TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 585 di Martedì 8 marzo 2016

 
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INTERPELLANZA E INTERROGAZIONI

A) Interrogazione

  CHIMIENTI, MARZANA, D'UVA, BRESCIA, LUIGI GALLO, VACCA, DI BENEDETTO e SIMONE VALENTE. – Al Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. – Per sapere – premesso che:
   visti i limiti fissati dal complesso quadro normativo di riferimento, il comune di Torino non ha potuto sviluppare, negli anni, politiche assunzionali a tempo indeterminato coerenti con il mantenimento dei livelli quantitativi dei servizi educativi e scolastici erogati;
   ne è pertanto conseguito che anche il comune di Torino ha reiterato, negli anni, contratti a tempo determinato a personale che in molti casi ha superato il limite dei 36 mesi, già previsto dal decreto legislativo n. 368 del 2001 e confermato dal decreto legislativo n. 81 del 2015;
   il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione in data 2 settembre 2015 ha diramato la circolare numero 3 del 2015, avente per oggetto «Disciplina applicabile ai rapporti di lavoro a tempo determinato del personale delle scuole comunali, con particolare riferimento ai limiti di durata»;
   la circolare evidenzia le problematiche in merito all'imposizione del limite dei 36 mesi come massimo periodo di durata di rinnovi contrattuali del personale legato ai servizi educativi;
   la circolare, pertanto, concede ai comuni la facoltà di derogare ai limiti dei 36 mesi purché vi sia un piano assunzionale che abbia come obiettivo il superamento del precariato;
   il comune di Torino procederà nei prossimi mesi all'assunzione di personale a tempo determinato e indeterminato nel settore educativo;
   il comune di Torino ha creato, circa due anni fa, due graduatorie aperte per nidi e materne, riservate esclusivamente a personale con più di 36 mesi di servizio, con lo scopo di stabilizzare il precariato storico, e dalle quali il comune attingerà per i soli contratti a tempo indeterminato;
   il comune di Torino, per quanto concerne le chiamate a tempo determinato (supplenze) ha deciso, con determina dirigenziale n. 201543500 del 26 agosto 2015, di applicare in senso stretto il tetto massimo di 1080 giorni ai contratti individuali di lavoro a tempo determinato e di conferire gli incarichi al personale presente nelle graduatorie statali, nonostante la presenza in graduatoria del personale con più di 36 mesi di servizio;
   nei comuni di Roma e Milano si sta, invece, applicando la circolare sopracitata come elemento per superare temporaneamente i limiti imposti rispetto alla prosecuzione dei tempi determinati oltre ai 36 mesi –:
   se il Governo sia a conoscenza della questione che concerne la città di Torino e quale delle diverse interpretazioni date dai comuni alla circolare di cui in premessa sia corretta;
   se non si ritenga opportuno emanare una nuova circolare a chiarimento della possibilità di superare il limite dei 36 mesi in ambito educativo. (3-01986)
(4 febbraio 2016)

B) Interrogazione

  LATRONICO. – Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. – Per sapere – premesso che:
   il nostro Paese ha un territorio particolarmente fragile, fortemente urbanizzato e a forte rischio di dissesto idrogeologico con il ripetersi della drammatica frequenza di frane e alluvioni in ogni regione;
   in Italia il dissesto idrogeologico è diffuso in modo capillare e rappresenta un problema di notevole importanza. Le aree a elevata criticità rappresentano il 9,8 per cento della superficie nazionale e riguardano l'89 per cento dei comuni, su cui sorgono 6.250 scuole e 550 ospedali. Le regioni hanno stimato un fabbisogno di 40 miliardi di euro per la messa in sicurezza del territorio;
   tra i fattori naturali che predispongono il territorio italiano ai dissesti idrogeologici, rientra senza dubbio la sua conformazione geologica e geomorfologica, caratterizzata da un'orografia giovane. La densità della popolazione, la progressiva urbanizzazione, l'abbandono dei terreni montani, l'edificazione in aree a rischio, il disboscamento e la mancata o carente manutenzione dei corsi d'acqua e dei versanti e/o pendii a rischio di instabilità hanno aggravato la situazione e messo ulteriormente in evidenza la fragilità del territorio italiano, aumentandone l'esposizione ai rischi di dissesto idrogeologico;
   il dissesto idrogeologico è anche una delle ragioni dell'aumento del gap infrastrutturale nel nostro Paese; non franano solo terreni o case provocando dei lutti, ma anche strade e autostrade, ferrovie, reti idriche ed elettriche. Il deterioramento del territorio costituisce una voce fortemente negativa nel bilancio economico del Paese e costa circa 5,5 miliardi l'anno;
   il protocollo d'intesa siglato il 21 maggio 2015 sul monitoraggio e la vigilanza sugli interventi e opere contro il dissesto idrogeologico sottoscritto fra il Presidente del Consiglio, il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e l'Autorità nazionale anticorruzione prevede in particolare nel settore del dissesto idrogeologico la stipula di un piano straordinario per la mitigazione del rischio nelle aree metropolitane e di un piano per l'intero territorio nazionale 2015-2020 da attuare attraverso specifici accordi di programma con i presidenti delle regioni nella veste di commissari;
   il 4 novembre 2015 i rappresentanti delle regioni e delle aree metropolitane hanno siglato con il Governo, rappresentato dal Ministro interrogato e dal Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri Claudio De Vincenti e dal direttore dell'unità di missione contro il dissesto Mauro Grassi sette accordi di programma per interventi di messa in sicurezza del territorio. Gli accordi riguardano le regioni: Abruzzo (interventi per 54,8 milioni di euro) Emilia-Romagna (43,4 milioni di euro), Liguria (315 milioni di euro), Lombardia (145,6 milioni di euro), Sardegna (25,3 milioni di euro), Toscana (106,6 milioni di euro), Veneto (109,7 milioni di euro) per un importo complessivo di 800 milioni di euro, di cui 653 milioni di risorse statali e 150 milioni di cofinanziamenti regionali;
   si apprende che si tratta di 33 interventi, per i quali sono state compilate dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare 33 schede di tutti interventi delle opere anti-alluvione nelle aree metropolitane in base a due criteri di priorità, quali il rischio di pericolosità per le persone, in aree più popolate e lo stato di avanzamento della progettazione. Tra queste non figura la Basilicata pur essendo tra le più insidiate dal rischio idrogeologico come raccontano gli studi finora realizzati sullo stato di fragilità dei versanti lucani che insidiano i centri ubicati sulle colline e le stesse aree di nuovo insediamento lungo il litorale ionico;
   la Basilicata è la regione d'Italia dove il rischio idrogeologico è piuttosto preoccupante e coinvolge almeno un centinaio di comuni. Si tratta di aree, che per particolari caratteristiche orografiche, sono prevalentemente collinari, montuose e quindi potenzialmente più esposte al rischio idrogeologico;
   secondo le analisi di Legambiente e della Protezione civile, la Basilicata conquista anche il triste primato che il 100 per cento dei comuni lucani sono a rischio idrogeologico. Tra le cause che condizionano e amplificano il rischio idrogeologico c’è sia l'azione dell'uomo (abbandono e degrado, cementificazione, consumo di suolo, abusivismo, disboscamento e incendi), ma anche la mancanza di una seria manutenzione ordinaria e una politica di prevenzione;
   in un contesto in cui sono sempre più evidenti gli effetti dei cambiamenti climatici in atto, che comportano fenomeni meteorologici estremi caratterizzati da piogge intense concentrate in periodi di tempo sempre più brevi, la gestione irrazionale del territorio porta a conseguenze disastrose e non è accettabile che non si metta in sicurezza il territorio lucano dai danni provocati da frane, erosioni delle coste, esondazioni dei fiumi che mettono a rischio abitati e impianti produttivi –:
   quali iniziative il Ministro interrogato intenda adottare per accelerare la predisposizione del piano nazionale di mitigazione del rischio idrogeologico al fine di ridurre e gestire il rischio con investimenti per far ripartire il Paese;
   quali siano stati i motivi di esclusione della regione Basilicata dal piano varato nei giorni scorsi;
   quale sia lo stato di attuazione delle opere previste per il contrasto del dissesto idrogeologico in Basilicata e se non ritenga necessario promuovere una revisione della pianificazione di emergenza su tutto il territorio nazionale. (3-01832)
(10 novembre 2015)

C) Interrogazioni

  BIANCONI e PALESE. – Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. – Per sapere – premesso che:
   il 7 gennaio 2016 è stato presentato al Ministro interrogato un nuovo progetto per un rigassificatore («nuovo progetto Rosignano»);
   esso fa seguito ad un «progetto Rosignano» presentato nel 2010 per il quale fu svolta una valutazione d'impatto ambientale con esito positivo –:
   se la valutazione d'impatto ambientale anteriormente richiesta e con esito positivo abbia valenza anche per il progetto del 2016, atteso anche che l'insediamento attiene a luoghi coincidenti con quelli del primo progetto e ad un intervento della stessa natura;
   in caso contrario, quali siano i tempi di conclusione di un'eventuale nuova valutazione d'impatto ambientale. (3-01933)
(19 gennaio 2016)

  SEGONI, ARTINI, BALDASSARRE, BECHIS e TURCO. – Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. – Per sapere – premesso che:
   in data 18 dicembre 2015 la società Edison spa ha presentato una nuova istanza di verifica di assoggettabilità e valutazione di impatto ambientale per la realizzazione di un terminale di rigassificazione a Rosignano Solvay (Livorno), come «revisione alla variante progetto Rosignano», chiedendo la revisione di un vecchio progetto similare («variante progetto Rosignano», caratterizzato da un terminale gnl onshore con capacità di 8 miliardi mc/anno, 2 serbatoi ciascuno con capacità 160.000 mc/anno – capacità massima metaniere 140.000 mc) che nel 2010 aveva ottenuto parere positivo di VIA – DEC VIA 844/2010 (a seguito del quale, sono stati presentati due ricorsi: un ricorso al tribunale amministrativo regionale del Lazio, presentato dall'associazione italiana per il Wwf for Nature onlus; un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica dall'associazione «Forum Ambientalista»). L'attuale progetto è stato sostanzialmente modificato e risulta essere addirittura peggiorativo rispetto al precedente con valutazione d'impatto ambientale favorevole;
   da fonti stampa, si apprende che la stessa giunta comunale di Rosignano con delibera n. 22, riferendosi al progetto della Edison spa esprime preoccupazione sugli «impatti significativi sull'ambiente», ritenendo le modifiche (rispetto al progetto che aveva riscosso la valutazione d'impatto ambientale nel 2010), «sostanziali» e tali da poter costituire «aggravio del preesistente livello di rischio di incidente rilevante» (in base alle «leggi Seveso I-II-III», tale impianto non sarebbe ammissibile in un luogo già ad alto rischio in cui sono presenti altri impianti come quello della sodiera Solvay SA). Secondo uno studio approfondito, effettuato da una équipe di tecnici (incaricati dal comune per esaminare il nuovo progetto) si palesa che: «L'introduzione di nuove tipologie o modalità di accadimento di incidenti ipotizzabili dovute alle modifiche o estensioni previste nel progetto presentato determinano nuovi potenziali scenari incidentali e/o distanze di danno associate con conseguente ripercussione sulle persone e sull'ambiente che devono essere valutate e verificate». Nello specifico, rispetto al precedente progetto, le modifiche principali individuate dai tecnici risultano essere: diversa ubicazione dei serbatoi di stoccaggio gnl, modifica sostanziale al tracciato delle pipeline criogeniche per il trasporto gnl dal pontile all'impianto, modifica della piattaforma di attracco/ormeggio presso il pontile denominato Solvada ai fini dell'installazione di un sistema di caricamento gnl su bettoline; l'installazione di una nuova stazione di caricamento gnl su autocisterne nell'area dell'impianto; l'individuazione di una nuova area esterna rispetto all'area del terminale e delimitata da relativa fence che potrà, in una seconda fase, essere adibita al caricamento ferroviario, modifica del tracciato ferroviario interno, modifica del tracciato stradale interno;
   l'area di realizzazione del terminale dovrebbe essere localizzata in parte su un'area industriale, già ad alto rischio di incidente rilevante, interessata da procedimento di bonifica non concluso sia dei suoli e sottosuoli sia delle acque sotterranee (l'interferenza non solo potrebbe comportare un costo ambientale rilevante ma anche un significativo aggravio per la sicurezza e la salute della comunità);
   il sito di Vada-Rosignano, non essendo area portuale, non risulta agli interroganti rispettare i criteri del «documento di consultazione per una strategia nazionale sul gnl» (approvato con decreto ministeriale dell'8 marzo 2013);
   in base al «piano di indirizzo territoriale Pit» della regione Toscana, il progetto del rigassificatore non potrebbe essere consentito in quanto inciderebbe negativamente sull'ecosistema costiero, altererebbe il paesaggio costiero e le falde acquifere, provocherebbe fenomeni di erosione costiera (e fenomeni artesiani), e non risulterebbe essere in linea con gli interventi di ricostituzione della continuità dunale dei tratti degradati;
   il progetto della Edison spa, se venisse realizzato, provocherebbe l'incrementato del traffico marino, causando gravosi danni alla fascia costiera identificata come «riserva naturale Tomboli Cecina» (istituita con decreto ministeriale del 13 luglio 1977, di proprietà del demanio dello Stato, peraltro ricomprendente aree zps di cui alla direttiva 79/409/CEE), danni all'area marina protetta «santuario dei cetacei» e al Parco nazionale Arcipelago toscano; inoltre, la continua movimentazione di sabbie del fondo marino, molto inquinato da mercurio arsenico, cromo, cadmio, zinco, nickel (scaricati dall'impianto della Solvay), provocata dalle grosse eliche delle metaniere e dei rimorchiatori, rimetterebbe in circolo i metalli tossici ed esporrebbe a ulteriore nocività bagnanti e popolazione residente;
   i dati dell'Autorità per l'energia elettrica, il gas e il sistema idrico rilevano che il consumo di gas metano in Italia è crollato da 85 miliardi di metri cubi nel 2005 a 60 miliardi nel 2014, ampiamente coperti dai gasdotti esistenti; infatti, in termini di quadro programmatico, sembra non siano state effettuate valutazioni inerenti agli effetti sul versante dell'offerta e dei consumi di gas e quindi sulla contemporanea presenza di altri impianti e sul rischio di sottoutilizzo di detti impianti; il piano energetico regionale non prevede il terminale onshore di Rosignano –:
   se il Ministro interrogato sia a conoscenza dei fatti sopra riportati;
   se il Ministro interrogato, per quanto di competenza, non ritenga doveroso avviare una nuova valutazione di impatto ambientale, sia perché il nuovo progetto risulta essere estremamente difforme dal precedente, sia perché ad oggi sono scaduti i termini di validità dei precedenti pareri di valutazione d'impatto ambientale;
   se il Ministro interrogato, per quanto di competenza, non reputi necessario avviare iniziative che possano concretamente tutelare l'ambiente e salvaguardare un'area come quella di Rosignano, già gravemente, inquinata, alterata e snaturata a causa degli insediamenti produttivi che ospita. (3-02084)
(7 marzo 2016)
(ex 4-12174 del 19 febbraio 2016)

D) Interpellanza e interrogazione

  I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro dello sviluppo economico, per sapere – premesso che:
   la società Antonio Merloni era un'azienda situata nell'area di Fabriano, tra le Marche e l'Umbria, dove produceva elettrodomestici per conto terzi;
   il 27 dicembre 2011, dopo tre anni di amministrazione straordinaria, accompagnata da scioperi, occupazioni e proteste dei dipendenti, è stata venduta dai commissari nominati dal Ministero dello sviluppo economico alla società J.P. (Qs Group Spa), di proprietà dell'imprenditore Giovanni Porcarelli;
   la vendita è avvenuta per una cifra pari a 12 milioni di euro (appena un quinto del valore reale, stimato in 54 milioni) salvaguardando, almeno in parte, livelli occupazionali ed unità produttiva con il riassorbimento di 700 lavoratori nella newco;
   tra i creditori della Antonio Merloni, alcune banche hanno deciso di ricorrere alla autorità giudiziaria per chiedere l'annullamento della cessione del complesso industriale in quanto avvenuta in pregiudizio degli interessi dei creditori;
   il tribunale di Ancona il 20 settembre 2013 accoglieva il ricorso delle banche istanti, annullando la cessione e censurando l'operato dei commissari nominati dal Ministero dello sviluppo economico per aver agito travalicando i limiti del potere discrezionale della pubblica amministrazione;
   in particolare, il tribunale civile di Ancona contestava nel provvedimento «l'inderogabilità del criterio in base al quale, nella determinazione del valore dell'azienda ai fini della alienazione, secondo la disciplina stabilita dall'articolo 63 del decreto legislativo n. 270 del 1999, la redditività negativa poteva essere calcolata solo con riferimento al biennio successivo alla stima», mentre i commissari nominati dal Ministero dello sviluppo economico avevano determinato il valore su quattro anni;
   il tribunale sottolineava, inoltre, come il piano industriale di quattro anni, presentato dalla J.P. per acquisire i tre stabilimenti della Antonio Merloni di Fabriano e Gaifana, nonché i marchi Ardo e Seppelfricke, doveva essere sostenuto a rischio ed onere dell'acquirente J.P. e non a scapito dei creditori, che vedevano in quel modo azzerata la garanzia patrimoniale del debitore;
   la corte d'appello di Ancona, in data 4 aprile 2014, confermava la decisione del tribunale, ribadendo il principio che l'amministrazione straordinaria non impone ai commissari di vendere comunque e sempre ad un qualsiasi prezzo i beni che compongono l'attivo;
   di fatto, però, l'azione dei commissari è seguita alla oggettiva difficoltà di alienare un complesso industriale di 5 mila addetti, che produceva un numero di 5 mila lavatrici al giorno per conto terzi, gravato da 700 milioni di euro di debiti;
   i bandi di interesse internazionale lanciati dai commissari erano andati deserti, così come infruttuose le ipotesi di individuare acquirenti cinesi o iraniani;
   esulando dal merito della vicenda giudiziaria che non compete agli interpellanti, le decisioni del tribunale e della corte d'appello hanno creato una situazione di grande incertezza per il prosieguo dell'attività industriale del complesso aziendale ex Antonio Merloni, mettendo a rischio il livello occupazionale in un'area geografica – un tempo nota come «distretto del bianco» – già duramente colpita da una lunga e persistente crisi industriale;
   il 5 giugno 2014, si è tenuto presso il Ministero dello sviluppo economico un incontro tra i commissari nominati dal Ministero e rappresentanti delle banche creditrici per cercare una soluzione, tuttavia senza esito risolutivo;
   ad oggi il Governo, come altre istituzioni competenti, non si è espresso ufficialmente sulla vicenda riepilogata in premessa –:
   se il Ministro interpellato intenda intervenire in modo diretto, attraverso l'apertura di un tavolo ministeriale o con altri strumenti previsti dall'ordinamento, per individuare una soluzione politica e tecnico-giuridica alla questione di cui in premessa;
   se non ritenga opportuno coinvolgere anche le rappresentanze sindacali dei lavoratori;
   se abbia avviato un'indagine interna al fine di individuare eventuali responsabilità nell'attività di cessione operata dai commissari nominati dal Ministero dello sviluppo economico.
(2-00569) «Ricciatti, Piras».
(9 giugno 2014)

  GIULIETTI, LODOLINI e SERENI. – Al Ministro dello sviluppo economico. – Per sapere – premesso che:
   la Merloni è un'azienda chiusa rientrante nell'ambito della «legge Marzano-Prodi», che disciplina il percorso con cui grandi gruppi nazionali debbono essere assistiti anche nella fase di chiusura delle attività, percorso gestito dal commissariamento, che si è chiuso con un atto del Consiglio dei ministri ad esito del quale gli ultimi asset produttivi, quelli più importanti, quelli che riguardano l'Umbria e le Marche, a cui afferivano circa mille lavoratori umbri e millequattrocento-millecinquecento delle Marche ancora in carico, sono stati trasferiti in virtù di quell'atto a un investitore, la Jp industries, che ha avanzato l'unica proposta in questa direzione a fronte di un corrispettivo per legge non è solo di prezzo ma è soprattutto e prioritariamente, di impegno a sviluppare un progetto imprenditoriale che riassorba una parte almeno significativa del bacino occupazionale che la vicenda aveva determinato in negativo. La legge prevede che sulla proposta finale si esprima il comitato dei creditori, che deve dare parere favorevole. Si ritiene che le banche avessero un'esposizione di 450 milioni di euro con Antonio Merloni;
   il Consiglio dei ministri ha determinato la chiusura, provvedimento adottato con il parere favorevole delle banche, e l'assemblea dei creditori ha dato parere favorevole;
   un giorno dopo le banche hanno impugnato quel provvedimento del Consiglio dei ministri presso il giudice amministrativo;
   se viene annullato quel trasferimento, decade l'iniziativa di Jp industries, che prevede l'obbligo garantito, con strumenti fideiussori come previsto dalla legge, di riassunzione di 700 lavoratori e decade in prospettiva anche, come previsto dalla legge di quel tipo, la concessione degli stessi ammortizzatori sociali;
   dalle notizie che stanno arrivando sembra che l'azienda e i commissari impugnino immediatamente il provvedimento e che quindi esistano i presupposti giuridici perché la sentenza di primo grado non sia immediatamente esecutiva e che quindi nell'immediato non si producano gli effetti che si paventavano poc'anzi, se venisse confermata quella sentenza;
   gli interessi legittimi e i diritti connessi alla chiusura della vicenda Antonio Merloni e alla ripartenza di quel territorio, nonché la tutela dovuta per legge con gli ammortizzatori sociali per migliaia di lavoratori coinvolti, non possano subire nocumento alcuno dalle vicende giudiziarie; si crede che abbiano ragione i lavoratori quando dicono che in questo Paese gli interessi di quelle stesse banche che non hanno adeguatamente vigilato il credito quando c'era la vicenda Antonio Merloni, non possano essere più importanti degli interessi di chi là dentro lavora, produce e fa impresa. E di un territorio intero che da quello dipende anche la sua vita, il suo futuro, la sua prospettiva. C’è un ordine di priorità in questo Paese: prima di tutto viene il lavoro –:
   se intenda attivare un tavolo istituzionale tra la regione Umbria, regione Marche e rappresentanze dei lavoratori per individuare misure urgenti per scongiurare gli effetti della sentenza e per condividere un percorso di rilancio di un settore strategico quale quello dell'elettrodomestico, assicurando il rispetto dell'accordo di programma e la garanzia della continuità degli ammortizzatori sociali.
(3-00345)
(25 settembre 2013)

MOZIONI CONCERNENTI IL SETTANTESIMO ANNIVERSARIO DEL VOTO ALLE DONNE

   La Camera,
   premesso che:
    il 2 giugno 2016 ricorrerà il settantesimo anniversario della Repubblica Italiana e, contestualmente, il settantesimo anniversario del voto alle donne in Italia;
    fino al 1946 le italiane non potevano partecipare né attivamente, né passivamente alle elezioni politiche;
    al termine del primo conflitto mondiale nel 1918 il suffragio fu esteso a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto il ventunesimo anno di età e a coloro che avessero prestato servizio nell'esercito mobilitato;
    le donne italiane dovettero aspettare ancora e più precisamente il 31 gennaio 1945 quando, con il Paese ancora diviso, il Consiglio dei ministri emanò un decreto legislativo luogotenenziale, pubblicato il 1o febbraio 1945, che sancì il suffragio universale e che riconosceva il diritto di voto alle donne, con grave ritardo rispetto ad altri Paesi: in Nuova Zelanda le donne votavano sin dal 1893, in Finlandia dal 1907, in Norvegia dal 1913, nel Regno Unito dal 1917; prima dell'Italia avevano riconosciuto questo diritto, fra gli altri Paesi, anche Turchia, Mongolia, Filippine, Pakistan, Cuba e Thailandia;
    nel decreto non era tuttavia prevista l'eleggibilità delle donne, che sarà sancita solo dal decreto n. 74 del 10 marzo 1946: «Norme per l'elezione dei deputati all'Assemblea costituente»;
    in attesa del referendum istituzionale del 2 giugno 1946, nell'aprile 1945 si era costituita la Consulta, che ebbe come principale compito quello di elaborare una legge elettorale per l'Assemblea costituente. La Consulta fu il primo organismo politico nazionale in cui entrarono 13 donne, invitate direttamente dai partiti;
    la prima volta che le donne poterono esercitare il loro diritto elettorale, attivo e passivo fu in occasione delle elezioni amministrative: dal 10 marzo al mese di aprile del 1946 le donne votarono in 5 turni: la partecipazione alle urne fu altissima, ne furono elette duemila nei consigli comunali;
    il 2 giugno 1946 finalmente tutte le donne italiane poterono recarsi alle urne ed essere elette in elezioni politiche: ventuno furono le elette nella Costituente, duemila nei consigli comunali; sui banchi dell'Assemblea costituente sedettero le ventuno «prime parlamentari», a ragione denominate «Madri Costituenti»: nove della DC, nove del PCI, due del PSIUP ed una del Partito dell'Uomo qualunque. Cinque di loro entreranno nella «commissione dei 75», incaricata di scrivere la Carta costituzionale: Maria Federici, Angela Gotelli, Lina Merlin, Teresa Noce e Nilde Jotti; solo più di trent'anni dopo, proprio Nilde Jotti fu la prima donna a ricoprire la carica di Presidente della Camera dei deputati, una delle cinque più alte cariche dello Stato mai ricoperte da una donna prima, occupando lo scranno più alto di Montecitorio per tre legislature, dal 1979 al 1992;
    è importante ricordare qui che la prima donna della Consulta a parlare in un'assemblea democratica fu Angela Guidi Cingolani, che condivideva con altre elette trascorsi di prigione e di confino. Tutte le Madri lottarono e furono attente alle speranze delle italiane, per non deludere le migliaia di donne partigiane, staffette, donne antifasciste che in mille modi avevano contribuito alla Liberazione: così ricorda la storica giornata del 2 giugno Tina Anselmi «E le italiane, fin dalle prime elezioni, parteciparono in numero maggiore degli uomini, spazzando via le tante paure di chi temeva che fosse rischioso dare a noi il diritto di voto perché non eravamo sufficientemente emancipate. Non eravamo pronte. Il tempo delle donne è stato sempre un enigma per gli uomini. E tuttora vedo con dispiacere che per noi gli esami non sono ancora finiti. Come se essere maschio fosse un lasciapassare per la consapevolezza democratica!»;
    la scrittrice e saggista Maria Bellonci (ideatrice del premio Strega), così descrive quel giorno: «Anche per me, come per tutti gli scrittori, e come per tutti quelli che sono avvezzi a mettere continuamente se stessi al paragone delle cose, gli avvenimenti più importanti di quest'anno 1946 sono fatti interiori; ma è un fatto interiore – e come – quello del 2 giugno quando di sera, in una cabina di legno povero e con in mano un lapis e due schede, mi trovai all'improvviso di fronte a me, cittadino. Confesso che mi mancò il cuore e mi venne l'impulso di fuggire. Non che non avessi un'idea sicura, anzi; ma mi parvero da rivedere tutte le ragioni che mi avevano portato a quest'idea, alla quale mi pareva quasi di non aver diritto perché non abbastanza ragionata, coscienziosa, pura. Mi parve di essere solo in quel momento immessa in una corrente limpida di verità; e il gesto che stavo per fare, e che avrebbe avuto una conseguenza diretta mi sgomentava. Fu un momento di smarrimento: lo risolsi accettandolo, riconoscendolo; e la mia idea ritornò mia, come rassicurandomi.», e ancora, la giornalista Anna Garofalo «Le schede che ci arrivano a casa e ci invitano a compiere il nostro dovere hanno un'autorità silenziosa e perentoria. Le rigiriamo tra le mani e ci sembrano più preziose della tessera del pane Stringiamo le schede come biglietti d'amore. Si vedono molti sgabelli pieghevoli infilati al braccio di, donne timorose di stancarsi nelle lunghe file davanti ai seggi. E molte tasche gonfie per il pacchetto della colazione. Le conversazioni che nascono tra uomo e donna hanno un tono diverso, alla pari»;
    il primo successo delle Madri della Consulta fu quello di ottenere che il premio della Repubblica, di tremila lire, fosse esteso anche alle vedove di guerra e alle mogli dei prigionieri: tra le Madri Costituenti, che è bene ricordare, nove erano comuniste, tra cui cinque dell'UDI (Adele Bej, Nadia Gallico Spano, Nilde Jotti, Teresa Mattei, Angiola Minella, Rita Montagnana, Teresa Noce, Elettra Pollastrini, Maria Maddalena Rossi), nove democratiche cristiane (Laura Bianchini, Elisabetta Conci, Filomena Delli Castelli, Maria De Unterrichter Jervolino, Maria Federici, Angela Gotelli, Angela Guidi Cingolani, Maria Nicotra, Vittoria Titomanlio), due socialiste (Angelina Merlin e Bianca Bianchi) e una della lista «Uomo Qualunque» (Ottavia Penna Buscemi); tutte le Madri, con il loro impegno e le loro capacità, segnarono l'ingresso delle donne nel più alto livello delle istituzioni rappresentative; quattordici di loro erano laureate e molte insegnanti, c'era qualche giornalista-pubblicista, una sindacalista e una casalinga; quattordici erano sposate e con figli. Molte avevano preso parte alla Resistenza, pagando spesso personalmente e a caro prezzo le loro scelte, come Adele Bei (condannata nel 1934 dal tribunale speciale a diciotto anni di carcere per attività antifascista), Teresa Noce (detta Estella, che dopo aver scontato un anno e mezzo di carcere, perché antifascista, fu deportata in un campo di concentramento nazista in Germania dove rimase fino alla fine della guerra) e Rita Montagnana (che aveva passato la maggior parte della sua vita in esilio);
    i settanta anni di storia intercorsi da quella data sono stati densi di trasformazioni: non a caso in riferimento ai profondi cambiamenti culturali e di stile di vita che hanno attraversato la società e la famiglia nella seconda metà del secolo scorso si è parlato di rivoluzione femminile, una rivoluzione che ha interessato tutto il mondo occidentale;
    da allora iniziava un percorso di autonomia delle donne che negli anni ha prodotto anche significative modifiche della legislazione: tale cammino di emancipazione ha potuto compiersi nel solco dei principi della Costituzione italiana, basti pensare all'importanza dell'articolo 3, che stabilisce l'uguaglianza morale e giuridica tra uomo e donna, dell'articolo 37, con il quale viene sancita la parità nel lavoro e l'accesso agli uffici pubblici e alla cariche elettive (si veda anche l'articolo 51), anche se, per poter entrare nella magistratura e nella carriera diplomatica, le donne dovranno attendere il 1963; nel 1950 fu approvata la legge sulla «tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri», e nel 1951 venne nominata la prima donna al Governo, Angela Cingolani, divenuta Sottosegretaria all'industria e al commercio, mentre la prima donna Ministro fu Tina Anselmi nel 1976;
    furono anni in cui vennero approvate leggi fondamentali e innovative in vari ambiti, tra le quali quelle sul diritto di famiglia e quella sulla dignità femminile, come l'abolizione della case di prostituzione nel 1956, firmata da Lina Merlin, primo esempio di mobilitazione parlamentare trasversale;
    con un accordo interconfederale nel 1960 furono eliminate le tabelle remunerative differenti per uomini e donne, sancendo la parità formale e sostanziale delle donne e degli uomini nel mondo del lavoro; è del 1970 la legge sul divorzio, confermata dal referendum del 1974;
    nel 1975 viene riformato il diritto di famiglia, garantendo parità tra i coniugi e la comunione dei beni, nel 1977 viene approvata la legge di parità, integrata poi nel 1991 dalla legge n. 125 sulle pari opportunità;
    nel frattempo, vengono abrogati il delitto d'onore e le norme penali sull'adulterio femminile, nel 1978 viene approvata la legge n. 194 sull'interruzione di gravidanza che resisterà al referendum abrogativo del 1981;
    dagli anni ’90, con alterne fortune, si è discusso della necessità di prevedere quote obbligate di candidature maschili e femminili: la legge costituzionale n. 1 del 2003 ha stabilito che le leggi regionali promuovono la parità di accesso tra uomini e donne alle cariche elettive e l'articolo 51 della Costituzione è stato riformato introducendo le pari opportunità in modo da dare copertura costituzionale ai provvedimenti che vogliono attuare tale principio in una legge elettorale;
    l'articolo 117, settimo comma, della Costituzione, come modificato in seguito alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, recante «Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione» stabilisce che: «Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive» e, insieme al combinato disposto degli articoli 3 e 51, definisce criteri per favorire la piena inclusione delle donne nella vita politica, sociale ed economica del Paese. A questo si aggiungano le più recenti pronunce della Corte costituzionale, e, tra queste, le sentenze n. 49 del 2003 e n. 4 del 2010, che hanno chiarito come le norme rivolte alle regioni «stabiliscano come doverosa l'azione promozionale per la parità di accesso alle consultazioni». Finora, il principio delle pari opportunità tra uomo e donna nelle competizioni elettorali è stato considerato in numerosi statuti regionali;
    la legge 12 luglio 2011, n. 120, ha introdotto misure per il riequilibrio di genere nei consigli di amministrazione delle società pubbliche e private e da allora il tema è recentemente diventato attuale anche all'interno delle istituzioni, in modo particolare nelle assemblee elettive;
    la legge 23 novembre 2012, n. 215, ha introdotto, nelle elezioni dei consigli comunali dei comuni con più di cinquemila abitanti, sia la doppia preferenza di genere sia una «quota di lista», per la quale nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore a due terzi: questo particolare strumento permette di porre l'accento sull'elemento principale, il riconoscimento del merito, spesso ostacolato da stereotipi di genere;
    la legge n. 65 22 aprile 2014, n. 65, ha modificato l'articolo 14, primo comma, della legge 24 gennaio 1979, n. 18, in relazione alla promozione dell'equilibrio di genere nella rappresentanza politica alle elezioni per il Parlamento europeo, introducendo la cosiddetta «tripla preferenza di genere»: nel caso in cui l'elettore decida di esprimere più di una preferenza, la scelta deve comprendere candidati di entrambi i generi, pena l'annullamento della seconda e terza preferenza;
    il Global gender gap index, registra l'indice sul divario di genere stilato annualmente dal World economic forum di Ginevra e nel 2015 ha rilevato un passo in avanti da parte dell'Italia in relazione alle donne elette alla Camera e al Senato. Nel 2013 sono passate al 31 per cento (dal 22 per cento della XVI legislatura) e l'Italia ha guadagnato 9 posizioni nella classifica, eppure le pari opportunità nel nostro Paese rimangono un miraggio: si è ancora al 71esimo posto su 136 Paesi, al primo c’è per il quinto anno l'Islanda, seguita da Finlandia, Norvegia, Svezia e Filippine;
    in altri termini, nel nostro Paese fa ancora molta meno differenza essere uomo o donna, in termini di possibilità economiche e di carriera politica o dirigenziale;
    in generale, l'Italia si colloca più in basso dei Paesi scandinavi per tutti i quattro sotto-indici che compongo il Global gender gap report: su 136 Paesi, è al 65o posto per quanto riguarda la scolarizzazione, 72esima per la salute, 44esima per l'accesso al potere politico e al 97esimo per la partecipazione alla vita economica. Il problema viene soprattutto dal mondo del lavoro: il posizionamento generale dell'Italia può essere spiegato principalmente con il basso risultato nella classifica della partecipazione e opportunità economiche. Solo il 51 per cento delle donne lavora, contro al 74 per cento degli uomini. Ma l'elemento chiave è la disparità salariale: una italiana in media guadagna 0,47 centesimi per ogni euro guadagnato da un uomo;
    la posizione dell'Italia nella classifica che misura l'eguaglianza salariale percepita è molto bassa: 124esima su 136 Paesi, al di sotto della media mondiale; la percezione misurata dall'indice, per altro, è quella dei dirigenti d'azienda;
    il fattore determinante più importante per la competitività di un Paese è il talento umano: le donne costituiscono la metà del talento potenziale; se i Governi ricoprono un ruolo importante nel sostenere le politiche giuste (congedo di paternità, asili e altro), sta anche alle aziende creare posti di lavoro, con processi di reclutamento innovativi, nuovi percorsi per le carriere e le politiche salariali trasparenti, che permettano ai migliori talenti di svilupparsi;
    aumentare la presenza delle donne nei luoghi di lavoro è importante, ma non basta se non porta anche a nuove politiche di conciliazione e a un modo nuovo di lavorare da cui possano trarre beneficio tutti, anche gli uomini;
    i numeri di per sé non garantiscono la parità e ciò si evince anche dall'analisi nel dettaglio della situazione politica: in Parlamento siedono più senatrici e deputate (l'Italia si colloca al 28esimo posto della classifica), ma non sono aumentate significativamente le donne in «posizione ministeriali» (qui il nostro Paese si colloca solo 60esimo, e migliora soltanto di una posizione rispetto al 2013), nei luoghi cioè in cui si decidono le priorità del Paese;
    la data del 2 giugno 2016 costituisce, dunque, non solo un anniversario per il Paese e per il diritto al voto acquisito dalle donne, in termini di elettorato attivo e passivo, ma anche l'occasione per dare forte e rinvigorito impulso alla parità di genere sostanziale e non solo normativa tra uomini e donne, attraverso la messa in campo di azioni realmente volte a eliminare qualunque diseguaglianza a qualunque livello: sociale, lavorativo, politico, culturale;
    la forza della partecipazione politica delle donne alla nuova democrazia e all'elaborazione della Costituzione italiana non nasceva dal nulla: interpretava le lunghe lotte dei decenni precedenti culminate nella partecipazione attiva alla lotta di Liberazione, vero spartiacque del cambiamento della storia italiana, europea, mondiale;
    attraverso questi eventi di portata storica le donne portarono nella cultura politica, sociale e civile del paese un contributo inedito, destinato a rimanere per sempre. Una cultura permanente ma in divenire: i limiti rilevati sulla partecipazione al percorso decisionale e istituzionale dimostrano che si tratta di una conquista lungi dall'essere conclusa;
    la storia delle donne nel novecento è stata portata all'attenzione del mondo dalle conferenze mondiali dell'Onu che hanno indicato le donne come il primo soggetto per i cambiamenti del mondo nel segno dello sviluppo, dell'uguaglianza, della pace;
    la Repubblica italiana è responsabile della continuità ideale, politica e programmatica del ruolo svolto dalle donne nella vita dell'Italia e dei passaggi cruciali che hanno determinato e determineranno questi cambiamenti,

impegna il Governo:

   a promuovere, nel corso del 2016, iniziative di ampio respiro, di carattere nazionale e locale, per ricordare le figure delle ventuno Madri Costituenti, anche attraverso la realizzazione di programmi televisivi e radiofonici;
   a promuovere in tutte le istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado momenti dedicati alla commemorazione delle ventuno donne costituenti, ricordandone l'impegno e il ruolo svolto nella stesura della Carta Costituzionale italiana, e ad assumere iniziative per istituire, in ogni scuola di ordine e grado, programmi educativi destinati al riconoscimento e alla valorizzazione delle donne nella storia, nella filosofia, nella scienza e nelle altre discipline umanistiche e scientifiche;
   a promuovere e a rafforzare la tutela dei diritti delle donne e il loro empowerment in tutti i settori, affrontando le cause strutturali della discriminazione basata sul genere, a promuovere le condizioni che favoriscono la trasformazione nelle relazioni di genere per renderle egualitarie, ad assumere iniziative per garantire alle donne l'effettiva partecipazione e la possibilità di assumere la leadership a tutti i livelli decisionali, politici, economici e sociali, comprese la gestione della riduzione del rischio di catastrofi, la prevenzione e la mediazione dei conflitti e la costruzione dei processi di pace, e a favorire il contributo specifico e unico delle donne nei tavoli di mediazione internazionale che affrontano le gravi crisi politiche e umanitarie in varie aree del globo.
(1-01182)
«Zampa, Locatelli, Martelli, Binetti, Santerini, Vezzali, Giorgia Meloni, Gribaudo, Pollastrini, Sereni, Cenni, Pes, Blazina, Carloni, Carocci, Gnecchi, La Marca, Patrizia Maestri, Malisani, Murer, Piazzoni, Iacono, Fabbri, Valiante, Fedi, Bargero, Patriarca, Tentori, Carella, Arlotti, Carnevali, Fragomeli, Dell'Aringa, Paola Boldrini, Venittelli, Grassi, Casati, Marzano, Giovanna Sanna, Cani, Albanella, Giuditta Pini, Realacci, Zoggia, Argentin, Malpezzi, Roberta Agostini, Romanini, Marantelli, Campana, Tidei, D'Incecco, Sbrollini, Albini, Paolo Rossi, Cinzia Maria Fontana, Basso, Marchi, Lattuca, Braga, Paris, Rubinato, Rossomando, Ventricelli, Rigoni, Carra, Gasparini, Rocchi, Mongiello, Tullo, Capone, Narduolo, Manzi, Piccione, Ghizzoni, Rotta, Di Salvo, Miotto, Cova, Giacobbe, Casellato, Cimbro, Preziosi, Carrozza, Schirò, Lenzi, Bolognesi, Taricco, Ferranti, Speranza, Lacquaniti, Morani, Ribaudo, Fontanelli, Antezza, Nicchi, Costantino, Duranti, Ricciatti, Pannarale, Pellegrino, Gregori, Galgano, Iori, Carlo Galli, Bruno Bossio».
(1o marzo 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    il 2 giugno 2016 ricorre il settantesimo anniversario dal referendum istituzionale indetto, per la prima volta a suffragio universale, il 2 e il 3 giugno 1946 con il quale gli italiani furono chiamati alle urne per esprimersi su quale forma di Governo, Monarchia o Repubblica, dare al Paese. Il 2 giugno si celebra la nascita della Repubblica italiana ed è anche la prima volta in cui tutte le donne italiane si recarono alle urne;
    il voto alle donne, o suffragio femminile, è una conquista piuttosto recente del XIX secolo ed è il risultato di un profondo movimento di riforma, politico, economico e sociale, che ha le sue radici nel XVIII secolo e nelle suffragette. In Inghilterra, le battaglie delle suffragette portarono ad un esito positivo con la legge del 2 luglio 1928, con cui fu esteso il suffragio a tutte le donne inglesi;
    per quanto riguarda l'Italia il percorso che portò all'estensione del diritto di voto anche alle donne cominciò all'indomani dell'unificazione, nel 1861. Furono molti i tentativi e i disegni di legge che dall'Unità d'Italia al secondo dopoguerra proposero il diritto di voto alle donne. Molti furono insabbiati finché nel 1919, dopo la prima guerra mondiale, una proposta di legge sull'estensione del voto amministrativo alle donne, il disegno di legge Martini-Gasparotto, fu approvata alla Camera, ma a causa della fine della legislatura il provvedimento rimase «bloccato» al Senato. Ma il voto alle donne fu raggiunto solo il 31 gennaio 1945 quando un decreto legislativo luogotenenziale, pubblicato il 1o febbraio, sancì il suffragio universale. Nel decreto non era però prevista l'eleggibilità delle donne, che venne introdotta solo dal decreto n. 74 del 10 marzo 1946, recante «Norme per l'elezione dei deputati all'Assemblea costituente», il cui articolo 7 recita: «Sono eleggibili all'Assemblea Costituente i cittadini e le cittadine italiane che, al giorno delle elezioni, abbiano compiuto il venticinquesimo anno di età». In Italia le donne votarono per la prima volta nel corso delle elezioni amministrative del marzo del 1946 (436 comuni) e, successivamente, a livello nazionale per il referendum del 2 giugno 1946;
    nel frattempo, le donne entrarono nei pubblici uffici, vi furono le prime nomine pubbliche nei comuni, a livello provinciale, nelle consulte nazionali e regie. Le donne esercitavano un potere pubblico e, dunque, non era più giustificabile l'esclusione dal voto. Già prima della guerra mondiale si chiese il voto per le donne in quanto lavoratrici, contribuenti e consumatrici (tasse dirette ed indirette). Durante la guerra le lavoratrici assunsero ruoli e lavori maschili. Tutto ciò portò nel secondo dopoguerra a concedere alle donne italiane il diritto di voto;
    le guerre hanno rappresentato nella storia un momento cruciale per il raggiungimento di diritti, compreso quello di piena cittadinanza per le donne. È infatti sulla base dell'apporto alla Patria che i gruppi sociali possono ridiscutere i loro diritti. In tutto il mondo, in epoca moderna, dopo la guerra si concedono Costituzioni, si allarga il diritto di voto, si fanno leggi per favorire quelli che si sono prodigati per la Patria. L'Italia non è stata da meno in questo cammino;
    nel 1923 Mussolini promise il diritto di voto e alla fine del 1925 fu approvata una legge in tal senso, pur molto ristretta: sarebbero potute divenire elettrici, facendone richiesta e limitatamente alle elezioni amministrative, le donne con più di 25 anni, provviste di licenza elementare, che esercitavano la patria potestà e pagavano tasse non inferiori alle cento lire annue, e ancora le decorate al valore militare o civile o madri e vedove di caduti. La legge, approvata nel 1925, però non venne applicata perché vennero annullate le elezioni amministrative, introducendo la figura del podestà;
    in attesa del referendum istituzionale del 2 giugno 1946, nell'aprile 1945, si era costituita la Consulta, con il compito di elaborare una legge elettorale per l'Assemblea costituente. La Consulta fu il primo organismo politico nazionale in cui entrarono 13 donne, invitate direttamente dai partiti;
    il 2 giugno 1946 in concomitanza con il referendum istituzionale si svolsero in Italia le elezioni dell'Assemblea costituente. Furono eletti 556 costituenti, tra cui 21 donne, il 3,8 per cento. Il 2 giugno la partecipazione alle elezioni fu massiccia: l'89 per cento di donne e l'89,2 per cento uomini. Le prime donne elette all'Assemblea costituente, le cosiddette «Madri Costituenti» erano nove della DC, nove del PCI, due del PSIUP ed una del Partito dell'Uomo qualunque. Cinque di loro entreranno nella «commissione dei 75», incaricata di scrivere la Carta costituzionale: Maria Federici, Angela Gotelli, Lina Merlin, Teresa Noce e Nilde Jotti. Tra le Madri Costituenti, che è bene ricordare, nove democratiche cristiane (Laura Bianchini, Elisabetta Conci, Filomena Delli Castelli, Maria De Unterrichter Jervolino, Maria Federici, Angela Gotelli, Angela Guidi Cingolani, Maria Nicotra, Vittoria Titomanlio), nove erano comuniste, tra cui cinque dell'UDI (Adele Bej, Nadia Gallico Spano, Nilde Jotti, Teresa Mattei, Angiola Minella, Rita Montagnana, Teresa Noce, Elettra Pollastrini, Maria Maddalena Rossi), due socialiste (Angelina Merlin e Bianca Bianchi) e una della lista «Uomo Qualunque» (Ottavia Penna Buscemi); tutte le Madri, con il loro impegno e le loro capacità, segnarono l'ingresso delle donne nel più alto livello delle istituzioni rappresentative, quattordici di loro erano laureate e molte erano insegnanti, qualcuna giornalista-pubblicista, una sindacalista e una casalinga; quattordici sposate e con figli;
    la Dichiarazione universale dei diritti umani, adottata nel 1948, stabilisce «The equal rights of men and women», principio, questo, che venne ampliato nel 1979 con la Convenzione Cedaw (Convention on the elimination of all forms of discrimination against women), adottata da 189 Stati membri dell'Onu. Tutte le Costituzioni o le Basic laws degli Stati Ocse garantiscono la piena cittadinanza ed uguaglianza per le donne, insieme ai pieni diritti elettorali. Va però sottolineato che molte delle riforme per la cosiddetta uguaglianza formale sono recenti: il diritto di voto per le donne in Svizzera è stato raggiunto solo nel 1971, nel 1976 in Portogallo e nel 1994 in Kazakhstan e in Repubblica Moldova;
    la Costituzione italiana sancisce in molti articoli l'uguaglianza tra donne e uomini. L'articolo 3 sancisce l'uguaglianza dei diritti tra i sessi: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». L'articolo 29 stabilisce l'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi; l'articolo 37 decreta la parità e la tutela della donna lavoratrice. L'articolo 51 fissa la parità di accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive; l'articolo 117, comma 7, stabilisce l'obbligo per le regioni di promuovere la parità di accesso alle cariche elettive;
    il 30 maggio 2003 la legge costituzionale n. 1 modificò l'articolo 51, primo comma, della Costituzione; è infatti aggiunto: «A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini». Si è trattato di un passo importante in quanto, come rilevato dal rapporto «Assessing the impact of measures to improve women's political rappresentation» approvato dalla Commissione equality and non discrimination del Consiglio d'Europa, «progressi nella partecipazione delle donne alla vita politica sono stati raggiunti quando i legislatori hanno introdotto misure che hanno aiutato ad affrontare il tema della bassa presenza delle donne nei corpi elettivi, in particolare attraverso riforme che hanno introdotto uguali diritti costituzionali come il diritto di voto e di essere elette, diritto di accesso ai pubblici uffici ed ulteriori fondamentali diritti e libertà, come il diritto di proprietà, di successione ed eredità, la libertà di matrimonio, la cittadinanza e altro. Tali diritti costituzionali sono finalizzati a rimuovere le discriminazioni basate sul sesso ed ogni altra discriminazione che di fatto limita l'uguale cittadinanza. La previsione nelle diverse Costituzioni di diritti politici e civili per le donne apre la strada all'eguaglianza di genere, ad una eguale cittadinanza ed è il fondamento per più specifiche azioni positive per la parità»;
    dopo l'approvazione della legge costituzionale n. 1 del 2003 e della legge costituzionale n. 2 del 2001, che portarono alla riforma dell'articolo 51 della Costituzione e all'introduzione dell'articolo 117, settimo comma 7 della Costituzione, fu la sentenza n. 4 del 2010 della Corte costituzionale, che, non riscontrando alcun profilo di illegittimità costituzionale nel meccanismo della doppia preferenza di genere, introdotta dalla legge elettorale regionale della Campania, sancì e a diede piena attuazione al quadro costituzionale disegnato nel 2001 e nel 2003. Tale meccanismo infatti è ispirato «al principio fondamentale dell'effettiva parità tra i due sessi nella rappresentanza politica, nazionale e regionale, nello spirito dell'articolo 3, secondo comma, Costituzione, che impone alla Repubblica la rimozione di tutti gli ostacoli che di fatto impediscono una piena partecipazione di tutti i cittadini all'organizzazione politica del Paese» (Corte costituzionale, sentenza n. 4 del 2010);
    nell'ambito sociale vanno inoltre sottolineati molti cambiamenti che hanno riguardato le donne e la loro partecipazione al mercato del lavoro, alla vita familiare, ai gradi di istruzione. È stata una sentenza della Corte costituzionale del 1960 a dichiarare illegittima la norma che escludeva le donne da una vasta categoria di uffici pubblici, tra cui l'ufficio di prefetto. Nel 1970 venne approvata la legge sul divorzio e nel 1975 venne riformato il diritto di famiglia, garantendo parità tra i coniugi e la comunione dei beni, nel 1977 viene approvata la legge di parità, integrata poi nel 1991 dalla legge n. 125 sulle pari opportunità e, nel frattempo, vennero abrogati il reato di adulterio (1968), il delitto d'onore ed il matrimonio riparatore (1981);
    negli anni ’90 furono approvati una serie di provvedimenti per incrementare la presenza delle donne nelle assemblee rappresentative. La legge n. 81 del 1993, che per le elezioni comunali prevedeva che «nelle liste nessuno dei due sessi può essere di norma rappresentato in misura superiore ai due terzi». La legge n. 43 del 1995 che stabilì che nelle elezioni regionali «nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati». La legge n. 277 del 1993 per le elezioni della Camera dei deputati che stabilì che «le liste recanti più di un nome sono formate da candidati e da candidate, in ordine alternato»;
    nel 2012 la legge n. 215 promosse il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei consigli e nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali;
    la legge 12 luglio 2011, n. 120, ha introdotto misure per il riequilibrio di genere nei consigli di amministrazione delle società pubbliche e private e, da allora, il tema è recentemente diventato attuale anche all'interno delle istituzioni, in modo particolare nelle assemblee elettive. Per l'elezione dei consigli comunali, nei comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti, sono state previste una quota di lista (nessun sesso può essere rappresentato in misura superiore ai due terzi) e la doppia preferenza di genere. Per gli esecutivi la legge prevede che il sindaco nomini la giunta nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi;
    nella riforma delle province e delle città metropolitane, legge n. 56 del 2014, è stato previsto che nelle liste per le elezioni nessuno dei due sessi possa essere rappresentato in misura inferiore al 60 per cento;
    nel 2006, il codice delle pari opportunità ha disposto, come misura transitoria (2004 e 2009), disposizioni per favorire la rappresentanza di genere nelle elezioni del Parlamento europeo, prevedendo che, nell'insieme delle liste di candidati presentate da ciascun partito, nessuno dei due sessi possa essere rappresentato in misura superiore ai due terzi. La legge n. 13 del 2014, sull'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, ha previsto una sanzione pecuniaria per i partiti nelle cui liste alle elezioni politiche ed europee uno dei due sessi sia rappresentato in misura inferiore al 40 per cento;
    la legge del 22 aprile 2014 ha modificato l'articolo 14, primo comma, della legge 24 gennaio 1979, n. 18, in relazione alla promozione dell'equilibrio di genere nella rappresentanza politica alle elezioni per il Parlamento europeo, introducendo la cosiddetta «tripla preferenza di genere»: nel caso in cui l'elettore decida di esprimere più di una preferenza, la scelta deve comprendere candidati di entrambi i generi, pena l'annullamento della seconda e terza preferenza;
    dopo la modifica degli articoli 122 e 123 della Costituzione che hanno dato avvio al processo di elaborazione di nuovi statuti regionali e di leggi per l'elezione dei consigli nelle regioni a statuto ordinario, tutte le regioni, che hanno adottato norme in materia elettorale, hanno introdotto disposizioni specifiche per favorire la parità di accesso alle cariche elettive, in attuazione dell'articolo 117, settimo comma, della Costituzione. Le misure adottare però sono diverse da regione da regione, variando dall'obbligo di inserire nelle liste una quota minima di candidati, all'alternanza nelle liste alla doppia preferenza di genere e i risultati raggiunti in termini di rappresentanza sono inadeguati;
    l'Istituto europeo per l'uguaglianza di genere (Eige), agenzia autonoma dell'Unione europea, il 13 giugno 2013 ha pubblicato il primo indice Eige sull'uguaglianza di genere «rapporto sull'indice dell'uguaglianza di genere», frutto di tre anni di lavoro. Per la prima volta è stato elaborato un indicatore sintetico ma esaustivo delle disparità di genere nell'Unione europea e nei singoli Stati membri. L'indice, che prende in considerazione 6 diversi settori (lavoro, denaro, conoscenza, tempo, potere e salute), ha un valore tra 1 e 100, dove 1 indica un'assoluta disparità di genere e 100 segna il raggiungimento della piena uguaglianza di genere;
    nonostante più di 50 anni di politiche per l'uguaglianza di genere a livello europeo, il rapporto ha mostrato come le disparità di genere risultino ancora prevalenti nell'Unione europea. Con un indice medio di 54,0, l'Unione europea è ancora a metà nel cammino per raggiungere l'uguaglianza;
    la posizione dell'Italia, con un indice di 40,9, è al di sotto della media europea e si attesta al 23o posto su 27 Stati membri, a parità con la Slovacchia e sopra solo alla Grecia, Bulgaria e Romania. In cima alla graduatoria spiccano i Paesi scandinavi, con valori superiori a 70, mentre il Regno Unito ha un indice di 60,4, la Francia di 57,1, la Spagna di 54,0 e la Germania di 51,6;
    a livello mondiale, secondo l'analisi annuale del World economic forum sul Global gender gap, nella graduatoria diffusa nel 2014, l'Italia si colloca al 69o posto su 142 Paesi (era al 71o nel 2013, all'80o nel 2012, al 74o nel 2011 e nel 2010, al 72o nel 2009, al 67o posto nel 2008, all'84o nel 2007 e al 77o nel 2006). L'aumento registrato dall'Italia nella graduatoria globale è determinato principalmente dal significativo aumento del numero delle donne in Parlamento (dal 22 per cento nel 2012 al 31 per cento nel 2013). Nella graduatoria generale svettano i Paesi del Nord Europa; per quanto attiene agli altri Paesi europei, il Belgio si colloca al 10o posto, la Germania al 12o, la Francia al 16o ed il Regno Unito al 26o posto. L'indice tiene conto delle disparità di genere esistenti nel campo della politica, dell'economia, dell'istruzione e della salute;
    per ciò che attiene in particolare al settore della politica, il nostro Paese si colloca al 37o posto della graduatoria, risalendo dopo il brusco calo degli anni precedenti, che poteva probabilmente essere ascritto alla sostanziale staticità dell'Italia in questo campo, a fronte dei progressi registrati in altri Paesi (l'Italia era al 44o posto, al 71o nel 2012, al 55o nel 2011, al 54o nel 2012 e al 45o nel 2009);
    il World economic forum redige periodicamente anche un rapporto sulla competitività dei Paesi a livello globale ed è interessante notare come emerga una correlazione tra il gender gap di un Paese e la sua competitività nazionale. Dal momento che le donne rappresentano la metà del talento potenziale di un Paese, la competitività nel lungo periodo dipende significativamente dalla maniera in cui ciascun Paese educa ed utilizza le sue donne;
    i dati relativi alla presenza femminile negli organi costituzionali italiani hanno sempre mostrato una presenza contenuta nei numeri e molto limitata quanto alle posizioni di vertice;
    nel rapporto della Commissione equality and non discrimination del Consiglio d'Europa, «Assessing the impact of measures to improve women's representation», in cui si analizza la presenza delle donne nelle Assemblee parlamentari nazionali tra il 2005 e il 2015 e le misure messe in atto dai 47 Paesi del Consiglio d'Europa per accrescere la presenza femminile nelle cariche elettive, si evidenzia che l'Italia si colloca al 15o posto essendo passata da una rappresentanza femminile alla Camera dei deputati dell'11,5 per cento nel 2005 al 31 per cento delle elezioni del 2013. I risultati delle elezioni politiche del 24-25 febbraio 2013 presentano, infatti, un segnale di inversione di tendenza: infatti, la media complessiva della presenza femminile nel Parlamento italiano, storicamente molto al di sotto della soglia del 30 per cento, considerato valore minimo affinché la rappresentanza di genere sia efficace, è salita dal 19,5 della XVI legislatura al 30,1 per cento dei parlamentari eletti a Camera e Senato nella XVII legislatura (la media dell'Unione europea è il 27 per cento);
    nei consigli regionali i dati sono negativi e molto diversificati in quanto la rappresentanza delle donne è affidata all'applicazione da parte delle regioni. I dati rilevano, infatti, una presenza di donne nei consigli regionali che va dal 34,7 per cento dell'Emilia-Romagna e al 27,5 per cento della Toscana al 19 per cento della Lombardia, al 3,3 per cento di Calabria e all'assenza di donne elette nel consiglio regionale della Basilicata;
    nella risoluzione del Consiglio d'Europa «Accessing the impact of measures to improve women's political representation» si evidenzia che i dati mettono in luce che «la parità di genere e la partecipazione delle donne alla vita politica dipenda da vari fattori e dalla varietà dei contesti politici, economici, sociali e culturali di ogni paese». Tra i fattori politici vengono rilevati il sistema elettorale, la presenza di quote obbligatorie o volontarie, i partiti politici e il loro funzionamento. Tra i fattori economici viene rilevato in particolare «il gender pay gap e l'accesso alle carriere e alle professioni». Nella risoluzione si invitano gli Stati membri a considerare anche «i fattori culturali che determinano la possibilità per le donne di partecipare alla vita politica, economica e allo sviluppo economico del paese. L'educazione e la formazione sono cruciali, poiché sono una precondizione per acquisire le competenze necessarie e per eliminare gli stereotipi che impediscono ancora il raggiungimento della piena e reale parità. Per le donne che sono attive in politica, l'accesso ai media, la rappresentazione e lo spazio nei media durante le campagne politiche sono elementi cruciali, così come il finanziamento per la campagna stessa»;
    nella risoluzione del Consiglio d'Europa agli Stati membri viene suggerito inoltre che: «Per raggiungere la parità e l'equilibrio di genere nella vita politica, è necessario seguire un approccio olistico e una prospettiva di parità in tutte le aree della società. È inoltre necessario identificare l'ampia varietà di fattori socio-economico, culturale e politico che possono ostacolare o facilitare l'accesso delle donne alle cariche elettive a tutti i livelli»;
    nella pubblicazione «Women and men in Sweden facts and figures 2014» del Governo svedese si afferma che: «Gender equality significa semplicemente che le donne e gli uomini hanno la stessa possibilità di costruire e cambiare la società e le loro vite, il che implica le stesse opportunità, gli stessi doveri e gli stessi diritti in tutte le sfere della vita». La parità di genere è una delle pietre angolari dell'uguaglianza ed ha aspetti quantitativi e aspetti qualitativi. L'aspetto quantitativo implica una uguale presenza delle donne e degli uomini in tutti i campi e le aree della società, come l'istruzione, il lavoro, il tempo libero e le posizioni di potere. Se un gruppo comprende più del 60 per cento di donne, è dominato delle donne, come ad esempio avviene nell'istruzione primaria e secondaria. Se gli uomini sono rappresentati più del 60 per cento allora quel gruppo sarà dominato dagli uomini, come avviene per esempio tra i magistrati o i manager delle società pubbliche o private. L'aspetto qualitativo implica invece che alle conoscenze, alle esperienze e ai valori di donne e di uomini è dato lo stesso peso e lo stesso valore e che donne e uomini sono impiegati per arricchire e dirigere tutte le sfere e tutti i campi della società, e che dunque non sono utilizzati sono in alcuni ambiti piuttosto che in altri;
    sebbene in Europa metà della popolazione sia costituita da donne e nonostante le raccomandazioni del Consiglio d'Europa la presenza delle donne nelle istituzioni è ancora sottorappresentata. La Commissione di Venezia, Commissione sulla democrazia attraverso la legge, nelle linee guida sulle regolamentazione dei partiti politici afferma che «lo scarso numero di donne in politica rimane un aspetto critico che determina il non pieno funzionamento del processo democratico»;
    la ricorrenza del 2 giugno 2016 costituisce un importante anniversario per ricordare il diritto al voto acquisito dalle donne, ma costituisce anche l'occasione per monitorare ed implementare il raggiungimento della parità, sostanziale e non solo formale, tra donne e uomini, attraverso azioni che rispondano alla visione olistica indicata dal Consiglio d'Europa,

impegna il Governo:

   a prevedere iniziative di carattere nazionale e locale, nel corso del 2016, per ricordare il settantesimo anniversario del raggiungimento del diritto di voto alle donne ed il percorso, dall'Assemblea costituente ad oggi, che ha portato ad aumentare la partecipazione e la rappresentanza delle donne nella vita politica a tutti i livelli, sottolineando altresì il ruolo delle donne dell'Assemblea costituente e delle successive Assemblee parlamentari e prestando particolare attenzione alle istituzioni scolastiche;
   ad assumere iniziative per recepire le indicazioni dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa e a mettere in atto un approccio globale e qualitativo che, interessando tutti i settori e valorizzando i talenti, favorisca l'empowerment delle donne e implementi la parità sostanziale, dando uguale possibilità di incidere nella società e le stesse opportunità, gli stessi doveri e gli stessi diritti in tutte i settori, politico, sociale, economico, finanziario, lavorativo, educativo e nei media alle donne.
(1-01184)
«Centemero, Carfagna, Prestigiacomo, Bergamini, Calabria, Capozzolo, Castiello, Censore, Luigi Cesaro, Gelmini, Gullo, Milanato, Nizzi, Occhiuto, Palmizio, Polidori, Elvira Savino, Giacomoni».
(4 marzo 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    il percorso che portò in Italia all'estensione del voto alle donne cominciò all'indomani dell'unificazione, avvenuta nel 1861. I primi movimenti di emancipazione si collocano nei primi anni del 1900, ma è solo all'indomani del secondo conflitto mondiale che, con il decreto legislativo del 10 marzo 1946, il Consiglio dei ministri estese il voto anche alle donne che avessero compiuto la maggiore età;
    in Italia le donne votarono per la prima volta nel corso delle elezioni amministrative del marzo e aprile 1946 e, successivamente, per il celebre referendum monarchia/repubblica;
    in seguito, con l'approvazione della legge costituzionale n. 1 del 2003, che ha modificato l'articolo 51 della Costituzione, viene fissato il principio costituzionale, a mente del quale tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. Si è in tal modo segnato un passaggio dalla dimensione statica della parità di trattamento uomo-donna alla prospettiva dinamica delle pari opportunità, nell'ottica del raggiungimento di un'uguaglianza sostanziale, come già riconosciuta dall'articolo 3 della Costituzione;
    ad oggi, però, la presenza delle donne nelle istituzioni è ancora sottorappresentata e tutto ciò perché al di là delle modifiche normative intervenute negli ultimi anni, finalizzate a garantire la pari opportunità delle stesse nelle assemblee elettive e nei ruoli di governo, non si è ancora compiuta quella rivoluzione culturale declinabile in un cambiamento radicale della società, dove ciò che conta deve essere soltanto ed esclusivamente il merito;
    il 2016 non verrà certamente ricordato per l'importante ricorrenza dei 70 anni del voto alle donne, simbolo di democrazia e di civiltà, ma per essere stato l'anno nel quale, secondo i firmatari del presente atto di indirizzo, il processo democratico ha subito una forte battuta di arresto. Nel 2016, infatti, il Presidente del Consiglio non è espressione di una scelta degli elettori, i disegni di legge ordinari, come la riforma delle province fino a quelli di modifica della II parte della Costituzione prevedono entrambi una forte limitazione al diritto di partecipazione dei cittadini, uomini e donne, nel poter liberamente scegliere a suffragio universale i propri rappresentati politici. Il 2016 è forse l'anno nel quale stiamo constatando con maggiore consapevolezza come la politica interna sia stata privata di qualsiasi sovranità nazionale e sacrificata in nome di scelte e decisioni che vengono prese all'estero;
    la crisi politica, valoriale ed economica che segna in modo indelebile la fase storica che stiamo vivendo, accompagnata da un'evidente intensificazione del mal costume, ha alimentato nell'opinione pubblica una disaffezione cronica nei confronti della politica;
    si è generato in molti cittadini un sentimento diffuso di sfiducia nei confronti delle istituzioni, dei legislatori e degli amministratori che, come primo effetto, ha prodotto una drastica diminuzione della partecipazione al voto, da parte di tutti i cittadini: uomini e donne;
    la partecipazione al voto è il principio su cui si fonda il concetto stesso di democrazia. Per questa ragione la crescita progressiva del numero di cittadini che rinunciano ad esercitare il diritto di voto è un segnale preoccupante che non può essere sottovalutato, soprattutto in occasione di ricorrenze come questa;
    la nostra Costituzione, proprio nel primo articolo, stabilisce infatti che la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione;
    è innegabile come il processo di unità europea abbia contribuito a far allontanare i cittadini dalla cosa pubblica. L'Europa, oggi, a parere dei firmatari del presente atto di indirizzo, è una costruzione senza identità, scarsamente democratica, macchinosa e spesso incomprensibile per i cittadini, un modello che esaspera gli aspetti negativi dello Stato centralizzato, senza dare risposte tangibili alle richieste che vengono dalla periferia e che spinge l'elettore, donna e uomo, a reputare insignificante l'esercizio del proprio diritto al voto;
    in questa occasione bisogna, con coerenza, ricordare come le grandi conquiste del diritto di voto fino ad una rinnovata sensibilità politica volta a creare i presupposti per una sempre più ampia partecipazione attiva delle donne nella politica, non sono nulla se si contrappongono nei fatti ad un totale disinteresse delle istituzioni dinnanzi a casi di recrudescenza di una violenza sistematica nei confronti delle donne, umiliate anche attraverso pratiche orribili come il ricorso alla maternità surrogata;
    pari opportunità significa anche attuare un welfare a misura di donna, politiche a sostegno della famiglia, politiche dirette a sviluppare progetti di conciliazione vita-lavoro per le donne, potenziando i servizi pubblici come i nidi, l'assistenza domiciliare e sviluppando un regime fiscale commisurato alla dimensione della famiglia. Pari opportunità è anche far sì che le donne non siano mai costrette a dover rinunciare alla nascita di una nuova vita per problemi economici. Pari opportunità significa garantire la sicurezza minima nelle città per far sì che tutti possano riconquistare la loro serenità di vita riappropriandosi della tranquillità di poter vivere i propri spazi pubblici,

impegna il Governo:

   a promuovere, in occasione del settantesimo anniversario dell'estensione del diritto di voto alle donne, nelle scuole di ogni ordine e grado, giornate di riflessione sull'importanza e il valore della partecipazione delle donne alla vita pubblica;
   a riconsiderare tutti gli atti normativi di iniziativa governativa che, a parere dei firmatari del presente atto, di fatto, limitano il diritto al voto quale espressione della volontà di tutti i cittadini, donne e uomini;
   a promuovere iniziative volte a garantire pari condizioni di partenza, dal punto di vista educativo, economico e sociale, tali da assicurare l'accesso delle donne alla vita pubblica, eliminando al contempo gli ostacoli che ne impediscono la giusta conciliazione con la vita familiare.
(1-01185)
«Saltamartini, Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Busin, Caparini, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Molteni, Gianluca Pini, Rondini, Simonetti».
(7 marzo 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    il 2 giugno 1946 i cittadini italiani, maggiori di 21 anni, vennero chiamati alle urne per eleggere i componenti dell'Assemblea costituente e per votare il referendum istituzionale che avrebbe stabilito se l'Italia sarebbe stata una nazione monarchica o repubblicana;
    scegliere democraticamente i propri rappresentanti fu un evento di straordinaria importanza, soprattutto perché si diede questo diritto anche a una parte della popolazione che fino ad allora era stata esclusa: le donne;
    furono elette 21 donne (denominate «Madri Costituenti») su 226 all'Assemblea costituente, godendo, queste, per la prima volta in Italia dell'elettorato attivo e passivo a partire dal 1946;
    il 15 luglio 1946 l'Assemblea decise l'istituzione di una commissione speciale incaricata di elaborare e proporre il progetto di Costituzione da discutere in Aula;
    nella suddetta commissione - nota col nome di «Commissione dei 75» – vennero elette 5 donne: Maria Federici, Teresa Noce, Angelina Merlin, Nilde Iotti e Ottavia Penna Buscemi;
    il percorso di emancipazione è ancora complesso e lungo, nonostante gli importanti e numerosi progressi nell'ambito delle pari opportunità a livello nazionale;
    ogni anno dal 2006 il World Economic Forum (WEF) pubblica una ricerca che quantifica le disparità di genere in vari Paesi del mondo: il «Global Gender Gap Report». Il rapporto permette di fare una comparazione tra paesi ed individuare i miglioramenti e i peggioramenti in base a quattro criteri: economia, istruzione, salute e politica;
    il rapporto suddetto non misura la qualità della vita in generale delle donne o il loro livello di libertà, ma misura semplicemente il divario quantitativo tra uomini e donne in quattro settori della società;
    nella classifica 2015 l'Italia si trova al 41esimo posto su 145 Paesi;
    secondo l'articolo 37 della Costituzione italiana, «La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione»;
    siamo giunti all'entrata in vigore (1o agosto 2014) della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, o Convenzione di Istanbul;
    la Convenzione, adottata a Istanbul nel 2011, costituisce il primo strumento internazionale vincolante sul piano giuridico per prevenire e contrastare la violenza contro le donne e la violenza domestica;
    il testo della Convenzione si fonda su tre pilastri: prevenzione, protezione e punizione;
    la Convenzione ha l'obiettivo di: proteggere le donne da ogni forma di violenza e prevenire, perseguire ed eliminare la violenza contro le donne e la violenza domestica; contribuire ad eliminare ogni forma di discriminazione contro le donne e promuovere la concreta parità tra i sessi, ivi compreso rafforzando l'autonomia e l'autodeterminazione delle donne; predisporre, in un quadro globale, politiche e misure di protezione e di assistenza a favore di tutte le vittime di violenza contro le donne e di violenza domestica; promuovere la cooperazione internazionale al fine di eliminare la violenza contro le donne e la violenza domestica; sostenere e assistere le organizzazioni e le autorità incaricate dell'applicazione della legge in modo che possano collaborare efficacemente, al fine di adottare un approccio integrato per l'eliminazione della violenza contro le donne e la violenza domestica;
    la violenza di genere costituisce una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne e comprende tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata;
    la conquista dei diritti civili da parte delle donne non è sufficiente a garantire la piena tutela e parità delle stesse: soprusi e violenze, seguiti spesso da tragici epiloghi, sono all'ordine del giorno. La Presidente della Camera, Laura Boldrini, ha annunciato in questi giorni che abbasserà a mezz'asta la bandiera italiana, che sventola sul campanile di Montecitorio, per le vittime del femminicidio e che proporrà la medesima cosa a tutte le amministrazioni. La denuncia di questi atti non dovrebbe però limitarsi ai casi estremi, ma anche a tutti i casi di prevaricazione di cui sono vittime le donne, a cominciare proprio da quegli episodi che si consumano nell'ambito lavorativo degli uffici pubblici;
    gli Stati che hanno firmato e ratificato la Convenzione dovranno adottare le misure legislative e di altro tipo necessarie per promuovere e tutelare il diritto di tutti gli individui, e specialmente delle donne, di vivere liberi dalla violenza, sia nella vita pubblica che privata;
    ai sensi dell'articolo 4, comma 2, della Convenzione «le Parti condannano ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne e adottano, senza indugio, le misure legislative e di altro tipo necessarie per prevenirla, in particolare: inserendo nelle loro costituzioni nazionali o in qualsiasi altra disposizione legislativa appropriata il principio della parità tra i sessi e garantendo l'effettiva applicazione di tale principio; vietando la discriminazione nei confronti delle donne, ivi compreso procedendo, se del caso, all'applicazione di sanzioni; abrogando le leggi e le pratiche che discriminano le donne»;
    ai sensi dell'articolo 6, «le Parti si impegnano a inserire una prospettiva di genere nell'applicazione e nella valutazione dell'impatto delle disposizioni della presente Convenzione e a promuovere ed attuare politiche efficaci volte a favorire la parità tra le donne e gli uomini e l'emancipazione e l'autodeterminazione delle donne»;
    il decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, recante «Disposizione urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province», convertito in legge, con modificazioni, dall'articolo 1, comma 1, della legge 15 ottobre 2013, n. 119, che all'articolo 5, prevede in capo al Ministro delegato per le pari opportunità l'elaborazione e l'adozione di un piano d'azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere;
    il suddetto piano d'azione straordinario è stato adottato con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 7 luglio 2015 e registrato dalla Corte dei conti il 25 agosto 2015;
    gli obiettivi del piano d'azione sono: prevenire il fenomeno della violenza contro le donne; promuovere l'educazione alle relazioni non discriminatorie nei confronti delle donne; potenziare le forme di sostegno e assistenza alle donne e a loro figli; garantire adeguata formazione per tutte le professionalità che entrano in contatto con la violenza di genere e lo stalking; prevedere una adeguata raccolta dati e un sistema strutturato di governance tra tutti i livelli di Governo;
    l'articolo 5-bis della legge n. 119 del 2013 dispone che, al fine di dare attuazione a quanto previsto dall'articolo 5, comma 2, lettera d), della citata legge, il fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità è incrementato di 10 milioni di euro per l'anno 2013, di 7 milioni di euro per l'anno 2014 e di 10 milioni di euro a decorrere dall'anno 2015;
    tali fondi sono stati destinati, e solo in parte erogati, a favore di centri antiviolenza e case rifugio;
    nella legge di stabilità 2016 è stato predisposto, per il fondo per le pari opportunità, un ammontare annuale pari a 9.599.591 euro per gli anni 2016, 2017, 2018;
    da una mappa realizzata dall'organizzazione non governativa Action Aid si è appreso che, solo per dieci amministrazioni, è possibile consultare la lista delle strutture beneficiarie dei fondi e tra queste per cinque regioni (Veneto, Piemonte, Sardegna, Sicilia, Puglia) sono reperibili on-line i nomi di ciascuna struttura e i fondi ricevuti;
    l'analisi dei dati raccolti mostra la diversità delle scelte adottate dalle varie amministrazioni;
    il finanziamento medio per centro antiviolenza e casa rifugio, erogato direttamente alle strutture o tramite bando, varia molto da regione a regione: sono erogati circa 60 mila euro in Piemonte, 30 mila in Veneto e Sardegna, 12 mila in Puglia, 8 mila in Sicilia, 12 mila nelle ex province di Firenze e Pistoia, 6 mila in Abruzzo e Valle d'Aosta;
    le regioni hanno ricevuto i fondi solo nell'autunno 2014, per cui la scadenza è stata molto stretta;
    i fondi previsti per il 2015 ancora non risultano essere stati erogati;
    non esiste allo stato attuale una mappatura accurata dei centri antiviolenza e dei fondi adeguati per il loro funzionamento, alla luce dei dati contraddittori rispetto alle strutture presenti nelle varie regioni e della disomogeneità delle risorse assegnate nei vari territori, né tantomeno si conosce il nome della struttura che ha ricevuto i fondi;
    in Italia, la legge n. 194 del 1978 assicura consulenza ed esami medici alle donne che decidono di adottare l'interruzione volontaria di gravidanza, pratica sicuramente provante dal punto di vista emotivo e psicologico. Questo diritto viene però spesso disatteso: quello che aspetta loro nell'Italia del 2015, è un percorso ad ostacoli, fatto di burocrazia, vessazioni, medici obiettori e strutture blindate, con la formazione di code lunghissime mentre il tempo passa. La legge è nata proprio per superare la clandestinità, ma è una legge fantasma: gli aborti calano, ma abortire diventa uno slalom crudele, soprattutto per le donne che hanno meno informazioni, sostegno, reddito;
    la diminuzione delle nascite e l'età sempre più avanzata delle gravidanze hanno determinato negli anni un impoverimento dei saperi femminili, della consapevolezza e della competenza in tema di maternità da parte delle donne. La gravidanza non è una condizione patologica e l'eccessiva medicalizzazione della gravidanza fisiologica e dell'evento del parto hanno dato alle mamme poco o nessun potere decisionale. Una donna che partorisce in maniera fisiologica deve rivolgersi a una struttura sanitaria, pubblica o privata, adatta ad affrontare situazioni di emergenza per eventuali tagli cesarei, concepiti quindi come un'alternativa e una sorta di «sala vita» per la madre e per il figlio, fornita di un centro trasfusionale, terapia intensiva neonatale e posti letto per cure pediatriche e patologie neonatali minime e intermedie. Questo non deve comportare la chiusura di punti nascita già esistenti: mantenere attivi i presidi medici sul territorio non può essere considerato uno spreco di denaro pubblico; il benessere e la salute dei cittadini sono di primaria importanza e lo Stato non dovrebbe mai operare tagli ai servizi sanitari nazionali ma incrementarli;
    il modello italiano di welfare, soprattutto per le persone con disabilità e per chi soffre di malattie degenerative, si fonda sul ruolo della famiglia, in particolare delle donne. La delega si accentua, poi, a causa di un supporto sempre più limitato di servizi pubblici che potrebbero garantire un'assistenza migliore e maggiore autonomia alle persone con disabilità;
    sono principalmente donne le caregivers che si dedicano all'assistenza di familiari «fragili»; spesso si fanno carico di compiti che in altri Paesi sono svolti dal settore pubblico. E scontano conseguenze, ancora sottovalutate, nel mondo del lavoro, ma anche sulla propria salute;
    uno studio di Elizabeth Blackburn, premio Nobel per la Medicina nel 2009, ha dimostrato che i caregivers sottoposti allo stress di curare familiari gravi hanno un'aspettativa di vita ridotta dai 9 ai 17 anni. Le persone bisognose di aiuto nei prossimi decenni tenderanno ad aumentare di pari passo con l'aumento di malattie cronico-degenerative e della non autosufficienza. Occorre quindi organizzare al meglio le reti di supporto;
    i caregiver familiari hanno dunque un ruolo sociale importante che deve essere riconosciuto. Sono persone che, infatti, spesso subiscono un isolamento sociale e familiare, un impoverimento economico e una difficoltà a entrare o rientrare nel mercato del lavoro;
    assistere una persona non autosufficiente può essere infatti faticoso e totalizzante, con profonde ripercussioni sulla vita privata;
    gli atti e i dati spesso non sono facilmente reperibili sui siti istituzionali delle singole regioni;
    nonostante l'importanza delle pari opportunità, in Italia non esiste un Ministero ad esse preposto specificatamente ma un dipartimento dipendente dalla Presidenza del Consiglio dei ministri;
    nel mese di novembre 2015 l'onorevole Giovanna Martelli ha rassegnato le proprie dimissioni dall'incarico di consigliere del Presidente del Consiglio dei ministri in materia di pari opportunità,

impegna il Governo:

   a nominare urgentemente una consigliera in materia di pari opportunità;
   ad assumere iniziative per promuovere e rafforzare la formazione delle figure professionali che si occupano delle vittime o degli autori di tutti gli atti di violenza che rientrano nel campo di applicazione della Convenzione di Istanbul in materia di prevenzione e individuazione di tale violenza, uguaglianza tra le donne e gli uomini, bisogni e diritti delle vittime;
   ad assumere iniziative per attuare l'articolo 11, comma 1, lettera b), della Convenzione in questione, ossia il sostegno alla ricerca su tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione, al fine di studiarne le cause profonde e gli effetti, la frequenza e le percentuali delle condanne, come pure l'efficacia delle misure adottate ai fini dell'applicazione del presente trattato;
   ad adottare ogni iniziativa di competenza volta e prevenire e perseguire in maniera decisa ogni manifestazione di violenza, verbale e fisica, all'interno dei pubblici uffici, promuovendo, al tempo stesso, l'adozione di analoghe iniziative presso tutti i soggetti pubblici, come esempio da trasmettere soprattutto alle giovani generazioni per quel cambio culturale spesso invocato dalle più alte cariche dello Stato;
   a realizzare un monitoraggio sulla popolazione, a intervalli regolari, allo scopo di determinare la prevalenza e le tendenze di ogni forma di violenza che rientra nel campo di applicazione della citata Convenzione;
   ad assumere iniziative per attuare l'articolo 12 della Convenzione sopracitata, ovvero incoraggiare tutti i membri della società, e in particolar modo gli uomini e i ragazzi, a contribuire attivamente alla prevenzione di ogni forma di violenza che rientra nel campo di applicazione della citata Convenzione;
   a promuovere programmi ed attività destinati ad aumentare il livello di autonomia e di emancipazione delle donne;
   ad assumere iniziative per garantire che siano debitamente presi in considerazione, nell'ambito dei servizi di protezione e di supporto alle vittime, i diritti e i bisogni dei bambini testimoni di ogni forma di violenza rientrante nel campo di applicazione della presente Convenzione;
   ad assumere iniziative per rafforzare e diffondere i programmi esistenti rivolti agli autori di atti di violenza domestica, al fine di prevenire nuove violenze e modificare i modelli comportamentali violenti e per prevenire la recidiva, in particolare per i reati di natura sessuale;
   ad assumere iniziative per garantire l'applicazione dell'articolo 33 della Convenzione di cui in premessa, relativo alla violenza psicologica, per penalizzare i comportamenti intenzionali miranti a compromettere seriamente l'integrità psicologica di una persona con la coercizione o le minacce;
   ad incoraggiare il settore privato, il settore delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione e i mass-media, nel rispetto della loro indipendenza e libertà di espressione, a partecipare all'elaborazione e all'attuazione di politiche e alla definizione di linee guida e di norme di autoregolamentazione per prevenire la violenza contro le donne e rafforzare il rispetto della loro dignità;
   ad assumere iniziative per promuovere, in collaborazione con i soggetti del settore privato, la capacità dei bambini, dei genitori e degli insegnanti di affrontare un contesto dell'informazione e della comunicazione che permette l'accesso a contenuti degradanti potenzialmente nocivi a carattere sessuale o violento;
   a promuovere maggiori campagne di sensibilizzazione del Dipartimento delle pari opportunità sul tema, tramite canali mediatici pubblici;
   a predisporre una sezione, all'interno del sito del Dipartimento per le pari opportunità, volta a rendere accessibile, in tempi rapidi, la rendicontazione completa delle attività finanziate con i fondi di cui alla legge n. 119 del 2013, nella quale le amministrazioni regionali/locali possano caricare direttamente e in autonomia la documentazione rilevante (delibere, risultati, bandi, reportistica delle attività svolte da parte dei beneficiari dei fondi e altro), facendo sì che tali informazioni siano disponibili in formato aperto (open data);
   ad assicurare che i finanziamenti stanziati annualmente tramite la legge n. 119 del 2013 siano erogati senza ritardi;
   ad aggiornare la mappatura dei centri antiviolenza del dipartimento per le pari opportunità, secondo la reportistica ricevuta da regioni e province autonome;
   a prevedere indicatori per la valutazione, da effettuarsi con cadenza annuale, o comunque per ogni ciclo di finanziamento, dell'impatto degli stanziamenti, per informare circa le future strategie di intervento, tramite la consultazione delle organizzazioni della società civile e dei centri antiviolenza, anche sulla base di quanto è stato fatto con i fondi 2013/2014;
   a stimare il fabbisogno reale dei centri antiviolenza per la loro sopravvivenza e il loro adeguato funzionamento, informando, di conseguenza, circa lo stanziamento necessario per assicurare servizi adeguati su tutto il territorio;
   ad assumere iniziative per garantire dignità alle donne che ricorrono alla pratica di interruzione volontaria di gravidanza, già di per se psicologicamente dolorosa, anche promuovendo, per quanto di competenza misure volte a superare i disservizi sanitari che ostacolano la corretta applicazione della legge n. 194 del 1978;
   a promuovere il benessere psico-fisico della donna e del bambino durante la gestazione e il parto, stabilendo la sua priorità rispetto a ogni altra esigenza, prevedendo che le strutture, pubbliche e private, garantiscano la sicurezza di tutto il percorso della nascita, attraverso modalità di assistenza che riconoscano la naturalità dell'evento e ne rispettino il carattere fisiologico;
   ad avviare tutte le iniziative, anche di carattere normativo, finalizzate all'istituzione e al riconoscimento della figura dei caregiver familiari e allo sviluppo di politiche loro dedicate, in particolare di sostegno al reddito e di tutela del diritto al lavoro e alla salute;
   ad adottare iniziative, anche normative, affinché siano aggiornate le tabelle di cui al decreto ministeriale n. 329 del 1999, ai fini dell'inserimento dell'endometriosi tra le malattie invalidanti, riconoscendo alle donne affette dalla patologia il diritto all'esenzione dalla partecipazione al costo per le prestazioni di assistenza sanitaria correlate.
(1-01186)
«Spadoni, Colonnese, Lorefice, Grillo, Di Vita, Silvia Giordano, Baroni, Mantero, Agostinelli, Alberti, Basilio, Battelli, Benedetti, Massimiliano Bernini, Paolo Bernini, Nicola Bianchi, Bonafede, Brescia, Brugnerotto, Businarolo, Busto, Cancelleri, Cariello, Carinelli, Caso, Castelli, Cecconi, Chimienti, Ciprini, Colletti, Cominardi, Corda, Cozzolino, Crippa, Da Villa, Dadone, Daga, Dall'Osso, D'Ambrosio, De Lorenzis, De Rosa, Del Grosso, Della Valle, Dell'Orco, Di Battista, Di Benedetto, Luigi Di Maio, Manlio Di Stefano, Dieni, D'Incà, D'Uva, Fantinati, Ferraresi, Fico, Fraccaro, Frusone, Gagnarli, Gallinella, Luigi Gallo, Grande, L'Abbate, Liuzzi, Lombardi, Lupo, Mannino, Marzana, Micillo, Nesci, Nuti, Parentela, Pesco, Petraroli, Pisano, Rizzo, Paolo Nicolò Romano, Ruocco, Sarti, Scagliusi, Sibilia, Sorial, Spessotto, Terzoni, Tofalo, Toninelli, Tripiedi, Vacca, Simone Valente, Vallascas, Vignaroli, Villarosa, Zolezzi».
(7 marzo 2016)

   La Camera,
   premesso che:
    il 7 marzo 2016 ricorre il 70o anniversario del diritto di voto alle donne. Il riconoscimento di tale diritto è stato preceduto da un percorso lungo e difficoltoso, a partire dal lontano 1877, quando venne presentata al Parlamento la prima petizione a favore del voto femminile; da allora ci sono voluti decine di anni prima che le donne italiane potessero finalmente esprimere il proprio pensiero politico attraverso il voto, con le elezioni amministrative e poi col referendum monarchia/repubblica del 1946;
    nel tempo, si sono succedute una moltitudine di provvedimenti volti a riconoscere alle donne pari opportunità, per dare concretamente alle stesse la possibilità di far valere delle scelte, sia relative alla vita privata che a quella lavorativa, senza essere oggetto di discriminazione; parliamo, dunque, di politiche di pari opportunità per promuovere le necessarie iniziative, anche normative, che garantiscano il superamento di condizioni sfavorevoli alla realizzazione di un'effettiva parità uomo-donna;
    tuttavia, nonostante il percorso portato avanti in tal senso, si è nel 2016, ed è un dato di fatto che le donne sono ancora oggetto di forti discriminazioni in molti ambiti, rispetto i loro livelli di partecipazione, accesso, diritti, retribuzione o prestazioni d'altro genere, che siano lavoratrici, madri o pensionate;
    tali diseguaglianze si concretizzano, in particolare, nel mondo del lavoro attraverso un'assurda disparità di retribuzione che vede gli uomini con stipendi maggiori delle colleghe, sebbene queste ultime abbiano i medesimi titoli di studio e inquadramenti;
    anche a livello europeo la parità retributiva è un principio sancito dai trattati sin dal 1957 e trova attuazione nella direttiva 2006/54/CE sull'uguaglianza di trattamento fra uomini e donne, in materia di occupazione e impiego. Ciò nonostante, sussiste un netto divario salariale tra donne e uomini, che riflette le discriminazioni e le disuguaglianze sul mercato del lavoro che, nella pratica, colpiscono ancora e soprattutto le donne che guadagnano in media il 16 per cento in meno all'ora rispetto agli uomini; mentre su base annuale il divario raggiunge addirittura il 31 per cento, considerando che il lavoro a tempo parziale è molto più diffuso tra le donne;
    è inaccettabile, dunque, che, a parità di qualifiche o anche rispetto a posizioni lavorative migliori rispetto a quelle degli uomini, le competenze delle donne non ricevono lo stesso riconoscimento e la loro carriera professionale è indubbiamente più lenta. Tra l'altro, poiché le donne percepiscono una retribuzione oraria inferiore e accumulano un minor numero di ore di lavoro nel corso della loro vita rispetto agli uomini, anche l'importo delle loro pensioni è ridotto. Di conseguenza, tra gli anziani vi sono più donne che uomini in stato di povertà;
    alla luce delle predette riflessioni, è chiaro che il 70o anniversario del diritto di voto alle donne ricorre in un tempo dove ancora non si può parlare di parità uomo-donna, soprattutto nel mondo del lavoro, è quindi necessario adottare iniziative per contrastare ogni discriminazione e facilitare l'effettiva applicazione del principio della parità retributiva,

impegna il Governo

a promuovere iniziative affinché sia garantita parità di condizioni e di retribuzione alle donne nell'accesso al mondo del lavoro, nonché rispetto agli avanzamenti di carriera, garantendo altresì il bilanciamento dei tempi di vita familiare e lavoro.
(1-01189) «Rizzetto, Pisicchio».
(7 marzo 2016)