TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 609 di Martedì 19 aprile 2016

 
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INTERPELLANZE E INTERROGAZIONI

A) Interrogazione

   LOSACCO. – Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca e al Ministro dell'interno. – Per sapere – premesso che:
   dalle cronache dei media apprendiamo di un nuovo pestaggio presso l'Istituto Perotti di Bari;
   un episodio che risale alla scorsa settimana e di cui si è appresa la notizia solo in questi giorni;
   stando alla ricostruzione dei fatti, due bulli avrebbero immobilizzato e massacrato di botte un terzo ragazzo con calci e pugni, tutti di età compresa tra i 14 e i 17 anni;
   la vittima sarebbe riuscita a rialzarsi e a chiedere aiuto;
   portato al pronto soccorso, al ragazzo sono stati riconosciuti alcuni giorni di prognosi come da referto dei medici che l'hanno curato;
   si tratta di un episodio grave ed inquietante su cui riflettere e prendere provvedimenti –:
   se e quali iniziative il Governo intenda assumere per verificare la dimensione del fenomeno in suddetto istituto e nelle scuole della Puglia al fine di assumere iniziative, per quanto di competenza, per porre in essere misure di maggiore contrasto al fenomeno assicurando maggiore sicurezza all'interno delle scuole.
(3-01906)
(17 dicembre 2015)

B) Interrogazione

   SIMONETTI. – Al Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali e al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. – Per sapere – premesso che:
   negli ultimi tre mesi la regione Piemonte subisce un periodo di siccità a causa di scarse precipitazioni sia nevose che piovose;
   sono, infatti, passati quasi 100 giorni senza che si registrino precipitazioni di rilievo – i fiumi e i laghi sono quasi in secca – e questo ha destato allarme soprattutto negli agricoltori piemontesi;
   il mese di dicembre 2015 è stato il meno piovoso degli ultimi 215 anni ed il mese di gennaio 2016 ha registrato il record negativo della media delle precipitazioni (-65 per cento);
   le alte temperature di questo periodo sono un fenomeno anomalo, che sta causando danni alle coltivazioni, soprattutto di quelle foraggere, che non stanno beneficiando dell'apporto idrico necessario per il loro sviluppo, derivante soprattutto dalle precipitazioni nevose;
   a preoccupare non è solo la situazione attuale, ma, soprattutto, le ricadute per il futuro. Se le condizioni meteo migliorassero, con un febbraio e un marzo nella norma, in particolare per quanto riguarda le precipitazioni nevose, queste determinerebbero accumuli di neve destinati a sciogliersi rapidamente in primavera con conseguenti deficit idrici per l'inizio dell'estate. Verrebbe, così, impedito lo stoccaggio di acqua, portando gli invasi ad essere semivuoti e quindi rendere impossibile il rilascio dei flussi, importanti sia per l'agricoltura che per l'uso di acqua potabile da parte della popolazione. Se persisterà lo stato delle cose, in alcune zone della regione Piemonte potrebbe essere addirittura ridotta la fornitura idrica;
   questo inverno «anomalo» ha portato ad una fioritura anticipata delle piante, quali il nocciolo, soprattutto nelle zone del basso Albese e dell'Alta Langa. Il problema è che se le condizioni meteorologiche dovessero cambiare, con l'arrivo di improvvise gelate, le gemme e i raccolti che hanno già iniziato il loro ciclo vegetale, potrebbero andare distrutti con ingenti danni alle coltivazioni;
   le colture che da questa situazione sicuramente soffriranno sono quella del riso, la quale dovrà essere irrigata già a partire dal prossimo mese di marzo, e quella del mais. Colture queste che hanno bisogno di un importante apporto idrico. In Piemonte le province di Vercelli, Biella e Novara, con Pavia, da sole, producono il 92 per cento del riso nazionale e la superficie coltivata è di 70 mila ettari con oltre mille le aziende sul territorio. La produzione complessiva è di oltre 5 milioni di quintali e quella lorda vendibile ammonta a 200 milioni di euro;
   esistono anche altri problemi a seguito di questo sconvolgimento climatico, che potrebbero portare ad un aggravio della situazione già molto critica. Infatti, la processionaria, un bruco che si nutre di aghi di pino, sta invadendo le conifere; la diffusione della varroa, un acaro parassita che attacca gli alveari delle api, con conseguente danneggiamento, se non addirittura distruzione degli stessi, che si va ad aggiungere, però indipendente dal caldo anomalo di questo periodo, a quello già presente della vespa velutina, un calabrone asiatico, che si nutre di api in prossimità degli alveari, che crea danno al danno. Nella zona della provincia di Cuneo sono presenti circa 30 mila alveari con una produzione annuale di circa 1.500 tonnellate di miele –:
   quali iniziative intendano adottare, per quanto di competenza, anche di tipo economico-finanziario, al fine di sostenere le aziende agricole piemontesi che sono state colpite, negli ultimi mesi, dal fenomeno della siccità, dando, così, impulso ad un settore già fortemente in crisi;
   se non ritengano di dover attivare con urgenza un tavolo tecnico di coordinamento con quelli attivati a livello regionale, per condividere le scelte concernenti la risoluzione delle criticità e monitorare la situazione delle riserve idriche delle regioni. (3-02186)
(18 aprile 2016)
(ex 5-07703 del 9 febbraio 2016)

C) Interrogazione

   RIZZETTO, BARBANTI, ROSTELLATO, BALDASSARRE, ARTINI, PRODANI, SEGONI, TURCO, BECHIS e MUCCI. – Al Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali. – Per sapere – premesso che:
   si è appreso della protesta delle aziende del comparto della viticoltura del Friuli Venezia Giulia rispetto al progetto di organizzare – nei territori del Friuli Venezia Giulia, Veneto e Trentino – una doc interregionale Pinot grigio che dovrebbe essere chiamata «Delle Venezie»;
   la proposta di realizzare un doc unica tra le più importanti aree di produzione del Pinot grigio (300 milioni di bottiglie l'anno vendute principalmente negli Stati Uniti, in Germania e Inghilterra) è stata avanzata dal Veneto, sembra con l'intento di tutelare il Pinot grigio, evitando imitazioni e un calo del prezzo;
   il Comitato promotore per la difesa del vino friulano ha espresso la propria contrarietà all'iniziativa veneta, precisando per l'appunto che non c’è assolutamente la volontà di costituire una doc con il Veneto e che contro l'eventuale attuazione di questo progetto saranno proposti ricorsi giudiziari per tutelare la produzione di Pinot grigio del Friuli Venezia Giulia;
   il progetto prevede la cancellazione di tutte le storiche igt friulane utilizzate e valorizzate da decenni e, inevitabilmente, metterebbe a rischio anche l'esistenza delle storiche denominazioni a origine controllata del Friuli Venezia Giulia;
   a quanto è dato sapere, i dirigenti dell'assessorato all'agricoltura del Friuli Venezia Giulia hanno espresso parere favorevole all'iniziativa. Tuttavia, al riguardo, non sono stati interpellati i produttori friulani, i quali si oppongono al progetto che danneggerebbe il Pinot grigio friulano;
   il Veneto e le sue istituzioni sono i principali sponsor del progetto Pinot grigio doc delle Venezie e per oggettive motivazioni legate alla dimensioni di questa regione ne diverrebbero anche il motore dirigenziale; dunque, la produzione del Friuli Venezia Giulia – con la propria storia, cultura e identità – sarebbe inevitabilmente danneggiata;
   è assurdo a giudizio degli interroganti che i responsabili regionali del Friuli Venezia Giulia abbiano espresso la volontà di aderire al progetto senza consultare gli imprenditori del comparto in questione. Altre regioni come il Trentino-Alto Adige, che, come il Friuli Venezia Giulia ha una forte identità produttiva, hanno immediatamente espresso il loro dissenso all'iniziativa;
   l'iniziativa porterebbe ad una doc di nuova costituzione, per cui la sua presentazione dovrebbe essere accompagnata anche dall'adesione di un consistente numero di produttori regionali, come è avvenuto per la doc Friuli Venezia Giulia. Sicché, in mancanza dell'adesione dei produttori, l'iniziativa non può essere realizzata;
   è bene evidenziare che un prodotto come il vino è indissolubilmente legato al territorio e, pertanto, per il buon andamento del comparto è necessario tutelare il prodotto regionale. Inoltre, proprio per il legame al territorio, si esclude che una doc, dalle caratteristiche assolutamente non omogenee per terreno e clima, potrebbe superare l'approvazione del comitato nazionale delle doc –:
   quali siano gli orientamenti del Ministro interrogato in merito ai fatti premessi;
   se e quali iniziative di competenza intenda intraprendere il Ministro interrogato per tutelare il prodotto Pinot Grigio del Friuli Venezia Giulia, posto che le aziende produttrici sarebbero irrimediabilmente pregiudicate con danno all'economia della regione, qualora sia costituita la doc interregionale come esposto in premessa. (3-02187)
(18 aprile 2016)
(ex 5-05033 del 13 marzo 2015)

D) Interpellanza e interrogazioni

   Il sottoscritto chiede di interpellare il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e il Ministro della salute, per sapere – premesso che:
   da alcuni anni si parla molto, soprattutto in seguito allo sviluppo delle radiofrequenze e onde libere per connessioni wi-fi, nella comunità internazionale dei danni derivanti dal meglio conosciuto inquinamento elettromagnetico. Problema sorto con lo svilupparsi delle apparecchiature wi-fi, computer, tablet, cellulari (telefonia mobile), microonde;
   questo abnorme e veloce sviluppo elettronico ha portato alla osservazione, alla conoscenza e alla presa di atto del fatto che detto sviluppo tecnologico è tutt'altro che innocuo e inoffensivo per il genere umano;
   studi e ricerche (ancora da approfondire) lamentano i gravi danni per la salute umana, soprattutto per bambini, adolescenti e donne in stato di gravidanza. Danni che hanno rilevanza importante e a volte mortale, come l'esponenziale aumento del tumori (+400 per cento), dei danni alle cellule cerebrali, l'abbassamento del tasso di fertilità. Aumento notevole delle proteine da stress, danni all'apparato visivo, sfaldamento delle cellule dell'occhio, diminuzione del sonno, eccitabilità ed afasia dati dall'eccessivo uso del computer o del tablet;
   con ogni evidenza questi sono danni importanti dovuti non solo alle alte frequenze con lo sviluppo del calore (anche corporeo), ma portati anche dalle basse frequenze, che si scopre essere – anch'esse – tutt'altro che innocue. La comunità scientifica è fortemente preoccupata ed ha, recentemente, lanciato un appello/petizione, per correre ai ripari al più presto;
   l'evidenza della difficoltà che il problema rappresenta è evidenziata dal fatto che la nostra società è oramai tutta, e a tutti i livelli, fortemente improntata dall'uso dei supporti elettronici senza fili, come quelli in questione;
   la legislazione, sebbene allarmata e articolata da tempo, risulta insufficiente alla sicurezza e alla salvaguardia della specie umana in prima persona e anche alla salvaguardia delle risorse naturali stesse. Tutto ciò sebbene alcuni accorgimenti potrebbero, ad oggi, essere utilizzati. Come l'uso del legno più che dei metalli (il legno non è conduttore di onde elettromagnetiche) ed anche l'utilizzo di alcune piante che pare abbiano la capacità di assorbire le radiazioni, così come, anche, alcuni minerali come la tormalina, il quarzo ed altri;
   la disinformazione generalizzata è il pericolo più importante ed imminente, l'uso indiscriminato delle tecnologie senza fili, utilizzate anche nelle scuole (asili nido, materne, elementari, medie) e negli ospedali è un dato di forte apprensione, essendo questi luoghi a forte rischio e con minore salvaguardia proprio perché legati alla minore possibilità di difesa del corpo stesso, sia per l'età dei soggetti che per i disagi fisici dei soggetti malati –:
   come intendano adoperarsi in merito e se non ritengano opportuno aumentare il livello di guardia, sensibilizzando la popolazione sugli evidenti danni provocati dalle apparecchiature elettroniche, radio e di comunicazione eccessivamente usate al giorno di oggi, ponendo, per esempio, un limite di età all'uso delle apparecchiature come i computer e i cellulari, vietando l'uso degli stessi (se non per quelli a fibra ottica e via cavo) negli ambienti più a rischio;
   se non ritengano di assumere iniziative per vietare l'uso di tali apparecchiature nelle scuole e negli ospedali, privilegiando l'uso di quelle a collegamento via cavo;
   se non sia opportuno riportare, assumendo iniziative per abrogare l'articolo 14, comma 8, del decreto-legge n. 179 del 2012, la misurazione dei campi elettromagnetici a 6 ore e non a 24 come il suddetto decreto-legge prevede, accogliendo in toto l'appello per la difesa della salute dalle radiazioni a radiofrequenza e microonde, come da lettera della task force sui campi elettromagnetici del 26 febbraio 2015.
(2-00972) «Melilla».
(13 maggio 2015)

   INCERTI. – Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca e al Ministro della salute. – Per sapere – premesso che:
   nel maggio 2011 è partito espressamente il progetto «scuole in WIFI» con l'obiettivo – tramite dotazione di un «kit wifi» – di consentire ad un numero crescente di istituzioni scolastiche di realizzare reti di connettività senza fili interne agli edifici per offrire servizi innovativi;
   il successivo 27 maggio 2011 una risoluzione del Consiglio d'Europa, la n. 1815, invita i Paesi membri a limitare l'esposizione ai campi elettromagnetici in particolare per «i bambini e i giovani che sembrano essere i più suscettibili ai tumori alla testa»;
   con il decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, in particolare all'articolo 14, «interventi per la diffusione delle tecnologie», vengono fissati i valori e i limiti intesi a minimizzare il grado di esposizione, tenuto conto dell'utilità di reti di connessione per lo sviluppo tecnologico degli istituti scolastici, ma nello stesso tempo della necessità di applicare il principio di precauzione;
   l'articolo 11 della legge 12 settembre 2013, n. 128, ha inoltre autorizzato la spesa per gli anni 2013 e 2014, rispettivamente di 5 milioni di euro e di 10 milioni di euro, per assicurare alle istituzioni scolastiche la realizzazione e la fruizione della connettività wireless, in modo da consentire agli studenti l'accesso ai materiali didattici ed ai contenuti digitali –:
   se i Ministri interrogati non intendano avviare un monitoraggio sulle condizioni e sul rispetto dei suddetti limiti;
   se si intendano assumere iniziative per rivedere la normativa vigente e, in particolare, l'articolo 14 del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, che, prevedendo il calcolo dei valori della media di esposizione sulle 24 ore, di fatto, non tiene conto dell'utilizzo effettivo limitato ad un massimo di 12 ore;
   se, altresì, non ritengano opportuno avviare l'utilizzo di diverse modalità, oltre al wifi. (3-02189)
(18 aprile 2016)
(ex 5-04686 del 10 febbraio 2015)

   DIENI. – Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e al Ministro della salute. – Per sapere – premesso che:
   «L'Assemblea parlamentare (del Consiglio d'Europa) ha ripetutamente sottolineato l'importanza dell'impegno degli Stati membri a preservare l'ambiente e la salute umana dai rischi ambientali» (risoluzione dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa n. 1815 del 27 maggio 2011);
   «La telefonia mobile è diventata comune nel mondo. Questa tecnologia wireless (senza fili) che si basa su una rete estesa di antenne fisse, o stazioni base, trasmette l'informazione mediante segnali a radiofrequenza. Nel mondo esistono più di 1.400.000 stazioni base ed il numero sta crescendo significativamente con l'introduzione della tecnologia di terza generazione. Altre reti wireless che consentono accesso e servizi con internet ad alta velocità, come reti wireless locali, sono comunemente in crescita nelle abitazioni, uffici e in molte aree pubbliche (aeroporti, scuole, aree residenziali ed urbane). Man mano che il numero delle stazioni base e delle reti wireless locali aumenta, aumenta anche l'esposizione della popolazione alla radiofrequenza»;
   «[...] determinate onde ad alta frequenza usate nel campo dei radar, telecomunicazioni o telefonia mobile, sembrano avere [...] effetti biologici su piante, insetti e animali come sul corpo umano [...]»;
   con provvedimento del 31 maggio 2011, n. 208, l'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro dell'Organizzazione mondiale della sanità ha inserito i campi di radiofrequenza elettromagnetica nel «gruppo 2B», classificandoli come «agenti possibilmente cancerogeni per l'uomo»;
   «Alla luce delle considerazioni di cui sopra, l'Assemblea raccomanda che gli Stati membri del Consiglio d'Europa»: «intraprendano tutte le ragionevoli misure per ridurre l'esposizione ai [campi elettromagnetici]»; «riconsiderino le basi scientifiche per gli attuali standard di esposizione ai [campi elettromagnetici] fissati dalla [Commissione internazionale per la protezione dalle radiazioni non ionizzanti]»; «fissino soglie preventive per l'esposizione a lungo termine alle microonde e in tutte le zone all'interno (indoor), in accordo con il principio di precauzione, che non superino gli 0,6 volt/metro e nel medio termine ridurre questo valore a 0,2 v/metro»;
   ai sensi dell'articolo 3, comma 1, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri dell'8 luglio 2003, i valori massimi di esposizione ai campi elettromagnetici sono di 6 volt/metro;
   quindi, i limiti di esposizione in Italia sono ben 30 volte superiori ai limiti che l'Europa ci chiede di rispettare; in effetti, questa normativa e la presenza di ponti radio di telefonia mobile in luoghi urbani fanno sì che il valore di sicurezza sia abbondantemente superato nelle case dei cittadini che disgraziatamente si trovano vicine a queste antenne, con danni sulla salute come espresso dall'Organizzazione mondiale della sanità;
   secondo il report sulle misure dei campi elettromagnetici in località Ravagnese nel comune di Reggio Calabria, i risultati delle misure effettuate nel corso degli anni 2008 e 2011 presso gli impianti a radiofrequenza nell'area di Ravagnese-Saracinello sono inferiori ai limiti di esposizione italiani, ma di 10 volte superiori a quelli europei –:
   quali iniziative di competenza il Governo intenda assumere, in concorso con gli enti territoriali locali e con le forze sociali, per recepire le raccomandazioni di cui alla risoluzione dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa n. 1815 del 27 maggio 2011 e adottare ogni altra misura necessaria a prevenire e ridurre il rischio dei possibili effetti nocivi dei campi elettromagnetici sull'ambiente e sulla salute umana, a cominciare dall'abbassamento dei limiti di esposizione a tali campi e dallo spostamento delle antenne fisse dai centri urbani. (3-02190)
(18 aprile 2016)
(ex 4-04574 del 18 aprile 2014)

E) Interpellanza e interrogazioni

   I sottoscritti chiedono di interpellare il Presidente del Consiglio dei ministri e il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, per sapere – premesso che:
   il decreto-legge n. 133 del 2014, cosiddetto «sblocca Italia», ha previsto all'articolo 35, comma 1, l'emanazione di un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri per l'individuazione a livello nazionale della capacità complessiva di trattamento di rifiuti urbani e assimilati, degli impianti di incenerimento in esercizio o autorizzati, e l'individuazione di ulteriori impianti di incenerimento da realizzare per coprire il fabbisogno residuo del territorio nazionale;
   tali impianti vengono dichiarati infrastrutture e insediamenti strategici di preminente interesse nazionale;
   il citato decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, all'esame della conferenza Stato-regioni del 20 gennaio 2016, pur riducendo gli inceneritori strategici da 12 a 8, rispetto alla sua prima stesura, conferma gli assunti secondo gli interpellanti sbagliati, ossia favorevoli a nuovi inceneritori, della versione precedente del decreto;
   gli impianti di incenerimento da realizzare, individuati dal suddetto decreto del Presidente del Consiglio dei ministri sono tutti situati nelle regioni del Centro-Sud: Marche, Umbria, Lazio, Campania, Abruzzo, Sardegna, Sicilia (2 impianti). A questi si aggiunge la previsione per la Puglia, di un potenziamento dell'impianto di incenerimento esistente;
   una decisione per nuovi inceneritori decisa dal Governo che, scavalcando gli enti territoriali, rischia di affossare gli sforzi che le regioni stanno facendo, e che dovranno fare, per una programmazione virtuosa della gestione dei rifiuti e per la crescita della raccolta differenziata, del riciclaggio e del recupero dei rifiuti stessi;
   come hanno scritto le principali associazioni ambientaliste in una lettera aperta al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare Galletti, «si continua a puntare sull'incenerimento quando l'andamento della produzione di rifiuti solidi urbani è da anni in calo. (...) Il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri ribadisce il «pretrattamento=incenerimento», secondo un principio che non trova fondamento in alcuna direttiva europea e che non tiene conto dei problemi che tale approccio porrebbe in prospettiva, visti gli scenari di massimizzazione progressiva del recupero di materia resi imprescindibili dalla crisi globale di scarsità delle risorse e dalla strategia dell'Unione europea sull'economia circolare che vuole darvi soluzione»;
   si ricorda che la normativa comunitaria relativa alla questione dei rifiuti, e principalmente la direttiva 2008/98/CE, prevede alcuni criteri di priorità nella gestione degli stessi, attraverso la fissazione di una gerarchia che parte dalla prevenzione, seguita da: preparazione per il loro utilizzo, riciclaggio, recupero di altro tipo (ad esempio a fini energetici) e, infine, smaltimento;
   una seria e virtuosa politica di gestione dei rifiuti dovrebbe andare in tutt'altra direzione rispetto a quella di fatto intrapresa dal Governo: ossia dovrebbe avere l'obiettivo di ridurre al minimo le conseguenze negative della produzione e della gestione dei rifiuti per la salute umana e l'ambiente e puntare a promuovere l'applicazione pratica della gerarchia dei rifiuti sancita a livello europeo, anche attraverso una graduale dismissione degli impianti di incenerimento esistenti –:
   se non si intendano assumere iniziative per subordinare la nuova realizzazione degli impianti di incenerimento, previsti al Centro e al Sud del Paese, alla predisposizione da parte delle regioni interessate di una efficace programmazione che punti, anche attraverso un'implementazione della necessaria impiantistica, a incentivare la raccolta differenziata e il recupero non energetico dei rifiuti;
   se non si ritenga indispensabile avviare una seria ed efficace politica di gestione del ciclo dei rifiuti, rispettosa e coerente con le indicazioni e gli obiettivi europei per un'economia circolare e per l'applicazione pratica della gerarchia dei rifiuti, ossia prevenzione, preparazione per il loro utilizzo, riciclaggio, recupero di altro tipo (anche a fini energetici) e, in ultimo, smaltimento;
   quali iniziative si intendano adottare che siano alternative alla realizzazione e al potenziamento degli impianti di incenerimento e se non si intenda investire in piani e programmi che rendano sempre più residuale il recupero energetico dei rifiuti.
(2-01232)
«Scotto, Zaratti, Pellegrino, Ricciatti, Ferrara, Duranti, Fratoianni, Giancarlo Giordano, Palazzotto, Pannarale, Piras, Sannicandro, Zaccagnini».
(22 gennaio 2016)

   CARRESCIA, PREZIOSI, MANZI, GIOVANNA SANNA, ZARDINI, COMINELLI, CAROCCI, TULLO, BRATTI, CARELLA, STELLA BIANCHI e CAPONE. – Al Presidente del Consiglio dei ministri e al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. – Per sapere – premesso che:
   l'articolo 35 del decreto-legge n. 133 del 2014 (cosiddetto «sblocca Italia»), convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164, stabilisce che entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto «il Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, con proprio decreto, individua a livello nazionale la capacità complessiva di trattamento di rifiuti urbani e assimilati degli impianti di incenerimento in esercizio o autorizzati a livello nazionale, con l'indicazione espressa della capacità di ciascun impianto, e gli impianti di incenerimento con recupero energetico di rifiuti urbani e assimilati da realizzare per coprire il fabbisogno residuo, determinato con finalità di progressivo riequilibrio socio-economico fra le aree del territorio nazionale e nel rispetto degli obiettivi di raccolta differenziata e di riciclaggio, tenendo conto della pianificazione regionale. Gli impianti così individuati costituiscono infrastrutture e insediamenti strategici di preminente interesse nazionale, attuano un sistema integrato e moderno di gestione di rifiuti urbani e assimilati, garantiscono la sicurezza nazionale nell'autosufficienza, consentono di superare e prevenire ulteriori procedure di infrazione per mancata attuazione delle norme europee di settore e limitano il conferito di rifiuti in discarica»;
   il testo dello schema del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri previsto dall'articolo 35 è stato trasmesso il 27 aprile 2015 dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare alla Presidenza del Consiglio dei ministri che ha provveduto (nota protocollo CSR 000423 P-4 23.2.14 del 29 luglio 2015) ad avviare l’iter per l'acquisizione del previsto parere della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano;
   lo schema reca anche l'individuazione del fabbisogno residuo da coprire mediante la realizzazione di impianti di incenerimento con recupero di rifiuti urbani e assimilabili;
   molte sono le criticità che però la proposta presenta, sia dal punto di vista tecnico sia di coerenza, con la ratio legis dell'articolo 35 del decreto-legge n. 133 del 2014;
   le informazioni acquisite dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, poste alla base dello schema del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, relativamente alla disponibilità di impianti attivi o autorizzati come impianti di incenerimento riguardano infatti il periodo antecedente agli obblighi di adeguamento derivanti dalla attuazione dell'articolo 35 stesso, in particolare i commi 3 e 5, nonché, in taluni casi, piani regionali di gestione rifiuti da adeguare e non adeguati nei termini previsti dall'articolo 199 del decreto legislativo n. 152 del 2006 (12 dicembre 2013) ovvero, per quelli adeguati, una loro non congrua valutazione;
   le conclusioni relative al fabbisogno impiantistico partono da informazioni e dati che non essendo sempre aggiornati risultano ancora «al netto» dell'intervento normativo dei commi 3 e 5 dell'articolo 35 dello «sblocca Italia» e della capacità effettivamente trattabile dai singoli impianti;
   lo schema finisce così, ad avviso degli interroganti, per essere in contrasto con la logica degli avvenimenti intercorsi e con la consistente diminuzione del fabbisogno residuo di incenerimento che deriva dall'attuazione dei piani e da una loro più corretta interpretazione;
   il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare ha utilizzato una modalità di calcolo del fabbisogno di smaltimento (rectius di recupero) finale che talora non ha tenuto conto in modo corretto dello scenario dei piani regionali di gestione dei rifiuti; tipico è il caso della regione Marche, il cui piano regionale di gestione dei rifiuti pone l'obiettivo di riduzione della produzione dei rifiuti del 6,2 per cento al 2020 a fronte di una raccolta differenziata almeno del 70 per cento; gli scenari del piano ipotizzano inoltre un 20 per cento circa di materiali di recupero dal flusso dei rifiuti urbani avviati al trattamento e che vanno perciò sottratti dalla quota dell'incenerimento, così come il 30 per cento di css-combustibile e altro; sono insomma situazioni che modificano (da 200.000 a circa 85.000 tonnellate l'anno il dato finale ipotizzato dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri); analoghe situazioni si rinvengono anche con riferimento ad altri piani regionali;
   lo schema del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, al fine di individuare il fabbisogno residuo, ha assunto come riferimento la produzione di rifiuti urbani indifferenziati e lo ha calcolato sulla base di una raccolta differenziata del 65 per cento che però, ai sensi dell'articolo 205 del decreto legislativo n. 152 del 2006 e delle gerarchie comunitarie di gestione, è solo un «obiettivo minimo» e non «un vincolo da non superare...», tant’è che alcune regioni (per esempio anche il Veneto) hanno programmato soglie più elevate;
   è doveroso ricordare che la Corte costituzionale, pur quando ha riconosciuto la prevalenza della specifica disciplina statale in presenza di esigenze ambientali incomprimibili, ha comunque ammesso la residua potestà delle regioni di assicurare livelli di tutela maggiori di quelli previsti dallo Stato (sentenza n. 58 del 2013);
   lo schema del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri computa una necessità di incenerimento del 10 per cento dei rifiuti raccolta differenziata; le percentuali di scarti, nei modelli domiciliari (quelli di riferimento per il conseguimento degli obiettivi nazionali di raccolta differenziata e soprattutto per quelli ora in discussione nell'ambito del dibattito sulla economia circolare a livello di Unione europea) sono però inferiori, a volte marcatamente inferiori; non tutti gli scarti da attività di riciclaggio sono inceneribili (ad esempio gli scarti da vetrerie) e gran parte degli scarti inceneribili sono invece anche riciclabili (ad esempio le plastiche eterogenee), in modo più coerente con le gerarchie dell'Unione europea di gestione dei rifiuti ed anche traendone un migliore profitto economico;
   gli scenari europei porteranno ad un aumento degli obiettivi di recupero di materia che non potranno coesistere con una situazione di infrastrutturazione «pesante» basata esclusivamente sugli inceneritori, impianti finanziariamente sostenibili solo con un'alimentazione con flussi «certi» di rifiuti urbani per 20-30 anni;
   viene poi assunta una produzione del 65 per cento di css dagli impianti di pretrattamento; è un dato che appare decisamente eccessivo rispetto alla realtà degli stessi impianti di produzione e che non tiene neppure conto dei quantitativi di css che rispondendo alle condizioni di cui all'articolo 184-ter del codice dell'ambiente sono utilizzabili in cementifici o centrali termoelettriche (14 dicembre 2013) e che vanno dunque sottratti al computo delle necessità complessive di incenerimento come rifiuti;
   lo schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri non sembra aver tenuto in debito conto nemmeno delle politiche regionali che hanno previsto la «riduzione» dei rifiuti urbani prodotti attraverso azioni incisive di prevenzione e riciclo. È assunta solo un’«invarianza del quantitativo di rifiuti urbani», ma non viene valutato l'effetto dei programmi di prevenzione/riduzione del rifiuto resi obbligatori dall'articolo 29 della direttiva 2008/98, del decreto direttoriale del Ministero dell'ambiente e delle tutela del territorio e del mare del 7 ottobre 2013 recante «Adozione e approvazione del programma nazionale di prevenzione dei rifiuti»;
   il profilo più rilevante che richiede un atto parlamentare sull'argomento sta nel fatto che la ratio dell'articolo 35 non è quella di voler soddisfare il fabbisogno residuo solo con l'incenerimento. Il richiamo esplicito alle pianificazioni regionali sovente incentrate su soluzioni organizzative (ad esempio massimizzazione del «porta a porta», del riciclo e del recupero) significa che non si sono voluti precludere comunque scenari diversi dalla soluzione «unica» della termodistruzione invece ipotizzata nello schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri;
   in altri termini l'obiettivo non era (e non può divenire ora con un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri «attuativo») quello di ottenere l'autosufficienza nella gestione dei rifiuti urbani mediante la costruzione esclusivamente di inceneritori in ogni «macro Area» e, all'interno di ciascuna di esse, in quasi tutte le regioni;
   il fatto che ogni regione non necessariamente debba essere autosufficiente solo mediante inceneritori è dimostrato dalla possibilità di conferire i rifiuti urbani alla termodistruzione anche fuori quella di produzione (articolo 35, comma 7, del decreto-legge n. 133 del 2014);
   la criticità dello schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri sta nell'avere invece assunto lo scenario dell'incenerimento con recupero di energia come unica soluzione finale, mentre la stessa direttiva comunitaria e quella nazionale la pongono solo come «un'opzione» seppur gerarchicamente da preferire allo smaltimento in discarica, ma non certo nei termini ultimativi e alternativi ad ogni altra soluzione;
   l'ordine di priorità nella gerarchia delle soluzioni non significa che una esclude tassativamente l'altra, perché se così fosse sarebbe lecito chiedersi perché non si concentrino le risorse e le azioni solo sulla prevenzione, riciclo e recupero;
   ma vi sono anche altre criticità di carattere tecnico-normativo;
   le tabelle allegate allo schema di decreto riportano i quantitativi trattabili in termini di tonnellate per anno;
   l'introduzione dello scenario dell’«incenerimento dei rifiuti urbani» come unico e vincolante scardinerebbe in molte regioni le politiche virtuose finora realizzate e quelle programmate di prevenzione della produzione di rifiuti, di riciclo e recupero e sarebbe antieconomica e in contraddizione con gli indirizzi di programmazione locale;
   essa comporta anche significative ripercussioni sulla programmazione regionale; vedasi, ad esempio, quella della Lombardia, in particolare sull'autosufficienza riguardante lo smaltimento mediante recupero energetico dei rifiuti indifferenziati e in relazione ad obiettivi strategici come la decommissioning di alcuni impianti per la quale quella regione ha attivato tavoli di lavoro con operatori e amministratori locali per la gestione delle istruttorie di rispettiva competenza;
   inoltre, ai sensi dell'articolo 3 paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2001/42/CE, i piani e i programmi che sono elaborati per il settore della gestione dei rifiuti sono soggetti ad una valutazione ambientale strategica, la quale deve precedere «tutti i piani e i programmi che sono elaborati (...) per la valutazione della gestione dei rifiuti» (negli stessi termini dispone l'articolo 6, comma 2, lettera a), dell'attuativo decreto legislativo n. 152 del 2006);
   il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri in questione rientra appieno in questa casistica e non può esimersi dalla valutazione ambientale strategica, né il singolo inceneritore potrebbe sottrarsi ai criteri localizzativi dei piani regionali e soprattutto all'idoneità/non idoneità delle aree, al rispetto dei vincoli ambientali e paesaggistici che il decreto legislativo n. 152 del 2006 ha demandato a regioni e province (si pensi alle aree Pai, Zps, Doc, Dop, Z.T.B., Rete Natura 2000 – direttiva Habitat 92/43/CEE, direttiva «uccelli» 79/409/CEE, aree boscate e altro);
   in altri termini, l'articolo 35 del decreto-legge n. 133 del 2014 contempla un vero e proprio programma integrato nazionale per la gestione dei rifiuti urbani e speciali mediante impianti di recupero energetico. La norma stabilisce, infatti, che gli impianti di recupero inseriti nel decreto del Presidente del Consiglio dei ministri di cui al comma 1 sono qualificati come infrastrutture di preminente interesse nazionale, che i medesimi devono essere autorizzati ad operare a saturazione del carico termico, che dovranno rispondere alle caratteristiche degli impianti R1 e che, non sussistendo vincoli di bacino, all'interno degli stessi dovrà essere data priorità al trattamento dei rifiuti urbani provenienti dall'intero territorio nazionale;
   l'articolo 4 della direttiva 2001/42/CE (cosiddetta direttiva vas), rubricato «obblighi generali», stabilisce inoltre che «la valutazione ambientale di cui all'articolo 3 deve essere effettuata durante la fase preparatoria del piano o del programma ed anteriormente alla sua adozione o all'avvio della relativa procedura legislativa»;
   ai sensi degli articoli da 5 a 12 della menzionata direttiva, poi, la procedura di valutazione ambientale strategica deve comprendere lo svolgimento di una verifica di assoggettabilità, l'elaborazione del rapporto ambientale, lo svolgimento di consultazioni, la valutazione del piano o del programma, del rapporto e degli esiti delle consultazioni, l'espressione di un parere motivato, l'informazione sulla decisione e il monitoraggio;
   il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri appare dunque in contrasto con i suddetti obblighi della direttiva valutazione ambientale strategica, in quanto adotta un vero e proprio programma nazionale in materia di gestione integrata dei rifiuti, senza aver dato luogo alla necessaria procedura di valutazione strategica ambientale, con ciò ponendosi in contrasto con gli scopi perseguiti dal legislatore europeo;
   il mancato assoggettamento alla valutazione ambientale strategica, anche alla luce della necessità di definire criteri univoci per la distribuzione territoriale degli impianti e per la valutazione degli impatti discendenti dalle scelte localizzative da assumere, comporta l'elusione delle finalità perseguite dalla direttiva comunitaria, quali quella di garantire un elevato livello di protezione dell'ambiente e di contribuire all'integrazione delle considerazioni ambientali all'atto dell'elaborazione, dell'adozione e dell'approvazione dei piani e programmi, assicurando che i medesimi siano coerenti e contribuiscano alle condizioni per uno sviluppo sostenibile;
   la previsione in una «rete nazionale» impiantistica strategica non può però prescindere dal tener conto, in un rapporto di leale collaborazione istituzionale, del potere programmatorio e regolamentare delle regioni, anche in relazione al progressivo passaggio da impianti di smaltimento di rifiuti tramite combustione a veri e propri impianti di recupero energetico ed al fatto che dalla lettura congiunta dell'articolo 182, comma 3, dell'articolo 199 del decreto legislativo n. 152 del 2006 e dell'articolo 35 del decreto-legge n. 133 del 2014, così come convertito dalla legge n. 164 del 2014, che gli impianti non sono vincolati al trattamento dei soli rifiuti prodotti nel territorio (ato, regione, macroarea) qualora si tratti di rifiuti speciali, fossero pure derivanti dai rifiuti urbani;
   la ripartizione in macro-aree basata su meri criteri teorici e che non tiene conto della viabilità e della contiguità dei territori, delle relazioni e accordi interregionali intercorsi negli anni e di assetti organizzativi consolidati non sembra poi rispondere ad una logica di razionalizzazione del settore;
   un inceneritore in regioni in cui allo stato attuale della produzione di rifiuti urbani la raccolta differenziata, ha superato (ad esempio Trentino-Alto Adige) o è già prossima (ad esempio Marche) all'obiettivo del 65 per cento e nelle quali vi è ancora disponibilità di discariche autorizzate (quindi «conformi alla legge») e previste dai piani regionali di gestione dei rifiuti adeguati al decreto legislativo n. 152 del 2006 determinerebbe la necessità di rivedere tutti i piani di ammortamento finanziaria delle discariche, di quelli per la gestione post-mortem e di ripristino ambientale con oneri che andrebbero a cumularsi a quelli, oltremodo ingenti, per realizzare un impianto di incenerimento, costi che si tradurrebbero in un aumento della tassazione per i cittadini –:
   se il Governo non ritenga opportuno, assumere iniziative per:
    a) riesaminare lo schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri inoltrato alle regioni e province autonome con nota protocollo CSR 000423 P-4 23.2.14 del 29 luglio 2015 e riproporne uno che sia più coerente con la ratio legis dell'articolo 35 del decreto-legge n. 133 del 2014 e che sia basato su un'altra e più aggiornata fase di raccolta delle informazioni per verificare gli effetti, in termini di aumento della capacità operativa degli impianti di incenerimento derivanti dagli adeguamenti e delle verifiche previsti dai commi 3 e 5 del medesimo articolo, nonché elaborare una programmazione che tenga conto delle variazioni nel frattempo intervenute o già previste sui territori in attuazione dei piani regionali di gestione dei rifiuti;
    b) non prevedere la realizzazione di inceneritori in quelle regioni che hanno già fissato obiettivi di raccolta differenziata superiori al 65 per cento almeno fino al raggiungimento della percentuale prevista e comunque solo se il quantitativo residuale dovesse infine essere superiore alla «taglia minima» di 100.000 tonnellate all'anno. (3-02188)
(18 aprile 2016)
(ex 5-6449 del 23 settembre 2015)

   TERZONI, ZOLEZZI, BUSTO, DAGA, DE ROSA, MANNINO, MICILLO e VIGNAROLI. – Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. – Per sapere – premesso che:
   al Governo, con l'articolo 35 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, detto «sblocca Italia», convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164, è stata attribuita la facoltà di predisporre un piano nazionale per l'incenerimento da approvare attraverso un successivo decreto;
   l'articolo 35 del decreto-legge è stato successivamente impugnato davanti alla Corte costituzionale dalla regione Lombardia; l'udienza è prevista per l'autunno inoltrato;
   lo schema di decreto è stato presentato alla Conferenza Stato-regioni a settembre 2015, ricevendo un parere favorevole il 5 febbraio 2016, con il voto sfavorevole di Campania e Lombardia e la richiesta di alcuni emendamenti da parte di altre regioni, in particolare sui contenuti dei piani regionali sui rifiuti;
   il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare ha attivato il 15 marzo 2016 la procedura di assoggettabilità a valutazione ambientale strategica del programma nazionale da approvare con il decreto, pubblicando il rapporto preliminare ambientale relativo al programma nazionale di impianti di incenerimento per rifiuti urbani ed assimilati;
   nel rapporto del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare i redattori interpretano la normativa ritenendo che il piano nazionale sarà sovraordinato ai piani regionali esistenti e a quelli in fase di redazione, che dovranno adeguarsi al quadro tracciato dal Governo. Resterà alle regioni, secondo i funzionari ministeriali, la localizzazione e l’iter amministrativo per la costruzione degli impianti che sulla base del decreto assumeranno la classificazione di «infrastrutture e insediamenti strategici di preminente interesse nazionale»;
   il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, nel rapporto preliminare rivolto alle sole autorità con competenze ambientali, sostiene che il piano debba essere escluso dalla fase pubblica di valutazione ambientale strategica. I redattori del rapporto sostengono, infatti, che non è possibile procedere a valutare gli effetti ambientali del piano essendo questa una fase programmatica;
   se il piano non verrà sottoposto a valutazione ambientale strategica completa verrà meno il confronto con cittadini, associazioni ed enti locali, obbligatorio per la fase completa;
   il piano prevede la costruzione di oltre dieci nuovi impianti per incenerire 1,8 milioni di tonnellate di rifiuti in più all'anno nel Paese;
   da un punto di vista tecnico basterebbe prendere in considerazione le emissioni (di polveri, diossine, metalli pesanti, idrocarburi policiclici aromatici e altro) per tonnellata di rifiuti incenerita in un impianto italiano e moltiplicarlo per le quantità di rifiuti che il Ministero vorrebbe far incenerire, per avere un dato certo di inquinamento da cui partire per valutare gli effetti sull'ambiente di questo programma;
   nello scorso inverno l'intero Paese per settimane si è bloccato a causa dell'inquinamento da polveri sottili con gravi conseguenze sanitarie ed economiche;
   l'Italia è altresì sotto procedura d'infrazione proprio perché già ora non rispetta gli standard ambientali per la qualità dell'aria, con conseguenze catastrofiche dal punto di vista della salute dei cittadini e morti a decine di migliaia secondo le massime autorità comunitarie in campo ambientale;
   le ceneri derivanti dall'incenerimento di una così ampia quantità di rifiuti dovranno comunque essere oggetto di smaltimento e di tutto ciò non vi è traccia nel documento ministeriale;
   sul tema è stata presentata l'interrogazione n. 4-12675, a firma dell'onorevole Zolezzi, ancora in attesa di risposta –:
   se il rapporto preliminare ambientale abbia recepito le richieste espresse da diverse regioni in Conferenza Stato-regioni circa la validità dei propri piani, già approvati o in via di aggiornamento, qualora escludano il ricorso all'incenerimento;
   se non ritenga che un piano di così vasta portata debba essere assoggettato ad una valutazione ambientale strategica completa, includendo quindi la fase di confronto con i cittadini e le organizzazioni sociali, nonché con gli enti locali come i comuni, tenendo conto che l'impatto sulla qualità dell'aria e sulle altre matrici ambientali nonché sulla salute umana è facilmente desumibile. (3-02191)
(18 aprile 2016)
(ex 4-12827 del 13 aprile 2016)

   PIRAS, PELLEGRINO, DURANTI, QUARANTA, RICCIATTI, FOLINO, MELILLA e NICCHI. – Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e al Ministro dello sviluppo economico. – Per sapere – premesso che:
   il 29 luglio 2015 il Governo ha inviato una bozza di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri alle regioni – attuativa del decreto-legge n. 133 del 2014 (cosiddetto «sblocca Italia») – sulla realizzazione di nuovi impianti di incenerimento. Nello specifico la bozza prevedeva l'autorizzazione di 12 nuovi inceneritori in dieci diverse regioni: due in Toscana e Sicilia, uno in Piemonte, Liguria, Veneto, Umbria, Marche, Campania, Abruzzo e Puglia;
   anche in seguito alla ferma opposizione da parte dei presidenti di regione interessati dal provvedimento, la bozza di decreto non ha avuto seguito;
   a quanto si apprende da diversi organi di stampa (fra cui anche Il Fatto quotidiano del 27 dicembre 2015) circolerebbe ad oggi una seconda bozza di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri con la previsione della costruzione di nove (anziché dodici) nuovi inceneritori, questa volta distribuiti in Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Campania, Abruzzo, Sardegna e due in Sicilia;
   diversi studi, fra cui quello epidemiologico Arpa sull'inceneritore di Vercelli, hanno dimostrato come fra la popolazione esposta agli impianti di incenerimento la mortalità aumenti del 20 per cento e la comparsa di tumori maligni del 60 per cento;
   per essere economicamente sostenibile, come espresso più volte da diversi esperti del settore, un inceneritore deve avere una durata ventennale, rischiando quindi seriamente di ingessare gli scenari incrementali di raccolta differenziata;
   la direttiva 2008/98/CE introduce, per quanto concerne il ciclo dei rifiuti, il cosiddetto «principio gerarchico delle 4R» (riduzione, riutilizzo, riciclaggio e recupero energetico);
   attualmente le principali tipologie di impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti speciali esistenti in Sardegna sono le seguenti: impianti di incenerimento/coincenerimento; discariche; impianti di stoccaggio; impianti di recupero;
   la regione Sardegna è dotata di un piano di gestione dei rifiuti che ha assunto, come linea-guida cardine della propria articolazione, la necessità di strutturare le raccolte dei rifiuti urbani in maniera tale da programmare e gestire con efficienza ed efficacia le successive operazioni di recupero, trattamento e smaltimento;
   suddetto piano, in coerenza con i principi e i vincoli delle norme comunitarie, ha scelto di privilegiare sistemi di raccolta che responsabilizzino i cittadini e li rendano pienamente partecipi di una gestione dei rifiuti ambientalmente corretta. Viene sostituito definitivamente il concetto di raccolta indifferenziata con quello di una raccolta differenziata che garantisca la massima quantità e la migliore qualità dei materiali recuperabili dai rifiuti. Come elemento base, pertanto, va data priorità all'attivazione delle raccolte domiciliari, le uniche intrinsecamente in grado di indurre comportamenti virtuosi;
   nel corso degli anni la regione Sardegna ha avuto un netto incremento nei risultati ottenuti dalla raccolta differenziata: nel 2013 una percentuale del 50,9 per cento, nel 2008 ha raggiunto il 34,7 per cento confermando il trend positivo che dal 19,8 per cento del 2006 era già passato al 27,9 per cento nel 2007;
   tra gli obiettivi ambientali del piano regionale dei rifiuti, si ha la riduzione della produzione di rifiuti e della loro pericolosità, l'implementazione delle raccolte differenziate, l'implementazione del recupero di materia, la valorizzazione energetica del non riciclabile, la riduzione del flusso di rifiuti indifferenziati allo smaltimento in discarica e soprattutto la minimizzazione della presenza sul territorio regionale di impianti di termovalorizzazione e di discarica;
   il decreto legislativo n. 152 del 2006 incentra i suoi dettati sul rispetto della gerarchia comunitaria della gestione dei rifiuti, che impone di conseguire, nell'ordine: a) la prevenzione della produzione dei rifiuti; b) la preparazione per il riutilizzo; c) il riciclaggio; d) il recupero di altro tipo, per esempio il recupero di energia; e) lo smaltimento;
   in Sardegna, oltre alcune discariche, sono presenti due impianti di incenerimento: quello di Macchiareddu, saturato dalla produzione dei rifiuti urbani delle province di Cagliari, di Carbonia-Iglesias e di Villacidro-Sanluri, e quello di Tossilo, a servizio delle province di Nuoro, dell'Ogliastra e in parte di Oristano. I rifiuti urbani non riciclabili prodotti nelle province di Olbia-Tempio e di Sassari, benché trattati, vengono invece smaltiti in discarica;
   attualmente l'inceneritore di Tossilo, a servizio dei territori del centro nord Sardegna, gestito dalla «Tossilo spa» ed in cui conferiscono 52 comuni, presenta uno stato di crisi economica particolarmente acuta: il bilancio consuntivo al 30 settembre 2015 presentava infatti una perdita di circa 655 mila euro, con un'ovvia previsione di perdita di esercizio ancora maggiore in chiusura di bilancio al 31 dicembre 2015, stimabile intorno a 800 mila euro;
   il disavanzo è dovuto in particolare alle condizioni dell'impianto di termovalorizzazione, ormai vecchio ed obsoleto, oltre che alla situazione della discarica di Monte Muradu, oramai prossima alla saturazione e fonte di un preoccupante impatto ambientale per l'intera area circostante. La «Tossilo spa», per mantenere l'equilibrio economico finanziario – come unica soluzione possibile al fallimento e quindi alla perdita sia del servizio che di 38 posti di lavoro – dovrà innalzare le tariffe da 199 a 270 euro a tonnellata più iva, con evidente ulteriore aggravio per i contribuenti;
   per mantenere l'attuale standard di sicurezza sulle emissioni risulta inoltre necessario fare investimenti che porterebbero la tariffa fino a una cifra stimata di circa 300 euro a tonnellata;
   il cosiddetto revamping dell'impianto costerebbe circa 49 milioni di euro ai bilanci pubblici, somma considerevole a fronte degli 11-20 milioni stimati per un investimento che potrebbe riguardare tecnologie ed impianti di lavorazione dei rifiuti differenziati (plastiche e altro), tecnologie che implementerebbero il ciclo di lavorazione (riuso, riciclo) dei rifiuti, riconvertendolo rispetto alla pratica predominante dell'incenerimento;
   la legge della regione Sardegna 24 aprile 2001, n. 6, all'articolo 6, comma 19 prevede che: «È fatto divieto di trasportare, stoccare, conferire, trattare o smaltire nel territorio della Sardegna rifiuti, comunque classificati, di origine extraregionale» –:
   se i Ministri interrogati siano a conoscenza di quanto esposto in premessa e se non intendano render note le intenzioni del Governo;
   se i Ministri interrogati, dato anche quanto esposto in premessa, non ritengano di dover escludere la Sardegna dalle previsioni dello schema di decreto di cui sopra;
   se i Ministri interrogati non ritengano sia di maggiore utilità destinare le medesime risorse economiche alla realizzazione nell'isola di impianti per il potenziamento del servizio della raccolta differenziata, del riuso e del riciclo dei rifiuti. (3-02194)
(18 aprile 2016)
(ex 4-11648 del 13 gennaio 2016)

   ZOLEZZI, VIGNAROLI, TERZONI, DAGA, BUSTO, MICILLO, DE ROSA e MANNINO. – Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. – Per sapere – premesso che:
   l'articolo 4 della direttiva 2008/98/CE stabilisce la priorità della prevenzione dei rifiuti rispetto a qualsivoglia operazione di trattamento dei medesimi, da ciò ne consegue per gli Stati membri dell'Unione europea la redazione dei piani nazionali di prevenzione nei quali essi debbono, fra l'altro, stabilire degli obiettivi di riduzione;
   l'articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2003/35/CE sulla partecipazione del pubblico alle decisioni in materia ambientale stabilisce che il pubblico debba poter esprimere osservazioni quando tutte le opzioni sono aperte;
   la risoluzione doc. XVIII, n. 80, approvata al Senato della Repubblica, a prima firma della senatrice Laura Puppato, afferma fra l'altro la necessità di dirottare gli incentivi economici dalla produzione di energia a quella di materiali;
   la risoluzione n. 9 della regione Lombardia, approvata nella seduta del 28 novembre 2013, afferma testualmente che «La stima di sovracapacità impiantistica al 2020 risulta pari a ben 1298003 tonnellate»;
   la risoluzione n. 4886 del 17 dicembre 2013 proposta in regione Emilia-Romagna dalla consigliera Barbati e altri afferma testualmente che «dal documento preliminare del prgr risulta che, con riferimento al 2011, il quantitativo complessivo di rifiuti inviato all'incenerimento negli impianti presenti in Emilia-Romagna è pari a 1.104.500 tonnellate annue e constatato che in base agli scenari di piano tracciati nel documento preliminare del prgr tale quantitativo si ridurrà del 43 per cento al 2020, per un ammontare complessivo stimato in 626.930 tonnellate di rifiuti indifferenziati»; da ciò si evince un surplus di circa 500.000 tonnellate all'anno anche per l'Emilia-Romagna;
   nell'interrogazione presentata dal primo firmatario del presente atto, la n. 5-06513, si rileva come un inceneritore ha una resa energetica reale dell'1,5 per cento (dati Arpav su inceneritore di Padova) analizzando anche l'energia spesa per la filiera di preparazione all'incenerimento. È inaccettabile che il 46 per cento dell'energia lorda, prodotta da quell'inceneritore, sia incentivata contro l'1,5 per cento messo nettamente in rete. Il denaro speso per incentivare l'incenerimento (585 milioni di euro nel 2014, dati del Gestore dei servizi energetici) e il percolato da discarica (165 milioni) potrebbe contribuire a gestire meglio la filiera dei rifiuti solidi urbani in un'ottica di recupero di materia. Nella medesima interrogazione si era già rilevato come l'Unione europea in primis tende a marginalizzare il ruolo degli inceneritori nel processo di gestione dei rifiuti; in tal senso la normativa italiana riconosce anche a questi impianti gli incentivi (cip6 e certificati verdi), riferiti alla produzione di energia elettrica prodotta con impianti alimentati da fonti rinnovabili; la perseveranza nelle scelte a favore dell'incenerimento dei rifiuti è data, in primo luogo, proprio dall'incentivazione tariffaria dell'energia prodotta da tale tipo di impianti, che include i termovalorizzatori tra beneficiari di incentivi, senza alcuna distinzione tra fonti organiche e fonti non biodegradabili; l'incenerimento dei rifiuti è la pratica con minima sostenibilità nell'ambito della gerarchia europea dei rifiuti, che privilegia invece il recupero di materia;
   l'articolo 35 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164, dispone che «entro novanta, giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, il Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, con proprio decreto, individua a livello nazionale la capacità complessiva di trattamento di rifiuti urbani e assimilati degli impianti di incenerimento in esercizio o autorizzati a livello nazionale, con l'indicazione espressa della capacità di ciascun impianto, e gli impianti di incenerimento con recupero energetico di rifiuti urbani e assimilati da realizzare per coprire il fabbisogno residuo, determinato con finalità di progressivo riequilibrio socio-economico, fra le aree del territorio nazionale e nel rispetto degli obiettivi di raccolta differenziati e di riciclaggio, tenendo conto della pianificazione regionale. Gli impianti così individuati costituiscono infrastrutture e insediamenti strategici di preminente interesse nazionale, attuano un sistema integrato e moderno di gestione di rifiuti urbani e assimilati, garantiscono la sicurezza nazionale nell'autosufficienza, consentono di superare e prevenire ulteriori procedure di infrazione per mancata attuazione delle norme europee di settore e limitano il conferimento di rifiuti in discarica»;
   il decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, in merito all'articolo 35 sta subendo un iter attuativo difficoltoso anche per l'opinabilità tecnica dei contenuti. Fra l'altro, si segnala che nella mappatura della capacità di incenerimento non è stata valutata la presenza di inceneritori dedicati ai soli rifiuti speciali, né è stata eseguita alcuna mappatura delle discariche esistenti che sono ovviamente parte della attuale filiera di settore;
   il 16 marzo 2016 è stata avviata la procedura di assoggettabilità a valutazione ambientale strategica del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri da emanarsi ai sensi dell'articolo 35, comma 1, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, inerente al «Programma recante l'individuazione della capacità complessiva di trattamento degli impianti di incenerimento rifiuti urbani e assimilati in esercizio o autorizzati a livello nazionale, nonché l'individuazione del fabbisogno residuo da coprire mediante la realizzazione di impianti di incenerimento con recupero di rifiuti urbani e assimilati»;
   al momento, con il documento protocollo 0004267/RIN del 21 marzo 2016, il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare sta trasmettendo la comunicazione per l'avvio della consultazione ai sensi dell'articolo 12, comma 2, del decreto legislativo n. 152 del 2006, e successive modificazioni e integrazioni, concernente la procedura di verifica di assoggettabilità a valutazione ambientale strategica relativa al programma recante «individuazione della capacità complessiva di trattamento degli impianti di incenerimento di rifiuti urbani e assimilati in esercizio o autorizzati a livello nazionale, nonché l'individuazione del fabbisogno residuo da coprire mediante la realizzazione di impianti di incenerimento con recupero di rifiuti urbani e assimilabili» di cui allo schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri da emanarsi ai sensi dell'articolo 35, comma 1, del decreto-legge n. 133 del 2014: in pratica la Conferenza Stato-regioni avrebbe «imposto» al Ministro interrogato la procedura di valutazione ambientale strategica, che il Ministro interrogato ha dovuto accettare per incassare il «sì» a maggioranza allo schema di decreto. Una valutazione ambientale strategica veramente pubblica e genuinamente strutturata dovrà includere anche una analisi delle alternative e questo metterebbe in crisi l'assunto principale ed irricevibile dell'articolo 35, ovvero che il pretrattamento è uguale a incenerimento, mentre il razionale obiettivo dell'articolo 35 era superare le procedure d'infrazione per mancanza di sistemi di pretrattamento nonostante l'obbligo della direttiva 99/31 sulle discariche;
   il Ministro interrogato, nell'articolo su Repubblica.it riferisce: «sono stato assessore al comune di Bologna e mi vanto di aver contribuito a una grande operazione ambientale: la creazione della multiutility Hera e la sua quotazione in borsa. È la seconda azienda ambientale del Nord». Il bacino di utenza Hera è di circa 3,3 milioni di persone, il record per quanto concerne la gestione dei rifiuti solidi urbani;
   l'Emilia-Romagna, secondo i dati dell'Ispra, è la regione con il più elevato costo per la gestione dei rifiuti (227 euro pro capite), nonché la regione con la più elevata produzione pro capite di rifiuti (oltre 600 chilogrammi a persona), ha la più elevata concentrazione regionale di inceneritori (1 ogni 555.822 abitanti);
   il combinato disposto di questi dati da solo costituisce un giudizio impietoso in merito alla politica governativa in tema di rifiuti solidi urbani ed economia circolare, oltretutto sanzionata dall'Unione europea nell'ambito delle 18 procedure d'infrazione pendenti in materia ambientale, fra cui si segnalano 5 procedure d'infrazione per le quali la Corte di giustizia dell'Unione europea ha emesso una sentenza di condanna nei confronti dell'Italia. La sentenza del 2 dicembre 2014 ha condannato l'Italia a pagare 40 milioni di euro come misura forfettaria, in riferimento alla violazione della direttiva rifiuti 75/442/CE (modificata dalla direttiva 91/156/CEE), della direttiva 91/689/CEE e della direttiva 1999/13/CE che riguardano fra l'altro 200 discariche abusive presenti nel territorio italiano, e ad una penalità semestrale di 42,8 milioni di euro per la mancata messa a norma delle medesime discariche; altre procedure d'infrazione (procedura n. 2011/4021) riguardano proprio il mancato pretrattamento dei rifiuti;
   lo schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri non considera la possibilità che non esista alcun fabbisogno residuo di incenerimento a livello nazionale, venendo meno agli obblighi di considerare e mettere a disposizione del pubblico tutte le opzioni possibili di cui alla citata direttiva 2003/35/CE. Parimenti lo stesso schema di decreto pianifica gli impianti partendo dal presupposto, a giudizio degli interroganti illegittimo in base alla citata direttiva 2008/98/CE, che la produzione di rifiuti rimanga costante nel tempo, anziché considerare che la quantità di rifiuti prodotti attesa nel 2020 dovrà essere necessariamente inferiore –:
   se il Governo non ritenga di assumere iniziative per inserire nella mappatura impiantistica per la gestione dei rifiuti un'analisi di tutti gli impianti di pretrattamento, degli impianti di incenerimento e coincenerimento di rifiuti solidi urbani e rifiuti speciali, nonché di tutte le discariche;
   di quali dati oggettivi e verificabili disponga il Governo per escludere a priori la possibilità che a livello nazionale non esista alcun fabbisogno residuo di incenerimento dei rifiuti;
   se, nell'ambito della procedura di verifica di assoggettabilità a valutazione ambientale strategica relativa al programma recante «individuazione della capacità complessiva di trattamento degli impianti di incenerimento di rifiuti urbani e assimilati in esercizio o autorizzati a livello nazionale, nonché individuazione del fabbisogno residuo da coprire mediante la realizzazione di impianti di incenerimento con recupero di rifiuti urbani e assimilabili» di cui allo schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri da emanarsi ai sensi dell'articolo 35, comma 1, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, non si intendano prendere in considerazione prioritariamente alternative allo stesso programma relative all'implementazione del pretrattamento dei rifiuti;
   se nello stesso ambito si intendano prendere in considerazione modalità gestionali dei rifiuti solidi urbani e rifiuti speciali orientati all'economia e, in particolare, all'economia circolare. (3-02195)
(18 aprile 2016)
(ex 4-12675 del 30 marzo 2016)

   ZOLEZZI, TERZONI, BUSTO, DE ROSA, VIGNAROLI, DAGA, MICILLO e MANNINO. – Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. – Per sapere – premesso che:
   l'articolo 16, comma 1, della direttiva 2008/98/CE relativa ai rifiuti stabilisce l'obbligo per gli Stati membri di adottare le misure appropriate per creare una rete integrata e adeguata di impianti di smaltimento dei rifiuti. Le pratiche di smaltimento comunemente diffuse in Italia sono l'incenerimento con o senza recupero energetico e il sotterramento in discarica controllata;
   in Italia, secondo l'ultimo rapporto Ispra, circa 9,3 milioni di tonnellate, pari al 30 per cento dei rifiuti solidi urbani, sono state smaltite in discarica nel 2014, facendo registrare, rispetto alla rilevazione del 2013, una riduzione di circa il 14 per cento, ovvero quasi 1,6 milioni di tonnellate di rifiuti. Analizzando il dato per macroarea geografica, si osserva una riduzione del 6 per cento dello smaltimento al Nord, del 27 per cento al Centro ed un incremento del 12 per cento al Sud;
   secondo il rapporto Ispra 2015 sui rifiuti speciali si sta assistendo a una progressiva riduzione della produzione di rifiuti speciali, da 136 milioni di tonnellate nel 2011 a 131 nel 2013;
   lo schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri di cui all'articolo 35 del decreto-legge n. 133 del 2014 (cosiddetto «decreto sblocca Italia») non contempla la definizione dell'effettivo fabbisogno di discariche, né la realizzazione di alcun piano nazionale finalizzato alla creazione di una rete di cui al citato articolo 6 della direttiva rifiuti;
   da un articolo della Gazzetta di Mantova del 20 ottobre 2015 si apprende dell'ampliamento della discarica di Mariana Mantovana finalizzato all'accoglimento di ulteriori 1.800.000 tonnellate di rifiuti speciali non pericolosi, ottenuto con l'obiettivo dichiarato di ripianare le perdite finanziarie della società Tea spa, dovute al minor conferimento di rifiuti urbani da parte dei comuni della provincia. Già nel 2014 la stessa discarica era stata oggetto di una variazione nella pianificazione del bacino territoriale e sempre esclusivamente per obiettivi finanziari; l'8 marzo 2016 è stata confermata la notizia dell'assegnazione alla cooperativa Ccc di Bologna dell'appalto per l'ampliamento di tale discarica in un'area pesantemente impattata dal punto di vista ambientale e sanitario (tasso di malformazioni congenite fra 750 e 1.000 ogni 10 mila nati, il più elevato della provincia di Mantova);
   da un articolo apparso su Bologna today si apprende della volontà della società Hera di ampliare la discarica «Tre monti» di Imola, costruendo un ulteriore lotto fra i comuni di Imola e Riolo, nonostante la pianificazione regionale vada in senso opposto e nonostante l'83 per cento dei rifiuti ivi conferiti provenga da fuori regione;
   nel gennaio 2016 si è appreso della richiesta da parte della Belvedere spa di accogliere ulteriori codici cer relativi a rifiuti speciali non pericolosi nella discarica d'interesse regionale di Peccioli (Pisa). Tale richiesta è stata anch'essa giustificata con argomentazioni di equilibrio economico e finanziario, tenuto conto del fatto che l'ampliamento di tale discarica era stato ottenuto per un flusso previsto di 300.000 tonnellate all'anno, mentre a seguito dell'applicazione della precedente circolare Orlando, che impone il divieto di conferimento per i rifiuti indifferenziati tal quali, la discarica di Peccioli riusciva a recuperarne non più di 100.000, dovendo pertanto ricorrere al mercato dei rifiuti speciali per colmare la differenza;
   da fonti di stampa si apprende ancora che è stato richiesto nel gennaio 2016, da parte del gestore «Sogliano ambiente spa», l'ampliamento della discarica di Sogliano al Rubicone (Forlì-Cesena). La richiesta riguarda la realizzazione dell'ampliamento della discarica per il trattamento di rifiuti speciali non pericolosi, con un volume pari a 1.600.000 metri cubi (Ginestreto G4), in località Ginestreto di Sogliano al Rubicone, con opere accessorie nel comune di Poggio Torriana;
   per quanto concerne la discarica di Torretta di Legnago (Verona) è stato proposto il conferimento di rifiuti speciali (oltre 50 codici cer) per 14 anni, quando da pianificazione si prevedeva la chiusura nel 2016;
   per la messa in sicurezza della discarica di Cà Filissine di Pescantina (Verona) è stato proposto il conferimento di rifiuti speciali per ovviare al lago di percolato profondo 36 metri formatosi, verosimilmente, per il mancato trattamento del percolato stesso che veniva reiniettato nel corpo della discarica secondo quanto appreso dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sulle attività illecite nel ciclo dei rifiuti, durante la missione in Veneto;
   prassi questa oramai diffusa in tutte le realtà regionali, in particolare dove si è ridotto il conferimento di rifiuti solidi urbani in discarica;
   risulta da notizie di stampa che, dopo la Campania, anche la Basilicata voglia conferire i rifiuti organici (la frazione organica della raccolta differenziata – forsu) in impianti di trattamento nel Nord Italia, contribuendo a un turismo inaccettabile della materia; il compost ottenibile dal rifiuto organico è infatti prezioso per i territori dove è prodotto e secondo l'Ersaf potrebbe contribuire a garantire il 90 per cento della fertilizzazione azotata, lasciando una quota residuale alla fertilizzazione chimica, ma è sufficiente un trasporto a lunga distanza per alterare le caratteristiche chimiche della Forsu che, secondo i dati Ispra, viene trattata adeguatamente solo in piccoli impianti di compostaggio aerobico di prossimità, riducendo anche i costi di gestione (trasporto, conferimento e smaltimento) e ottenendo un ammendante compostato verde, che può avere anche un valore di mercato;
   nel rapporto Ispra 2015 sulla gestione dei rifiuti urbani, a pagina 122, si legge che riguardo allo smaltimento in discarica «non può non evidenziarsi che, nonostante l'articolo 182-bis del decreto legislativo n. 152 del 2006 stabilisca il principio dell'autosufficienza per lo smaltimento dei rifiuti urbani non pericolosi e per i rifiuti del loro trattamento a livello di ambito territoriale ottimale, in realtà questi rifiuti, in uscita dagli impianti di trattamento meccanico biologico, vengono di frequente avviati in regioni diverse da quelle in cui sono stati prodotti. Tale pratica è diffusa in tutto il Paese come risulta evidente dall'esame dei dati riguardanti lo smaltimento a livello regionale. Tale assunto è confermato dagli esempi sopra evidenziati, dai quali si evince come, ad oggi, l'obiettivo prevalente dei gestori di discariche non sia tanto la difesa dell'ambiente, quanto il raggiungimento e il mantenimento della sostenibilità economica e del ritorno finanziario del singolo impianto»;
   privi di una pianificazione nazionale, gli scenari normativi comunitari aprono in direzione di ulteriori procedure d'infrazione europee, a causa dell'eccessivo conferimento in discarica di rifiuti da parte di alcune regioni;
   il trasporto dei rifiuti contribuisce in maniera sostanziale alle emissioni nel settore dei trasporti, in particolar modo per quanto concerne il trasporto interregionale, sia per le emissioni dei mezzi pesanti, che per la cessione di inquinanti dai rifiuti trasportati dai mezzi;
   la situazione ambientale nazionale è caratterizzata da un eccesso di captazione idrica (studio di Steffen pubblicato su Science nel 2015), da una progressiva compromissione della qualità delle falde acquifere, sia in aree di captazione, che in aree comunque a vocazione agricola, lo stato chimico delle acque superficiali (Scas) è compromesso in particolare nelle aree di pianura, il ciclo dell'azoto è compromesso in maniera importante, con un eccesso di azoto nelle falde e nei sedimenti fluviali, lacustri e marini in particolare in pianura padana dove si stanno moltiplicando le richieste di ampliamento delle discariche esistenti o costruzione di nuove, senza alcuna necessità territoriale;
   i metodi di gestione ambientale nazionale non prevedono per gli interroganti valutazioni adeguate degli impatti cumulativi, né un adeguato piano di riduzione delle emissioni e del recupero di materia –:
   se il Governo non ritenga necessario assumere iniziative per prevedere che la gestione dei rifiuti solidi urbani e dei rifiuti speciali sia fondata su metodi sostenibili, basati sul recupero di materia, la valutazione di tutte le matrici ambientali nelle aree di conferimento, anche in relazione al rilascio di nuove autorizzazioni;
   se per lo smaltimento dei rifiuti non si ritenga necessario monitorare e pubblicare il flusso dei rifiuti solidi urbani e rifiuti speciali esistente e programmato, in modo da evitare speculazioni e possibili disastri ambientali, pubblicando la mappa dei rifiuti urbani e speciali, prodotti nelle diverse realtà territoriali, e della filiera di smaltimento, comprensiva di dati economici, per individuare eventuali storture in particolare nell'ambito dei rifiuti speciali a «libero mercato»;
   se il Governo, in relazione allo schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, di cui all'articolo 35 del decreto-legge n. 133 del 2014, non intenda assumere iniziative per la previsione di una pianificazione atta a determinare anche l'effettivo fabbisogno di conferimento in discarica, nonché per la previsione della rete nazionale di tali impianti, finalizzata alla progressiva riduzione e dismissione del «parco discariche» nazionale;
   se il Ministro interrogato non intenda promuovere la realizzazione di un piano nazionale delle discariche nel quale siano comprese non solo la definizione dell'effettivo fabbisogno per gli anni a venire, ma anche la pianificazione dei flussi interregionali di rifiuti derivanti dal trattamento dei rifiuti soldi urbani, nonché dei rifiuti speciali. (3-02196)
(18 aprile 2016)
(ex 4-12704 del 31 marzo 2016)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE, IN AMBITO NAZIONALE E SOVRANAZIONALE, PER IL CONTRASTO DI TUTTE LE FORME DI SURROGAZIONE DI MATERNITÀ

   La Camera,
   premesso che:
    la surrogazione della maternità consiste nella cessione a terzi, e per sempre, di un neonato da parte della donna che lo ha partorito; una cessione puntualmente regolata da apposito contratto stipulato fra gestante e committenti in un momento precedente al concepimento del nato;
    il contratto che regola la gestazione e la successiva cessione del bambino non può che essere intrinsecamente vessatorio nei confronti della gestante, considerando che l'obiettivo è quello di far consegnare ai committenti il neonato, imponendo alla donna di portare avanti la gravidanza secondo modalità che i committenti arbitrariamente decidono essere le migliori per il nascituro: oltre a regolare dettagliatamente la vita della gestante per tutto il periodo della gravidanza, vengono quindi imposti esami clinici e comportamenti personali della madre surrogata che includono anche importanti restrizioni della libertà personale e che prevedono sia l'aborto in caso di malformazioni del feto, sia la cosiddetta riduzione fetale in presenza di gravidanze gemellari non richieste;
    il contratto di maternità surrogata, per sua stessa natura, ha contenuto patrimoniale e carattere oneroso, tenuto conto della gravosità del periodo di gravidanza e dell'evento del parto, cui si sottopone la mamma surrogata: il corrispettivo previsto nel contratto in favore della madre surrogata è infatti diretto a retribuire il sacrificio richiesto a quest'ultima;
    tale contratto, nella forma di surroga ad oggi maggiormente diffusa, include anche l'acquisto di gameti femminili da una donna diversa dalla madre surrogata, perché senza legame genetico con il nascituro sia più facile per la gestante considerarlo appartenente ai committenti, e cederlo alla nascita: il nato in questo caso ha due madri biologiche (una genetica e una gestazionale) e di solito la madre legalmente riconosciuta è ancora una terza, il che determina un'inquietante frammentazione della figura materna e associa la maternità surrogata alla compravendita di gameti, con tutti gli aspetti economici, antropologici e sociali connessi, primo fra tutti la «scelta» dei «donatori» su appositi cataloghi di, biobanche in base al fenotipo (colore della pelle, di occhi e capelli, aspetto fisico);
    una donna che cede a terzi, dietro corrispettivo in denaro, il proprio neonato, a prescindere dalla presenza di un contratto di diritto privato vincolante fra le parti, compie un gesto perseguito come reato in gran parte del mondo, pertanto il contratto di surrogazione, nei Paesi in cui è ammesso, rappresenta a parere dei firmatari del presente atto di indirizzo un'ingiustificata e incomprensibile eccezione;
    sottrarre un neonato alla donna che lo ha tenuto in gestazione e partorito integra in tutto il mondo a giudizio dei firmatari del presente atto di indirizzo, oltre che un crimine, una condotta di estrema crudeltà, una sorte generalmente destinata alle schiave nelle civiltà arcaiche;
    il legittimo desiderio di avere bambini non è un diritto esigibile;
    il contratto di surrogazione di maternità è evidentemente una nuova forma di mercato di esseri umani, e rientra per i firmatari del presente atto di indirizzo nella «tratta degli esseri umani», così come definita dalla Convenzione del Consiglio d'Europa sulla lotta contro la tratta degli esseri umani, quando indica che «il reclutamento (...) di persone (...) con l'abuso (...) della condizione di vulnerabilità (...) a fini di sfruttamento (che) comprende pratiche simili alla schiavitù e specifica che, in questi casi, il consenso della vittima allo sfruttamento è irrilevante»;
    la surrogazione di maternità viola altresì secondo i firmatari del presente atto di indirizzo la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948: all'articolo 1, che recita: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti», visto che per i nati da maternità surrogata, a differenza di tutti gli altri bambini del mondo, si decide fin da prima del concepimento che non cresceranno con la donna che li ha partoriti, cioè la madre, ma con persone che vi hanno stipulato un contratto commerciale e l'hanno indotta ad abbandonarlo alla nascita; all'articolo 4, ove si afferma che «Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma», considerando le condizioni vessatorie contrattuali che stabiliscono nei minimi dettagli la vita della gestante e ne definiscono gli obblighi, primo fra tutti la cessione del neonato alla nascita;
    la surrogazione di maternità viola altresì per i firmatari del presente atto di indirizzo la Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989, che, all'articolo 8, stabilisce che «Gli Stati parti si impegnano a rispettare il diritto del fanciullo a preservare la propria identità», e che, all'articolo 32, dispone che «Gli Stati parti riconoscono il diritto del fanciullo di essere protetto contro lo sfruttamento economico»;
    la surrogazione di maternità costituisce inoltre per i firmatari del presente atto di indirizzo una forma di violenza contro le donne secondo la definizione della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (la cosiddetta Convenzione di Istanbul), in cui, con l'espressione «violenza nei confronti delle donne», si intende designare una violazione dei diritti umani comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica;
    la surrogazione di maternità contrasta a giudizio dei firmatari del presente atto di indirizzo esplicitamente con convenzioni internazionali e pronunciamenti di istituzioni europee: la Convenzione di Oviedo sui diritti umani e la biomedicina (1997), che, all'articolo 21 stabilisce che «Il corpo umano e le sue parti non debbono essere, in quanto tali, fonte di profitto»; principio ribadito dall'articolo 3 della Carta europea dei diritti fondamentali (2000) sul diritto all'integrità della persona, in particolare quando prevede che si rispetti «il divieto di fare del corpo umano e sue parti in quanto tali una fonte di lucro»; la risoluzione del Parlamento europeo del 5 aprile 2011 che impegna gli Stati membri a «riconoscere il grave problema della surrogazione di maternità, che costituisce uno sfruttamento del corpo e degli organi riproduttivi femminili»;
    il Comitato nazionale per la bioetica, riunito in seduta plenaria, ha approvato il documento «mozione su maternità surrogata a titolo oneroso». Il Comitato nazionale per la bioetica, che si è espresso più volte contro la mercificazione del corpo umano (mozione sulla compravendita di organi a fini di trapianto, 18 giugno 2004; mozione sulla compravendita di ovociti, 13 luglio 2007; parere sul traffico illegale di organi umani tra viventi, 23 maggio 2013), ritiene che la maternità surrogata sia un contratto lesivo della dignità della donna e del figlio sottoposto come un oggetto a un atto di cessione. Il Comitato nazionale per la bioetica ritiene inoltre che l'ipotesi di commercializzazione e di sfruttamento del corpo della donna nelle sue capacità riproduttive, sotto qualsiasi forma di pagamento, esplicita o surrettizia, sia in netto contrasto con i principi bioetici fondamentali che emergono anche dai documenti sopra citati,

impegna il Governo

ad assumere iniziative, a livello nazionale e soprattutto internazionale, in tutte le sedi istituzionali sovranazionali, affinché la surrogazione di maternità, in ogni sua modalità e variante contrattuale, sia riconosciuta come nuova forma di schiavitù e di tratta di esseri umani, e sia quindi reato universalmente perseguibile.
(1-01195)
«Lupi, Buttiglione, Binetti, Calabrò, Bosco, Pagano, Scopelliti».
(22 marzo 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    con il termine maternità surrogata, o utero in affitto, oppure gestazione per altri, si intende quella pratica basata sulla disponibilità del corpo di una donna, per realizzare un progetto di genitorialità altrui, per cui si intraprende una gravidanza con l'intento di affidare il nascituro a terzi all'atto della nascita;
    molti sono i Paesi nel mondo in cui non vige un divieto generalizzato di tale pratica. A voler riportare la situazione a livello comunitario, da alcuni dati del Parlamento europeo (resi pubblici a maggio 2013) si rivela che in quasi più della metà degli Stati membri dell'Unione europea non vi è un espresso divieto (è il caso del Belgio, della Danimarca, della Grecia, del Regno Unito, dei Paesi Bassi, solo per citarne alcuni), così come in quasi nessuno degli Stati esiste una legge specifica che disciplini il fenomeno;
    se la situazione europea ancora oggi presenta numerose disomogeneità, altrettanto variegata e complessa sembra essere la situazione nel resto del mondo, dove la maternità surrogata è ammessa e praticata in Paesi estremamente diversi per cultura e ricchezza – si pensi alla Thailandia, al Messico, all'India, al Nepal rispetto agli Usa e al Canada – e dove altrettanto diversi sono gli orientamenti giuridici e le leggi in materia;
    in Canada e negli Stati Uniti, per esempio, la materia è regolamentata in modo dettagliato, affrontando la questione soprattutto da un punto di vista commerciale e creando dei distinguo tra «gestazione altruistica» e «gestazione lucrativa»; così, se nel caso canadese è permesso solo il primo tipo, in alcuni degli otto Stati degli Usa in cui tale pratica è ammessa, si può ricorrere ad entrambe le formule (ad esempio, California e Florida);
    la pratica della maternità surrogata non è solo una tecnica riproduttiva, ma tocca molti diritti umani e temi etici;
    secondo il principio dell'indisponibilità del corpo umano, l'acquisto, la vendita o l'affitto dello stesso sono fondamentalmente contrari al rispetto della sua dignità. La mercificazione del bambino e la strumentalizzazione del corpo della donna sono anch'essi contrari alla dignità umana. Tuttavia, alcune donne acconsentono ad impegnarsi in un contratto che aliena la loro salute e la loro dignità, a vantaggio dell'industria e dei mercati della riproduzione, sotto la spinta di molteplici pressioni, spesso di natura esclusivamente economica. E, in particolare in quei Paesi dove vige una regolamentazione molto dettagliata, si è sviluppato un fiorente «mercato della riproduzione» che vanta un fatturato annuo di svariati miliardi di dollari;
    la pratica della maternità surrogata viene realizzata da imprese che si occupano di riproduzione umana, in un sistema fortemente organizzato che comprende cliniche, medici, avvocati e agenzie di intermediazione. Questo sistema ha bisogno di donne come mezzi di produzione in modo che la gravidanza e il parto diventino delle procedure funzionali, dotate di un valore d'uso e di un valore di scambio, e si iscrivano nella cornice della globalizzazione dei mercati che hanno per oggetto il corpo umano;
    la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 ha affermato il principio della difesa della dignità umana come obiettivo primario da perseguire, oltre che nel perimetro di sovranità dei singoli Stati, anche nello spazio delle relazioni internazionali, con ciò escludendo la legittimità di ogni pratica mercantile di scambio che abbia ad oggetto gli esseri umani;
    la Convenzione sui diritti dell'infanzia approvata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989 (ratificata dall'Italia con legge del 27 maggio 1991, n. 176) impegna gli Stati ad adottare tutti i provvedimenti legislativi e amministrativi necessari per attuare i diritti riconosciuti dalla stessa Convenzione e, in particolare, il diritto dei bambini a non essere privati degli elementi costitutivi della loro identità (articolo 8) e il diritto ad essere protetti contro ogni forma di sfruttamento economico (articolo 32);
    la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea sancisce, all'articolo 3, il «divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro»;
    la Convenzione di Oviedo, sottoscritta il 4 aprile 1997, sui diritti dell'uomo e la biomedicina, all'articolo 21, stabilisce che «Il corpo umano e le sue parti non debbono essere, in quanto tali, fonte di profitto»;
    la risoluzione del Parlamento europeo sulla definizione di un nuovo quadro politico dell'Unione europea in materia di lotta alla violenza contro le donne del 5 aprile 2011 (2010/2209(INI)), impegna gli Stati membri a «riconoscere il grave problema della surrogazione di maternità, che costituisce uno sfruttamento del corpo e degli organi riproduttivi femminili»;
    il 17 dicembre 2015, il Parlamento europeo ha discusso e approvato la risoluzione per la Relazione annuale sui diritti umani e la democrazia nel mondo nel 2014 e sulla politica dell'Unione europea in materia; al paragrafo 115 della risoluzione approvata, il Parlamento europeo «condanna la pratica della surrogazione, che compromette la dignità umana della donna dal momento che il suo corpo e le sue funzioni riproduttive sono usati come una merce; ritiene che la pratica della gestazione surrogata che prevede lo sfruttamento riproduttivo e l'uso del corpo umano per un ritorno economico o di altro genere, in particolare nel caso delle donne vulnerabili nei Paesi in via di sviluppo, debba essere proibita e trattata come questione urgente negli strumenti per i diritti umani»;
    nella Commissione affari sociali, sanità e sviluppo sostenibile del Consiglio d'Europa si sta discutendo il rapporto «Human rights and ethical issues related to surrogacy», da cui emerge che l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa dovrebbe scoraggiare ogni forma di maternità surrogata per profitto;
    nel diritto internazionale ed europeo, non è comunque prevista alcuna disposizione giuridica che vieti in maniera universale la maternità surrogata;
    in Italia, la legge n. 40 del 2004 prevede espressamente il divieto di pratiche riconducibili al cosiddetto utero in affitto. Recita infatti l'articolo 12, comma 6, della citata legge: «Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro»;
    le conseguenze sociali, economiche e giuridiche che derivano dal ricorso di sempre più coppie alla surrogata sono molteplici e di difficile gestione, anche in Italia, dove la pratica è formalmente vietata;
    è necessario attivarsi in tutte le sedi opportune per riconoscere e tutelare in maniera omogenea negli ordinamenti nazionali e internazionali i diritti delle donne e dei bambini oggetto di sfruttamento e di mercificazione e porre fine a questa moderna forma di schiavitù,

impegna il Governo:

   a richiedere, nelle opportune forme e sedi internazionali, il rispetto, da parte dei Paesi firmatari, delle convenzioni internazionali per la protezione dei diritti umani e del bambino;
   a promuovere la messa al bando universale di tutte le forme di legalizzazione della maternità surrogata, attraverso l'adozione di un'apposita convenzione internazionale, per sancire definitivamente i principi di indisponibilità del corpo umano e della protezione della vita e dell'infanzia.
(1-01187)
«Carfagna, Centemero, Prestigiacomo, Occhiuto, Brunetta, Archi, Biancofiore, Biasotti, Calabria, Castiello, Fabrizio Di Stefano, Garnero Santanchè, Gelmini, Giacomoni, Gullo, Laffranco, Palmieri, Polidori, Romele, Santelli, Elvira Savino, Squeri, Vella».
(7 marzo 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    l'utero in affitto è una pratica per cui una donna si impegna mediante contratto a sottoporsi a fecondazione assistita e a cedere per sempre a terzi il nato appena partorito;
    tali contratti di surrogazione di maternità dettagliano comportamenti personali ed obblighi della madre surrogata per tutto il periodo della gravidanza e sono finalizzati a garantire la salute del nascituro secondo criteri stabiliti dalla coppia (o singola persona) che commissiona la gravidanza, criteri che determinano un controllo strettissimo della vita della gestante e solitamente includono anche l'aborto nel caso di malformazioni del feto o l'aborto selettivo in caso di gravidanza multipla non prevista;
    è evidente che solo donne in condizioni di subalternità sociale, di vulnerabilità e di necessità economica possono consentire a tali pratiche, profondamente irrispettose della dignità della donna e lesive dei diritti del nascituro;
    i nati da surrogazione di maternità hanno sempre – a parte rarissime eccezioni – una madre genetica diversa da quella gestazionale, in modo che la madre che partorisce non possa rivendicare, in caso di ripensamento, il bimbo come proprio, dato che esiste anche una madre biologica; il contratto di surroga prevede solitamente, quindi, anche l'acquisto di ovociti da parte dei committenti;
    i contratti di surroga hanno spesso connotazioni razziste: la scelta della madre genetica avviene a seconda delle caratteristiche desiderate (colore della pelle, degli occhi, qualità estetica, quoziente intellettivo, livello degli studi) e tali caratteristiche determinano il prezzo dei gameti, mentre per le madri surrogate è sufficiente un buono stato di salute, anzi sono spesso scelte tra donne di Paesi terzi, per motivi di convenienza economica e di minori garanzie per le gestanti;
    mentre la madre genetica, mediante analisi del dna, può teoricamente essere sempre rintracciabile da parte del nato, per le madri surrogate questo non può ovviamente avvenire e va ricordato che nella gran parte dei casi dei contratti di surroga non resta alcuna traccia nell'anagrafe dei nati;
    la surrogazione di maternità, per la molteplicità di figure committenti e genitoriali coinvolte a vario titolo, è una nuova forma di tratta di donne e bambini al di fuori di qualsiasi controllo, anche negli Stati dove è regolata da leggi, tanto che non esistono dati attendibili neppure sul numero dei nati con questa procedura e gli studi in proposito sono scarsi;
    le stime parlano comunque di un mercato internazionale fiorente e in continua crescita, intorno a vere e proprie organizzazioni internazionali con team di medici, legali e mediatori di vario tipo, che hanno basi anche nel nostro Paese, in aperta violazione della legge n. 40 del 2004, che, al comma 6 dell'articolo 12, recita: «Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro»;
    il divieto e le sanzioni previste dalla legge vigente non sembrano essere applicate né alle coppie italiane che fanno ricorso all'utero in affitto all'estero (nonostante il reato commesso all'estero sia perseguibile attraverso il ricorso all'articolo 9 del codice penale anche quando la pena prevista sia inferiore ai tre anni), né a chi organizzi e pubblicizzi in Italia la maternità surrogata, predisponendo il ricorso alla pratica fuori dal nostro Paese;
    si assiste all'assidua presenza sui media di coppie che hanno fatto ricorso a una pratica vietata, aggirando o violando la legge italiana, in popolari trasmissioni di approfondimento e di intrattenimento, in cui della procedura di surrogazione di maternità si offre un'immagine nettamente positiva, ignorando tutti gli aspetti contrattuali, commerciali e di sfruttamento finora illustrati;
    in Italia si sta consolidando una prassi per cui i tribunali interpellati consentono alle coppie che hanno fatto ricorso all'utero in affitto all'estero di trascrivere l'atto di nascita dei nati con questa procedura senza incorrere in alcuna sanzione, ma, al contrario, riconoscendo le coppie committenti come genitori legali del nato,

impegna il Governo:

   ad assumere tutte le iniziative di propria competenza, in particolare alla luce dell'articolo 9 del codice penale, per far sì che possano essere applicate le sanzioni già previste dalla legge n. 40 del 2004 per la surrogazione di maternità;
   ad adottare iniziative per intervenire sul comma 6 dell'articolo 12 della legge n. 40 del 2004 al fine di evitare interpretazioni ambigue, estendendo in modo esplicito le sanzioni previste a chi realizzi e organizzi la pratica della surrogazione di maternità per se stesso;
   ad assumere iniziative volte a prevedere che, per consentire la trascrizione in Italia dell'atto di nascita dei nati a seguito di surrogazione di maternità all'estero, sia necessario fornire copia originale del contratto di surroga, da depositare all'anagrafe del nato, dal quale si evincano con chiarezza sia l'identità della madre surrogata sia gli estremi degli eventuali fornitori di gameti, in modo che al nato sia sempre garantita la possibilità di conoscere le modalità del proprio concepimento e le proprie origini biologiche, perché non vi siano discriminazioni in merito al diritto alle origini.
(1-01218)
«Roccella, Piso, Caon, Bueno, Prataviera, Matteo Bragantini, Vaccaro, Distaso, Fucci, Corsaro, Chiarelli, Palese, Laffranco, Palmieri».
(6 aprile 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    con l'espressione «procreazione medicalmente assistita» la legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), si riferisce a quel fenomeno comunemente conosciuto con il nome di «fecondazione artificiale», che può essere sinteticamente definito come l'insieme delle tecniche mediche che consentono di dare luogo al concepimento di un essere umano senza la congiunzione fisica di un uomo e di una donna, operando all'interno (fecondazione artificiale intracorporea o in vitro) oppure al di fuori (fecondazione artificiale extracorporea o in vitro o, come si dice più comunemente, in provetta) delle vie genitali della donna e impiegando gameti appartenenti alla stessa coppia che si sottopone alle tecniche (fecondazione omologa) oppure provenienti in tutto o in parte da donatori esterni (fecondazione eterologa);
    secondo l'articolo 12, comma 6, «Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro»;
    allo stato attuale la maternità surrogata è consentita dalla legge con modalità differenti nei seguenti Paesi: Stati Uniti, Brasile, Canada, Repubblica ceca, Romania, Ucraina, Russia, Sudafrica, Armenia, India, Cambogia, Thailandia, Australia; mentre tra i Paesi membri dell'Unione europea la maternità surrogata a titolo gratuito è consentita con modalità legislative diverse in Danimarca, Regno Unito, Paesi Bassi, Belgio e Grecia;
    tra i Paesi membri del Consiglio d'Europa, la Russia non ha ancora firmato la Convenzione di Istanbul, mentre la Romania e l'Ucraina hanno provveduto solo a firmarla;
    la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e sulla lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul) è entrata in vigore in Italia nel giugno 2013;
    ai sensi dell'articolo 12, paragrafo 3 (capitolo III – prevenzione), della suddetta Convenzione «Tutte le misure adottate ai sensi del presente capitolo devono prendere in considerazione e soddisfare i bisogni specifici delle persone in circostanze di particolare vulnerabilità, e concentrarsi sui diritti umani di tutte le vittime»;
    ai sensi dell'articolo 18, paragrafo 3 (capitolo IV – sostegno e protezione), le Parti si accertano che le misure adottate in virtù del presente capitolo: siano basate su una comprensione della violenza di genere contro le donne e della violenza domestica e si concentrino sui diritti umani e sulla sicurezza della vittima; mirino ad accrescere l'autonomia e l'indipendenza economica delle donne vittime di violenze; soddisfino i bisogni specifici delle persone vulnerabili, compresi i minori vittime di violenze e siano loro accessibili”;
    secondo l'articolo 47 (Condanne pronunciate sul territorio di un'altra Parte contraente) «Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per prevedere la possibilità di prendere in considerazione, al momento della decisione relativa alla pena, le condanne definitive pronunciate da un'altra Parte contraente in relazione ai reati previsti in base alla presente Convenzione»;
    il Consiglio dell'Unione europea ha approvato il rapporto annuale «Diritti umani e democrazia nel mondo nel 2014», redatto dal Servizio europeo per l'azione esterna. Il rapporto illustra il ruolo dell'Unione europea nel panorama comunitario e internazionale rispetto alla promozione dei diritti umani, sottolineando i risultati raggiunti e gli ostacoli incontrati;
    in primo luogo, il rapporto sottolinea il costante impegno dell'Unione europea nel promuovere, con 37 Paesi terzi e gruppi regionali, dialoghi e consultazioni sul tema dei diritti umani, così come indicato nelle linee guida del giugno 2001 sulla «Promozione dei diritti umani nelle azioni esterne dell'Unione europea». Lo stesso è stato fatto con la maggior parte dei 79 Paesi dall'Africa, Pacifico e Caraibi che sono parte della Convenzione di Cotonou;
    il 17 dicembre 2015, il Parlamento europeo ha discusso e approvato la risoluzione riguardo alla sopra citata relazione annuale sui diritti umani e la democrazia nel mondo nel 2014 e sulla politica dell'Unione europea in materia;
    nell'ambito della tutela delle donne e delle ragazze, al paragrafo 115 della risoluzione approvata, il Parlamento europeo «condanna la pratica della surrogazione, che compromette la dignità umana della donna dal momento che il suo corpo e le sue funzioni riproduttive sono usati come una merce; ritiene che la pratica della gestazione surrogata che prevede lo sfruttamento riproduttivo e l'uso del corpo umano per un ritorno economico o di altro genere, in particolare nel caso delle donne vulnerabili nei Paesi in via di sviluppo, debba essere proibita e trattata come questione urgente negli strumenti per i diritti umani»,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative affinché i Paesi membri e non del Consiglio d'Europa firmino, ratifichino e rispettino la Convenzione sulla prevenzione e sulla lotta alla violenza contro le donne e contro la violenza domestica (Convenzione di Istanbul), in particolare i Governi membri rumeno, ucraino e russo, prendendo in considerazione nello specifico l'articolo 47 della suddetta Convenzione;
   ad intervenire nelle sedi opportune affinché, nell'ambito del più ampio dialogo sul rispetto dei diritti umani e della tutela della donna, sia favorito, con i Paesi membri e non, un confronto riguardo alla pratica della maternità surrogata, come descritta nel citato paragrafo 115 della risoluzione approvata dal Parlamento europeo il 17 dicembre 2015.
(1-01223)
«Spadoni, Di Vita, Grillo, Colonnese, Lorefice, Mantero, Silvia Giordano, Baroni, D'Incà».
(13 aprile 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    a discussione sul tema delle unioni civili e i recenti fatti di cronaca che hanno riguardato note figure politiche hanno riproposto all'attenzione dell'opinione pubblica la pratica aberrante della maternità surrogata;
    la maternità surrogata rappresenta indubbiamente un tema complesso e delicato e con numerose zone d'ombra;
    oggi, infatti, mediante la surrogazione di maternità, risulta concepibile che una donna esterna alla coppia possa portare nel proprio grembo un bimbo che sarà poi, a tutti gli effetti legali, figlio della coppia committente, sulla base di un «contratto» che può essere a titolo gratuito oppure oneroso. Dunque, la madre surrogata si obbliga a provvedere alla gestazione e al parto di un bambino che sarà poi «consegnato» alla coppia committente, rinunciando così a ogni diritto sul nascituro. Quali che siano le ragioni che spingono coppie e singoli a rivolgersi a questa pratica, resta il fatto che alla base vi è una sovrapposizione non condivisibile tra aspirazioni e diritti, che annulla ogni riferimento alla dimensione comunitaria e confina la maternità ad una prospettiva totalmente individualistica;
    nella maternità surrogata si chiede a una donna di portare in grembo un bambino, per poi darlo via appena nato. Le si chiede anche di mutare il suo comportamento e di rischiare di diventare poi sterile; di accettare le eventuali patologie legate allo stato di gravidanza, potenzialmente anche molto pericolose e talora mortali. La donna deve mettere a disposizione il suo metabolismo per il desiderio di genitorialità di altre persone, dalle quali è usata come un contenitore e un'incubatrice;
    in un mondo occidentale in cui, anche per le difficoltà economiche che gravano sulle famiglie, è sempre più difficile fare figli, la madre perde il diritto anche a essere chiamata mamma, costretta a sottoporsi totalmente alle esigenze del mercato, mentre, per chi può permetterselo, la «produzione» dei figli è appaltata in outsourcing, secondo criteri di convenienza industriale;
    la maternità surrogata o «gestazione per altri» o «utero in affitto» istituisce un contratto che stabilisce la proprietà del bambino come oggetto, di cui risulta molto difficile evitare la mercificazione, anche nel caso si dichiari la scelta libera della madre naturale; la natura commerciale del contratto è provata, in particolare, dall'obbligo di distinguere tra la donna che dona l'ovocita e la donna che effettivamente conduce la gravidanza;
    nella maternità surrogata il bambino, oltre ad essere sottratto alla propria madre biologica, viene espropriato del diritto a conoscere le proprie origini;
    è tempo dunque che i Paesi occidentali, dai quali partono i ricchi compratori, si assumano le loro responsabilità ponendo in atto iniziative e leggi per scoraggiare la domanda;
    la pratica della maternità surrogata si sta infatti diffondendo nel mondo, creando una pericolosa deriva verso quello che potremmo definire «diritto al figlio», senza alcun rispetto per i diritti umani e i principi etici fondamentali. L'Europa, in particolare, deve assumere un ruolo guida nella difesa dei diritti umani, anche e soprattutto in virtù dei suoi motivi fondanti;
    la maternità surrogata o «gestazione per altri» o «utero in affitto» risulta essere in contraddizione con i principi delle stesse istituzioni europee, contro lo sfruttamento del corpo umano, il diritto del bambino ad avere una madre, nonché con la Convenzione su diritti umani e biomedicina (Convenzione d'Oviedo) che prevede: «Il corpo umano e le sue parti non devono essere in quanto tali fonte di profitto» (articolo 21), con il diritto a conoscere le proprie origini o con la Convenzione sulle adozioni che stabilisce che le madri abbiano tempo dopo il parto prima del consenso all'adozione;
    la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, alla quale l'articolo 6 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, come modificato dal Trattato di Lisbona, ha attribuito lo stesso valore giuridico vincolante dei trattati, è sicuramente il punto di riferimento in questo contesto;
    si segnala a questo proposito la condanna da parte del Parlamento europeo della pratica della surrogazione senza distinzione tra «altruistica» e «per profitto», e la richiesta, nella risoluzione adottata il 5 aprile 2011, agli Stati membri di riconoscere il grave problema della surrogazione della maternità, quale sfruttamento del corpo e degli organi produttivi, rilevando, allo stesso tempo, come nella surrogazione di maternità si ravvisi chiaramente il pericolo di considerare donne e bambini quali merci sul mercato internazionale della riproduzione sino a produrre l'effetto di incrementare la tratta di tali soggetti, nonché le adozioni illegali transnazionali;
    il 30 novembre 2015, la «Relazione annuale sui diritti umani e la democrazia nel mondo nel 2014 e sulla politica dell'Unione europea in materia» del Parlamento europeo, al comma 114, nella parte sui diritti delle donne e delle ragazze ha condannato «la pratica della surrogazione, che compromette la dignità umana della donna dal momento che il suo corpo e le sue funzioni riproduttive sono usati come una merce; ritiene che la pratica della gestazione surrogata che prevede lo sfruttamento riproduttivo e l'uso del corpo umano per un ritorno economico o di altro genere, in particolare nel caso delle donne vulnerabili nei Paesi in via di sviluppo, debba essere proibita e trattata come questione urgente negli strumenti per i diritti umani»;
    il 15 marzo 2016 la Commissione questioni sociali e salute del Consiglio d'Europa ha respinto l'adozione di un progetto di risoluzione e di un progetto di raccomandazione su «Diritti umani e questioni etiche relative alla gestazione per altri», in cui si chiedeva di regolare la gestazione per altri, evitando lo sfruttamento a scopo di lucro ma senza incoraggiare gli Stati membri del Consiglio a evitare tale pratica;
    il 2 febbraio 2016 si è costituita presso il Parlamento francese, su iniziativa tra le altre della filosofa Sylvaine Agacinski l'assise mondiale contro la pratica della maternità surrogata, ed è stata firmata la Carta per l'abolizione universale della maternità surrogata che esplicitamente chiede il bando dal mondo intero;
    anche l'Italia, dove la surrogazione di maternità è vietata, è chiamata a fare la sua parte, essendo ipocrita e inaccettabile per i presentatori del presente atto di indirizzo che il divieto di questa pratica sul suolo nazionale possa essere aggirato grazie all'impossibilità di sanzionarlo se la maternità surrogata è eseguita all'estero;
    sta accadendo in questo campo quanto accade già per la vendita di gameti per la fecondazione eterologa – un'altra modalità di commercializzazione del corpo umano e di sfruttamento del corpo delle donne – per la quale il divieto previsto dalla legge italiana è aggirato da alcune regioni con l'acquisto da altri Paesi, nei quali stranamente a differenza dell'Italia le donatrici sembrano abbondare;
    in realtà, nella surrogazione della maternità, come e più che nella «donazione» di gameti, si concretizza una crudele forma di sfruttamento della donna e del suo corpo (e non solo di esso); tali donne risultano vittime, in massima parte inconsapevoli, di un vero e proprio «turismo procreativo» e come tale da condannare e da perseguire al pari secondo i firmatari del presente atto del cosiddetto «turismo sessuale», perpetrato a danno di minori;
    in questo quadro fattuale, così articolato, è evidente come non siano poche le problematiche che sorgono sia dal punto di vista etico, che da quello giuridico. Difatti, sono pochi i Paesi in cui tale pratica risulta legale e molti quelli in cui, al contrario, non è consentita o addirittura non considerata affatto dall'ordinamento giuridico, nel senso che non è regolata da nessuna norma;
    una pratica che la legge n. 40 del 2004 vieta già in Italia, ma per la quale l'entità della pena prevista non consente l'automatica perseguibilità del reato quando questo sia commesso all'estero. Taluni Paesi, infatti, considerano tale pratica illecita, mentre altri, al contrario, ritenendola lecita, la regolamentano mediante apposite leggi;
    in generale, la maggior parte dei sistemi giuridici occidentali è orientata ad evitare gli atti dispositivi del proprio corpo quando cagionino una diminuzione permanente dell'integrità fisica, quando siano altrimenti contrari alla legge, all'ordine pubblico o quando rappresentino forme di possibile sfruttamento di condizioni di bisogno;
    per effetto delle pratiche surrogatorie (in particolar modo di quelle eterologhe), la maternità assume caratteri di sempre più marcata «procedimentalizzazione», che ne intaccano la naturale fisionomia «unitaria», a causa del coinvolgimento di figure diverse (la madre genetica, la madre biologica e la «committente»), tutte potenzialmente idonee a rivendicare un titolo di genitura esclusiva sul nato. Il diritto si muove quindi attualmente in un mare periglioso, essendo chiamato con maggior frequenza a stabilire quale, tra i diversi soggetti che pure hanno dato un contributo causale alla realizzazione di quell'articolato «procedimento medico-legale», in cui si risolve la maternità surrogata, debba essere considerato «genitore» agli effetti legali, con tutto quel che ne deriva in termini di assunzione dei diritti e delle connesse responsabilità sul nato. In particolare, ci si chiede se la prevalenza dovrà essere data in via di principio al fattore naturalistico o a quello volontaristico-sociale e, all'interno dello stesso fattore naturalistico, in caso di conflitto tra la madre genetica e quella uterina, quale sia quella a cui l'ordinamento debba accordare preferenza;
    nel nostro Paese, attualmente, la materia non è disciplinata in modo organico, ovvero con una legge apposita; il quadro di riferimento della normativa vigente è costituito unicamente dalla previsione contenuta al comma 6 dell'articolo 12 delle legge 19 febbraio 2004, n. 40, che punisce con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 ad un milione di euro chi organizza o pubblicizza la surrogazione di maternità;
    il divieto di maternità surrogata posto dalla legge italiana, disposto ai sensi del comma 6 dell'articolo 12 delle legge n. 40 del 2004, benché presidiato da una sanzione penale (reclusione da tre mesi a due anni e multa da 600.000 a un milione di euro) – sanzione applicabile, oltre che alle cliniche e al personale sanitario coinvolto nella procedura, anche ai soggetti che vi ricorrono (coppia committente e madre surrogata) – non risolve i problemi sopra accennati (potendo al massimo contribuire a prevenirli in virtù della forza deterrente della norma incriminante), dato che questi sono destinati a ripresentarsi tutte le volte che la maternità surrogata sia eseguita nonostante e contro il divieto legale;
    la disposizione citata si presta, infatti, ad essere facilmente elusa dal momento che essa non prevede che la surrogazione di maternità realizzata da un cittadino italiano possa essere perseguita anche se effettuata all'estero;
    non risultano infatti casi nel nostro territorio in cui il reato sia stato effettivamente commesso e quindi punito. In vari casi, anzi, i tribunali trascrivono gli atti di nascita di bambini nati all'estero la cui origine non è chiara, nel nome dell'interesse del minore a restare inserito nella coppia che ne ha chiesto l'ingresso in Italia, contestando invece altri tipi di reato come la falsa dichiarazione a pubblico ufficiale;
    né risulta che il Ministro della giustizia sia mai intervenuto per rendere perseguibile il reato commesso all'estero in singoli casi, come pure il codice penale gli avrebbe consentito;
    se, dunque, la legge n. 40 del 2004 ha ritenuto di dover vietare la pratica della surrogazione di maternità commessa in Italia, applicando addirittura ad essa una sanzione penale, è necessario prevedere che, in ossequio ai principi dell'universalità e della personalità della legge penale, tale reato sia punito, altresì, nel momento in cui sia commesso sul suolo estero dal cittadino italiano,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative per mettere in atto tutti gli strumenti necessari per evitare la legittimazione della pratica della maternità surrogata in sede europea ed internazionale, intervenendo in particolare in sede di Onu, di Parlamento europeo e di Consiglio d'Europa, con particolare riferimento alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 2000, alla Convenzione dei diritti del bambino del 1989, con annesso protocollo sulla vendita dei bambini (2000), alla Risoluzione del Parlamento europeo del 5 aprile 2011 con la quale viene condannata la pratica della surrogazione, alla Relazione annuale sui diritti umani e la democrazia nel mondo nel 2014 e sulla politica della Unione europea in materia, adottata dalla planaria del Parlamento europeo il 30 novembre 2015, valutando anche l'opportunità di promuovere l'adozione, in ambito internazionale, di un protocollo aggiuntivo alla Cedaw (Carta contro lo sfruttamento e la schiavitù delle donne) che condanni la pratica della maternità surrogata;
   ad assumere iniziative normative volte a far sì che i fatti previsti dal comma 6 dell'articolo 12, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, limitatamente alla fattispecie della surrogazione di maternità, siano puniti anche quando commessi all'estero da cittadino italiano;
   a valutare l'opportunità di ricorrere, nel frattempo e per il tramite del Ministro di giustizia, al dispositivo dell'articolo 9 del codice penale, secondo il quale il cittadino che commette in territorio estero un reato per il quale è stabilita una pena restrittiva della libertà personale di durata inferiore ai tre anni (come nel caso della maternità surrogata) può essere punito su richiesta del Ministro della giustizia;
   ad assumere iniziative volte a prevedere – in ogni caso – che la trascrizione in Italia dell'atto di nascita dei bambini nati all'estero attraverso le tecniche di maternità surrogata possa avvenire solo fornendo la copia originale del contratto di surroga, da depositare all'anagrafe del nato, dalla quale si evincano con chiarezza sia l'identità della madre surrogata, sia le generalità di eventuali fornitori di gameti, in moda da garantire al bambino la possibilità di conoscere in ogni momento le proprie origini biologiche.
(1-01225)
«Dellai, Gigli, Santerini, Fauttilli, Capelli, Piepoli, Sberna, Baradello».
(18 aprile 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    in concomitanza con la discussione sul riconoscimento dei matrimoni omosessuali, (presumibilmente anche con finalità strumentali volte a distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica dal tema principale, ossia la violazione manifesta del riconoscimento della famiglia quale nucleo fondamentale della società ai sensi dell'articolo 29 della Costituzione), è tornata di estrema attualità la questione della pratica disumana della maternità surrogata;
    il legislatore già nel 2004 con l'approvazione della legge n. 40 aveva fissato il divieto della pratica della maternità surrogata. L'articolo 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004 ha sancito che chiunque in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizzata la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro;
    la legge n. 40 che, di fatto, è stata depotenziata a «colpi» di sentenze, anche in relazione al divieto di maternità surrogata non trova piena applicazione. Il divieto e le sanzioni previste dalla legge vigente non sono applicate né alle coppie italiane che fanno ricorso all'utero in affitto all'estero né a chi organizza e pubblicizza in Italia la maternità surrogata, predisponendo il ricorso alla pratica fuori dal nostro Paese;
    fa riflettere ad esempio come personaggi pubblici, noti anche per i loro incarichi di responsabilità politica istituzionale, abbiano reso palese, attraverso i canali mediatici, di aver violato la legge, avallando, così, la tesi di una impunità di fatto;
    appare irragionevole ai firmatari del presente atto di indirizzo come il Parlamento e il Governo, al fine di chiarire l'appartenenza della materia alla sfera tipica della discrezionalità legislativa, non abbiano mai sollevato un conflitto di attribuzione nei confronti di sentenze dove l'autorità giudiziaria ha proceduto all'auto-produzione della disposizione normativa introducendo, di fatto, il riconoscimento della step child adoption anche in casi di ricorso alla maternità surrogata;
    il business della maternità surrogata si è rapidamente esteso ed organizzato. Le aree principali dove opera questa rete sono il Canada, gli Stati Uniti, l'India e l'Ucraina. Negli USA si spendono in media 89 mila euro, in Ucraina 43 mila euro, in India 42 mila euro. In Ucraina può scendere anche a 5-8 mila euro. Alcuni «cataloghi» permettono di scegliere il corredo genetico – colore degli occhi, capelli, e altro – del nascituro. Il punto non è solo la gestational surrogacy, ma anche la cosiddetta third-party reproduction, dove madre e padre legalmente riconosciuti non entrano mai in gioco coi loro corpi e il loro corredo genetico e l'alterità del figlio è integrale. Ogni anno si stima che circa 4.000 coppie italiane si rivolgano a centri ucraini;
    si avverte che sta accadendo qualcosa di poco chiaro, si percepisce che ci sono forze che utilizzano strategie articolate per giungere al proprio obiettivo. L'obbiettivo è quello antico, di scardinare le tradizioni, l'identità culturale, sociale e religiosa del nostro Popolo;
    si tratta di una strategia più volte collaudata che si fonda ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo sulla reiterazione della menzogna, sullo sfruttamento di singoli casi che non possono non colpire la sensibilità umana, sul bombardamento mediatico, sulla imposizione di uno standard culturale;
    questo metodo apologetico, già sperimentato tante volte in passato, ha l'obbiettivo di ottenere una crescente adesione alle tesi di un gruppo inizialmente piccolo usando la leva della emotività anziché quella della ragione;
    l'accelerazione dei fenomeni di degenerazione nell'educazione sfocia, oggi giorno, in un vero e proprio allarme educativo. Sempre più in modo repentino si diffonde un pensiero unico laicista che trova sostegno anche in iniziative legislative, secondo i firmatari del presente atto di indirizzo, irragionevoli; alcune amministrazioni comunali, ad esempio, hanno approvato proposte finalizzate a cancellare dai documenti ufficiali la definizione di padre e madre per sostituirla con espressioni quali genitore 1 e genitore 2, oppure genitore richiedente o altro genitore;
    Chesterton scriveva: «La grande marcia della distruzione culturale proseguirà. Tutto verrà negato. Tutto diventerà un credo. Accenderemo fuochi per testimoniare che due più due fa quattro». Con queste parole Chesterton intendeva dire che ciò che fino ad allora era stata un'affermazione di buon senso e di razionalità – per esempio che tutti nasciamo da un uomo e da una donna – in futuro sarebbe diventata una tesi da bigotti, un dogmatismo da condannare e sanzionare. Sosteneva che ci si doveva preparare alla grande battaglia in difesa del buon senso;
    fa riflettere pensare che coloro che sostengono che sia giusto anteporre la libertà di scelta della donna rispetto alla tutela della vita nascente siano gli stessi che da un lato, si impegnano affinché, ad esempio, si preveda anche per legge che i cuccioli di animale non debbano essere separati dalle proprie madri e, dall'altro lato, vogliono che il desiderio alla genitorialità sia riconosciuto senza alcun limite e che si possa realizzare anche attraverso la compravendita dell'utero di donne disperate;
    alla luce delle considerazioni esposte, fa riflettere come in questi giorni il Consiglio d'Europa abbia accolto un ricorso della Cgil per la mancata applicazione della norma sull'interruzione volontaria di gravidanza e stabilito che nel nostro Paese le pazienti continuano a incontrare «notevoli difficoltà» nell'accesso ai servizi, nonostante quanto previsto dalla legge n. 194. La sentenza ha inoltre sancito che l'Italia discrimina medici e personale sanitario che non hanno optato per l'obiezione di coscienza. Questa decisione del Consiglio d'Europa potrebbe mettere a rischio il diritto all'obiezione di coscienza;
    con l'ampliamento – determinato dal trattato di Maastricht – delle competenze e degli obiettivi comunitari anche al di là di quelli strettamente mercantilistici, sono però apparse evidenti e non più trascurabili le interferenze tra la realizzazione del mercato unico e la disciplina dello status delle persone e dei rapporti di famiglia. Così, pur sempre difettando di una diretta competenza comunitaria a regolare, sul piano sostanziale, tale tipo di rapporti, l'azione delle istituzioni ha assunto una crescente incidenza sul diritto di famiglia, fino a condizionare pesantemente la disciplina al riguardo vigente nei singoli Stati membri;
    ad una prima fase, contrassegnata dall'emanazione di atti non vincolanti, specialmente del Parlamento europeo, quali ad esempio le numerose risoluzioni in materia di tutela dei diritti e delle libertà fondamentali degli individui, tra cui quelle sulla parità dei diritti per gli omosessuali nell'Unione europea, è seguita una seconda fase in cui l'impatto del processo di integrazione europea è andato facendosi sempre più pregnante, sia per la natura degli atti che hanno assunto la forma di strumenti comunitari vincolanti, sia per le finalità perseguite;
    l'incidenza del diritto dell'Unione europea sulla disciplina nazionale si è realizzata anche attraverso la tutela dei diritti fondamentali di cui la Corte del Lussemburgo si è resa principale promotrice;
    oggi, a seguito dell'entrata in vigore della riforma di Lisbona, una codificazione dei diritti fondamentali, per di più con forza giuridica pari a quella dei trattati, esiste anche a livello dell'Unione europea e si identifica, come noto, nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea;
    in questa Europa, dove prevale esclusivamente la ragione economica, una politica interna occasionale e una politica estera ondivaga, la difesa della sovranità nazionale su temi di tale rilevanza politica deve essere considerata una priorità;
    le decisioni prese in Europa non possono condizionare in alcun modo il diritto alla sovranità nazionale di ogni Stato membro di legiferare in piena autonomia in ambiti etici di tale importanza. Notizie che apparentemente possono essere colte come segnali positivi; si pensi al voto contrario espresso dalla Commissione affari sociali del Consiglio d'Europa sul rapporto «Diritti umani ed i problemi etici legati alla surrogacy», presentato dalla deputata belga Petra de Sutter, ginecologa, favorevole da sempre alla regolamentazione della gpa, vanno considerate sempre, a giudizio dei firmatari del presente atto di indirizzo, nel loro complesso, come vere e proprie ingerenze su tematiche che non devono essere affrontate da questa Europa, incapace, ad oggi, di riconoscere le sue stesse radici;
    la pratica disumana della maternità surrogata o utero in affitto che rappresenta la mercificazione dei bambini e lo sfruttamento del corpo delle donne deve essere condannata come un crimine nei confronti dell'umanità;
    in questa occasione bisogna, con coerenza, ricordare che qualsiasi intervento legislativo volto a garantire il rispetto della donne nell'esercizio dei loro diritti, al fine di raggiungere una piena pari opportunità, non è nulla se si contrappone, nei fatti, ad un totale disinteresse delle istituzioni dinnanzi a casi di recrudescenza di una violenza sistematica nei confronti delle donne, umiliate e sfruttate attraverso pratiche orribili come il ricorso alla maternità surrogata;
    è necessario quindi che si promuova a livello internazionale una moratoria per bandire questo crimine,

impegna il Governo:

   a farsi promotore, in tutte le sedi competenti, di una moratoria internazionale della pratica, a giudizio dei firmatari del presente atto di indirizzo disumana, della maternità surrogata;
   ad assumere tutte le iniziative di competenza per far sì che possano essere applicate le sanzioni previste dalla legge n. 40 del 2004 per la surrogazione di maternità;
   a promuovere una maggiore consapevolezza sul tema e ad adottare ogni iniziativa di competenza, in sede europea, affinché si possa diffondere una cultura di tutela dei diritti del nascituro e del minore che sarebbero lesi dal ricorso a pratiche di maternità surrogata.
(1-01226)
«Rondini, Saltamartini, Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Busin, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Molteni, Picchi, Gianluca Pini, Simonetti».
(18 aprile 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    «la gestazione per altri (gpa) o maternità surrogata è la pratica attraverso la quale una donna decide di portare avanti una gravidanza per conto di altre persone (single o coppie etero e omosessuali»;
    nel mondo, la regolamentazione delle donatrici di gameti e della gestazione per altri, variano da Paese a Paese, spaziando dal divieto assoluto ai modelli basati sul vincolo del dono o a quelli basati sui rimborsi minimi, fino alla completa assenza di limiti giuridici;
    in Italia, la maternità surrogata è illegale; la legge n. 40 del 2004 prevede espressamente il divieto di pratiche riconducibili al cosiddetto utero in affitto. Recita infatti l'articolo 12, comma 6, della citata legge: «Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro»;
    il divieto e le sanzioni previste dalla legge vigente, sono sistematicamente disattesi. Infatti, le coppie che fanno ricorso all'utero in affitto all'estero (nonostante il reato commesso all'estero sia perseguibile attraverso il ricorso all'articolo 9 del codice penale anche quando la pena prevista sia inferiore ai tre anni), e chi organizza e pubblicizza in Italia la maternità surrogata, fuori dal nostro Paese, non subiscono alcuna restrizione o condanna;
    i tribunali interpellati consentono, invece, alle coppie che hanno fatto ricorso all'utero in affitto all'estero di trascrivere l'atto di nascita dei neonati, riconoscendo le coppie committenti come genitori legali;
    oggi, medicina riproduttiva e medicina rigenerativa hanno aperto nuovi mercati globali, direttamente legati alle potenzialità generative e riproduttive dei corpi. Cresce, infatti, a livello mondiale, la domanda di ovociti, uteri, sperma, placenta, sangue del cordone ombelicale, cellule staminali, embrioni da utilizzare anche nell'industria farmaceutica e nel campo della ricerca. Prolificano cliniche specializzate in fecondazione assistita e maternità sostitutiva e si stanno diffondendo agenzie intermediarie capaci di reperire nel mercato questi materiali in vivo;
    solo per citare alcuni esempi, il prezzo medio di ovociti negli Stati Uniti si aggira intorno ai 10.000 dollari, mentre le madri surrogate sono pagate dai 20.000 a 150.000 dollari circa. I genitori committenti, quasi sempre devono sostenere costi molto elevati per l'aggiunta di procedure cliniche e spese legali;
    in India il contratto più diffuso comprende il pagamento di uno stipendio a intervalli regolari per la donna che si impegna a portare a termine una gravidanza per una coppia committente. Il compenso è fino a 7 volte maggiore del loro reddito annuale medio, per questo le donne acconsentono alla trasformazione del loro utero in una risorsa, capace di proporre rendita;
    la maternità surrogata o di sostituzione (altrimenti detta surrogazione di maternità, in inglese surrogate mother o surrogacy), rispetto alle ordinarie procedure di fecondazione artificiale (omologa o eterologa) richiede la collaborazione di una donna estranea alla coppia (che può essere la stessa donatrice dell'ovulo impiegato per la fecondazione o una donna diversa) che mette a disposizione il proprio utero per condurre la gravidanza e si impegna a consegnare il bambino, una volta nato, alla coppia «committente» (ossia alla coppia che ha manifestato la volontà di assumersi la responsabilità genitoriale nei confronti del nato);
    a seconda che la madre surrogata si limiti ad accogliere in grembo un embrione che le è geneticamente estraneo o contribuisca alla procreazione dello stesso, fornendo ai «committenti» i propri gameti, si distingue tra «surrogazione per sola gestazione» (si parla in tal caso anche di «donazione», se a titolo gratuito, o di «locazione» o «affitto» d'utero, se è pattuito un corrispettivo) e «surrogazione per concepimento e gestazione»;
    la surrogazione per sola gestazione può essere, «omologa» (in questo caso la madre sostituita accoglie un embrione formato dai gameti forniti dai genitori naturali) o «eterologa» (quando l'embrione da impiantare nell'utero della surrogata è il frutto dell'incontro tra il gamete di un membro della coppia richiedente e quello di un terzo donatore di seme o di una ovo donatrice); nella surrogazione «eterologa» i gameti da cui deriva l'embrione impiantato nel grembo della madre sostituta possono essere forniti da terze persone, estranee tanto alla coppia committente quanto alla stessa madre surrogata;
    la surrogazione di maternità porta con sé i limiti di un contratto che potrebbe imporre l'interruzione di gravidanza in caso di malformazioni del feto o la soppressione di uno o più feti nel caso la gravidanza si presenti come gemellare o multipla;
    il contratto di maternità surrogata di solito prevede un compenso che risarcisca per l'impegno assunto e sostenga economicamente fino al parto la mamma surrogata;
    la pratica della maternità surrogata non di rado porta il nascituro ad avere due madri biologiche (una genetica e una gestazionale) ma può accadere che la madre legalmente riconosciuta sia una terza donna, fatto questo che ha implicazioni antropologiche e sociali;
    il legittimo desiderio di avere bambini non è un diritto esigibile;
    la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla lotta contro la tratta degli esseri umani, ritiene lesiva dei diritti «il reclutamento (...) di persone (...) con l'abuso (...) della condizione di vulnerabilità (...) a fini di sfruttamento (che) comprende pratiche simili alla schiavitù e specifica che, in questi casi, il consenso della vittima allo sfruttamento è irrilevante»;
    la surrogazione di maternità è a giudizio dei firmatari del presente atto di sindacato ispettivo in contrasto con la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 che, all'articolo 1, recita: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti», perché i nati da maternità surrogata, a differenza di tutti gli altri bambini del mondo, non cresceranno con la donna che li ha partoriti, cioè la madre, ma con persone che vi hanno stipulato un contratto e l'hanno costretta ad abbandonarlo alla nascita;
    la Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989, all'articolo 8, stabilisce che «Gli Stati parti si impegnano a rispettare il diritto del fanciullo a preservare la propria identità», e all'articolo 32, dispone che «Gli Stati parti riconoscono il diritto del fanciullo di essere protetto contro lo sfruttamento economico»;
    la pratica della maternità surrogata contrasta per i firmatari del presente atto con la cosiddetta Convenzione di Istanbul, in cui, con l'espressione «violenza nei confronti delle donne», si intende designare una violazione dei diritti umani comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica; e con la Convenzione di Oviedo sui diritti umani e la biomedicina (1997), che, all'articolo 21 stabilisce che «Il corpo umano e le sue parti non debbono essere, in quanto tali, fonte di profitto»; principio ribadito dall'articolo 3 della Carta europea dei diritti fondamentali (2000) sul diritto all'integrità della persona, in particolare quando prevede che si rispetti «il divieto di fare del corpo umano e sue parti in quanto tali una fonte di lucro»;
    la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea sancisce, all'articolo 3 il «divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro»;
    la risoluzione del Parlamento europeo del 5 aprile 2011 impegna gli Stati membri a «riconoscere il grave problema della surrogazione di maternità, che costituisce uno sfruttamento del corpo e degli organi riproduttivi femminili»;
    il Parlamento europeo nella risoluzione sulla Relazione annuale sui diritti umani e la democrazia nel mondo nel 2014 «condanna la pratica della surrogazione, che compromette la dignità umana della donna dal momento che il suo corpo e le sue funzioni riproduttive sono usati come una merce; ritiene che la pratica della gestazione surrogata che prevede lo sfruttamento riproduttivo e l'uso del corpo umano per un ritorno economico o di altro genere, in particolare nel caso delle donne vulnerabili nei Paesi in via di sviluppo, debba essere proibita e trattata come questione urgente negli strumenti per i diritti umani»;
    anche il Consiglio d'Europa che sta discutendo il rapporto «Human rights and ethical issues related to surrogacy», dovrebbe pronunciarsi, a quanto consta ai firmatari del presente atto, scoraggiando ogni forma di maternità surrogata per profitto;
    il Comitato nazionale per la bioetica, ha approvato la «mozione su maternità surrogata a titolo oneroso» ritenendo che la maternità surrogata sia un contratto lesivo della dignità della donna e del figlio sottoposto come un oggetto a un atto di cessione e si è espresso contro la mercificazione del corpo umano con le mozioni sulla compravendita di organi a fini di trapianto, del 18 giugno 2004; sulla compravendita di ovociti, del 13 luglio 2007; ha espresso un parere sul traffico illegale di organi umani tra viventi, il 23 maggio 2013; e ritiene che l'ipotesi di commercializzazione e di sfruttamento del corpo della donna nelle sue capacità riproduttive, sotto qualsiasi forma di pagamento, esplicita o surrettizia, sia in netto contrasto con i principi bioetici fondamentali;
    nel diritto internazionale ed europeo, non è comunque prevista alcuna disposizione giuridica che vieti in maniera universale la maternità surrogata,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative, a livello nazionale e internazionale, affinché la surrogazione di maternità sia considerata reato universalmente perseguibile;
   ad attivarsi in tutte le sedi opportune per riconoscere e tutelare in maniera omogenea negli ordinamenti nazionali e internazionali i diritti delle donne e dei bambini oggetto di sfruttamento e di mercificazione nei casi di ricorso a pratiche di maternità surrogata.
(1-01227) «Vezzali, Monchiero».
(18 aprile 2016)