di qualità. (3-02299)
(7 giugno 2016)

   BINETTI. — Al Ministro per gli affari regionali e le autonomie. — Per sapere – premesso che:
   le recenti notizie, pubblicate anche dalla stampa, forniscono purtroppo un quadro allarmante circa lo stato ed il trend della natalità nel nostro Paese;
   si fa cenno alla discesa continua delle nascite, anche al di sotto di soglie ritenute psicologiche;
   risulta quindi in diminuzione, nonostante il crescente apporto degli stranieri, la popolazione totale e, soprattutto, diminuisce la forza lavoro, la parte attiva della popolazione stessa, considerando anche che sempre più nostri connazionali in fase attiva decidono di trasferirsi all'estero –:
   a fronte di dati così drammatici, nella consapevolezza della gravità del fenomeno, che rischia di determinare un impoverimento ed un'inevitabile involuzione della società italiana, quali siano le linee di azione ed i settori in cui il Governo intende intervenire, al fine di interrompere un trend così stabilmente negativo e sostenere la famiglia nella decisione di procreare. (3-02300)
(7 giugno 2016)

   GIGLI. — Al Ministro per gli affari regionali e le autonomie. — Per sapere – premesso che:
   la regione autonoma Friuli Venezia Giulia ha competenza legislativa primaria in materia di ordinamento degli enti locali;
   questa autonomia, però, deve essere esercitata entro precisi limiti, ai sensi dell'articolo 4 dello statuto regionale;
   detti limiti riguardano, in particolare i principi sanciti dalla Costituzione, i principi generali dell'ordinamento giuridico, gli obblighi internazionali assunti dallo Stato italiano (una per tutte la Carta europea delle autonomie locali ratificata dall'Italia nel 1989);
   ora, la legge regionale n. 26 del 2014 ha previsto, fra l'altro, l'unione obbligatoria dei comuni, esautorando, a tutti gli effetti, i comuni stessi della loro autonomia costituzionalmente garantita dall'articolo 5 della Costituzione;
   quindi, nessuna concertazione è stata effettuata in tal senso, tanto è vero che gli enti locali non sono stati nemmeno consultati, in palese violazione dell'articolo 114 della Costituzione che sancisce che sono enti costitutivi della Repubblica i comuni, le province, le città metropolitane, le regioni, equiordinandoli tra loro –:
   quali iniziative di competenza intenda intraprendere il Ministro interrogato. (3-02301)
(7 giugno 2016)

   GUIDESI, FEDRIGA, ALLASIA, ATTAGUILE, BORGHESI, BOSSI, BUSIN, CAPARINI, CASTIELLO, GIANCARLO GIORGETTI, GRIMOLDI, INVERNIZZI, MOLTENI, PICCHI, GIANLUCA PINI, RONDINI, SALTAMARTINI e SIMONETTI. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   il nostro è un Paese con un territorio estremamente fragile e in crescente pericolo di dissesto idrogeologico;
   l'abbandono dei terreni montani, il disboscamento, la forte espansione edilizia soprattutto negli anni ’70 e ’80, la costruzione, spesso abusiva, sui versanti a rischio, la mancata pulizia dei corsi d'acqua, la forte antropizzazione e la cementificazione di lunghi tratti dei fiumi e dei torrenti contribuiscono all'aumento dell'esposizione della popolazione al rischio idrogeologico e ad alluvioni;
   i problemi sono aggravati negli ultimi anni a causa degli eventi meteo-climatici anomali che ripetutamente colpiscono il Paese; gli ultimi eventi alluvionali dell'Europa centrale hanno posto alla ribalta i pericoli cui è esposto il territorio;
   si tratta di un'emergenza nazionale; se non si procederà al più presto ad effettuare un vasto piano di prevenzione e messa in sicurezza del territorio, sarà sempre più difficile ed insostenibile fare fronte agli interventi di risarcimento e di ricostruzione delle opere distrutte o danneggiate a seguito di danni provocati dalle alluvioni;
   la maggior parte dei problemi sarebbe risolta con una manutenzione costante dei corsi d'acqua, liberandoli dai tronchi d'albero e dal materiale vegetale che ne impediscono il regolare deflusso, e con una pulizia del fondale dei fiumi e dei torrenti dalla deposizione della sabbia e della ghiaia trascinate dalla corrente, che ripristini la storica condizione dell'alveo e la sezione originale di deflusso;
   per raggiungere risultati concreti serve la sinergia tra amministrazioni centrali e locali per il finanziamento degli interventi; gli enti locali, i veri conoscitori dello stato di salute del territorio e delle relative necessità di interventi per la messa in sicurezza e per la prevenzione dei pericoli da rischio, non sono in grado di risolvere da soli i problemi anche per le regole stringenti del patto di stabilità e crescita imposte dalla Commissione europea e per le conseguenti norme nazionali che hanno costituito un vincolo insormontabile alla spesa delle amministrazioni locali, anche nei casi di disponibilità di risorse;
   appare necessaria una revisione delle norme vigenti in campo di prevenzione e di lotta al dissesto idrogeologico provocato dallo straripamento dei corsi d'acqua, soprattutto in direzione della semplificazione delle procedure per l'esecuzione degli interventi e l'assegnazione delle risorse, ma anche in direzione dell'eliminazione delle disposizioni che, di fatto, rendono impossibile la spesa;
   la legge di stabilità per il 2016 ha previsto finanziamenti nella tabella E contro il dissesto idrogeologico che, tuttavia, sono realmente insufficienti a far fronte alle esigenze del Paese;
   anche la legge 28 dicembre 2015, n. 221, recante «Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell'uso eccessivo di risorse naturali», cosiddetto collegato ambientale alla legge di stabilità per il 2014, prevede una serie di programmi per la definizione del quadro conoscitivo del demanio idrico, ma mancano azioni concrete verso misure gestionali capaci di ripristinare la continuità idromorfologica longitudinale, laterale e verticale degli alvei dei fiumi e dei torrenti ed evitare l'inondazione delle nostre pianure;
   purtroppo, attualmente, la pulizia dei fiumi e dei torrenti è bloccata da una legislazione obsoleta e da una burocrazia insostenibile che mette in situazioni critiche i cittadini;
   si ritiene che la situazione ha raggiunto ormai un tale livello di gravità che solo una norma di carattere straordinario potrà risolvere i problemi; proprio su questi temi la Lega Nord e autonomie, Lega dei popoli, Noi con Salvini ha presentato anche una proposta di legge su questi temi che prevede un programma sperimentale per la massima accelerazione delle procedure per risolvere in tempi rapidi le situazioni di emergenza;
   il Ministro interrogato in più occasioni ha riferito in Assemblea sui programmi del Governo contro il dissesto idrogeologico –:
   quali interventi urgenti il Ministro interrogato intenda adottare per la pulizia degli alvei dei fiumi e dei torrenti dai tronchi d'albero, dal materiale vegetale e dalla deposizione della sabbia e della ghiaia trascinate dalla corrente, allo scopo di ripristinare la storica condizione dell'alveo e la sezione originale di deflusso e garantire un'effettiva prevenzione dai pericoli di dissesto idrogeologico da straripamento dei corsi d'acqua. (3-02302)
(7 giugno 2016)

   MATARRESE, PIEPOLI, VARGIU e DAMBRUOSO. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   il recente rapporto «Dissesto idrogeologico in Italia: pericolosità e indicatori di rischio (2015)» dell'Ispra ed il rapporto di Legambiente «Ecosistema rischio 2016 – Monitoraggio sulle attività nelle amministrazioni comunali per la mitigazione del rischio idrogeologico» evidenziano un quadro puntuale e preoccupante del pericolo al quale è sottoposta la popolazione italiana che vive in zone a rischio da dissesto idrogeologico;
   la mappatura delle zone a rischio elaborata dall'Ispra risulta di particolare importanza per la prevenzione e la mitigazione del fenomeno del dissesto idrogeologico. Attualmente, sono 7.145 (oltre l'88 per cento del totale) i comuni nei quali sono presenti aree a pericolosità idraulica e 1.640 i comuni nei quali sono state perimetrate aree esposte a pericolo di frana, 1.607 quelli in cui sono presenti aree a pericolosità idraulica. La superficie delle zone perimetrate corrisponde in totale a quasi il 16 per cento dell'intero territorio nazionale;
   il rapporto di Legambiente, invece, al quale si riferisce il seguito della presente interrogazione, riporta dati che, per quanto ancora parziali, evidenziano maggiormente il pericolo evidente al quale sono sottoposti milioni di cittadini italiani che vivono proprio in alcune delle aree perimetrate e rischiose;
   in particolare, i dati del suddetto rapporto sono stati ricavati dalle risposte ai questionari inviati a 6.174 amministrazioni comunali nelle quali sono state perimetrate aree a rischio di dissesto idrogeologico. Allo stato sono 1.444 i comuni che hanno risposto al questionario di «Ecosistema rischio» tra giugno e dicembre 2015 (il 23 per cento dei comuni a rischio d'Italia), evidenziando situazioni di particolare criticità;
   da quanto si evince dai dati del rapporto, 7 milioni di cittadini vivono quotidianamente in zone esposte al pericolo di frane o alluvioni;
   il dato riferito ai cittadini che vivono in aree a rischio desta particolari preoccupazioni se si considera che «nel 48 per cento dei comuni intervistati sono meno di 100 le persone presenti in aree a rischio; nel 24 per cento dei casi questo numero è compreso fra le 100 e le 1.000 unità e nel 6 per cento delle situazioni sale nella fascia fra 1.000 e 10.000 persone. Per quel che riguarda i comuni più grandi e densamente popolati fra quelli che hanno partecipato all'indagine, sono 15 quelli in cui la popolazione residente in aree a rischio è compresa fra 10.000 e 50.000, 3 quello in cui è compresa fra 50.000 e 100.000: Genova, Ferrara e Reggio Emilia e 3 quelli in cui sono presenti oltre 100.000 persone in zone esposte a pericolo: Roma, Napoli e Rimini (...)»;
   la dimensione del rischio al quale è sottoposto il nostro Paese è data dall'intensa urbanizzazione delle zone soggette a pericolo di frane e alluvioni: in 1.075 comuni (il 77 per cento del totale analizzato dal report) sono presenti abitazioni in aree golenali, in prossimità degli alvei e in aree a rischio frana, e nel 29 per cento dei casi (401 comuni) in tali zone sono presenti addirittura interi quartieri. Nel 51 per cento dei comuni campione dell'indagine in aree a rischio sono presenti fabbricati industriali;
   nel 18 per cento dei comuni intervistati, invece, sono state costruite in aree a rischio idrogeologico strutture sensibili come scuole e ospedali e nel 25 per cento dei casi in aree a rischio sono state costruite strutture ricettive turistiche o strutture commerciali;
   un dato decisamente preoccupante è quello che testimonia l'eccessiva e recente antropizzazione delle aree a rischio, soprattutto negli ultimi dieci anni e nonostante i pericoli evidenti. Infatti, nell'ultimo decennio, sono stati costruiti edifici in aree a rischio nel 10 per cento dei comuni intervistati (146 fra quelli intervistati) e solo il 4 per cento delle amministrazioni ha intrapreso interventi di delocalizzazione di edifici abitativi e l'1 per cento di insediamenti industriali;
   tra i comuni in cui si è costruito in aree a rischio idrogeologico nell'ultimo decennio, nell'88 per cento dei casi sono state urbanizzate aree a rischio di esondazione o a rischio di frana con la costruzione di abitazioni (in 128 comuni su 146), nel 14 per cento dei casi in tali aree sono sorti addirittura interi quartieri (in 20 comuni). Nel 38 per cento dei casi l'edificazione recente ha riguardato fabbricati industriali (55 comuni). Nel 12 per cento dei casi (17 comuni), invece, sono state costruite di recente in aree a rischio idrogeologico strutture sensibili come scuole e ospedali, nel 18 per cento (26 comuni) strutture ricettive e nel 23 per cento (33 comuni) strutture commerciali;
   il rapporto evidenzia, altresì, il forte ritardo delle attività finalizzate all'informazione dei cittadini sul rischio e i comportamenti da adottare in caso di emergenza. L'84 per cento dei comuni, infatti, ha un piano di emergenza che prende in considerazione il rischio idrogeologico, ma solo il 46 per cento lo ha aggiornato e solo il 30 per cento dei comuni intervistati ha svolto attività di informazione e di esercitazione rivolte ai cittadini;
   c’è da evidenziare ancora una volta, purtroppo, che solo nel 2015 frane e alluvioni hanno causato nel nostro Paese 18 vittime, 1 disperso e 25 feriti, con 3.694 persone evacuate o rimaste senzatetto in 19 regioni, 56 province, 115 comuni e 133 località; secondo l'Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica (Irpi) del Cnr, nel periodo 2010-2014 le vittime sono state 145 con 44.528 persone evacuate o senzatetto, con eventi che si sono verificati in tutte le regioni italiane, nella quasi totalità delle province (97) e in 625 comuni, per un totale di 880 località colpite;
   la situazione delineata dai due rapporti desta preoccupazione e, malgrado vi sia la percezione da parte dei cittadini di una certa inerzia da parte delle istituzioni nel porre in essere atti concreti alla risoluzione della problematica evidenziata, risulta invece evidente l'impegno del Governo in carica che, nel corso della XVII legislatura e facendo seguito agli impegni assunti in sede di approvazione degli atti di indirizzo del Parlamento, ha individuato risorse da destinare al contrasto del dissesto idrogeologico ed ha adottato misure e provvedimenti che hanno interessato la disciplina della governance, il coordinamento e la gestione degli interventi, nonché le risorse finanziarie da allocare;
   nel documento di economia e finanza 2016 si sottolinea, a supporto ulteriore del contrasto al fenomeno del rischio da dissesto idrogeologico, che «entro il 2017 per completare l'azione di sostegno alla sostenibilità ambientale è in fase di definizione un provvedimento legislativo (green act) contenente misure finalizzate alla decarbonizzazione dell'economia, all'efficienza nell'utilizzo delle risorse, alla protezione e al ripristino degli ecosistemi naturali e alla finanza per lo sviluppo (...)»;
   è altresì evidente, purtroppo, che i processi di individuazione dei rischi e degli interventi da realizzare, di individuazione delle risorse da impiegare e di predisposizione dei provvedimenti normativi da adottare, necessitano tutti di tempi molto lunghi per essere completati e, purtroppo, sempre troppo spesso a questi si aggiungono elementi ostativi all'effettiva esecuzione dei lavori che sembrerebbero attribuibili alla scarsa capacità di gestione e di spesa delle risorse da parte delle regioni e degli enti preposti e che quasi mai risultano immediate per problemi di natura diversa;
   di contro, si verifica spesso che siano le regioni a lamentare carenza di risorse e ritardi nei finanziamenti da parte dello Stato. Singolare, ad esempio, è il caso della regione Puglia che, secondo quanto si evince da propri comunicati stampa, avrebbe invocato più collaborazione da parte del Governo chiedendo 2,3 miliardi di euro a fronte di un fabbisogno evidenziato proprio dal sistema Rendis (Repertorio nazionale degli interventi per la difesa del suolo) per interventi di mitigazione del fenomeno del dissesto idrogeologico su progetti immediatamente cantierizzabili;
   compito dello Stato è sicuramente quello di individuare tutti gli elementi ostativi all'effettivo impiego delle risorse al fine di rimuoverli e di consentire l'immediata esecuzione degli interventi più urgenti, così da poter mettere in sicurezza le aree di rischio individuate e dare risposte concrete ai cittadini che richiedono soluzioni immediate a problemi di questa entità –:
   quale sia lo stato di attuazione della programmazione e della pianificazione degli interventi per il contrasto al fenomeno del rischio da dissesto idrogeologico in Italia, quali siano le risorse disponibili e gli elementi maggiormente ostativi all'impiego immediato e concreto delle risorse individuate da parte delle regioni e quali iniziative di competenza intenda adottare al fine di rimuoverli per accelerarne la spesa. (3-02303)
(7 giugno 2016)

   PETRENGA, TAGLIALATELA, LA RUSSA, GIORGIA MELONI, RIZZETTO, RAMPELLI, CIRIELLI, MAIETTA, NASTRI e TOTARO. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   dopo oltre due anni dalla conversione del decreto-legge volto a fronteggiare l'emergenza nel territorio della Terra dei fuochi, che interessa quasi novanta comuni nelle province di Napoli e Caserta e nel quale sono stati scaricati illecitamente oltre dieci milioni di tonnellate di veleni, nulla è stato fatto;
   a dispetto dei proclami della nuova giunta regionale, la quale ha festeggiato proprio due giorni fa la rimozione della prima ecoballa, inizio di un percorso ideato dalla stessa giunta che secondo le associazioni ambientaliste dovrebbe durare quasi tredici anni nelle previsioni più rosee, e del Governo, che aveva annunciato lo stanziamento per il 2016 di duecento milioni di euro poi subito corretto in centocinquanta, la situazione rimane critica;
   il sistema dello smaltimento illecito dei rifiuti e il drammatico fenomeno dei roghi non si sono ancora fermati, le ecoballe sono ancora lì, non sono state completate le analisi sui terreni, le bonifiche non sono neanche iniziate e in molti casi mancano ancora addirittura i progetti, non sono state previste le attività di risanamento delle falde contaminate e nelle zone agricole delle aree potenzialmente inquinate e vicine ad impianti di smaltimento rifiuti, mentre i dati epidemiologici rimangono preoccupanti e continuano a moltiplicarsi le patologie tumorali, soprattutto nei bambini –:
   in che modo intenda intervenire, nell'ambito delle proprie competenze, al fine di realizzare con urgenza le operazioni di bonifica e di risanamento territoriale nei territori della Terra dei fuochi, recuperando la loro valenza ambientale e agricola e tutelando la salute della cittadinanza. (3-02304)
(7 giugno 2016)