TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 409 di Mercoledì 15 aprile 2015

 
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MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE IN MERITO ALLA SITUAZIONE OCCUPAZIONALE E PRODUTTIVA DEL COMPARTO AEREO-AEROPORTUALE

   La Camera,
   premesso che:
    numerose fonti istituzionali, politiche e di informazione rappresentano il trasporto aereo italiano come un settore in cui i licenziamenti, la mobilità, la cassa integrazione, i contratti di solidarietà, i tagli salariali, il peggioramento delle condizioni di lavoro, il deterioramento delle condizioni di salute e di sicurezza in cui operano gli addetti e il dilagare della precarietà nella categoria sono il frutto di una crisi economica generale che strangola il comparto, determinando ineluttabili conseguenze sui lavoratori;
    purtuttavia si deve rilevare che la situazione complessiva del trasporto aereo italiano non può in alcun modo essere descritta semplicemente in questi termini, perché sotto il profilo meramente commerciale il comparto aereo-aeroportuale ed il relativo indotto sembrerebbero essere tutt'altro che in crisi;
    dal 2008 al 2013 in Italia, ovvero negli anni in cui la crisi ha attanagliato maggiormente l'industria del nostro Paese, il traffico passeggeri negli scali aeroportuali è aumentato del 10,3 per cento ed il traffico merci del 16,6 per cento;
    nonostante la lieve contrazione del traffico merci e passeggeri registrata nel 2012 sul 2011 e nel 2013 sul 2012 (complessivamente di poco meno del 3 per cento), la crescita, di fatto, è stata copiosa, anche a fronte della decrescita generalizzata del sistema industriale italiano;
    nel 2014 sul 2013 i dati di crescita in Italia del trasporto aereo e del traffico merci sono esaltanti, ad esempio e rispettivamente +4,5 per cento e +5,1 per cento e tutto questo certo non può dipendere unicamente neanche dallo sviluppo impetuoso del traffico aeroportuale low cost;
    infatti, importanti e qualificati studi di settore elaborati da Assoaeroporti segnalano la crescita esponenziale di passeggeri sulle tratte intercontinentali ed a lungo raggio, ovvero in un segmento di mercato ove, per il momento, la concorrenza delle compagnie low cost è meno preponderante che sul medio-corto raggio;
    nell'ambito di tale contesto di crescita, particolarmente significativo è lo sviluppo dell'intero sistema aeroportuale romano (segnatamente gli aeroporti di Fiumicino e Ciampino) per ciò che riguarda il traffico passeggeri;
    da dati significativi per l'Aeroporto Leonardo da Vinci può risultare utile evidenziare che agli inizi del mese di ottobre 2014 Aeroporti di Roma ha festeggiato il transito dell'un milionesimo passeggero in più rispetto all'anno 2013 e che solo nel mese di ottobre 2014 su ottobre 2013 la crescita del traffico passeggeri nell'aeroporto di Fiumicino ha registrato un inequivocabile +10 per cento;
    un'estate positiva per il traffico merci si è pure registrata per altri numerosi aeroporti del sud e del nord dell'Italia: Napoli, Bergamo, Venezia, Firenze e altro;
    purtuttavia, a questa inequivocabile situazione di crescita dei dati sin qui esposti fa da contraltare una situazione eccezionalmente drammatica per il lavoro e per l'intera categoria del personale da sempre operante nel comparto aereo-aeroportuale;
    circa 15.000 lavoratori del sopradetto comparto, infatti, sono stati toccati a vario titolo ed «intensità» da cassa integrazione, mobilità e contratti di solidarietà;
    il che significa che il 25 per cento della forza lavoro del comparto aereo-aeroportuale è stato interessato dall'attivazione di ammortizzatori sociali e da altri strumenti di sostegno come il fondo speciale del trasporto aereo istituito nel 2005;
    altrettanto pesanti sono state, inoltre, le ricadute sull'indotto del settore, peraltro sprovvisto di un adeguato censimento, in grado di rendere evidente «giustizia» alla «mattanza» che i lavoratori di tale ambito produttivo (pulizie, esercizi commerciali e altro) stanno subendo dal punto di vista occupazionale, dei salari, dei diritti e delle garanzie di tutela della salute, nonché di aumento della precarietà;
    a tale proposito basti ricordare che, secondo stime della regione Lazio effettuate nel 2008, all'epoca della privatizzazione di Alitalia che costò il taglio di 10.000 posti di lavoro diretti, per ogni dipendente Az licenziato si sarebbe dovuta scontare anche la perdita occupazionale sull'indotto di circa 4,5 unità: una stima successivamente corretta al ribasso per 2,1 unità in conseguenza di un singolo licenziamento in Alitalia;
    d'altra parte le cronache giornalistiche anche più recenti evidenziano situazioni in cui i licenziamenti ed i tagli del personale rappresentano il denominatore comune di tutte le ristrutturazioni effettuate nelle aziende del comparto che hanno avuto come effetto, se non addirittura scopo, quello della compressione del costo del lavoro;
    l'elenco di tutte le vertenze che interessano il comparto aereo-aeroportuale sarebbe lunghissimo ed includerebbe moltissime situazioni ancora in via di definizione oppure conclusesi tragicamente per centinaia di famiglie di lavoratori;
    tra le molte ci si limita a ricordare, senza voler sottovalutare la miriade di ulteriori micro-vertenze, quanto accaduto alla Argol che ha licenziato 76 lavoratori dopo 20 anni di attività di contratti di appalto della compagnia Alitalia: contratti che la compagnia aeroportuale ha deciso di non rinnovare, con tutti gli effetti che si possono immaginare per i lavoratori addetti alla movimentazione del materiale aeronautico negli hangar di Fiumicino che nel 2012 furono sostituiti con personale più precario e più a basso costo;
    altrettante sono le vertenze ancora in essere, molte delle quali insistono sugli aeroporti romani (in totale 41.000 dipendenti) e su quelli milanesi che, rispettivamente, rappresentano i principali poli dell'industria aeroportuale dell'Italia centro- meridionale e quello dell'Italia settentrionale;
    i casi più eclatanti sono quello della compagnia Meridiana, dove su 1634 lavoratori minacciati fino a pochi giorni fa da un licenziamento di massa, non si è ancora trovata alcuna soluzione soddisfacente, visto che dal 1o 2015 gennaio il vettore in questione si ritroverà con un organico sensibilmente ridotto, visto che 275 persone hanno scelto o si sono viste comunque costrette a licenziarsi volontariamente. Una situazione in cui non c’è nulla di cui esultare, visto che già a partire da gennaio 2015 si pone il problema di affrontare altri esuberi che corrispondono a circa 1200 posti di lavoro. Eppure, solo dall'inizio della XVII legislatura, l'intero arco parlamentare è intervenuto sulla drammatica vicenda di Meridiana con ben 27 atti di indirizzo e di controllo – di cui numerosissimi peraltro presentati dal gruppo parlamentare Sinistra Ecologia e Libertà – rispetto ai quali il Governo si è impegnato ripetutamente ad intervenire con ogni iniziativa per fronteggiare la situazione garantendo la continuità territoriale ai collegamenti da e per la Sardegna ed il rilancio della compagnia aerea Meridiana attraverso l'impiego, la tutela occupazionale e la protezione sociale dei suoi lavoratori;
    e ancora il caso di Groundcare. Come riportato dalla stampa nazionale e locale, poco prima della notte di Capodanno 2015, Groundcare, la principale società di handling aeroportuale di Fiumicino, ha avviato le procedure di licenziamento per ben 450 persone, inclusi circa un centinaio di dipendenti della Groundcare Milano, già fallita ad agosto 2013 ed in «affitto» alla stessa Groundcare. Quest'ultima vicenda da sola meriterebbe un approfondimento, anche a fronte della diffida effettuata dal curatore fallimentare della Groundcare Milano nei confronti del curatore fallimentare della Groundcare in merito alla gestione dei lavoratori e dei beni in affitto. Peraltro, nonostante le rassicurazioni profuse solo il 10 dicembre 2014 dal Ministro delle infrastrutture e dei trasporti in occasione dello svolgimento dell'interrogazione a risposta immediata presentata dai deputati Sinistra Ecologia e Libertà n. 3-01214 sulla vertenza Groundcare sull'obiettivo di favorirne la tutela occupazionale, l'evoluzione della situazione per i suoi lavoratori, la questione ha avuto, purtroppo, un epilogo agghiacciante. Nelle giornate tra il 30 e il 31 dicembre 2014, infatti, sono stati chiamati in massa a firmare la propria lettera di licenziamento circa 450 lavoratori su poco più di 850 complessivi in forza presso la società. Questi lavoratori si sono recati in una sala della Palazzina Epua di Fiumicino per ritirare la lettera di licenziamento, ma oltre alla firma di quella lettera è stata pure richiesta, per quanto risulta, anche la sottoscrizione di una liberatoria al fine di rinunciare sia al pagamento del mancato preavviso, sia all'esperimento di qualsiasi azione legale rispetto alla mancata selezione del personale da espellere. Inoltre, la firma sulla liberatoria sembrerebbe stata sollecitata con l'esplicito riferimento in forza del quale, in caso di rifiuto della sottoscrizione, oltre al mancato inserimento nel bacino di ricollocazione, il licenziamento sarebbe stato recapitato successivamente al 1o gennaio 2015, in modo da penalizzare il lavoratore nell'accesso alla mobilità che, come noto, dal 1o gennaio 2015 ha subito una drastica riduzione per effetto dell'entrata in vigore della cosiddetta «legge Fornero». Per quanto risulta ai firmatari del presente atto di indirizzo, fortunatamente, qualcuno ha anche chiamato la polizia e la liberatoria a quel punto è diventata facoltativa mentre prima veniva associata, di fatto, al rilascio della lettera di licenziamento;
    in data 8 gennaio 2015 sono oltre 200 i lavoratori della Groundcare che dalla mattina protestano all'aeroporto di Fiumicino per colpa dei licenziamenti loro notificati. La manifestazione organizzata dal Cub Trasporti è iniziata alle ore 10.00 con un presidio davanti all'ingresso del terminal T3 partenze. I lavoratori Groundcare, Alitalia e Argol dietro agli striscioni si sono mossi, avanzando lungo il perimetro dello scalo e sono arrivati al terminal T1 e sul posto si trovavano polizia e carabinieri. Le parole del consigliere comunale Erica Antonelli, membro della commissione lavoro del comune di Fiumicino, in merito al licenziamento dei lavoratori Groundcare, sono state le seguenti: «In un aeroporto internazionale come quello di Fiumicino non è il lavoro ad essere carente ma piuttosto la gestione dello stesso, incapace di fornire adeguati servizi ai passeggeri e mantenere un livello occupazione nei vari segmenti capaci di rappresentare al meglio la principale porta d'ingresso in Italia. Come già richiesto dal Sindaco Montino serve un tavolo interistituzionale sul lavoro aeroportuale, ma non solo visto anche il recente fallimento della Romana recapiti. Chiederò al Presidente della Commissione Attività Produttive e Lavoro del Comune di Fiumicino una audizione, anche con le parti sociali, per approfondire quanto appena accaduto in aeroporto»;
    in Alitalia, come noto, sono stati 2251 gli esuberi derivanti dal fallimento della privatizzazione del 2008 della compagnia: una gabella ingiustificabile, pagata sull'altare del passaggio di Cai dalle mani della cordata di «prenditori» italiani agli arabi-anglosassoni di Etihad, senza contare l'ulteriore taglio salariale destinato ad abbattersi su chi è rimasto in servizio; tutto ciò è inaccettabile se si considera che solo nel mese di maggio 2014, mentre Etihad entrava in Alitalia e venivano annunciati imminenti sacrifici, ivi compresi gli esuberi, in nome dell'interesse generale, in Alitalia erano presenti in servizio oltre 1600 lavoratori precari, concentrati nei settori di terra operativi (scalo, carico-scarico bagagli, rampa e altro), necessari per far fronte all'atavico sottorganico esistente nella ex-compagnia di bandiera italiana. Ma non solo: mentre si consegnavano le lettere di licenziamento ad oltre 1600 dipendenti, in una stanza attigua, alcuni rappresentanti della dirigenza si accingevano ad assumere 200 lavoratori a tempo determinato. Ma la desertificazione delle attività di terra della ex-compagnia di bandiera prosegue nei giorni successivi con le esternalizzazioni delle attività;
    l'attività informatica dell'Alitalia viene spezzata in due grandi tronconi (attività applicative ed attività operative) pur di favorirne la dismissione. Da subito Alitalia procede con la cessione ad Ibm di circa 70 lavoratori inseriti nelle liste degli esuberi e minacciati da un licenziamento che tutti sanno che non potrà concretizzarsi senza un grave pregiudizio dell'attività dei sistemi della compagnia, ma brandito pur di evitare che cresca l'opposizione dei lavoratori a cui lo spettro della disoccupazione farà «digerire» il passaggio delle attività. L'altro grande spezzone dell'informatica Alitalia di circa 200 dipendenti, sarà invece al momento mantenuto nella compagnia per essere poi ceduto in un secondo momento. Pesantissimo è anche il disegno che incombe su quanto resta delle attività di manutenzione degli aeromobili della compagnia, al momento concentrate nella divisione tecnica di Alitalia (ormai meno di 2000 dipendenti contro gli oltre 5000 degli inizi degli anni 2000) e in AMS (Alitalia Maintenance Systems), una società partecipata Az che si occupa della revisione dei motori, creata nel 2008 ed ormai in liquidazione. L'annuncio della reinternalizzazione delle attività di manutenzione pesante degli aeromobili, ceduta dai patrioti di Cai alla israeliana Bedec, dovrebbe essere gestita da Atitech che in parte, secondo gli annunci, utilizzerebbe parte dei 200 operai delle manutenzioni licenziati a novembre 2014;
    attualmente, tuttavia, della realizzazione del progetto Atitech non si sa nulla. In realtà le manutenzioni Alitalia continuano a subire nel silenzio generale quel pesante ridimensionamento, avviato con la privatizzazione del 2009 di Alitalia, che ha prodotto, di fatto, lo smantellamento del polo della meccanica che nell'ambito dell'aviazione costituiva una delle più importanti eccellenze esistenti su Fiumicino;
    sono rilevanti, ovviamente, le responsabilità delle istituzioni che si sono avvicendate nelle ultime legislature sia in termini generali per ciò che sta accadendo nel settore, sia in termini più specifici per ciò che, solo per fare alcuni esempi, succede per i due ambiti citati (informatica e manutenzioni): con un minimo di lungimiranza industriale le suddette incontestabili eccellenze avrebbero potuto costituire la base della costruzione di segmenti di riferimento nell'ambito della più generale industria dei trasporti, consentendo l'aggregazione di segmenti produttivi che avrebbero consentito la concentrazione e la gestione di strategiche attività, oggi frammentate in mille rivoli, con costi esorbitanti di esercizio e spesso con scadenti risultati in termini di qualità del servizio offerto;
    si segnala, inoltre, che con riferimento alla situazione di Alitalia, più recentemente, una quarantina di operai licenziati sono stati ricollocati solo a dicembre 2014, con contratti da 25 giorni e segnatamente dal 4 al 28 dicembre 2014, per le manutenzioni dei velivoli Air Berlin. E ciò appare quanto mai deprecabile, se non addirittura allucinante, considerato che la precarizzazione dei licenziati rappresenta una vera e propria beffa dei diritti dei lavoratori e la chiara dimostrazione che il lavoro in Alitalia c'era;
    infine, si segnala come 500 lavoratori di Sea Handling siano stati agevolati all'uscita dalla società di gestione degli aeroporti milanesi (Linate e Malpensa) e, di fatto, sostituiti da lavoratori interinali e precari, nel passaggio delle attività dalla citata azienda ad Airport Handling, la neonata impresa, sorta a fronte del fallimento pilotato della prima in seguito alle sanzioni dell'Unione europea, inflitte per il presunto passaggio di denaro dalla Sea alla stessa Sea Handling;
    moltissime altre sarebbero le vertenze da raccontare per descrivere il soffocamento occupazionale che caratterizza il comparto aereo-aeroportuale;
    tutte, però, evidenziano l'enorme contraddizione esistente tra lo sviluppo del mercato del trasporto aereo e le ricadute che sul piano della tutela e della protezione sociale si stanno riflettendo sul mondo del lavoro;
    emblematico a tale proposito il comportamento di una consistente pletora di aziende del comparto aereo-aeroportuale che, nel passaggio delle attività da un'impresa all'altra nel liberalizzato mercato del settore in questione, si rifiutano di applicare la clausola sociale, ovvero l'unico istituto contrattuale di tutela occupazionale che prevede la «riprotezione» dei dipendenti e che, qualora fosse rispettata, eviterebbe l'espulsione di centinaia e centinaia di lavoratori; nella vertenza Groundcare, ad esempio, come anche è stato evidenziato dallo stesso curatore fallimentare, se fosse stata applicata la clausola sociale, decine e decine di lavoratori non sarebbero stati inclusi nei 450 licenziamenti effettuati recentemente, in quanto sarebbero restati in servizio, alle dipendenze delle società che hanno rilevato, anche negli ultimi tempi, le attività dalla stessa Groundcare, peraltro contribuendo ad affossarla e ad accelerare il definitivo fallimento;
    paradossale appare pure che in tale contesto la spesa pubblica sia concentrata al solo fine di assicurare un sistema di ammortizzatori sociali al personale espulso dalla produzione: un investimento pubblico a perdere, sperperato anche per finanziare la ristrutturazione delle imprese del comparto che espellono forza lavoro precedentemente più garantita al fine di sostituirla con personale precario e a basso costo, quasi a voler investire denaro pubblico per evitare l'esplosione di un dissenso sociale la cui deflagrazione, senza i dovuti interventi, potrà essere solo rinviata;
    si evidenzia, infine, come più volte siano stati invocati dagli stessi addetti operanti presso il comparto aereo-aeroportuale interventi della magistratura e degli organismi ispettivi del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, nonché delle strutture sanitarie atte a rilevare le condizioni di igiene e sicurezza dei lavoratori. Alcuni lavoratori hanno segnalato altresì l'opportunità che venga aperta al più presto un'inchiesta da parte della Commissione antimafia sull'assegnazione degli appalti nel settore e negli aeroporti italiani, perché le irregolarità, se non addirittura le infiltrazioni della malavita organizzata, sembrerebbero essere piuttosto evidenti sia negli aeroporti romani sia in quelli milanesi, come in altri aeroporti italiani. A Fiumicino, ormai, l'evidenza è stata per altro messa in luce e anche certificata dalla cronaca giudiziaria, con gli arresti di responsabili della Meridional, azienda che ha gestito fino al 2014 un appalto delle pulizie all'aeroporto di Fiumicino. Ma è evidente che questa potrebbe rappresentare solo la punta di un iceberg enorme che dovrebbe essere preso in esame dalle autorità competenti,

impegna il Governo:

   a porre in essere ogni iniziativa, anche normativa, tesa ad affrontare in modo efficace la gravissima crisi occupazionale che sta interessando l'intero comparto aereo-aeroportuale di cui i casi Alitalia, Meridiana, Groundcare, Sea Handling e Argol rappresentano solo alcuni di quelli più eclatanti, anche considerata l'enorme contraddizione esistente con lo sviluppo del mercato del trasporto aereo italiano;
   a porre in essere ogni iniziativa, anche normativa, finalizzata a consentire una moratoria dell'esercizio provvisorio e della licenza di Groundcare in attesa della definizione del sistema aeroportuale romano;
   ad adoperarsi affinché la vertenza Meridiana si risolva con la possibile garanzia del mantenimento dei livelli occupazionali ad oggi esistenti, al fine di impedire che si disperdano forze lavoro qualificate come quelle operanti nella sopradetta compagnia, nel quadro della necessità di avviare urgentemente un tavolo di confronto con il Governo sulla questione sarda basilare per la messa in campo di un necessario e quanto mai urgente piano per la rinascita economica e sociale della Sardegna che, secondo gli ultimi dati diffusi dall'Inps, conta circa 350.000 persone al di sotto della soglia di povertà relativa e 138.588 pensionati in situazione di povertà assoluta, considerato pure che, secondo i dati Istat, in Sardegna ci sono 119.000 disoccupati e 130.000 sfiduciati e ammonterebbe a circa 16.000 il numero dei lavoratori in mobilità;
   ad avviare un'indagine conoscitiva sulla situazione produttiva e occupazionale del comparto aeroportuale italiano, con specifico riferimento ai temi dell'emergenza e della condizione di precarietà che caratterizza il personale operante in tale settore, al fine di approfondire, in particolare, i fattori che incidono sulla capacità del sistema aeroportuale di garantire e incentivare il lavoro, valorizzando altresì l'occupazione delle giovani generazioni;
   a farsi promotore di ogni iniziativa di competenza tesa all'accertamento della presenza di eventuali irregolarità sotto il profilo della sicurezza e della tutela igienico-sanitaria dei lavoratori operanti nel comparto aero-aeroportuale, nonché a svolgere le verifiche di competenza sugli appalti con specifico riguardo a quanto esposto in premessa;
   a salvaguardare e rilanciare il patrimonio industriale del trasporto aereo italiano in considerazione delle grandi potenzialità e delle prospettive che l'intero settore del trasporto e del turismo offrono al nostro Paese, promuovendo con sollecitudine un piano di sviluppo nazionale per il reimpiego e la valorizzazione dei lavoratori del comparto in possesso di know how e di risorse estromesse dal ciclo produttivo sin dal 2008;
   a porre in essere ogni atto di competenza finalizzato a chiarire i tempi e le modalità attraverso le quali il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti e l'Enac intendano definire i criteri di selezione del bacino costituito dal personale licenziato da cui dovranno attingere le aziende per le future assunzioni e per l'attivazione dei contratti di ricollocazione, così come definiti dalla legislazione vigente e avviati in forma sperimentale nel comparto del trasporto aereo.
(1-00694)
(Nuova formulazione) «Scotto, Airaudo, Placido, Zaratti, Piras, Ricciatti, Ferrara, Marcon, Duranti, Fratoianni, Melilla, Quaranta, Franco Bordo, Costantino, Daniele Farina, Giancarlo Giordano, Kronbichler, Matarrelli, Nicchi, Paglia, Palazzotto, Pannarale, Pellegrino, Sannicandro, Zaccagnini».
(9 gennaio 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    il processo di liberalizzazione totale del mercato del trasporto aereo ha prodotto una situazione di forte competizione e di estremo squilibrio in tutta Europa;
    la conseguente difesa dei mercati e delle aziende dei Paesi europei più forti, a discapito di quelli meno ricchi e meno strutturati nel settore, ha accentuato in modo esorbitante il divario tra di essi in tutte le attività economiche e produttive inerenti il settore in parola;
    il suddetto processo di deregulation, l'avvento delle compagnie low cost e dell'alta velocità, le stringenti normative europee hanno, di fatto, accentuato, nel corso degli ultimi anni, le criticità insite nel sistema aeroportuale italiano, determinando una serie di aspre conflittualità, che inevitabilmente si sono riverberate sui lavoratori del comparto;
    le scarse misure di controllo, di verifica e, soprattutto, di programmazione delle politiche economiche del settore in Italia (che, nel corso di una decina d'anni, ha visto il susseguirsi di ben quattro piani nazionali, di cui l'ultimo ancora in corso di approvazione) hanno ampliato l'instabilità del sistema, alimentando in modo esponenziale la ricerca della sopravvivenza economica delle aziende attraverso un sistema industriale non più sano e una rincorsa spasmodica alla riduzione dei costi, determinando ripercussioni disastrose sull'occupazione;
    gli eventi di carattere internazionale, dalla guerra agli attentati terroristici, hanno sicuramente influito negativamente su una situazione già grave, ma possono essere indicati esclusivamente come fattori contingenti e non fondamentali;
    paradossalmente, nonostante i dati rappresentino una realtà in contrazione, il traffico aereo passeggeri degli aeroporti italiani ha avuto dal 2008 ad oggi uno sviluppo consistente, costituendo di conseguenza uno dei settori economici e di servizi che incamera profitti;
    tutte le aziende del settore, ed Alitalia in primo luogo, sono sempre state legate intimamente al mondo politico ed istituzionale, che, anziché produrre un processo virtuoso di mantenimento del «pubblico» e dello Stato in un settore strategico per il nostro Paese, ha istituito un sistema instabile;
    alcune responsabilità, oltre che al management, sono anche da addebitare al mondo sindacale, che sottoscrivendo il piano industriale di turno, accetta le situazioni tampone proposte dal sistema politico;
    le vicende che hanno portato la vecchia compagnia di bandiera ad un mutamento dell'assetto societario e le conseguenti procedure di riassetto e di riorganizzazione di Alitalia-Cai suggeriscono una riflessione urgente, anche alla luce della nuova crisi che ha investito il gruppo Meridiana;
    da diversi anni, la seconda società di bandiera, il gruppo Meridiana, vettore infrastrutturale strategico per garantire la viabilità aerea da e per la Sardegna, è interessato da una profonda crisi aziendale, che ha indotto i vertici societari a ricorrere all'istituto della cassa integrazione per migliaia di dipendenti di Meridiana fly, Air Italy e Meridiana maintenance;
    il gruppo Meridiana, di proprietà del fondo Akfed, è stato ciclicamente salvato da continue iniezioni di capitale;
    il nuovo assetto societario avrebbe dovuto rendere maggiormente competitiva ed efficiente la compagnia, creando al tempo stesso i presupposti per il risanamento aziendale;
    le suddette acquisizioni si sono rivelate fallimentari, dando vita, nel 2006, a una flessione negativa patrimoniale di 200 milioni di euro; il gruppo, a partire dal 2007, ha inoltre registrato margini lordi negativi, con una contrazione debitoria di 300 milioni di euro fino ad oggi;
    sulla base dei dati negativi esposti, Meridiana, Governo e sindacati, nel 2011, hanno concluso un accordo per concedere la cassa integrazione guadagni straordinaria, a zero ore, su base volontaria. Nel 2013 il numero medio dei dipendenti del gruppo Meridiana era pari a 1.694 addetti, di cui 1.011 personale di terra e 683 personale di volo, con una riduzione complessiva di 403 unità rispetto al 2012 mediante utilizzo della procedura di cassa integrazione guadagni straordinaria. Nel corso del 2014 la situazione di crisi di Meridiana spa si è ulteriormente aggravata, spingendo i vertici della società ad annunciare un piano di ristrutturazione che prevede la messa in mobilità di 1.634 dipendenti, «in esubero strutturale», di cui 1.478 dipendenti del settore del trasporto aereo (262 piloti, 896 assistenti di volo e 320 dipendenti personale di terra) e 156 dipendenti di Meridiana maintenance, che cura i servizi di manutenzione; nel contempo, è stata avviata la sostituzione della flotta che prevede l'acquisto di 20 aerei Boeing entro la fine del 2015;
    di fatto, i numeri del piano di ristrutturazione prefigurano un sostanziale ridimensionamento della seconda compagnia di trasporto aereo nazionale, il cui futuro si prospetta del tutto incerto e senza obiettivi industriali credibili;
    quella che doveva essere un'operazione di salvataggio dell'azienda si configura, invece, a giudizio dei firmatari del presente atto di indirizzo, come una vera e propria operazione di dumping;
    il costo del lavoro è sicuramente una componente rilevante del deficit di bilancio, ma ci sono anche dei punti deboli non superati della compagnia aerea. Tra i nodi in questione, un organico sovradimensionato che deve mantenere una flotta considerevole e, in parte, obsoleta. La compagnia utilizzerebbe aeromobili acquistati negli anni ’80, che la maggior parte delle compagnie moderne non utilizza o sta dismettendo. Al contempo, gli aeromobili più moderni, tra cui gli Airbus 320, i Boeing 737 e 767 sono in affitto, per cui hanno un costo anche se restano fermi;
    l'eccesso di personale è in parte legato ad una serie di contenziosi legali che hanno comportato assunzioni obbligatorie, imposte dall'autorità giudiziaria. Infatti, alcuni dipendenti sono stati assunti con i contratti delle aziende di provenienza, risalenti ai primi anni duemila. Si tratta di contratti a tempo determinato e in massima parte di carattere stagionale, soprattutto per il personale proveniente da Eurofly. Oltre 500 lavoratori, assunti inizialmente per 2 o 3 stagioni, hanno impugnato il contratto originario e preteso, in alcuni casi, il reintegro e, in altri, un risarcimento pecuniario, determinando, per la società, un eccesso di personale e l'obbligo di risarcimento delle controparti;
    il licenziamento di 450 lavoratori della società GroundCare, la principale società di handling aeroportuale di Fiumicino, è davvero emblematico. Secondo quanto diffuso dai media, tra il 30 e il 31 dicembre 2014, sarebbero stati chiamati in massa a firmare le «liberatorie», per la rinuncia al mancato preavviso e per non presentare ricorso opponendosi al licenziamento stesso, circa 450 lavoratori su poco più di 850 complessivi in forza presso la società. Detto licenziamento sarebbe stato recapitato successivamente al 1o gennaio 2015, in modo da penalizzare il lavoratore nell'accesso alla mobilità che, come noto, dal 1o gennaio 2015 ha subito una drastica riduzione per effetto dell'entrata in vigore della cosiddetta legge Fornero;
    tra le molte vertenze si segnala quanto accaduto alla Argol che ha licenziato 76 lavoratori dopo 20 anni di attività di contratti di appalto della compagnia Alitalia: contratti che la compagnia aeroportuale ha deciso di non rinnovare, con tutti gli effetti che si possono immaginare per i lavoratori addetti alla movimentazione del materiale aeronautico negli hangar di Fiumicino che nel 2012 sono stati sostituiti con personale più precario e più basso costo;
    altrettanto sconcertante appare la vicenda di 500 lavoratori di Sea handling, agevolati all'uscita dalla società di gestione degli aeroporti milanesi (Linate e Malpensa) e, di fatto, sostituiti da lavoratori interinali e precari, nel passaggio delle attività dalla citata azienda ad Airport handling, la neonata impresa, sorta a fronte del fallimento pilotato della prima in seguito alle sanzioni dell'Unione europea, inflitte per il presunto passaggio di denaro dalla Sea alla stessa Sea handling, che la controlla. La Sea, a sua volta, è posseduta al 54 per cento dal comune di Milano e al 44 per cento da una serie di altri azionisti minori, sia pubblici che privati;
    per quanto riguarda la società Alitalia la prevista ristrutturazione determinerà esuberi strutturali pari a 2.250 unità;
    tale ristrutturazione, prevista all'interno di un organico piano industriale, ha richiesto un investimento di Etihad pari a 1,25 miliardi di euro da qui al 2018, sacrificando, in nome dell'interesse generale, oltre 1.600 lavoratori precari, concentrati nei settori di terra operativi (scalo, carico-scarico bagagli, rampa e altro), purtuttavia procedendo all'assunzione di 200 lavoratori a tempo determinato. Tali licenziamenti continuano ad avere ripercussioni negative sulle attività di terra della ex-compagnia nazionale, costretta a esternalizzare dette attività;
    l'attività informatica dell’Alitalia viene spezzata in due grandi tronconi (attività applicative ed attività operative) pur di favorirne la dismissione. La cessione ad Ibm determina il licenziamento di circa 70 lavoratori inseriti nelle liste degli esuberi. L'altro grande spezzone dell'informatica di circa 200 dipendenti sarà, invece, mantenuto integro, nelle more di una successiva cessione. Relativamente alle restanti attività di manutenzione degli aeromobili della compagnia, al momento concentrate nella divisione tecnica di Alitalia (ormai meno di 2.000 dipendenti contro gli oltre 5.000 degli inizi degli anni 2000) e in Ams (Alitalia maintenance systems), una società partecipata da Alitalia che si occupa della revisione dei motori, creata nel 2008 ed ormai in liquidazione, si profila la reinternalizzazione dei 200 operai delle manutenzioni licenziati a novembre 2014, da impiegare nelle attività di manutenzione pesante degli aeromobili, ceduta da Cai all'israeliana Bedec e gestita da Atitech,

impegna il Governo:

   ad avviare un'indagine amministrativa sulla situazione produttiva e occupazionale del comparto aeroportuale, in modo tale da farsi garante di una soluzione che tenga conto della salvaguardia dei posti di lavoro e della dignità dei lavoratori coinvolti e delle rispettive famiglie, di cui i casi Alitalia, Meridiana, Groundcare, Sea handling e Argol rappresentano solo alcuni di quelli più eclatanti;
   a fornire ogni utile elemento sullo stato della vertenza Meridiana, con particolare riguardo al piano di ristrutturazione e riorganizzazione aziendale ed al futuro occupazionale dei dipendenti interessati;
   ad adottare tutte le possibili iniziative, nell'ambito delle proprie competenze, a livello nazionale ed europeo, affinché forme di deregulation come quella attuata dalla compagnia di proprietà dell'Aga Khan (che ha acquistato la Air Italy trasferendovi tutta la forza lavoro di Meridiana ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo al solo scopo di risparmiare) siano vietate;
   ad adottare iniziative volte ad impedire il ripetersi di operazioni quali quella verificatasi tra Meridiana fly e Air Italy, al fine di evitare che i lavoratori si trovino costretti ad accettare contrattazioni al ribasso per non essere licenziati;
   a porre in essere, per quanto di competenza, ogni iniziativa di vigilanza e ispezione da parte delle autorità competenti, per verificare la presenza di eventuali irregolarità sotto il profilo della sicurezza e della tutela igienico-sanitaria dei lavoratori operanti nel comparto aero-aeroportuale, nonché a svolgere le verifiche di competenza sugli appalti, con specifico riferimento a quanto espresso in premessa;
   a porre in essere iniziative che consentano di verificare eventuali abusi di personale tecnico del comparto aereo, che, pur usufruendo dell'istituto dell'ammortizzatore sociale, offre la prestazione professionale a compagnie che hanno sede all'estero;
   ad approvare al più presto un piano nazionale aeroporti in grado di rispondere alle reali esigenze di mobilità, tale da favorire la definizione dei piani industriali necessari al rilancio delle società di gestione aeroportuali e una rapida approvazione dei contratti di programma da parte dell'Enac, mettendo in atto le condizioni per la ripresa dell'intero settore e facendosi promotore di una soluzione che salvaguardi gli attuali livelli occupazionali;
   a valutare i benefici contrattuali ed occupazionali del settore del trasporto aereo che scaturiscono dall'approvazione del contratto di settore da parte delle associazioni datoriali di categoria e dei sindacati confederali, considerando che tale contratto di settore ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo procede in direzione opposta alla politica governativa, che, invece, punta ad una definizione di contratti aziendali più flessibili e variabili a seconda delle diverse esigenze aziendali;
   a porre in essere ogni iniziativa di competenza finalizzata a chiarire i tempi e le modalità attraverso le quali il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti e l'Enac intendano definire i criteri di selezione della platea dei lavoratori licenziati da cui dovranno attingere le aziende per le future assunzioni e per l'attivazione dei contratti di ricollocazione, così come definiti dalla legislazione vigente e avviati in forma sperimentale nel comparto del trasporto aereo;
   alla luce della comunicazione della Commissione europea sugli aiuti di Stato agli aeroporti e alle compagnie aeree (2014/C 99/03), a valutare l'opportunità di impiegare le risorse del fondo speciale trasporto aereo per garantire il mantenimento del livello occupazionale, lo sviluppo e la ripresa del sistema aeroportuale, anziché destinarle al mero sostegno al reddito, anche considerati i risultati finora conseguiti;
   in conseguenza di quanto sopra detto, a valutare quale sia l'effettivo utilizzo delle somme di cui agli articoli 4, comma 75, e 2, comma 47, della legge n. 92 del 2012 nell'ottica di alimentare il fondo speciale per il sostegno del reddito e dell'occupazione e della riconversione e riqualificazione del personale del trasporto aereo.
(1-00774)
«Cominardi, Paolo Nicolò Romano, Tripiedi, Lombardi, Ciprini, Chimienti, Dall'Osso, Liuzzi, Dell'Orco, De Lorenzis, Carinelli, Spessotto, Nicola Bianchi».
(8 aprile 2015)

   La Camera
   premesso che:
    il trasporto aereo costituisce un fattore fondamentale per la crescita del sistema economico-sociale del nostro Paese. Esso ha assunto da tempo in Italia una rilevanza strategica nell'ambito dell'intero sistema dei trasporti interni e di collegamento internazionale: rilevanza destinata a crescere ulteriormente in relazione alle rotte ed al numero dei vettori impiegati;
    un recentissimo studio di Aci Europe evidenzia, altresì, come gli aeroporti in Europa contribuiscano alla crescita economica del continente, generando nel complesso 675 miliardi di euro all'anno, pari al 4,1 per cento del prodotto interno lordo europeo;
    per il trasporto aereo la Commissione europea prevede che, nonostante la grave crisi economica che ha colpito i Paesi europei, vi sia un trend di sviluppo positivo entro il 2030, con un raddoppio del traffico aereo globale a livello mondiale;
    è da sottolineare, in particolare, come in Italia, le previsioni dell'evoluzione del traffico aereo nel medio e lungo periodo, secondo quanto riportato dall'indagine conoscitiva svolta nella XVI legislatura dalla Commissione trasporti, poste e telecomunicazioni della Camera dei deputati, prospettino un rilevantissimo incremento. Infatti, sono state elaborate proiezioni secondo le quali nel nostro Paese si passerà dai 133 milioni di passeggeri nel 2008 a circa 230 milioni nel 2020;
    nel 2014, secondo le stime di Assoaeroporti, il traffico aereo italiano è tornato a crescere dopo due anni di contrazione. Il sistema aeroportuale italiano ha, infatti, registrato, rispetto all'anno 2013, un incremento del traffico passeggeri pari al 4,5 per cento e un aumento dei volumi di merce trasportata pari al 5 per cento. In particolare, i passeggeri transitati nei 35 scali monitorati da Assoaeroporti sono stati, nel corso del 2014, 150.505.471, corrispondenti a 6,4 milioni di passeggeri in più rispetto al 2013. Gli scali di Roma Fiumicino, Milano Malpensa, Milano Linate, Bergamo e Venezia si confermano i primi cinque aeroporti italiani di passeggeri transitati. In particolare, sul risultato complessivo ha inciso positivamente sia la ripresa del traffico nazionale, che registra un incremento del 2,5 per cento rispetto al 2013, sia la netta crescita del traffico internazionale, con un 5,9 per cento in più, sia quella del traffico dell'Unione europea, che registra un più 7,5 per cento rispetto al 2013. La valenza della crescita del trasporto aereo nel 2014 è resa ancora più significativa dal fatto di essere superiore di 1,7 milioni di passeggeri rispetto ai volumi di traffico del 2011, ultimo anno di crescita del traffico aereo in Italia;
    nonostante i dati registrati nel 2014 (che denotano un trend di crescita positivo per il trasporto aereo), occorre evidenziare come vi sia una situazione grave per quanto riguarda l'occupazione del personale che opera nel comparto aeroportuale;
    la grave crisi economica che ha colpito così profondamente il nostro Paese ha, infatti, determinato un contraccolpo negativo nei vari settori produttivi, colpendo anche il comparto aeroportuale: di fronte alla condizione di evidente difficoltà le varie imprese hanno cercato di porre rimedio ricorrendo a piani di razionalizzazione, sia dei voli stessi che del personale. Ed in altri casi (come quello di Alitalia) a fusioni con altri operatori;
    tra i casi di crisi aziendali che riguardano l'intero settore aeroportuale suscitano particolare preoccupazione quelle riguardanti Alitalia, Meridiana, Groundcare, Sea handling e Argol;
    tale crisi ha messo in grave difficoltà le prospettive di lavoro di famiglie e la dignità di moltissimi operatori presenti nell'indotto;
    il rapporto annuale dell'Enac ha messo in evidenza le principali cause di difficoltà che i vettori italiani hanno dovuto affrontare nel corso del 2013: esse sono legate ad elementi congiunturali amplificati dalla perdurante crisi economica, dalla frammentazione della quota di mercato, dalla competizione delle compagnie low cost e dei charter. Le compagnie, pertanto, hanno dovuto attuare processi di ristrutturazione aziendale al fine di recuperare competitività, migliorare la produttività e ridurre i costi. Secondo il rapporto Enac, inoltre, hanno inciso sull'andamento delle compagnie aeree nel 2013: l'aumento del costo del carburante (con il petrolio oltre i 100 dollari al barile), l'incremento delle tariffe aeroportuali e di navigazione aerea ed il calo della domanda dovuto ad una diminuzione della propensione al consumo;
    è da sottolineare, altresì, come due fattori, tra loro fortemente interrelati, hanno reso possibile una sostanziale modifica delle condizioni di produzione e di fruizione del servizio aereo: il processo comunitario di liberalizzazione del trasporto aereo (che ha avuto piena attuazione a partire dal 1997) e la successiva intensificazione delle dinamiche competitive hanno favorito la crescita del numero dei concorrenti, un aumento dell'offerta proposta su numerose rotte ed una conseguente riduzione delle tariffe. Questo processo è divenuto irreversibile ed ha comunque prodotto, sostanzialmente, condizioni più favorevoli per l'intero sistema;
    la liberalizzazione del trasporto aereo in Europa ha, pertanto, prodotto regole completamente nuove: infatti, da un mercato fortemente rigido si è passati ad un ambito liberalizzato che ha creato i presupposti per un cospicuo incremento dell'offerta ed il conseguente soddisfacimento di una domanda più ampia. Ciò ha consentito l'ingresso di nuovi operatori, connotati da diverse dimensioni ed ambiti di operatività, che si è tradotto indubbiamente in un vantaggio per l'utenza. Le dinamiche tariffarie conseguenti alla liberalizzazione hanno, quindi, inciso profondamente sull'assetto competitivo e sugli equilibri finanziari delle imprese;
    sicché dove si è intensificata la dinamica concorrenziale, per molti vettori si sono determinati anche gravi problemi di sostenibilità economica che hanno messo e mettono, quindi, in discussione il numero degli attori presenti;
    in tale contesto si dovrebbero valutare operazioni di concentrazione o diverse forme di cooperazione tra i vettori in modo da garantire agli stessi di mantenere la competitività sul mercato, assicurando, al contempo, una maggiore efficienza del sistema. Solo in questo caso si avrà un quadro competitivo del trasporto aereo nazionale adeguato ed efficiente, in modo da offrire all'utente condizioni favorevoli e sicure. Da non trascurare, altresì, è la circostanza che un assetto dinamico del trasporto aereo può fornire, senza dubbio, un considerevole contributo di efficienza e competitività internazionale ad altri settori produttivi che, in vario modo, partecipano alla crescita complessiva del nostro Paese;
    non va trascurato, infine, come lo sviluppo della concorrenza, che rappresenta, nel suo complesso, un elemento positivo, sia un processo difficile e costoso che incide su fattori della produzione delicati, come quello relativo all'occupazione che va tutelata e salvaguardata;
    il Governo si è subito attivato per affrontare una crisi grave che rischia di colpire un settore strategico per il nostro Paese: l'intervento del Governo, infatti, nei limiti di quelle che sono le sue competenze e possibilità, ha permesso che venissero attivate le giuste sedi di confronto sindacali ed aziendali. L'Esecutivo ha svolto un ruolo fondamentale ed attivo nella gestione delle vertenze che hanno riguardato le compagnie aeroportuali,

impegna il Governo:

   a promuovere un tavolo di confronto nazionale sul trasporto aereo che coinvolga i Ministri interessati, le regioni e le parti sociali, al fine di adottare soluzioni condivise che possano superare la grave crisi occupazionale che sta attraversando il comparto aeroportuale;
   a promuovere misure dirette a facilitare l'aggregazione delle società del comparto aeroportuale, in modo da garantire alle stesse di mantenere competitività sul mercato ed avere maggiore efficienza;
   ad assumere iniziative per introdurre misure dirette a rilanciare il settore economico dell'indotto, nonché per consentire il rilancio industriale del comparto aeroportuale.
(1-00775)
«Garofalo, Dorina Bianchi, Piso».
(8 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    per handling si intende l'insieme dei servizi svolti in aeroporto finalizzati a fornire assistenza a terra a terzi, vettori, utenti di aeroporto o in autoproduzione (self handling);
    si tratta di un'attività particolarmente intensiva di lavoro: a livello europeo si può stimare che i costi del fattore lavoro raggiungano il 65 per cento-80 per cento dei costi totali;
    per svolgere l'attività di handling è necessario acquisire la relativa certificazione da parte dell'Enac, che vi provvede in conformità con la verifica del rispetto dei requisiti di cui all'articolo 13 del decreto legislativo n. 18 del 1999;
    con tale ultimo decreto legislativo il legislatore ha recepito la direttiva comunitaria n. 67 del 15 ottobre 1996, che introduce la libera concorrenza dei servizi di assistenza a terra, contiene un elenco dettagliato dei servizi da garantire negli aeroporti comunitari, sia in air side che in land side, ed ammette la possibilità per le compagnie aeree di prestare il servizio in autoproduzione (self handling);
    fra le cause dell'attuale crisi del servizio di handling possono individuarsi, secondo il professore Oliviero Baccelli dell'Università Bocconi, il calo dei volumi movimentati e il fatto che «l'uscita delle società di gestione degli aeroporti da questo settore ne ha determinato una frammentazione, con tante aziende di assistenza a terra che tendono a seguire poche compagnie aeree»;
    la pluralità delle imprese di handling (14 nei soli due scali romani) non è di per sé un fatto negativo ed anzi evidenzia un positivo sviluppo della concorrenza e del mercato dei relativi servizi, purché si garantisca che tutte le imprese presenti sul mercato siano in grado di lavorare in condizioni di efficienza e sicurezza;
    la Commissione europea, a seguito degli studi dalla stessa svolti in preparazione alla riforma della normativa europea sui servizi di assistenza a terra, ha accertato che il livello di qualità del servizio di handling si riverbera su tutti i portatori di interesse del sistema aeroportuale ed è quindi suscettibile di danneggiarlo nel suo insieme;
    sempre la Commissione europea ha sottolineato la forza del legame intercorrente tra il livello di formazione del personale e il livello di qualità e di sicurezza dei servizi di handling;
    è, inoltre, necessario evidenziare la contrapposizione tra un sistema aero-aeroportuale ed il relativo indotto, caratterizzato da una significativa crescita, e la drammatica situazione occupazionale che ha portato negli ultimi anni l'intera categoria del personale operante in detto comparto a dover far ricorso a strumenti straordinari di sostegno del reddito, quali cassa integrazione, mobilità e contratti di solidarietà;
    si è assistito, dunque, all'evidente paradosso della crescita esponenziale, evidenziata dai dati di Assoaeroporti, del traffico merci e passeggeri sulle tratte intercontinentali e a lungo raggio, a cui non solo non ha fatto seguito la crescita di produttività legata al comparto aereo-aeroportuale, ma è seguita una ricaduta negativa sull'indotto del settore;
    sono numerose le società di handling di tutta Italia, in evidente stato di difficoltà, a causa anche di un'eccessiva frammentazione in una situazione non caratterizzata da adeguate condizioni di efficienza, sicurezza ed equità nei contratti di lavoro che ha portato, nel passaggio delle attività da un'azienda ad un'altra, alla mancata applicazione delle clausole sociali in grado di garantire le adeguate tutele occupazionali per i dipendenti,

impegna il Governo:

   a dialogare con le parti sociali, al fine di facilitare l'individuazione di forme contrattuali idonee a garantire condizioni di lavoro eque e omogenee, atte a garantire la tutela dei livelli occupazionali e della concorrenza nel settore aereo-aeroportuale;
   ad intervenire, sia in sede europea che in sede nazionale, anche tramite i propri poteri di iniziativa, al fine di introdurre specifiche regole per il subappalto dei servizi di handling, tali da garantire la sicurezza e l'efficienza non solo del servizio di ground handling, ma dell'intero sistema aeroportuale;
   ad assumere iniziative al fine di vietare, nell'ambito dei servizi di handling, la possibilità di ricorrere al subappalto «a cascata», ossia l'affidamento di lavorazioni di competenza del subappaltatore ad altra impresa in sub-affidamento;
   ad assumere iniziative per prevedere requisiti più stringenti, finalizzati a garantire una maggiore qualità e sicurezza del servizio, per la concessione da parte dell'Enac della certificazione necessaria allo svolgimento di attività di handling;
   ad assumere iniziative per assicurare dei periodi obbligatori di addestramento dei lavoratori da parte delle imprese di handling;
   a sostenere gli sforzi della Commissione europea finalizzati all'emanazione di una normativa uniforme del settore, sotto forma di regolamento direttamente applicabile nei Paesi membri;
   a garantire misure a sostegno delle eccellenze del settore del trasporto e del turismo nazionale, attraverso il reimpiego e la valorizzazione dei dipendenti già impiegati nel comparto aereo-aeroportuale;
   a porre in essere ogni iniziativa atta a garantire adeguata regolamentazione ed omogeneità di applicazione dei regolamenti per ogni singolo aeroporto.
(1-00781)
«Catalano, Oliaro, Mazziotti Di Celso, Antimo Cesaro».
(8 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    il trasporto aereo acquista sempre maggiore rilevanza nell'ambito dell'intero sistema dei trasporti interni e nella rete di collegamento internazionale e tale importanza è destinata a crescere ulteriormente in relazione alle rotte e al numero dei vettori impiegati;
    nell'ambito dell'evoluzione del sistema di trasporto aereo è impellente la necessità di una riflessione urgente e di intraprendere le conseguenti iniziative di pianificazione del settore di medio e lungo termine a fronte delle preoccupanti crisi aziendali di Alitalia-Cai e Meridiana, attualmente oggetto di procedure di riorganizzazione e ristrutturazione, che nel caso di Alitalia comportano anche un mutamento dell'assetto societario;
    il quadro generale di una crisi così diffusa nel settore aeroportuale ha determinato e continua a provocare conseguenze particolarmente negative anche sui diritti alla continuità territoriale aerea dei cittadini e delle imprese, con grave danno all'intera economia territoriale;
    viene lamentata con sempre maggior frequenza da parte delle organizzazioni sindacali nazionali e regionali, confederali e autonome, la crescente difficoltà nelle trattative per l'individuazione dei percorsi di soluzione che rilancino le compagnie aeree in crisi, garantendo livelli di sicurezza sempre più alti e che riducano al minimo gli effetti negativi dei processi di ricostruzione e ristrutturazione;
    è evidente l'insistenza dei sindacati sulla mancanza nel trasporto aereo di regole certe, a fronte di sistemi aeroportuali confusi che avrebbero prodotto effetti negativi anche sulla questione Meridiana, che sarebbe aggravata anche dal continuo cambiamento di amministratori delegati e piani industriali, in un quadro di atipica presenza di compagnie aeree low cost, che, secondo quanto denunciato dalle rappresentanze dei lavoratori, in Sardegna e in Italia avrebbero una forte penetrazione, agevolata da finanziamenti pubblici elargiti a vario titolo dai diversi gestori aeroportuali;
    le compagnie aeree in crisi, fornendo una quantificazione precisa di un numero di esuberi strutturali importanti pari a circa 1.200-1.350 unità in questa fase della vertenza, particolarmente difficile, ha destato attrito e preoccupazione sia tra i lavoratori che nelle organizzazioni sindacali, comportando un orientamento delle compagnie a rinunciare all'attività di lungo raggio;
    quest'anno nel trasporto aereo nazionale si rischia di arrivare a 14.000 persone in regime di ammortizzatori sociali e, in particolare, per Meridiana i cassintegrati sarebbero stati determinati anche dalla mancata partecipazione della compagnia alla gara sulla continuità territoriale su Cagliari;
    la situazione della compagnia aerea Alitalia è anche più farraginosa: il fallimento della privatizzazione del 2008 dell’Alitalia e il passaggio agli arabi-anglosassoni di Etihad hanno provocato 2.251 esuberi, oltre agli annunciati imminenti sacrifici, promossi in nome dell'interesse generale, comprensivi in Alitalia di oltre 1.600 lavoratori precari necessari per far fronte all'emergenza della ex-compagnia di bandiera italiana;
    tale farraginosità è dovuta al fatto che è stata prevista una ristrutturazione particolarmente pesante per le conseguenze occupazionali per la realizzazione di un piano industriale finalizzato allo sviluppo della compagnia tricolore, che dovrebbe tornare all'utile precedente nel 2017 con più rotte e destinazioni soprattutto di lungo raggio internazionale (con un incremento del 40 per cento in 4 anni), con la finalità di diventare in 5 anni uno dei principali vettori in ambito globale;
    gli orientamenti sul futuro di Alitalia, la cui gestione Cai avrebbe registrato 1,5 miliardi di perdite in 5 anni, e la pesante ristrutturazione di Meridiana giustificano le preoccupazioni espresse e la richiesta di un impegno del Governo finalizzato ad assicurare un'efficiente e adeguata gestione, tale da garantire il pieno rispetto dei principi di uguaglianza e pari trattamento riservato a tutti i cittadini italiani, nel pieno rispetto anche delle vigenti normative in materia di libera circolazione di persone e merci in ambito europeo;
    per quanto riguarda, infine, la compagnia Meridiana con 29 aeromobili e con un trasporto di circa 4 milioni di passeggeri, gli attuali 2.500 dipendenti sono considerati in eccesso dal proprio stesso management, non solo in funzione di uno sviluppo della compagnia, ma anche per la sua sopravvivenza sul mercato, tale da proporre una ristrutturazione aggressiva con il 50 per cento di esuberi;
    il diritto alla mobilità è il principio base della continuità territoriale, che, se non garantita dall'accessibilità al necessario numero di voli e alla diversificazione delle rotte, con costi sostenibili, determinerebbe conseguenze pesanti nella vita delle persone e della comunità sarda dal punto di vista sociale ed economico,

impegna il Governo:

   a fornire un quadro dello stato della riorganizzazione e ristrutturazione delle compagnie aeree in crisi di cui Alitalia-Cai, Meridiana, Groundcare, Sea-handling e Argol rappresentano solo i casi più importanti;
   ad adoperarsi affinché le situazioni economico-finanziarie ed occupazionali di Meridiana e di Alitalia prevedano la possibilità di garantire il mantenimento dei livelli occupazionali ad oggi esistenti, avviando urgentemente un tavolo di confronto riguardante sia la questione sarda che l'ex compagnia di bandiera, per realizzare una rinascita economica e sociale del settore aeroportuale;
   a definire una strategia di relazione con tali compagnie, che consenta, nell'ambito della definizione delle politiche di trasporto in continuità territoriale, anche di sostenere, compatibilmente con i necessari piani industriali di salvataggio delle compagnie, i più elevati livelli occupazionali;
   a proporre anche a livello europeo un programma di aiuti che assicurino l'applicazione di regimi tariffari per un adeguato numero di collegamenti aerei atti ad assicurare la libera circolazione di persone e merci.
(1-00787)
«Artini, Baldassarre, Barbanti, Bechis, Mucci, Prodani, Rizzetto, Rostellato, Segoni, Turco».
(9 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    il settore del trasporto aereo nazionale negli ultimi anni è stato caratterizzato da una sostanziale modifica delle condizioni di produzione e fruizione del servizio: il processo di liberalizzazione del trasporto aereo in ambito comunitario, a partire dal 1997, e la progressiva e rapida diffusione di servizi low cost ha intensificato le dinamiche competitive, ha favorito l'aumento del numero dei concorrenti, ha migliorato l'offerta di collegamenti e di servizi su numerose rotte e ha reso possibile una netta riduzione delle tariffe, incrementando in misura significativa il numero dei passeggeri trasportati; tutto questo ha consentito a milioni di cittadini un'effettiva libera circolazione delle persone e delle merci e l'accesso a quello «spazio unico» europeo dei trasporti capace di incrementare la mobilità, ridurre gli ostacoli nelle aree essenziali e alimentare la crescita e l'occupazione;
    in pochi anni l'evoluzione del mercato del trasporto aereo ha reso inevitabile per la «compagnia di bandiera», che operava in regime di sostanziale monopolio sulle tratte interne e concorreva con altre imprese con analoghe caratteristiche sui voli internazionali, una radicale riorganizzazione del servizio e un forte contenimento dei costi; questo netto cambio di strategia si è imposto anche ad altri vettori già presenti nella rete dei collegamenti nazionali;
    l'assetto e le prospettive del trasporto aereo si sono modificate in breve tempo per molti altri rilevanti fattori; il mercato si presenta oggi con strutture, servizi ed operatori molto diversi da quelli con cui si costruivano gli scenari e le prospettive di traffico all'inizio degli anni 2000, quando sono stati fatti importanti investimenti in infrastrutture e in aeromobili e anche consistenti programmi di assunzione di lavoratori in tutto il comparto aereo-aeroportuale;
    i dati dell'ultimo rapporto Enac disponibile, che analizza i dati del trasporto aereo relativi all'anno 2013, rilevano il positivo andamento del trasporto aereo mondiale, con un traffico passeggeri in crescita del 5 per cento circa e del settore cargo dell'1 per cento rispetto al 2012; lo stesso rapporto Enac conferma anche per il 2013 la crisi del trasporto aereo in Italia, con una diminuzione del numero dei passeggeri trasportati dell'1,7 per cento rispetto al 2012, 143,5 milioni; vi è poi da considerare che una flessione più significativa, -5,6 per cento in un anno, si registra nel numero dei movimenti con i quali le compagnie hanno razionalizzato il load factor dei propri voli, che indica la percentuale dei posti effettivamente occupati rispetto a quelli disponibili sul velivolo;
    nel 2013, l'aeroporto di Fiumicino, il primo scalo italiano, ha registrato una riduzione del numero dei passeggeri sullo scalo intercontinentale del 2,12 per cento, che equivale ad oltre 802.500 passeggeri in meno rispetto al 2012; quanto agli aeroporti lombardi, Malpensa ha registrato un calo del 3 per cento – quasi 550.000 persone trasportate in meno; Linate ha perso il 2,1 per cento – con una riduzione di circa 192.000 passeggeri rispetto all'anno precedente;
    la crisi ha continuato a incidere sui conti di Alitalia – il primo vettore del Paese – che ha accusato la contrazione più ampia del mercato: in un anno l'ex compagnia di bandiera ha perso 1,4 milioni di passeggeri e con 23,9 milioni ha un numero di passeggeri di poco superiore a quello di Ryanair, la principale compagnia low cost, che ha raggiunto i 23 milioni; alla fine del 2014 – se non si inverte la tendenza – potrebbe realizzarsi lo storico sorpasso; è importante notare che, a fronte degli 1,4 milioni di passeggeri persi da Alitalia, 1,2 milioni sono stati acquisiti da Ryanair e Easyjet, compagnie che operano con tariffe – e costi – ben diversi;
    il low cost realizza il 35-36 per cento del traffico intra-europeo; in Paesi come l'Inghilterra o gli Stati Uniti, dove il modello si è imposto da oltre quarant'anni, il low cost copre circa il 50 per cento del traffico; da alcuni anni quasi il 100 per cento delle nuove rotte intra-europee ed europee, nelle tratte dirette tra regioni e regioni, domestiche ed europee, sono operate dalle compagnie low cost;
    è importante, altresì, sottolineare che tratte importanti, come la Fiumicino-Linate, risentono in misura significativa della concorrenza dei treni ad alta velocità;
    in questi ultimi anni sui conti dei vettori hanno pesato molti altri importanti fattori, come il costo del carburante: il prezzo del petrolio ha registrato una straordinaria escalation tra il 2003 e il 2011; il valore del greggio nel 2008 ha raggiunto il massimo storico di quasi 150 dollari al barile; solo tra il 2014 e 2015 si è registrato un effettivo crollo del prezzo del petrolio, per diverse cause, tra cui il calo della domanda e l'aumento della produzione di petrolio non convenzionale;
    i vettori hanno risentito di altri rilevanti problemi: il calo della domanda dovuto a una diminuzione della propensione del singolo al consumo, oltre a eventi contingenti come la persistente crisi politica nei Paesi del Mar Rosso e del Medio Oriente, che hanno inciso negativamente sull'intero settore della navigazione aerea e non solo sugli specifici bacini di traffico direttamente interessati; la domanda di trasporto ha risentito anche dell'effetto negativo dell'incremento delle tariffe aeroportuali e di navigazione aerea;
    i dati negativi del 2013 si sommano a quelli degli anni precedenti, caratterizzati dalla più profonda e lunga crisi economico-finanziaria dal dopoguerra, con pesanti ricadute sulla tenuta del sistema imprenditoriale del settore del trasporto aereo e, soprattutto, sui livelli occupazionali, con l'apertura di molte vertenze e tavoli di crisi;
    il sostegno ai lavoratori del comparto è stato assicurato con risorse a carico del bilancio dello Stato, ma anche con fondi a carico delle imprese e dei lavoratori del comparto, ma soprattutto dell'utenza; a partire dal 2004 è stato istituito il fondo speciale per il trasporto aereo con l'articolo 1-ter del decreto-legge n. 249 del 2004, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 291 del 2004, con una dotazione costituita da un contributo sulle retribuzioni a carico dei datori di lavoro (0,375 per cento) e dei lavoratori (0,125 per cento) del settore, nonché dall'addizionale comunale sui diritti di imbarco – applicata a ciascun biglietto di trasporto aereo – pari a tre euro a biglietto, un prelievo particolarmente elevato se si considera che il margine di un biglietto low cost oscilla tra i 5 e i 10 euro;
    in base alla legge istitutiva, il fondo interviene in caso di crisi di aziende del settore del trasporto aereo, per erogare specifici trattamenti a favore di lavoratori interessati da riduzioni dell'orario di lavoro, da sospensioni temporanee dell'attività lavorativa o da processi di mobilità, nonché per finanziare programmi formativi di riconversione o riqualificazione sia nei confronti del personale di volo (piloti e assistenti di volo), sia del personale di terra, per un totale di circa 150.000 potenziali beneficiari;
    l'intervento del fondo integra i trattamenti di mobilità, cassa integrazione guadagni straordinaria, cassa integrazione in deroga e solidarietà, garantendo il raggiungimento dell'80 per cento della retribuzione comunicata dall'azienda all'Inps al momento della richiesta del trattamento integrativo, fino ad un massimo di 7 anni;
    nell'agosto e nel dicembre del 2014 sono stati raggiunti, per importanti crisi del settore, accordi a livello governativo con le parti sociali, che prevedono un'estensione della durata della prestazione di ulteriori due anni, fino ad un massimo di 9 anni; in questi due anni aggiuntivi il fondo dovrebbe sostenere l'intero carico relativo all'80 per cento della retribuzione di riferimento, nonché l'onere della cosiddetta contribuzione correlata, ovvero i contributi previdenziali (circa il 30 per cento della retribuzione che il lavoratore percepiva prima della cessazione del rapporto di lavoro);
    attualmente, considerate le entrate previste per il 2015, il fondo ha una disponibilità di cassa di circa 47 milioni di euro al netto delle somme già impegnate a seguito di delibere assunte;
    tra le vertenze più difficili e gravose dal punto di vista occupazionale si segnala quella del gruppo Alitalia che si è conclusa con la stipula dell'accordo quadro, firmato presso il Ministero dello sviluppo economico, il 12 luglio 2014, che ha comportato esuberi pari a 1.635 unità; la vertenza si è avviata a conclusione anche per l'ingresso di Etihad airways nel capitale sociale della compagnia;
    tra le molte situazioni ancora da risolvere, il caso Meridiana è quello che desta maggiori preoccupazioni per gli oltre 1.000 lavoratori che rischiano di essere messi fuori produzione, nonostante il pronto avvio di un tavolo di confronto in sede ministeriale;
    per il 21 aprile 2015 è programmato lo sciopero dei lavoratori degli handlers e delle compagnie aeree straniere aderenti e non a Fairo, indetto dai sindacati maggiormente rappresentativi a livello nazionale (Filt-Cgil, Fit-Csil, Uiltrasporti e Ugl trasporti) per sollecitare l'adozione di un unico contratto nazionale per l'industria del trasporto aereo e denunciare i ritardi e l'indisponibilità delle associazioni datoriali Assohandlers e Fairo nel ricercare le condizioni per una rapida soluzione della vertenza contrattuale aperta ormai da anni;
    molti sono i fattori esogeni ed endogeni che possono modificare il quadro di riferimento in cui operano anche le imprese del trasporto aereo, con prospettive di ripresa che solo pochi mesi fa apparivano impensabili e che potrebbero invertire le tendenze sin qui registrate ed attenuare i fattori di difficoltà gestionale e di tensione occupazionale;
    sul fronte esterno, il crollo del prezzo del petrolio, il deprezzamento dell'euro sulla divisa statunitense e il consolidamento della ripresa americana, da un lato, riducono drasticamente il costo dell'energia, dall'altro rendono le tariffe europee e nazionali più concorrenziali sul mercato globale e possono attivare nuovi flussi di traffico verso il nostro Paese;
    sul piano nazionale, le misure per il sostegno dei consumi, la riforma del mercato del lavoro, finalizzata, tra l'altro, a un sistema di ammortizzatori sociali più inclusivo e al superamento delle forme contrattuali più precarizzanti, le misure di incentivazione per le nuove assunzioni a tempo indeterminato e l'esclusione del costo del lavoro dalla base di calcolo dell'irap costituiscono un contesto normativo di cui potranno avvalersi tutte le imprese, anche quelle del comparto aereo, per recuperare competitività e per riprendere ad investire e assumere;
    è essenziale che il Governo continui ad operare per dare soluzione strutturale ai problemi del comparto aereo-aeroportuale e del relativo indotto e, in modo particolare, alle questioni che riguardano il personale e, in generale, tutti i lavoratori del settore;
    per il piano nazionale degli aeroporti, adottato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri alla fine del 2014, è stata raggiunta l'intesa in Conferenza Stato-regioni il 19 febbraio 2015 e sarà ora sottoposto all'esame, per il parere, delle competenti commissioni parlamentari prima della definitiva deliberazione del Consiglio dei ministri;
    il varo del piano nazionale degli aeroporti da parte del Governo è stato valutato in modo molto positivo dal mercato internazionale, in particolare dagli investitori; per la prima volta l'Italia si è dotata di un quadro di riferimento strategico che consente di avere certezze in merito ad alcune priorità e, in particolare, indica in modo chiaro gli aeroporti fondamentali, di interesse nazionale e di interesse strategico e individua gli investimenti necessari a tali aeroporti per un'adeguata dotazione infrastrutturale;
    in merito al caso Alitalia, la situazione sta rapidamente evolvendo: i nuovi Commissari europei, il Commissario dei trasporti, il Commissario del mercato interno e il Commissario della concorrenza, (i tre Commissari coinvolti riguardo l'operazione Alitalia-Etihad) e la direzione generale per la concorrenza della Commissione europea hanno già espresso una positiva valutazione su tale operazione, che è stata condotta in modo conforme alle direttive europee, nell'intento di realizzare un effettivo rilancio di Alitalia che, più solida e competitiva, può operare in modo efficiente nel pieno rispetto delle regole di mercato;
    il via libera dell'Unione europea ha permesso il closing definitivo tra i due soci italiani ed Etihad e il definitivo avvio della nuova compagnia il 10 gennaio 2015; la crisi industriale è stata affrontata con un solido piano industriale per 1 miliardo e 700 milioni di euro di investimento che dovrebbe contribuire a risolvere in via definitiva l'urgente problema degli esuberi; l'azienda, che ha 14.000 dipendenti, aveva, all'inizio della crisi, esuberi per 5.000 persone, poi ridotti a 2.125; di questi, una parte consistente sono andati in mobilità volontaria – più di 800 – per gli altri si sta realizzando un'adeguata ricollocazione; molte funzioni fondamentali – come la manutenzione degli aerei, che prima veniva eseguita in Israele e ora nuovamente a Roma – sono rientrate in Italia e questo ha consentito di avviare a soluzione questioni delicate e di ricollocare 200 persone dalla manutenzione in Atitech; per altre 440 persone, che a dicembre 2014 risultavano ancora in mobilità, si sta procedendo alle ricollocazioni di Atitech (fornitori, informatica e quanto altro);
    le iniziative del Governo dovranno perseguire l'obiettivo di rilanciare, insieme alla compagnia – che ha un ruolo strategico in Italia – l'intero sistema aeroportuale; per la definitiva soluzione dei problemi occupazionali è essenziale il buon esito delle questioni rimaste aperte con la Commissione europea: il tema della concentrazione con il Commissario ai trasporti e il tema degli aiuti di Stato con il Commissario alla concorrenza;
    per la questione «concentrazione», vi è da sottolineare che, dopo la due diligence di Enac, il 10 dicembre 2015, con lettera formale alla direzione generale mobilità e trasporti (Dg Move), è stato confermato che il controllo della società è in mani europee, di capitali europei, come la legge europea prevede;
    la compagnia Meridiana ha evidenziato un serio problema di esuberi, per i quali, finita la cassa integrazione, si chiede la mobilità;
    le prospettive di ripresa modificano il quadro di riferimento in cui operano le imprese del trasporto aereo, anche per il previsto incremento del traffico nel nostro Paese in concomitanza con due importanti eventi di interesse globale, quali l'Expo di Milano ed il giubileo; è essenziale che tali condizioni e prospettive siano tenute nella dovuta considerazione ai fini della definizione e dell'auspicata soluzione delle diverse vertenze ancora aperte;
    nel piano nazionale degli aeroporti, che determina la strategia degli investimenti dello Stato nelle infrastrutture di collegamento degli scali, la qualifica di aeroporti di interesse nazionale è attribuita anche a quegli scali che garantiscono la continuità territoriale di regioni periferiche e aree in via di sviluppo o particolarmente disagiate, qualora non sussistano altre modalità di trasporto, in particolare ferroviario, adeguate a garantire tale continuità,

impegna il Governo:

   a implementare, in tempi rapidi e definiti, il nuovo piano nazionale della rete aeroportuale con risorse certe ed adeguate agli investimenti da realizzare, con un controllo costante sulla regolarità dell'affidamento degli appalti;
   a garantire il completamento e, ove necessario, la realizzazione di collegamenti stradali e ferroviari rapidi ed efficienti con gli scali di interesse nazionale;
   a esercitare, in accordo con tutti gli organismi competenti, il controllo e il costante monitoraggio sul corretto adempimento degli obblighi gravanti sui gestori aeroportuali in base ai contratti di concessione;
   a integrare e a definire nei contratti di concessione specifici standard di qualità e sicurezza dei servizi;
   ad assumere iniziative dirette ad eliminare le barriere di natura regolamentare per favorire un'offerta di servizi di trasporto aereo efficiente ed efficace;
   ad adoperarsi sollecitamente, per quanto di competenza, affinché ci sia piena assunzione di responsabilità da parte dell'azionista – e nel confronto tra sindacati e azienda – per arrivare in tempi brevi ad un'adeguata ristrutturazione aziendale della compagnia Meridiana che ha operato per cinquant'anni nella regione Sardegna;
   a creare le condizioni affinché si arrivi ad una soluzione ottimale per i lavoratori che garantisca efficienti servizi per la continuità territoriale della regione Sardegna e di tutte le altre aree del Paese che hanno problemi di perifericità e di continuità territoriale;
   ad adottare ogni iniziativa utile per favorire la ripresa del confronto tra le organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori e delle imprese del settore del trasporto aereo volto a completare il lavoro sin qui sviluppato, finalizzato a dotare l'industria del trasporto aereo di un unico contratto nazionale, così scongiurando ulteriori fasi di tensione nei rapporti industriali e il ricorso a nuove azioni di mobilitazione dei lavoratori;
   ad intraprendere ogni iniziativa utile al fine di far ripartire il comparto industriale delle lavorazioni funzionali al servizio del trasporto aereo, mettendo in campo una coerente programmazione infrastrutturale, delineando una nuova politica industriale per il settore finalizzata all'aggregazione delle aziende e che contempli il rilancio di lavorazioni strategicamente determinanti come la costruzione e la revisione dei motori, dei carrelli, delle verniciature, delle manutenzioni e della produzione di componentistica elettronica, nonché definendo politiche attive del lavoro e di regolamentazione degli appalti in tutti i siti aeroportuali;
   a favorire una costante collaborazione tra i Ministeri del lavoro e delle politiche sociali e delle infrastrutture e trasporti con le regioni interessate dalla crisi del settore del trasporto aeroportuale per affrontare una riforma organica di sistema, nonché per addivenire all'individuazione di un bacino unico delle figure professionali licenziate dal 2008 ad oggi per effetto della crisi e delle riorganizzazioni che hanno coinvolto gli aeroporti italiani, le aziende del comparto e dell'indotto, anche in vista dell'implementazione delle politiche di formazione e ricollocazione del personale, partendo dalle attuali sperimentazioni che stanno coinvolgendo, nella regione Lazio, i lavoratori Alitalia licenziati nel 2014.
(1-00801)
«Brandolin, Miccoli, Tullo, Gnecchi, Bonaccorsi, Bonomo, Bruno Bossio, Cardinale, Carloni, Castricone, Coppola, Crivellari, Culotta, Ferro, Cinzia Maria Fontana, Gandolfi, Pierdomenico Martino, Massa, Mauri, Minnucci, Mognato, Mura, Pagani, Albanella, Baruffi, Boccuzzi, Casellato, Dell'Aringa, Di Salvo, Giacobbe, Gregori, Gribaudo, Incerti, Maestri, Martelli, Paris, Giorgio Piccolo, Rotta, Simoni, Tinagli, Zappulla, Fassina, Marroni».
(14 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    la situazione del trasporto aereo italiano presenta ad oggi aspetti di grande vitalità; secondo le ultime cifre disponibili, dal 2008 al 2013 (ovvero negli anni in cui la crisi ha attanagliato maggiormente l'industria del nostro Paese), il traffico passeggeri negli scali aeroportuali in Italia è aumentato del 10,3 per cento ed il traffico merci del 16,6 per cento;
    rispetto al 2013, anno più acuto della recessione, nel 2014 si è assistito ad un'impennata dei dati di ulteriore crescita del trasporto aereo italiano. Nel 2014, infatti, si è registrato il transito di oltre 150 milioni di passeggeri negli aeroporti nazionali, con un aumento del 4,7 per cento. Pertanto, il 2014 ha portato con sé un'evidente ripresa del settore, che ci si augura si consolidi nel 2015 e diventi un riflesso della rinascita dell'economia nazionale;
    secondo i dati pubblicati dall'Ente nazionale per l'aviazione civile, sulla base delle analisi condotte su 45 aeroporti nazionali, è aumentato anche il numero dei movimenti aerei in decollo o atterraggio (+1 per cento a 1.335.684 movimenti). Più consistente, invece, l'aumento del trasporto cargo (merce + posta) con quasi 902 mila tonnellate, il 7,1 per cento in più del 2013;
    il transito passeggeri per l'aeroporto di Roma Fiumicino ha registrato un incremento del 10 per cento nel 2014 rispetto al corrispondente periodo del 2013;
    guardando ai singoli scali italiani nel trasporto cargo si conferma al top Milano Malpensa, seguito da Roma Fiumicino e da Bergamo, mentre per il traffico commerciale non di linea (charter e aerotaxi) dopo Malpensa c’è Verona;
    a livello di compagnie, per il totale del traffico passeggeri incluso quello internazionale, si trova al primo posto la compagnia low cost irlandese Ryanair holdings (oltre 26 milioni di passeggeri) seguita da Alitalia-Cai (23 milioni), che invece risulta prima nella classifica limitata al solo traffico nazionale con oltre 12,8 milioni di passeggeri;
    a questa situazione di crescita di traffico passeggeri e merci e di movimenti in generale si contrappone una situazione occupazionale che vede in molti settori del comparto moltiplicarsi situazioni di cassa integrazione, mobilità e contratti di solidarietà che riguardano ormai quasi 20.000 lavoratori di terra e d'aria (vicende Meridiana, Alitalia-Cai, Argol, Groundcare, Sea handling ed altre);
    si continua a perseguire una politica di persistente promozione degli ammortizzatori sociali, che ha come inevitabile conseguenza la perdita di professionalità e l'abbassamento di livelli di sicurezza in tutto il comparto aeroportuale e di volo;
    in un settore strategico, come quello del trasporto aereo e della aeroportualità, il Governo ha il dovere di porsi come primo obiettivo la tutela del lavoro altamente specializzato e qualificato;
    la tutela del lavoro dovrà tener conto della logica occupazionale che è alla base del successo e della competizione delle low cost che attraggono, da un lato, il cliente e, dall'altro, gli interessi delle parti in causa dell'indotto; fra questi, ovviamente, vi sono le amministrazioni locali, le società di gestione aeroportuale e le aziende/società ad esse affiliate e/o rientranti nella costellazione degli appalti/subappalti di servizi;
    occorre, quindi, orientare il mercato del trasporto aereo a tutela non solo del «prodotto» (passeggero utente finale), ma anche di ciò che esso può generare nell'indotto, anche con riferimento al mantenimento dei livelli occupazionali delle attività che operano nei servizi aeroportuali;
    il recente piano nazionale aeroporti risulta carente, sia per la limitata attenzione verso le dinamiche previste e prevedibili (come lo scenario di traffico aereo – ad esempio, il mercato asiatico – e il suo posizionamento nel breve-medio periodo, ivi incluso il relativo indotto che esso potrà generare), sia per la pressoché totale mancanza di visione di un innesto del settore trasporto aereo nelle logiche degli altri settori del trasporto (connettività/multimodalità) che avrebbe, quantomeno, dovuto precedere qualsivoglia strategia o valutazione da parte dello Stato anche, perché no, a tutela della forza lavoro che ruota nell'indotto;
    non va sottaciuto, inoltre, che in un recente studio effettuato da Assoaeroporti si segnala la decisa crescita del traffico passeggeri sulle percorrenze lungo raggio intercontinentali, cioè proprio in quel segmento di mercato dove la concorrenza delle compagnie che offrono servizi di trasporto a basso prezzo (low cost) è inesistente;
    andrebbero anche attentamente riconsiderate nei fatti alcune politiche di trasporto aereo che, nonostante siano state negate dal piano nazionale aeroporti, continuano in maniera contraddittoria ad incoraggiare l'esistenza nei medesimi bacini di traffico di più aeroporti, concorrenziali fra loro, impedendo con ciò un loro effettivo sviluppo e profittevole gestione. Si citano i casi del bacino di traffico su cui insistono Linate, Bergamo e Brescia, oppure gli aeroporti di Ancona, Rimini e Forlì, piuttosto che Firenze e Pisa, ovvero Lamezia, Crotone e Reggio di Calabria;
    la parcellizzazione e polverizzazione di alcune scelte operate nel piano aeroporti non può che generare percorsi settoriali di breve respiro, in massima parte voluto dalle lobby locali. In tale contesto appare abbastanza ambiguo il ruolo dello Stato: da un lato, posto nell'incapacità di fungere da cabina di regia del sistema trasporti e, dall'altro, quale «soccorritore» a tutela del mercato del lavoro, sforzandosi episodicamente nel tentativo di adeguamento a regolamentazioni internazionali (dell'Unione europea) sul sistema aeroporti difficilmente perseguibile proprio in ragione di un'assenza di chiarezza in termini di ruoli e funzioni sulla governance del settore. Prova ne sia quanto segnalato dalla Commissione europea nella relazione al Parlamento e al Consiglio sull'applicazione della direttiva sui diritti aeroportuali (19 maggio 2014, COM(2014)278);
    appare claudicante il ruolo della recente Autorità di regolazione dei trasporti, tardivamente istituita ed ancora priva di sufficiente capacità e indirizzo, così come previsto nelle intenzioni dell'Unione europea allorquando fu deciso di attivare tali autorità a livello europeo su un tema, peraltro, assai delicato quale quello dei diritti aeroportuali, che a diverso titolo giocano un ruolo essenziale nello sviluppo dell'intero settore aviazione;
    è, infatti, evidente che la fragilità decisionale da parte del Governo possa velocemente degenerare riverberando i suoi effetti sulla tenuta del mercato, delle compagnie aeree, dell'indotto turistico e commerciale e della forza lavoro, che, a diverso titolo, opera nel settore trasporto aereo. Non ultima la possibilità concreta che quanto segnalato dalla Commissione europea possa, di fatto, tradursi in possibili procedure di infrazione da parte dell'Unione europea sul complesso delle attività attese e non realizzate, ovvero realizzate ma in contrasto con le misure europee;
    si sono, infatti, riscontrati problemi specifici nel recepimento della direttiva CE sui diritti aeroportuali da parte dell'Italia e di altri Paesi dell'Unione europea di cui alla relazione della Commissione europea al Parlamento europeo e al Consiglio del 19 maggio 2014;
    infine, preoccupa il fatto che sull'annunciata privatizzazione del fornitore di servizi di controllo del traffico aereo Enav s.p.a., il cui capitale è detenuto al 100 per cento dal Ministero dell'economia e delle finanze, nulla venga detto della reale situazione patrimoniale e creditoria, nei cui confronti risulterebbero fortemente indebitate compagnie aeree e società di gestione aeroportuale, rendendo perciò difficilmente realizzabile l'operazione,

impegna il Governo:

   a porre in essere ogni iniziativa, anche normativa, mirata ad affrontare le problematiche occupazionali in armonia con la forte e, per certi versi, inaspettata crescita del trasporto aereo in un'ottica di potenziamento e sviluppo del comparto e salvaguardia della sicurezza del volo messa in discussione dalla recente tragedia Germanwings, in virtù della quale vanno rivisitate scelte europee sulla composizione degli equipaggi di volo ispirate da ragioni di contenimento dei costi (solo 2 piloti nel corto/medio raggio);
   ad esplorare ogni strada percorribile volta a salvaguardare e rilanciare il patrimonio industriale del trasporto aereo italiano, in considerazione delle grandi potenzialità e delle prospettive che l'intero settore del trasporto e del turismo offrono al nostro Paese, incrementando gli ambiti di sicurezza con particolare riferimento al fattore umano e quindi al recupero di professionalità ed esperienze perse attraverso talvolta inadeguate riduzioni degli organici e un utilizzo troppo disinvolto degli ammortizzatori sociali;
   a dare seguito a quanto contenuto nella relazione della Commissione europea al Parlamento europeo e al Consiglio del 19 maggio 2014 (COM(2014)278) sull'applicazione della direttiva sui diritti aeroportuali e ad assumere iniziative normative per rivedere il ruolo della recente Autorità di regolazione dei trasporti, tardivamente istituita e priva di qualsiasi capacità di indirizzo, nonché per rivedere il piano aeroporti alla luce dei criteri direttivi nella stessa contenuti;
   a verificare la reale efficacia del piano nazionale aeroporti recentemente adottato, che non parrebbe rispecchiare il principio incontrovertibile della necessaria concentrazione del traffico aereo per evitare diseconomie di gestione;
   a farsi promotore di ogni iniziativa di competenza tesa all'accertamento della reale efficienza ed efficacia da parte dell'Enac nell'attività di regolazione, sorveglianza e sanzionatoria, del comparto dell'aviazione civile;
   a sollecitare, anche nel rispetto del mercato e di possibili investitori privati, la trasparente pubblicizzazione della reale situazione patrimoniale, creditizia e debitoria di Enav s.p.a.;
   a valutare ogni altra possibilità di riassetto del comparto nel suo insieme alla luce del mutato scenario economico e delle sollecitazioni che provengono dalla Commissione europea.
(1-00803) «Catanoso, Palese, Occhiuto».
(14 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    la perdurante crisi economica in atto ha colpito duramente il settore del trasporto aereo, determinando una forte flessione della domanda provocata dalla diminuzione di passeggeri e merci trasportati e una drastica riduzione dell'offerta, soprattutto in conseguenza di fallimenti e riduzioni di frequenza di società finanziariamente compromesse;
    nel 2013 il trasporto aereo ha subito una diminuzione dell'1,7 per cento rispetto al 2012, che già era in flessione negativa dell'1,3 rispetto al 2011. I dati di traffico aereo del 2014, pubblicati pochi giorni fa dall'Enac, evidenziano una ripresa del settore, con un aumento dei passeggeri transitati del 4,7 per cento rispetto al 2013;
    nonostante la ripresa del 2014, il trend negativo degli ultimi anni ha avuto gravi ripercussioni soprattutto per le compagnie aeree, in piena crisi aziendale, con preoccupanti ripercussioni sui livelli occupazionali delle stesse, nonché sui diritti alla continuità territoriale aerea dei cittadini e delle merci;
    la proposta dell'Anci di introdurre una airport tax, che potrà raggiungere 4 euro a passeggero per un biglietto di andata e ritorno, benché abbia dei ritorni positivi per le città metropolitane, peserebbe sul comparto aeroportuale per 150 milioni di euro e provocherebbe un calo della domanda dello 0,7 per cento, andando ad incidere negativamente su un settore che già soffre di una crisi strutturale da cui è derivata la perdita di migliaia di posti di lavoro;
    i continui tagli agli enti locali operati dal Governo, che mettono a repentaglio la buona amministrazione e i servizi pubblici nei territori, non possono essere compensati dall'introduzione di nuove tasse che compromettono attività imprenditoriali e strategiche per il bene del Paese, anche in vista dei due grandi eventi Expo 2015 e giubileo, che rappresentano una vetrina importante per il rilancio dell'economia del nostro Paese;
    la compagnia aerea Meridiana, secondo quanto dichiarato anche al competente assessorato regionale per i trasporti e confermato il 21 ottobre 2014 al tavolo presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, avrebbe quantificato un numero di esuberi strutturali considerevoli, pari a circa 1.366 unità;
    Meridiana avrebbe evidenziato che, con 29 aeromobili e con un trasporto di circa 4 milioni di passeggeri, i 2.500 dipendenti attualmente in forza sarebbero considerati eccessivi dal proprio management per la sopravvivenza stessa della compagnia sul mercato, per cui propone una veemente ristrutturazione con il 50 per cento degli esuberi;
    la crisi dell’Alitalia, negli ultimi anni, ha avuto gravissime ricadute occupazionali con una cifra esorbitante di esuberi (ad oggi ancora 5.000 fra hostess, piloti e impiegati sono senza lavoro), il ricorso massiccio a contratti di solidarietà e alla cassa integrazione, per la quale l'ex compagnia di bandiera è stata anche indagata per indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato nell'ambito di un'inchiesta della procura della Repubblica di Civitavecchia;
    solo l'ultimo provvedimento messo in atto da Alitalia riguarda 994 esuberi: 879 personale di terra, 61 piloti e 54 assistenti di volo, per i quali sono iniziate le procedure di mobilità, anche se circa la metà dovrebbe essere recuperata da Etihad e da fornitori come Poste in impieghi di accoglienza, security e manutenzione in Atitech;
    ulteriori problemi per il personale Alitalia sono stati creati dalla decisione della compagnia di chiudere le basi di Venezia e Verona, destinando il personale addetto alla navigazione (circa 100 persone) agli ultimi hub rimasti di Roma e Milano, nonostante i voli nazionali e internazionali con destinazione da e per le due città venete restino sostanzialmente immutati;
    in gravi difficoltà versano anche i lavoratori della Groundcare, già Flightcare: circa 850 lavoratori rimasti senza stipendio per mesi. I lavoratori, passati da Aeroporti di Roma a Aeroporti di Roma handling (che si occupava delle attività di assistenza a terra) sono stati ceduti alla Flight care e alla Groundcare holding finché a marzo 2014 hanno assistito inermi alla decisione di liquidazione;
    anche gli 80 operai di Argol, la società addetta alla movimentazione materiale aeronautico negli hangar di Fiumicino sono in cassa integrazione e per loro non è prevista neanche l'integrazione dal fondo speciale del trasporto aereo a causa di alcune irregolarità nei versamenti;
    il numero degli aeroporti presenti sul territorio italiano è esorbitante e molti di questi sono di dimensioni esigue e con un traffico passeggeri irrisorio, ma, nonostante l'evidente nanismo commerciale, ogni scalo ha una propria società di gestione con organi amministrativi e dirigenziali lautamente pagati. Nella regione Lazio è in previsione l'apertura di un nuovo scalo a Viterbo, nonostante l'aeroporto di Ciampino riceva, pur avendo forti limiti di crescita strutturali, più di 2 milioni di euro pubblici annui per il servizio assistenza volo e le operazioni di soccorso. Nella regione Toscana, oltre all'aeroporto di Firenze e di Pisa, sembra essere in progetto la realizzazione di un aeroporto a Siena. Sull'asse Torino-Venezia ogni 50 chilometri c’è una pista di atterraggio;
    la regione Lombardia sta cercando di differenziare i business in modo preciso, così da garantire la sopravvivenza dei vari scali: Malpensa come hub intercontinentale, incrementando il numero e le destinazioni dei voli a lungo raggio, e Linate come city airport per i voli a breve raggio, Bergamo specializzata nei low cost e Brescia come snodo per le merci e riserva di capacità per la collocazione territoriale in una delle poche aree ancora non densamente urbanizzata;
    Milano-Malpensa e Milano-Linate, si ricorda, sono state indicate nel primo rapporto annuale al Parlamento dell'Autorità di regolazione dei trasporti, del 16 luglio 2014, rispettivamente, aeroporto strategico e aeroporto di interesse nazionale, per bacino di traffico; tuttavia, lo stesso rapporto rileva che «l'andamento del trasporto aereo in Italia è stato condizionato da una forte esposizione ai fenomeni macroeconomici», nonché «da una peculiare flessione dei vettori tradizionali a favore dei vettori low cost e della crescente concorrenza dei treni ad alta velocità su alcune importanti rotte del Paese»;
    la concentrazione del traffico aereo su un numero di scali limitati, utilizzando quelli già esistenti, eviterebbe investimenti infrastrutturali di collegamento costosi e poco utili, puntando a mettere in rete e collegare fra loro infrastrutture davvero fondamentali, come l'alta velocità ferroviaria e gli aeroporti intercontinentali;
    investire sul sistema aeroportuale lombardo e su Malpensa in particolare, che ha circa il triplo di volume di traffico merci rispetto a Fiumicino, significa investire sull’import-export italiano, visto che in questo aeroporto transita circa il 70 per cento del traffico merci aereo, creando un perno per un unico sistema aeroportuale aperto a sinergie con gli scali del Nord Italia in una logica di sistema macroterritoriale che faccia da volano per l'intero sistema economico;
    alla luce di una razionalizzazione dell'utilizzo degli scali presenti sul territorio romagnolo (Ridolfi di Forlì e Fellini di Rimini), appare fondamentale investire nello sviluppo armonico di un sistema integrato di dimensione romagnola, ipotizzando anche un'unica società di gestione, che superi la rivalità dei due scali. È, infatti, necessario creare le condizioni per potenziare in questi due scali specifici business (charter, low cost, cargo), diversi da quelli sviluppati sullo scalo bolognese del Marconi: le condizioni delle infrastrutture esistenti – che necessiterebbero di investimenti minimi – potrebbero, infatti, essere di grande aiuto allo sviluppo delle potenzialità di un processo di rilancio economico locale grazie all'attrattività turistica, produttiva e tecnologica, nonché alla possibilità di divenire regional hub verso lo scalo di Malpensa;
    nonostante l'attuale flessione negativa, è previsto entro il 2030 un incremento di circa il 90 per cento del traffico aereo: un potenziale straordinario che metterebbe l'Italia in linea con i più importanti Paesi europei e che non può essere sprecato per l'inadeguata capacità degli scali italiani aeroportuali più importanti;
    i servizi di trasporto aereo rappresentano un fattore fondamentale per la promozione dell'efficienza e la crescita richieste dal sistema economico, contribuendo fattivamente all'attrattività e alla competitività grazie all'indotto generato e al conseguente miglioramento della logistica commerciale;
    la recrudescenza di fenomeni terroristici legati a cellule fondamentaliste islamiche, che dal 2001 ad oggi hanno minato la sicurezza del trasporto aereo, impone misure di potenziamento dei controlli e dei sistemi di sicurezza all'interno degli aeroporti. È, pertanto, necessario adottare misure straordinarie di bonifica delle aree aeroportuali dal pericolo di attacchi terroristici, anche attraverso specifiche intese con le compagnie aeree, utilizzando al fine personale specializzato e formato appositamente,

impegna il Governo:

   a mettere in atto ogni azione necessaria al fine di sostenere la ripresa del comparto aereo e aeroportuale per le gravissime ripercussioni che la crisi in atto sta avendo sul piano occupazionale e sul traffico aereo, anche facendosi garante di una soluzione che tenga conto della salvaguardia dei posti di lavoro e della dignità umana dei lavoratori dell’Alitalia, di Meridiana, di Groundcare, di Argol e delle rispettive famiglie;
   a non assumere iniziative volte a introdurre nuove imposizioni fiscali su settori economici strategici per il bene del Paese, come quello aereo-aeroportuale, a compensazione delle politiche governative di tagli agli enti locali;
   a rendere noti gli aggiornamenti sullo stato delle vertenza Meridiana, con particolare riguardo al piano di ristrutturazione e riorganizzazione aziendale ed al futuro occupazionale dei dipendenti interessati, al fine di scongiurare la dispersione di forza lavoro qualificata come quella attualmente impiegata dalla compagnia aerea;
   a prevedere un piano programmatico del settore aeroportuale che definisca macroaree di interesse strategico in cui concentrare il traffico aereo, rispondendo così al duplice obiettivo di razionalizzare i contributi pubblici erogati a favore di scali sottoutilizzati e di contribuire, al contempo, allo sviluppo del territorio secondo una logica di differenziazione dell'offerta;
   ad agevolare la differenziazione dell'offerta degli aeroporti presenti su un'unica regione, superando la rivalità degli scali e creando le condizioni per potenziare specifici business;
   a fronte dell'indotto di tipo economico, produttivo e industriale generato dal comparto aeroportuale, a programmare un piano di investimenti per Malpensa al fine di rilanciare l'aeroporto come hub intercontinentale, anche prevedendo l'apertura di nuove rotte in regime di quinta libertà;
   ad assumere ogni iniziativa di competenza per evitare che decisioni legate a ristrutturazioni aziendali penalizzino il sistema aeroportuale lombardo, in particolar modo un hub strategico per il Nord Ovest come quello di Malpensa, per la grande importanza che riveste come scalo merci a livello nazionale e, quindi, come volano per l'intero sistema economico;
   a mettere in atto ogni misura utile a rafforzare il sistema aeroportuale lombardo, un'infrastruttura importante frutto di investimenti nazionali ed europei che dopo il dehubbing Alitalia del 2009 rischia di essere inutilizzata;
   ad agevolare la creazione di un sistema integrato dell'infrastruttura aeroportuale lombarda che comprenda anche lo sviluppo dell'aeroporto di Brescia/Montichiari, rivedendo a tal fine le attuali concessioni per garantire una gestione coordinata su un unico livello regionale in grado di far operare in sinergia i diversi aeroporti lombardi;
   a favorire il collegamento ferroviario fra la stazione di Bergamo e l'aeroporto di Orio al Serio, in considerazione dell'importanza che il territorio riveste sotto il profilo economico e per la capacità di generare ricchezza e occupazione a livello diretto e indiretto;
   ad adottare tutte le possibili iniziative, nell'ambito delle proprie competenze, a livello nazionale ed europeo, affinché forme di deregulation, come quella attuata dalla compagnia di proprietà dell'Aga Khan (che ha acquistato la Air Italy traferendovi tutta la forza lavoro allo scopo di risparmiare) siano vietate;
   a prevedere specifiche intese con le compagnie aeree per adottare formule sempre più stringenti di garanzia delle aeree aeroportuali minacciate dalla recrudescenza dei fenomeni legati al terrorismo internazionale.
(1-00807)
«Caparini, Gianluca Pini, Attaguile, Fedriga, Allasia, Borghesi, Bossi, Busin, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Rondini, Saltamartini, Simonetti».
(14 aprile 2015)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE IN MATERIA DI ESENZIONE DALL'IMU PER I TERRENI AGRICOLI

   La Camera,
   premesso che:
    la complessa vicenda relativa alla revisione del regime IMU sui terreni agricoli montani evidenzia l'ulteriore confusione che coinvolge la disciplina relativa alla fiscalità locale, anche e soprattutto per le evidenti responsabilità del Governo e dell'amministrazione tributaria, che hanno gestito ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo con evidente superficialità il contesto normativo legato al pagamento dell'imposta sui terreni agricoli, ricadenti in particolari aree, soprattutto con riferimento ai criteri di individuazione altimetrici dei comuni esenti;
    l'ingorgo burocratico-amministrativo connesso alla classificazione dei parametri predisposta dall'Istat, inizialmente suddivisa in tre fasce sulla base dell’«altitudine al centro», ovvero nel punto in cui si trova il municipio, la retroattività della norma che imponeva il pagamento del tributo per l'anno 2014, i provvedimenti cautelari adottati dalla magistratura amministrativa rappresentano soltanto alcuni dei numerosi elementi critici e distorsivi che hanno caratterizzato, nel corso dei mesi precedenti, il pagamento di tale tributo, che permane secondo i firmatari del presente atto di indirizzo iniquo e costituzionalmente illegittimo;
    anche la nuova revisione dei meccanismi di calcolo delle esenzioni (contenuta all'interno del decreto-legge n. 4 del 2015), che persiste in forma complicata in larga parte irrazionale, induce ad un profondo ripensamento della classificazione Istat sui criteri di montanità risalenti peraltro al 1952 e non più aggiornati;
    l'irrazionalità con cui sono stati fissati i termini relativi alla scadenza del pagamento (rinviati peraltro tre volte) e molto ravvicinati, che non hanno consentito tempi adeguati e congrui per i soggetti interessati, al fine di verificare quale sia il regime applicabile (mutato, tra l'altro, diverse volte nel corso dei mesi scorsi), il calcolo dell'imposta e l'adempimento finale del pagamento (considerando, peraltro, che i comuni non hanno avuto alcun obbligo di invio ai contribuenti dei bollettini precompilati) delineano un quadro generale sconfortante e intricato del sistema tributario italiano, che si dimostra essere palesemente in antitesi con qualsiasi ipotesi di collaborazione e buona fede tra l'amministrazione fiscale e il cittadino-contribuente;
    il sopra esposto decreto-legge, approvato in via definitiva il 19 marzo 2015, resosi necessario alla luce delle precedenti e ripetute difficoltà applicative (relative al discusso criterio dell'altitudine «al centro»), nonché a seguito delle pesanti censure del tribunale amministrativo regionale del Lazio, che ha invitato il Governo a rivedere l'impianto dei criteri (a cui si è unita la confusione generata dall'accavallarsi di regole e ricorsi), non solo continua a destare dubbi e incertezze interpretative, ma introduce ex novo l'imposta anche per i terreni «parzialmente montani», contraddicendo nella forma e nella sostanza quanto invece previsto dal decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89;
    se, all'interno del decreto interministeriale del 28 novembre 2014, di attuazione dell'articolo 22 del decreto-legge n. 66 del 2014, erano emersi notevoli dubbi sui criteri di attribuzione dell'imposta (in quanto la classificazione in base all'altimetria delle sede comunale rappresentava un'impostazione irrazionale e aleatoria), i successivi interventi normativi rilevano anch'essi evidenti profili discriminatori, che generano distinzioni eccessive, non soltanto tra i comuni limitrofi, ma anche tra appezzamenti di terreno contigui e su comuni differenti;
    i nuovi parametri stabiliti dall'Istat, infatti, che definiscono un comune «totalmente montano» (esente dal pagamento dell'IMU), «parzialmente montano» (che esonera soltanto i coltivatori diretti e gli imprenditori agricoli, i proprietari o affittuari del terreno) e «non montano» (che prevede il pagamento per tutti i proprietari senza eccezioni), determinano una discrepanza nei criteri altimetrici, generando inspiegabili asimmetrie impositive, in particolare in regioni collinari, in cui si registrano comunità locali considerate non montane e altre più pianeggianti, valutate invece parzialmente montane;
    alle sopra esposte e articolate criticità, come la decisione di intervenire attraverso il pagamento di un tributo che graverà in maniera pesante sull'assetto economico del comparto agricolo nazionale (anche a seguito delle disfunzioni applicative nella corresponsione dell'imposta medesima), si affiancano ulteriori aspetti problematici connessi alla scarsa valutazione dei delicati profili di equità fiscale, che avrebbero dovuto essere affrontati in un'ottica di adeguamento dell'imposta alla capacità contributiva del comparto agricolo;
    le modifiche normative apportate dal recente provvedimento d'urgenza, a decorrere dal 2014 (peraltro in forma retroattiva, violando per l'ennesima volta il principio sancito nello statuto del contribuente), sebbene risultino meno penalizzanti per i territori montani, evidenziano numerosi problemi legati alla disparità di trattamento, difficilmente giustificabili, tra territori contigui e affini per caratteristiche morfologiche ed economiche;
    gli attuali criteri di esenzione confermano, in generale, numerosi elementi di irragionevolezza ed iniquità dell'imposizione tributaria (già contenuti all'interno del decreto interministeriale del 28 novembre 2014) connessi alla mancata considerazione di aspetti legati alla redditività delle colture tipiche, al rischio idrogeologico, alla dimensione delle aziende agricole e ad altri aspetti tipici delle diverse realtà rurali territoriali;
    con riferimento alla riduzione del taglio operato sul fondo di solidarietà comunale, a fronte del maggior gettito stimato per i comuni derivante dalle nuove imponibilità dei terreni agricoli, pari a circa 230 milioni di euro per il 2014 e a quasi 269 milioni di euro per il 2015, occorrono iniziative nei confronti dei sindaci, affinché le aliquote applicate per la revisione del regime fiscale legato all'IMU sui terreni agricoli possano essere riconsiderate, evitando un impatto sui bilanci delle imprese agricole, vessate da tale imposta;
    ulteriori rilievi altamente critici e profili discriminatori, nei confronti del settore agricolo, si rinvengono nelle disposizioni concernenti la copertura finanziaria previste dall'articolo 2, comma 1, del decreto-legge n. 4 del 2015;
    l'abrogazione della deduzione ai fini IRAP per i lavoratori nel medesimo comparto determinerà effetti penalizzanti, anche in termini di rilancio del mercato del lavoro agricolo;
    occorre evidenziare, inoltre, che la decisione di armonizzare la geografia delle aree esentate (che ha aggiornato la mappa dei territori agricoli, risalente alla circolare 14 giugno 1993, n. 9, del Ministero delle finanze), all'interno del decreto-legge 22 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89, è stata ispirata dall'esigenza di rimediare al difetto originario della «riforma» dell'IMU, che è partita dalla coda, ovvero dalla necessità di reperire il gettito complessivo pari a circa 359 milioni di euro, già iscritti all'interno del medesimo decreto, essendo già stati utilizzati nel 2014;
    l'esigenza di procedere ad una ridefinizione coerente ed organica di esenzione dall'IMU per i terreni agricoli (nell'ottica di un superamento di una serie di criticità, la cui metamorfosi normativa nel corso degli ultimi mesi, ha generato notevoli complicazioni ed incertezze) appare, pertanto, urgente e necessaria, al fine di una risoluzione complessiva in grado di prevedere l'esonero definitivo del pagamento del tributo medesimo, per tutte le fasce di terreni classificati dall'ISTAT;
    i forti limiti degli interventi adottati dal legislatore e dalle decisioni politiche del Governo, sia nel merito che nel metodo utilizzato (per la revisione devi criteri di esenzione), richiedono, a tal fine, un'inversione di tendenza delle scelte da adottare, anche attraverso un ampio coinvolgimento delle associazioni agricole e degli enti locali, in un'ottica di condivisione comune, affinché si possa comprendere in maniera risolutiva come il comparto agricolo non sia considerato dal Governo come un settore su cui evidentemente si intende «fare cassa»,

impegna il Governo:

   a prevedere in tempi rapidi iniziative volte all'esenzione definitiva dell'imposta municipale propria (IMU), prevista dalla lettera h) del comma 1 dell'articolo 7 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, relativa all'anno 2015, per i soggetti individuati sulla base delle disposizioni previste dal decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, adottato di concerto con il Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali e con il Ministro dell'interno, del 28 novembre 2014, pubblicato nella Gazzetta ufficiale del 6 dicembre 2014, nonché dei successivi interventi normativi introdotti;
   ad assumere iniziative per prevedere la restituzione nei confronti dei proprietari terrieri che hanno già effettuato il pagamento dell'IMU sui terreni parzialmente montani e non montani, il 10 febbraio 2015 e nei periodi precedenti, attraverso il rimborso fiscale in sede di dichiarazione dei redditi per il 2016 con la procedura della compensazione fiscale;
   ad assumere iniziative per introdurre interventi compensativi volti ad attribuire ai comuni interessati il minor gettito complessivo derivante dall'entrata tributaria pari a 219,8 milioni di euro per l'anno 2015 e in 91 milioni di euro annui a decorrere dal 2016, attraverso l'immediata introduzione di misure per la revisione della spesa pubblica (cosiddetta spending review) contenute nel piano predisposto dall'ex commissario straordinario Carlo Cottarelli, per le quali il Governo ha costantemente rinviato l'attuazione, abrogando, di conseguenza, l'articolo 22, comma 2, del decreto-legge n. 66 del 2014;
   a prevedere, infine, in caso contrario, adeguate misure di compensazione di natura finanziaria o fiscale, a vantaggio delle imprese agricole, interessate dal pagamento dell'IMU sui terreni considerati dall'Istat parzialmente montani e non montani, posto che gli effetti tributari di un'iniqua penalizzazione del settore agricolo ad avviso dei firmatari del presente atto di utilizzo sono stati soltanto volti ad ottenere un immediato risultato finanziario da parte del Governo Renzi.
(1-00784)
«Faenzi, Catanoso, Fabrizio Di Stefano, Riccardo Gallo, Russo, Sandra Savino, Laffranco, Francesco Saverio Romano, Alberto Giorgetti, Palmizio, Occhiuto, Ciracì, Distaso, Marti, Palese, Fucci, Prestigiacomo, Castiello, Carfagna, Latronico, Gelmini, Polidori, Brunetta».
(9 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    l'intera vicenda relativa alla revisione della disciplina dell'esenzione dall'IMU per i terreni agricoli montani, avviata al fine di armonizzare ed aggiornare la mappa dei «territori svantaggiati» ereditata dal previgente regime dell'ICI e che ha dato origine nei mesi scorsi all'esigenza di un intervento d'urgenza sfociato nel decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2015, n. 34, si è invece concretizzata in un intervento di pura semplificazione normativa che ha disvelato il reale intento del Governo di soddisfare esigenze di mero incremento del gettito fiscale, piuttosto che di conseguire una revisione organica e, auspicabilmente, concertata dell'intera disciplina riferibile ai terreni agricoli montani;
    invero, le modifiche normative apportate, a decorrere dal 2014, dal suddetto decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 4, pur risultando nel complesso meno penalizzanti per i territori montani, sotto il profilo dei minori tagli operati ai comuni, lasciano intatti sul tappeto numerosi problemi. Infatti, i nuovi criteri di esenzione, per quanto preferibili rispetto al mero criterio dell'altimetria del centro comunale di cui al decreto ministeriale del 28 novembre 2014, e che ha determinato il noto casus belli, presentano non pochi elementi di criticità e producono, con riferimento all'esenzione dall'imposta, disparità di trattamento difficilmente giustificabili tra territori contigui ed affini per caratteristiche morfologiche ed economiche;
    in generale, per quanto attiene i criteri di esenzione, si confermano tutte quelle criticità derivanti da un'imposizione iniqua ed irrazionale, già rilevate con riferimento alla successiva ed a tratti convulsa produzione normativa successiva al decreto-legge n. 66 del 2014 (che, avendo affidato al sovragettito dell'IMU agricola il compito di finanziare l'operazione «bonus 80 euro», aveva disposto una limitazione del perimetro delle esenzioni) e legate, soprattutto, alla mancata considerazione di aspetti connessi alla redditività delle colture tipiche, al rischio idrogeologico, alla dimensione delle aziende agricole e ad altri aspetti tipici delle diverse realtà rurali territoriali;
    così come ancora dubbie appaiono le modalità di aggiornamento periodico e di manutenzione della classificazione dei comuni a tale scopo adottata, dal momento che, come è noto, la triplice qualifica di montanità adottata dall'Istat (comune «totalmente montano», «parzialmente montano», «non montano»), cui la citata legge rinvia, è stata determinata sulla base del vetusto articolo 1 della legge n. 991 del 1952, successivamente abrogato dall'articolo 29 della legge n. 142 del 1990;
    inoltre, date le caratteristiche dei terreni oggetto d'imposizione ed il loro limitato valore, è ragionevole ritenere che i comuni non saranno nell'oggettiva condizione di recuperare una parte significativa del gettito stimato, anche a causa della sua frammentazione in importi singolarmente inferiori ai minimi di legge e, pertanto, non dovuti dai contribuenti. Tra gli altri elementi che concorreranno al verificarsi di prevedibili impatti negativi sui bilanci degli enti locali, occorre tenere presente il problema dei rimborsi per quei comuni che, interamente imponibili in virtù della normativa precedente, sono divenuti esenti o parzialmente esenti per effetto delle nuove disposizioni recate dal citato decreto-legge n. 4 del 2015, e pertanto dovranno corrispondere il rimborso a tutti quei contribuenti che hanno correttamente ritenuto di pagare l'IMU relativa al 2014 nei termini fissati dalla normativa previgente, situazione che, peraltro, rischia di imporre ulteriori costi amministrativi per i comuni, nonché maggiori aggravi per i contribuenti, i quali, oltre ad avere sostenuto i costi per la predisposizione dei conteggi dell'IMU pagata, dovranno procedere alla presentazione delle istanze di rimborso;
    riguardo, poi, all'entità del relativo taglio operato sul fondo di solidarietà dei comuni, il decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2015, n. 34, affida al Ministero dell'economia e delle finanze il compito di procedere, entro il 30 settembre 2015 e sulla base di una metodologia condivisa con l'Anci, la verifica del gettito IMU per l'anno 2014, al fine di assicurare la più precisa ripartizione tra i comuni dei tagli a valere sul fondo di solidarietà. È, pertanto, auspicabile che nell'ambito di tale verifica, il Governo provveda allo stanziamento di maggiori risorse da destinare per far fronte all'eventuale scostamento tra le stime ministeriali di gettito atteso e quello effettivamente riscosso;
    nonostante alcuni significativi correttivi introdotti nel corso dell'esame parlamentare del decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 4, l'intera vicenda ha rappresentato un nuovo grave segnale di disattenzione del Governo nei confronti di un comparto già pesantemente vessato e penalizzato dalla progressione di un'imposizione tributaria che ha visto quasi triplicare il carico fiscale, dalla riduzione delle aliquote agevolative in materia di accise sul gasolio, dal taglio dei fondi per il piano irriguo nazionale e dalla soppressione e dal ridimensionamento di enti di ricerca agricoli: tutti interventi che hanno determinato gravi ripercussioni sia sul versante produttivo che su quello occupazionale dell'intera filiera agricola;
    il futuro del nostro Paese è, invece, indissolubilmente legato allo sviluppo del territorio ed al rafforzamento dell'agricoltura: il comparto agricolo, ancora importante in termini di prodotto interno lordo, è capace di dare risposte economiche e sociali sia in termini occupazionali che di qualità della vita: valorizzare il territorio e potenziare le aree rurali diventa, pertanto, strategico per promuovere lo sviluppo dell'intero Paese, ma sta alla politica riconoscerle il giusto valore;
    il Governo, che con l'Expo 2015 sta facendo dell'agroalimentare il suo punto di forza politico, da una parte continua a sbandierare slogan a favore del ritorno dei giovani in agricoltura, considerata uno dei volani in grado di fare uscire il Paese dalla crisi, e dall'altro vessa gli agricoltori mantenendo la tassazione sul terreno, cioè lo strumento per produrre, a prescindere da quanto lo stesso abbia reso in termini economici o se sia stato vittima di calamità ed eventi atmosferici, come grandinate e alluvioni, o altri eventi incontrollabili, come la diffusione sulle piantagioni di gravi patologie, tutte condizioni per le quali, peraltro, non realizzandosi alcun reddito, non sussisterebbe neanche il presupposto per la tassazione;
    le aziende agricole italiane, che nel solo 2013 hanno visto crollare i loro redditi dell'11 per cento (contro l'1,7 per cento della media dell'Unione europea), saranno chiamate, soprattutto quando si spegneranno i riflettori su Expo 2015, a misurarsi con le sfide del mercato e ad affermarsi sia su quello locale che internazionale. Occorre, pertanto, adottare tutte le misure economiche e fiscali, che tengano conto della specificità del comparto agricolo a partire dall'abrogazione di quelle che lo penalizzano, dando così un forte impulso alle imprese che vi operano e mettendole in grado di realizzare il loro progetto imprenditoriale;
    oggi l'unica definitiva soluzione per salvare il mondo dell'agricoltura, già particolarmente provato, oltre che da una tassazione insostenibile, anche dalla minaccia sul mercato di forti competitor stranieri, capaci di imporre sempre più i propri prodotti sui banchi della distribuzione italiana ed europea, è rappresentata dall'esentare dal pagamento dell'IMU tutti i terreni agricoli, coltivati e non, compresi quelli destinati a pascolo, bosco e selvicoltura, prato permanente, ad aree di interesse ecologico e tutti quelli danneggiati da calamità naturali, limitatamente all'anno successivo a quello in cui si verifica l'evento calamitoso;
    da tempo è, inoltre, atteso un provvedimento che, riconoscendo l'importanza della ricomposizione fondiaria, aggiorni gli estimi catastali che rappresentano la base essenziale di una valutazione per poter superare le disparità oggi presenti tra terreni simili e contigui, ma soggetti a tassazione differenziata,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative normative che rappresentino un forte e tangibile segnale di attenzione verso il comparto primario, a partire dalla totale abolizione di una tassazione patrimoniale sui terreni agricoli e sui fabbricati che siano utilizzati come beni strumentali imprescindibili dall'attività agricola e ad essa connessi e necessari;
   a superare gli attuali criteri di esenzione dall'IMU agricola improntati ad avviso dei firmatari del presente atto unicamente al conseguimento di maggiore gettito erariale, promuovendo una revisione organica dei criteri dell'imponibilità dei terreni agricoli, attraverso un percorso di ampia concertazione con le associazioni agricole e con gli enti locali che conduca all'istituzione di un «tavolo della fiscalità per l'agricoltura», che sappia rivolgere la giusta attenzione alle caratteristiche territoriali e orografiche delle diverse aree montane, alcune delle quali fortemente esposte a fenomeni di dissesto idrogeologico e di spopolamento, e che tenga conto del diverso indice di redditività dei terreni agricoli, anche al fine di assicurare la coerenza della misura dell'imposta con la capacità contributiva dei medesimi;
   ad assumere iniziative per esentare dal pagamento dell'IMU, relativa agli anni 2015 e 2016, tutti i terreni agricoli che abbiano subito grave pregiudizio alla redditività a causa dalla diffusione della fitopatologia denominata xylella fastidiosa di cui al decreto del Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali del 26 settembre 2014, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale 14 ottobre 2014, n. 239, ed a prevedere, per il futuro, l'automatica sospensione della tassazione IMU per tutti quei terreni agricoli affetti da fitopatie diffuse, per l'intero anno d'imposta nel quale si verifica la patologia;
   a provvedere, nell'ambito della procedura di verifica del gettito IMU per l'anno 2014, allo stanziamento di maggiori risorse da destinare per far fronte all'eventuale scostamento tra le stime ministeriali di gettito atteso e quello effettivamente riscosso dai comuni in relazione al nuovo regime di imponibilità dei terreni montani.
(1-00790)
«Franco Bordo, Zaccagnini, Paglia, Scotto».
(13 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    il decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89 ha reintrodotto l'obbligo di pagamento dell'Imposta municipale propria (IMU) per i terreni agricoli al fine di reperire le risorse necessarie per finanziare alcune agevolazioni previste dallo stesso decreto;
    la reintroduzione della suddetta imposta può essere interpretata come una vera e propria patrimoniale sulla terra, suscettibile, tra l'altro, di favorire l'abbandono delle terre da parte degli agricoltori, in assoluta contraddizione con le normative nazionali e soprattutto comunitarie che invece sostengono il ricambio generazionale in agricoltura proprio al fine di limitare i fenomeni di dismissione delle aziende agricole con le conseguenti pericolose speculazioni sui relativi terreni;
    l'applicazione dell'IMU ai terreni agricoli rappresenta un aggravio di imposizione proprio mentre il carico fiscale per il settore agricolo sta assumendo livelli insostenibili. È da tempo che il comparto primario attende una revisione complessiva della fiscalità patrimoniale, una revisione che tenga conto delle difficoltà legate alla conduzione dei terreni e che consideri le specificità del comparto agricolo nazionale, una delle eccellenze più significative del made in Italy;
    coloro che risultano maggiormente colpiti da questa imposta, infatti, non sono i grandi imprenditori agricoli, bensì i piccoli agricoltori o anche i piccoli possessori di terreno, che spesso lo coltivano esclusivamente per ragioni di autoconsumo o semplicemente operano su di esso una costante, ma preziosa, manutenzione;
    imporre una tassa sulla terra significa tassare un bene strumentale senza il quale non si potrebbero ottenere i beni primari, come le derrate agricole necessarie al sostentamento della popolazione, oltre che i numerosi prodotti di qualità che sono venduti anche all'estero con il secondo brand più famoso al mondo ovvero: made in Italy; significa rendere l'agricoltura italiana sempre meno competitiva nei confronti degli altri mercati europei ed extraeuropei, facendola concorrere con prodotti sempre più vantaggiosi dal punto di vista del prezzo finale, inoltre potrebbe significare perdere l'unico presidio ancora reale del territorio italiano, l'agricoltore, obbligandolo al pagamento di un'imposta sullo strumento della produzione a prescindere se un terreno abbia reso o meno in termini economici o se sia stato vittima di calamità atmosferiche, fitopatie o altri eventi non prevedibili;
    i cambiamenti climatici degli ultimi anni hanno provocato un inasprimento ed una maggior frequenza degli eventi climatici avversi, con conseguente ricaduta sulle produzioni e sui beni strumentali delle aziende agricole italiane, specie quelle che fanno agricoltura in pieno campo e nel 2014 si contano ben 31 calamità naturali ufficialmente riconosciute tramite apposito decreto del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali;
    come noto, negli ultimi anni il fondo di solidarietà nazionale, che eroga i contributi compensativi per le aziende agricole situate nei comuni inseriti nei decreti di declaratoria dello stato di calamità naturale, non viene sufficientemente rimpinguato, anche a causa di una diversa politica di gestione del rischio che ha spostato la maggior parte delle risorse finanziarie sulla prevenzione dei rischi agricoli ex ante, anziché sul risarcimento dei danni ex post e la procedura che porta dal verificarsi del danno all'ottenimento del contributo compensativo è oltremodo lunga e farraginosa e può durare anni, al termine dei quali alle aziende agricole viene riconosciuto quasi sempre un contributo sensibilmente minore rispetto allo spettante, accertato e giustificato dalle aziende stesse tramite perizie agronomiche con oneri a loro carico;
    l'IMU sui terreni agricoli potrebbe, inoltre, soffocare i segnali positivi di ripresa che provengono proprio dal settore agricolo, in termini di occupazione e di prodotto interno lordo, e che sono invece il volano di una possibile ripresa economica del nostro Paese;
    la normativa in materia di revisione dei meccanismi di calcolo delle esenzioni è cambiata più volte fino all'approvazione del decreto legge n. 4 del 2015, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 34 del 2015, che ha sostanzialmente confermato il riferimento ai parametri stabiliti dall'Istat al fine di individuare i comuni i cui terreni agricoli risultano esenti dall'imposta, ovvero i comuni classificati come totalmente montani, e quelli i cui terreni agricoli sono esonerati dal versamento solo se posseduti e condotti da coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali, cioè i comuni parzialmente montani;
    è evidente per i firmatari del presente atto di indirizzo che i criteri con i quali viene imposta l'IMU sui terreni agricoli, e quelli sui quali viene calcolata l'esenzione, che fanno riferimento alla cosiddetta «montagna legale dell'ISTAT del 1952», trascurano, anche a causa della loro vetustà, ogni criterio di equità, determinando di fatto delle vere e proprie ingiustizie sociali e andando a colpire la terra e non la redditività dell'agricoltore, senza contare che, attualmente, le rendite catastali non corrispondono più alla reale redditività dei terreni a causa del mancato aggiornamento, da decenni, del catasto agricolo,

impegna il Governo:

   a procedere con urgenza ad una revisione complessiva delle norme in materia di fiscalità rurale e, in particolare, ad esentare i terreni agricoli dall'applicazione dell'imposta municipale propria a decorre dall'anno 2015;
   ad assumere iniziative per rimborsare i proprietari dei terreni agricoli che, in base a quanto previsto dal decreto-legge n. 4 del 2015, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 34 del 2015, abbiano proceduto al pagamento dell'IMU entro il termine del 31 marzo 2015 e ad assumere iniziative per compensare i comuni interessati dal minor gettito derivante dalla mancata entrata tributaria, anche attraverso la riduzione degli sgravi da interessi passivi di banche ed assicurazioni di cui all'articolo 96 del testo unico delle imposte sui redditi approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917;
   ad assumere iniziative per esentare comunque dal pagamento dell'IMU i terreni agricoli posseduti e condotti dai coltivatori diretti e dagli imprenditori agricoli professionali che dichiarino, a decorrere dall'anno 2015, un volume d'affari da attività agricola non superiore a 15 mila euro annui e a quelli ubicati in comuni vittime di calamità naturali verificatesi a partire dall'anno 2014, così come individuati dai relativi decreti del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali;
   a procedere con urgenza all'aggiornamento del catasto agricolo nonché della classificazione dell'Istat dei comuni italiani, tenendo conto dell'evoluzione e della trasformazione del territorio e del settore primario degli ultimi decenni.
(1-00793)
«Massimiliano Bernini, Benedetti, Gagnarli, Gallinella, L'Abbate, Parentela, Lupo, Pesco, Villarosa, Cancelleri, Ruocco, Alberti».
(13 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    il settore agricolo italiano sta vivendo una situazione di disagio economico causato dalla crisi in atto. Nel corso del 2015, a peggiore la situazione economico finanziaria complessiva del settore, hanno contribuito una serie di ulteriori aggravi di ordine fiscale pari nel complesso ad oltre 760 milioni di euro. La parte più cospicua di essi è imputabile all'imposta municipale unica (IMU) sui terreni agricoli, che ha garantito un gettito pari a circa 350 milioni di euro mentre il pagamento dell'IMU e della Tasi sui fabbricati rurali ha garantito un gettito pari a circa 150 milioni di euro;
    attualmente in Italia vi sono settori economici come quello agricolo, rilevanti sotto molteplici aspetti. Sono 2 milioni le imprese agricole complessive del Paese, le quali producono il 9 per cento del prodotto interno lordo italiano che aumenta sino al 14 per cento, considerando anche l'indotto, dando lavoro a 3,2 milioni di lavoratori nella filiera. Il contributo complessivo garantito all'erario è valutato in più di 25 miliardi di euro. Anche a causa di ciò, si sono poste le condizioni per il potenziale abbandono di molti imprenditori agricoli, fatto che avrebbe conseguenze nefaste per l'intera economia. Sono infatti molte le aziende agricole che già vivono tale situazione insostenibile fatta di ricavi che non coprono più l'insieme dei costi produttivi e degli oneri tributari cui devono far fronte poiché la redditività degli imprese agricole è ferma ai livelli del 2005;
    l'assoggettamento dei terreni agricoli all'IMU ha provocato e provoca una crisi delle imprese agricole superiore a quello rilevabile in altri settori, ad esempio in quello edilizio, con una conseguente diminuzione delle imprese operanti e, per quelle operanti, una riduzione della redditività che è causa di licenziamenti ed impoverimento degli addetti nel settore;
    si stima che il reddito derivante dalla vendita delle produzioni agricole non sarebbe sufficiente a far fronte al pagamento dell'imposta, determinando la conseguente cessazione dell'attività ed una elevata svalutazione del valore del bene fondiario;
    ad oggi, la classificazione dei comuni per grado di montanità è ancora quella elaborata dalla «Commissione censuaria» istituita presso il Ministero dell'economia e delle finanze sulla base dell'articolo 1 della legge n. 991 del 1952, recante «Provvedimenti in favore dei territori montani». Quella classificazione ha definito quali fossero i comuni ricadenti in ciascuna delle tre classi (comuni totalmente montani, parzialmente montani e non montani);
    nel corso dell'audizione svoltasi al Senato della Repubblica, la rappresentante dell'Istat ha testualmente affermato che: «La legge n. 142 del 1990, con l'abrogazione degli articoli 1 e 14 della legge n. 991 del 1952, ha di fatto soppresso lo strumento giuridico (Commissione censuaria) che consentiva il periodico aggiornamento della classificazione dei comuni per grado di montanità». In particolare, si ricorda che l'articolo 1 della legge n. 991 del 1952, abrogato dalla citata legge n. 142 del 1990, a sua volta abrogata dal decreto legislativo n. 267 del 2000 (TUEL), disponeva che «la Commissione censuaria centrale compila e tiene aggiornato un elenco nel quale d'ufficio o su richiesta dei Comuni interessati, sono inclusi i terreni montani. La Commissione censuaria centrale notifica al Comune interessato e al Ministero dell'agricoltura e delle foreste l'avvenuta inclusione nell'elenco». Tali funzioni della Commissione censuaria sono state appunto abrogate dalla legge n. 142 del 1990;
    la Commissione censuaria, che era incaricata del periodico aggiornamento della classificazione dei comuni, ha trasmesso periodicamente all'Istat tali dati sino al 2009. Dell'incombenza è stata successivamente incaricata l'Unione nazionale comuni, comunità, enti montani (Uncem);
    sebbene la classificazione, da allora, sia rimasta invariata, nei casi in cui si sono verificate variazioni amministrative, i dati sono stati aggiornati sulla base del criterio di prevalenza territoriale. Di conseguenza, i dati utilizzati per quantificare l'IMU non corrispondono esattamente alla realtà dei territori;
    si ricorda che ai fini dell'ottenimento dell'esenzione dall'imposta si devono indicare dei parametri desumibili da quanto reso pubblico dall'Istat. Come detto, però, gli stessi dirigenti dell'istituto auditi pubblicamente affermano che essi non sono aggiornati e, quindi, non adeguati a valutare l'effettivo valore imponibile desumibile dalla natura e dalla posizione del terreno in base ai quali si determina concretamente il quantum dell'imposizione;
    la normativa attualmente vigente, inoltre, non ha previsto casi di esenzione per quei terreni agricoli colpiti da calamità naturali e per i quali sia stato dichiarato lo stato di calamità naturale e che quindi si troverebbero a dover affrontare difficoltà produttive tali da rendere particolarmente onerosa la corresponsione dell'imposta e le difficoltà conseguenti agli eventi di cui sopra possono protrarsi per diverse stagioni compromettendo le culture per più di un anno;
    non risultano poi esentati dal pagamento dell'imposta i proprietari di terreni agricoli non coltivatori diretti o imprenditori agricoli professionali che intendono affittare i terreni, quindi coloro che non hanno la qualifica professionale. Da ciò discende il fatto che non consentire alcuna esenzione ai proprietari non professionisti che affittano i propri terreni e ciò rischia di far ricadere il costo dell'imposta sul canone di affitto. Si segnala in modo particolare il danno potenziale causato ai giovani che vogliano avviare un'attività produttiva agricola sottoscrivendo un contratto di affitto di un terreno. In questi casi il proprietario potrebbe essere indotto dalla normativa ad aumentare il canone di locazione per compensare indirettamente la maggiore imposizione fiscale a cui sono sottoposti, traslandola sull'imprenditore agricolo;
    la disciplina, inoltre, non prevede l'esenzione per quei terreni agricoli che abbiano subito grave pregiudizio alla redditività aziendale, come effettivamente è accaduto, ad esempio, in seguito alla diffusione del batterio della xylella fastidiosa sulle piante di olivo in Puglia, della «tristezza degli agrumi», del cinipide del castagno, della diabrotica, della mosca del ciliegio e della mosca dell'ulivo, e che tali eventi hanno compromesso seriamente la redditività dell'attività di impresa, per cui risulta onerosa la corresponsione dell'imposta;
    maggiori disponibilità derivanti dall'abrogazione delle disposizioni fiscali a favore del lavoro in agricoltura, recentemente approvate possono consentire ai produttori agricoli di essere destinatari di alcune deduzioni dalla base imponibile del medesimo tributo con riferimento alle assunzioni dei lavoratori agricoli dipendenti sia a tempo indeterminato che a tempo determinato;
    si sottolinea che tali abolizioni sono del tutto controproducenti per il settore agricolo dal momento che vengono ad essere così sottratte ulteriori risorse all'agricoltura,

impegna il Governo:

   a valutare la possibilità di andare via via riducendo fino ad arrivare a una totale abolizione dell'IMU sui terreni agricoli nei casi in cui il terreno e/o i fabbricati siano utilizzati come beni strumentali imprescindibili dall'attività agricola, poiché il terreno agricolo, per chi svolge attività di imprenditore agricolo professionale e di coltivatore diretto, rappresenta un bene strumentale in relazione alla propria attività;
   ad assumere iniziative entro e non oltre il 31 dicembre 2015 affinché il Ministero dell'economia e delle finanze di concerto con il Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali avvii una revisione organica e complessiva delle tariffe d'estimo stabilite, per ciascuna qualità e classe di terreno, sia per il reddito agrario che dominicale, su tutto il territorio, con un'armonizzazione tra colture e tra territori, che tenga conto dell'intervenuta modificazione delle relazioni economiche e competitive sui territori stessi e tra le filiere settoriali, anche attraverso l'attivazione di tavoli di confronto con le organizzazioni agricole e con le rappresentanze degli enti locali;
   ad assumere iniziative per prevedere l'inserimento tra i soggetti esentati dall'IMU anche coloro che, essendo proprietari di terreni agricoli e non rivestendo la qualifica di coltivatori diretti o imprenditori agricoli professionali, affittino i propri terreni a coltivatori diretti o imprenditori agricoli professionali al fine della coltivazione;
   ad effettuare un riesame complessivo della disciplina giuridica afferente l'imposizione fiscale sui terreni agricoli nel territorio nazionale, prevedendo forme più eque e che siano in grado di differenziare effettivamente e nel migliore dei modi i contesti geografici e le zone montane o semi montane in cui si riscontrano effettive difficoltà produttive e una minore redditività;
   a verificare i modi effettivi e le relative conseguenze dell'applicazione delle esenzioni introdotte per i terreni svantaggiati, al fine di prevedere, con una successiva iniziativa normativa, una revisione dei criteri di esenzione dall'IMU che si adatti alla reale situazione dei terreni agricoli, in modo da aver riguardo alle reali condizioni socio-economiche ed agrarie e alle caratteristiche orografiche del suolo, nonché tenendo conto del rischio idrogeologico dei territori e della loro redditività, in modo da assicurare la coerenza della misura dell'imposta con la capacità contributiva dei medesimi terreni;
   a valutare l'opportunità di assumere iniziative per l'applicazione delle esenzioni introdotte anche per quei comuni con un territorio non uniforme, per i quali occorre differenziare anche nel medesimo comune tra zone svantaggiate e non, delimitando le diverse aree e valutando la possibilità di considerare tra le aree oggetto di esenzione o di significativa franchigia anche i siti di interesse comunitario e le aree protette;
   ad assumere iniziative normative per assicurare il rimborso a favore dei contribuenti che hanno effettuato versamenti dell'IMU relativamente ai terreni che risultano imponibili.
(1-00795)
«Rostellato, Artini, Baldassarre, Barbanti, Bechis, Mucci, Prodani, Rizzetto, Segoni, Turco».
(13 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    la vicenda dell'IMU agricola è stata oggetto di diversi interventi legislativi nel corso del 2014 e dell'inizio del 2015. Tali interventi hanno ingenerato sconcerto sia nel mondo agricolo, sia nelle amministrazioni comunali, a causa del sovrapporsi di norme, ciascuna modificativa della precedente, e di modalità applicative non in linea con i principi dello statuto del contribuente, sia per quel che riguarda la non retroattività delle norme fiscali, sia per il fatto che il requisito della montanità, necessario per l'esenzione dal pagamento della nuova imposta, non sembra essere stato applicato in modo da assicurare parità di trattamento fiscale a situazioni territoriali del tutto similari;
    dall'originaria previsione, contenuta nell'articolo 22 del decreto-legge n. 66 del 2014 e nel relativo decreto applicativo (decreto ministeriale del 28 novembre 2014), emanato ad appena due settimane dalla prima scadenza di pagamento, si è passati all'adozione del decreto-legge di mera proroga della scadenza di pagamento (decreto-legge 16 dicembre 2014, n. 185), poi confluito nei commi 692 e successivi dell'articolo 1 della legge di stabilità per il 2015, sino al decreto-legge n. 4 del 2015, nel quale sono stati adottati significativi miglioramenti all'originaria previsione, ma si sono anche gettate le basi per una complessiva rivisitazione dell'imposizione fiscale locale sui terreni agricoli;
    nel decreto legge n. 4 del 2015 , per quanto riguarda i comuni considerati totalmente montani, in cui i terreni agricoli sono completamente esenti, si passa da 1.498 a 3.546 unità; ?per quanto riguarda i comuni parzialmente esenti il numero ammonta a 655 unità; rispetto alla precedente classificazione, oltre 4.000 comuni vedono ora favorevolmente modificata la tassazione IMU dei rispettivi terreni agricoli; l'applicazione dei nuovi criteri di esenzione comporta, a regime dal 2015, un minor gettito, rispetto al precedente provvedimento, di circa 91 milioni di euro (268,7 milioni rispetto ai previsti 350);
    sono stati introdotti due ulteriori contemperamenti, consistenti nell'ampliamento dell'esenzione a favore dei comuni situati nelle isole minori che tiene conto del concetto di marginalità economica, nonché nella previsione di una riduzione dell'imposta di 200 euro dal 2015, in favore di quei terreni posseduti e condotti dai coltivatori diretti e dagli imprenditori agricoli professionali iscritti nella previdenza agricola collocati in aree definite «collina svantaggiata» e ubicati in quei comuni che erano in precedenza esenti e che, nella nuova classificazione Istat, non risultano essere né montani, né parzialmente montani;
    l'IMU, nelle sue varie componenti, trova origine negli articoli 8 e 9 del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23, applicativo della legge n. 42 del 2009 sul federalismo fiscale, a sua volta attuativa dell'articolo 119 della Costituzione, che concerne l'autonomia di entrata e di spesa di comuni, province, città metropolitane e regioni. In tale ambito il gettito, le aliquote (salva l'eventuale determinazione dei minimi e dei massimi) e le esenzioni dovrebbero essere esclusiva competenza dei comuni. È legittimo affermare che l'imposizione dei comuni sui propri terreni (agricoli, urbani, destinati ad attività produttive) costituisce l'archetipo delle imposte che dovrebbero essere integralmente devolute agli enti locali;
    peraltro, le materie dell'agricoltura e della gestione del territorio risultano, sia nell'attuale ordinamento che in quello che si prefigura nella riforma costituzionale in corso di esame, di competenza regionale; l'IMU agricola, così come impostata sia dall'articolo 22 del decreto-legge n. 66 del 2014, che dal decreto-legge n. 4 del 2015, si configura, invece, come una sorta di tassa patrimoniale basata su un reddito presunto derivato da valori catastali, in contrasto con i principi di territorialità, sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza che sono contemplati nella legge n. 42 del 2009;
    già l'articolo 29 della legge n. 142 del 1990 sulle autonomie locali demandava alle regioni la definizione di aree montane, consentendo di modulare l'imposizione fiscale sulla base delle specificità dei diversi territori, della redditività delle colture, dell'isolamento e del ritardo di sviluppo di talune aree del Paese; viceversa, i criteri adottati su indicazione Istat nel decreto-legge n. 4 del 2015, per stabilire il regime di esenzione, evidenziano una stortura di fondo, consistente nel fatto che il regime di esenzione non tiene conto della realtà economica e sociale, delle specificità dei diversi territori, della redditività delle colture, dell'isolamento e del ritardo di sviluppo di talune aree del Paese, ma si conforma a criteri meramente statistici;
    l'agricoltura italiana è uno dei comparti più dinamici dell'economia nazionale e la sua vitalità sta avendo effetti estremamente positivi sulla bilancia commerciale e sull'occupazione. Nell'attuale fase economica depressiva il comparto agricolo nazionale sta, quindi, svolgendo una funzione essenziale in termini produttivi e di rilancio economico-sociale; non è, pertanto, opportuno gravarlo con un'imposta che non tenga conto delle diverse realtà socio-economiche;
    nel corso del dibattito sul decreto-legge n. 4 del 2015 sono stati accolti dal Governo diversi ordini del giorno volti a riportare l'applicazione dell'IMU agricola nel suo ambito proprio di imposta devoluta agli enti territoriali nel se, nel come e nel quantum, nonché a sopprimere il taglio dei trasferimenti ai comuni individuando forme di copertura alternative: gli ordini del giorno nn. 9/1749/9 e 9/1749/5 sulle misure correttive volte superare la disparità di trattamento tra terreni agricoli ubicati in territori contigui e affini per caratteristiche morfologiche ed economiche, n. 9/2915/59 per l'adozione di criteri applicativi che tengano conto dell'indice di spopolamento del basso reddito pro capite di talune aree e n. 9/2679-bis-B/185 per l'introduzione di criteri premiali per i terreni in attualità di coltura e sanzionatori per i terreni lasciati incolti ovunque situati, da adottare a discrezione dei comuni,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative normative per abrogare, a decorrere dal 2015, la previsione dell'articolo 22, comma 2, del decreto-legge n. 66 del 2014, così come modificata dal decreto-legge n. 4 del 2015, concernente l'applicazione dell'imposta municipale propria (IMU) sui terreni agricoli, individuando, nell'ambito dei risparmi di bilancio o mediante nuove diverse entrate, le necessarie misure di compensazione;
   ad assumere iniziative normative dirette a devolvere agli enti territoriali la possibilità di valutare se introdurre o meno l'imposta municipale propria sui terreni agricoli, come componente della local tax;
   a modificare, in concorso con le regioni, le modalità applicative del requisito di montanità, secondo criteri che tengano conto della marginalità e della produttività delle aree, del reddito pro capite, della necessità di applicare la parità di trattamento tra terreni agricoli ubicati in territori contigui e affini per caratteristiche morfologiche ed economiche;
   ad assumere iniziative normative generali, relative alla tassazione dei terreni agricoli, nelle quali sia prevista la possibilità per gli enti locali di modificare in termini premiali o sanzionatori le aliquote dell'IMU, introducendo o incrementando l'imposta a carico dei terreni agricoli lasciati incolti, fatti salvi i riposi colturali e le aree destinate a bosco e a pascolo, o a carico dei terreni abbandonati, anche sotto il profilo della mancata esecuzione delle opere di tutela della pubblica incolumità o di sicurezza idrogeologica posti dalla legge a carico dei proprietari, o viceversa introducendo nuove o ulteriori riduzioni in favore dei terreni in attualità di coltura o dei terreni non coltivati, ma la cui corretta conduzione costituisca presidio contro il dissesto idrogeologico.
(1-00797)
«De Girolamo, Pagano, Cera, Dorina Bianchi, Bosco, Tancredi, Minardo, Sammarco».
(13 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    l'IMU sui terreni agricoli è l'ennesima vessazione e l'ennesima tassa, ma soprattutto è una nuova difficoltà per i contribuenti e per i comuni;
    il decreto-legge 24 gennaio 2015 n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2015, n. 34 recante disposizioni urgenti in materia di esenzione IMU e proroga di termini concernenti l'esercizio della delega in materia di revisione del sistema fiscale, ridefinisce i parametri per l'esenzione dall'IMU sui terreni agricoli – di cui alla lettera h), comma 1, dell'articolo 7 del decreto legislativo n. 504 del 1992 (decreto ICI) – ampliando la platea degli aventi diritto precedentemente individuati dal decreto ministeriale del 28 novembre 2014 emanato in applicazione del comma 2 dell'articolo 22 del decreto-legge n. 66 del 2014 cosiddetto decreto Irpef o meglio conosciuto come bonus 80 euro che modificava il comma 5-bis dell'articolo 4 del decreto-legge n. 16 del 2012, cosiddetto Decreto semplificazioni;
    il citato decreto ministeriale modificava la previgente disposizione per la quale erano esenti fino al 2013 dal pagamento dell'ICI e poi dell'IMU i comuni specificatamente individuati dalla circolare del Ministero dell'economia e delle finanze n. 9 del 1993 emanata in applicazione del suddetto articolo 7 del decreto legislativo n. 504 del 1992;
    si ritiene necessario fare una breve cronistoria dell'imposizione IMU sui terreni agricoli. Il decreto legislativo 504 del 1992 cosiddetto decreto ICI disciplinava l'esenzione dal tributo locale per i terreni agricoli. Successivamente, è stata emanata una circolare del Ministero dell'economia e delle finanze n. 9 del 1993 con la quale si identificavano i comuni suddivisi per provincia di appartenenza sul cui territorio i terreni agricoli erano totalmente o parzialmente esenti prima dall'ICI e dall'IMU poi;
    successivamente il decreto-legge n. 16 del 2012, cosiddetto «Decreto semplificazioni», prevedeva che con un apposito decreto ministeriale venissero individuati sia i comuni nei quali dal 2014 si applicasse l'esenzione per i terreni agricoli, sulla base dell'altitudine del comune, così come riportata nell'elenco ISTAT, che i soggetti che li posseggono siano essi coltivatori diretti o imprenditori agricoli professionali iscritti alla previdenza agricola. Anche la circolare n. 3 del dipartimento delle finanze del 18 maggio 2012 aveva precisato che il possesso di terreni agricoli in aree montane o di collina, facendo ancora riferimento alla circolare n. 9 del 1993, non comportava il pagamento dell'IMU. Tale interpretazione, poi, veniva confermata anche nella successiva circolare n. 5 del 2013 dell'Agenzia delle entrate dove si specifica che tutti i terreni incolti montani o di collina sono esenti da IMU, a prescindere dalla qualificazione agricola degli stessi;
    le cose vengono radicalmente cambiate con il decreto-legge n. 66 del 2014, cosiddetto «decreto Irpef» meglio conosciuto come decreto del «bonus degli 80 euro». Questo all'articolo 22 prevedeva l'emanazione di un decreto ministeriale, che individuasse i criteri con i quali si potessero identificare i comuni nei quali, a decorrere dall'anno di imposta 2014, si dovesse applicare l'esenzione IMU per i terreni agricoli sulla base della loro altitudine, diversificando eventualmente tra possessori che fossero coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali, iscritti nella previdenza agricola e gli altri soggetti diversi. Questa operazione doveva garantire alle casse dello Stato un maggior gettito complessivo annuo non inferiore a 350 milioni di euro, già a decorrere dal 2014;
    il decreto ministeriale emanato in attuazione della suddetta disposizione, prevedeva, quindi, tre fasce di comuni alle quali applicare l'esenzione secondo il criterio dell'altitudine dal centro ovvero della sede comunale. Sopra i 600 metri tutti i comuni erano esenti, tra i 281 metri e i 600 metri erano esenti dall'imposta i terreni agricoli posseduti da coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali, mentre al di sotto dei 280 metri erano tutti soggetti passivi di imposta;
    le suddette disposizioni avevano portato alla paradossale situazione che terreni agricoli ubicati al di sopra dei 600 metri ma, con la sede del comune al di sotto dei 600 metri venissero considerati, invece, passivi di imposta anziché esenti nonostante innegabilmente montani;
    a seguito della confusione generata da questi nuovi criteri, dal brevissimo lasso di tempo intercorrente tra la data dell'emanazione del decreto ministeriale e la data del versamento della rata unica per l'anno 2014 e gli innumerevoli interventi dei parlamentari e delle associazioni di categoria interessate, il 16 dicembre 2014, giorno della scadenza, veniva pubblicato ed entrava immediatamente in vigore un nuovo decreto-legge il n. 185 del 2014 che prorogava al 26 gennaio 2015 il pagamento della rata unica dell'IMU;
    infine, il 1o gennaio 2015 entrava in vigore il comma 692 dell'articolo 1 della legge di stabilità per l'anno 2015, che praticamente assorbiva il decreto-legge n. 185 del 2014, traslando in esso la data del 26 gennaio 2015 quale termine per il versamento della rata unica per il 2014 dell'IMU;
    il decreto n. 4 del 2015 che apporta una doverosa revisione dei criteri di esenzione e modifiche preferibili rispetto al decreto ministeriale del 28 novembre 2014, contiene misure che non sono ancora sufficienti per eliminare le storture di questa imposizione fiscale;
    con i nuovi criteri del decreto-legge n. 4 del 2015 sono circa 3.546 i comuni che saranno totalmente esenti – con il decreto ministeriale 28 novembre 2014 erano 1.498 – e 655 quelli parzialmente esenti ai quali si aggiungono circa altri 1.600 comuni tra esenzione totale, esenzione parziale e franchigia, ma, comunque non si arriva ancora ai 6.103 comuni che erano invece esenti fino al 2013;
    non si possono rastrellare milioni di euro a danno dell'agricoltura e dei contribuenti tassando uno strumento di lavoro, poiché il terreno agricolo è un imprescindibile bene strumentale dell'impresa ed è sostanzialmente lo strumento di guadagno. Quando si mette mano alla proprietà lo si fa con una certa ratio e con determinati punti di riferimento, cosa che questo Governo a giudizio dei firmatari del presente atto di indirizzo ha dimostrato di non saper, o peggio non voler fare;
    l'agricoltura è uno dei pilastri fondanti della economia e questa imposizione è iniqua e vessatoria, va abolita totalmente al fine di evitare un'ulteriore appesantimento fiscale sul comparto agricolo e agroalimentare, già duramente penalizzato da precedenti interventi fiscali;
    gli interventi fiscali in agricoltura hanno portato a circa 1 miliardo di euro di imposizioni come, per fare alcuni esempi, l'imposta TASI sui fabbricati rurali e strumentali, le rivalutazioni dei redditi dominicali, le norme IRPEF per la mancata coltivazione dei fondi, la tassazione sulle agro energie in campo agricolo e la riduzione dei consumi medi standardizzati di gasolio da ammettere all'impiego ad aliquota agevolata in agricoltura;
    l'elenco dell'ISTAT sul quale si basa l'esenzione è elaborato su di una relazione di «montanità» che risale ad una legge del 1952 ed è congelata a tale data incurante delle modificazioni normative intervenute al riguardo per effetto della legislazione successiva e quindi non più corrispondente alla realtà economica attuale. La stessa ISTAT ha ricordato che ad oggi la classificazione dei comuni per grado di montanità è ancora quella elaborata dalla commissione censuaria istituita presso il Ministero dell'economia e delle finanze e soppressa dalla legge 142 del 1990 che aveva la funzione di aggiornare periodicamente la classificazione dei comuni per grado di montanità;
    non viene applicata l'esenzione dall'Imu sui terreni agricoli a coloro che hanno i terreni in zone colpite da calamità naturali (alluvioni, terremoti, valanghe) o da avversità atmosferiche (gelo, grandine, ghiaccio, siccità, piogge e altro) e che quindi si trovano a dover affrontare difficoltà produttive tali da rendere particolarmente onerosa la corresponsione dell'imposta. Quando si verifica una calamità, il danno spesso non riguarda un solo anno, una sola stagione o un certo periodo di tempo, visto che può accadere che, a seguito di quella calamità, le colture siano completamente danneggiate per qualche anno. Quindi non prevedere esenzioni per chi ha perso il raccolto e si vede compromesso il bene strumentale per eccellenza, la terra, ovvero la sua fonte primaria di guadagno, è una iniquità inaccettabile; non viene assicurata la coerenza della misura dell'imposta con la capacità contributiva;
    non vengono esentati dal pagamento dell'imposta i proprietari di terreni agricoli non coltivatori diretti o imprenditori agricoli professionali che intendono affittare i terreni. Non esentare i proprietari non professionisti che affittano terreni rischia di far ricadere il costo dell'imposta sul canone di affitto;
    l'IMU sui terreni agricoli è una nuova patrimoniale che si aggiunge alle odiate IMU e TASI, alle tasse sulle case e sui capannoni. È un'imposta che mortifica e svilisce il settore agricolo, gli agricoltori e il loro lavoro, penalizzando quei territori che molto spesso partono già svantaggiati. In tutta Europa, tranne che in Francia – ma comunque per delle somme di poco conto – nessun Paese applica l'imposta sui terreni agricoli;
    è doveroso ricordare che il TAR del Lazio il 17 giugno 2015 deciderà nel merito sui ricorsi presentati che impugnano sia il decreto ministeriale del 28 novembre 2014 che il decreto-legge n. 4 del 2015 che individuano profili di illegittimità per vari motivi: in primis per la violazione del principio di irretroattività delle norme tributarie, per l'irragionevolezza della violazione dell'articolo 81 della Costituzione che riduce le assegnazioni del fondo di solidarietà comunale, quindi entrate certe, sostituendole con entrare future e incerte e poi per l'inattendibilità e l'irragionevolezza dei criteri individuati per determinare il carattere montano dei comuni. Il 17 giugno è il giorno successivo alla scadenza dell'acconto dell'IMU per il 2015 (16 giugno). La decisione del TAR potrebbe rimettere in discussione tutto. Una bocciatura nel merito farebbe cadere anche i pagamenti del 2014 creando caos su caos. Allora ci si chiede se non sia opportuno azzerare tutto e tornare alla situazione ante decreto n. 66 del 2014;
    prima a pagare l'ICI erano in pochi, si ricorda che fino al 2013 erano esenti 6.103 comuni, adesso viene ridotta la platea degli esenti e il Governo si giustifica dicendo che non è stata introdotta una nuova tassa, ma viene estesa una già esistente ma questo, comunque, vuol dire introdurla per chi fino al 2013 era esente;
    i comuni sono stati completamente esclusi nel percorso di ridefinizione dei presupposti dell'Imu. I comuni sono spettatori passivi, ma soprattutto svolgono il ruolo di esattori delle tasse verso quei contribuenti ignari del fatto che le imposte che pagheranno non serviranno per finanziare e migliorare i servizi locali, questo in violazione del più basilare principio federalista del vedo, pago, voto. Qui si ripropone lo schema tipico di questo Governo, che, a giudizio dei firmatari del presente atto di indirizzo, scarica gli adempimenti più impopolari su altri, cioè sindaci, presidenti di provincia e governatori regionali. Un Governo che trae le risorse costringendo gli amministratori degli enti periferici a tagli su servizi essenziali come sanità, assistenza e trasporto locale. È proprio in questo tipo di imposte invece che vanno coinvolti gli amministratori locali perché conoscono il loro territorio e possono stabilire con maggiore certezza quali sono i terreni agricoli disagiati o con minore capacità reddituale;
    con l'Imu sono stati anche disattesi dei principi costituzionali, quali l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, il rispetto della capacità contributiva e il criterio di progressività nell'imposizione fiscale;
    l'Imu sui terreni agricoli genera una concorrenza sleale tra possessori di terreni agricoli in comuni parzialmente montani, nei quali sono esentati solo i coltivatori diretti e gli imprenditori agricoli professionali rispetto a quelli montani, che sono totalmente esenti. Tali misure risultano in evidente contrasto con l'articolo 53 della Costituzione, in quanto si creano delle disfunzioni applicative dell'imposta e non si tiene conto del fatto che il principio costituzionale, dettato appunto dall'articolo 53 della Costituzione, prevede che tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva e quindi non sulla base di una mera collocazione territoriale. Esistono, infatti, sul territorio nazionale, aree geografiche classificate non montane o parzialmente montane che incontrano difficoltà produttive tali da rendere particolarmente onerosa la corresponsione dell'imposta;
    l'IMU rappresenta l'ennesima «mini patrimoniale» a carico delle classi economicamente e socialmente più disagiate, di cittadini appartenenti alle fasce più deboli, che vedono nella coltivazione di un piccolo appezzamento un mezzo di mera sopravvivenza;
    l'eccessiva tassazione sui terreni agricoli si ripercuoterà con maggiormente sul piccolo agricoltore il quale, invece, grazie alla sua attività agricola, presiede e mantiene un territorio. Se di tassa pesantemente i terreni agricoli senza tenere in debita considerazione tutti gli aspetti si andrà incontro ad un progressivo abbandono delle terre quando invece è necessario muoversi esattamente nella direzione opposta ovvero verso una valorizzazione delle attività agricole anche non professionali. La riduzione dei livelli di tassazione per il settore agricolo è l'unico mezzo per evitare un ulteriore abbandono dei terreni soprattutto quelli più a rischio,

impegna il Governo:

   a prendere in considerazione la possibilità di una abolizione totale dell'IMU a partire dal 2015 o in alternativa ad assumere iniziative per una revisione totale dell'imposizione che preveda criteri più equi e che tenga in considerazione la capacità reddituale dei terreni stessi, al fine di non gravare ulteriormente sul settore agricolo già fortemente colpito dalla crisi;
   a prevedere iniziative volte ad esentare dal pagamento dell'imposta anche coloro che posseggono e conducono terreni agricoli siti nei comuni parzialmente montani che non hanno la qualifica professionale di coltivatore diretto o imprenditore agricolo;
   ad assumere iniziative normative volte ad esentare dal pagamento dell'imposta i terreni agricoli che sono stati colpiti da calamità naturali o da avversità atmosferiche per le quali è stato dichiarato lo stato di emergenza e/o di calamità naturale che rischiano altrimenti di dover corrispondere l'Imu;
   ad assumere iniziative per esentare dal pagamento quei comuni che pur ricadenti nelle province considerate «totalmente montane» secondo le disposizioni della legge n. 56 del 2014 (cosiddetto Delrio), sono stati classificati dall'elenco ISTAT parzialmente montani e a studiare le necessarie iniziative al fine di rivedere la qualifica dei suddetti comuni, e di conseguenza l'elenco elaborato dall'ISTAT, in modo da classificare come totalmente montani tutti i comuni ricadenti nelle province di cui al secondo periodo del comma 3 dell'articolo 1 della legge n. 56 del 2014;
   a prevedere iniziative affinché i criteri di esenzione dall'IMU sui terreni agricoli siano sottoposti alla Conferenza Stato-città a cui venga delegato il compito di individuare le aree territoriali da assoggettare o meno al pagamento dell'imposta IMU, tenendo conto anche dell'eventuale esistenza di zone svantaggiate;
   ad assumere iniziative per sospendere il pagamento dell'acconto per il 2015 sui terreni agricoli in attesa della sentenza di merito del TAR del Lazio del 17 giugno.
(1-00808)
«Guidesi, Busin, Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Caparini, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Rondini, Saltamartini, Simonetti».

MOZIONI IN MATERIA DI POLITICHE A FAVORE DELLA NATALITÀ

   La Camera,
   premesso che:
    il fenomeno della scarsa natalità in Italia ha assunto, come noto, dimensioni molto preoccupanti;
    i dati ufficiali sulle nascite dimostrano un costante calo delle stesse dal 2010 al 2013, anno in cui è stato segnato un nuovo minimo storico, essendo stati rilevati solo 510.924 nati;
    contestualmente, si assiste al progressivo inasprimento di un fenomeno connesso a quello della denatalità: il processo di invecchiamento generale della popolazione. Nell'ultimo rapporto Istat del 2014, si stima che dal 2011 al 2041 la proporzione di ultrasessantacinquenni per 100 giovani con meno di 15 anni risulterà più che raddoppiata, passando da 123 a 278 unità;
    dati particolarmente allarmanti, diffusi recentemente da notizie di stampa, dimostrano che da tale trend non è escluso, ormai, neanche il Sud Italia, ove il problema sembra assumere contorni particolarmente critici, tanto da aver fatto parlare di un vero e proprio processo di «desertificazione»;
    non vi è dubbio che i fenomeni in esame, ove trovassero conferma nei prossimi anni, rischiano di mettere in crisi la sostenibilità stessa del sistema Paese e, in particolare, del sistema di welfare, comprensivo sia del settore previdenziale e sociale che del settore sanitario;
    a causare i citati fenomeni concorrono sia fattori sociali che economici;
    per le suddette ragioni, vanno considerate con grande favore tutte le iniziative che il Governo ha già adottato e vorrà adottare per contrastare il richiamato trend della natalità, in quanto un Paese senza nascite è un Paese senza futuro;
    in particolare, tra le richiamate iniziative, assumono significativo rilievo le seguenti:
     a) previsione, nell'ambito del disegno di legge di stabilità per il 2015, della concessione di un assegno mensile di 960 euro annui per ogni nuovo nato o adottato nel periodo compreso tra il 2015 e il 2017, per le famiglie in possesso di determinati requisiti di reddito, secondo modalità attuative da individuarsi mediante decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro della salute. Tale misura si inserisce nell'ambito più generale delle iniziative a favore della famiglia, cui, peraltro, il medesimo disegno di legge di stabilità riserva uno stanziamento aggiuntivo di 298 milioni di euro per il 2015;
     b) istituzione, presso il Ministero della salute, di un tavolo consultivo in materia di tutela e conoscenza della fertilità e prevenzione delle cause di infertilità, al fine di fornire, allo stesso Ministero, un qualificato supporto per approfondire le tematiche in questione e per proporre adeguate soluzioni, anche normative;
     c) la costante attenzione manifestata nei confronti della complessa problematica riguardante la procreazione medicalmente assistita, anche con riferimento, nell'ultimo anno, a quella di tipo eterologo, in conseguenza della nota sentenza della Corte Costituzionale che ne ha annullato il divieto,

impegna il Governo:

   a proseguire nel percorso già intrapreso di promozione e adozione di misure a sostegno della natalità e della famiglia;
   ad avviare sin da subito le iniziative affinché sia adottato il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri recante le misure attuative della norma sull'assegno per i nuovi nati o adottati;
   a valutare ogni possibile ulteriore iniziativa affinché la predetta misura dell'assegno per i nuovi nati o adottati non rimanga una iniziativa una tantum, ma si configuri, invece, come intervento permanente a favore delle famiglie e dei nuovi nati.
(1-00659)
«De Girolamo, Dorina Bianchi, Pizzolante, Tancredi, Saltamartini, Misuraca, Cicchitto, Pagano, Calabrò, Roccella, Piso, Scopelliti, Bernardo, Sammarco, Vignali, Bosco, Minardo, Garofalo, Piccone».
(11 novembre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    l'ultima indagine Istat del 2014 sulla situazione delle famiglie italiane registra un sistema di welfare costretto a fronteggiare numerosi elementi di criticità, anche in conseguenza della crisi economica che ha attraversato il nostro Paese. In un contesto di riduzione dei fondi destinati alle politiche sociali, da un lato, e di crescenti condizioni di disagio economico delle famiglie, dall'altro, si dipanano gli effetti delle trasformazioni demografiche e sociali, caratterizzate dall'accelerazione del processo di invecchiamento della popolazione e da mutamenti della struttura delle famiglie;
    in particolare, l'indagine Istat conferma quanto sia bassa la propensione ad avere figli. Mentre cresce la speranza di vita alla nascita, giunta a 79,6 anni per gli uomini e a 84,4 anni per le donne (rispettivamente superiore di 2,1 anni e 1,3 anni alla media dell'Unione europea del 2012), allo stesso tempo il nostro Paese è caratterizzato dal persistere di livelli molto bassi di fecondità, in media 1,42 figli per donna nel 2012 (media dell'Unione europea 1,58);
    sono, quindi, in calo le nascite, per la prima volta anche fra le madri straniere, che finora hanno tenuto alto il livello demografico del nostro Paese. Cinquemila neonati in meno nel 2014 rispetto al 2013. Si legge nel rapporto che il tasso di natalità è «insufficiente a garantire il necessario ricambio generazionale». La popolazione residente ha raggiunto i 60 milioni 808 mila residenti (compresi 5 milioni 73 mila stranieri) al 1o gennaio 2015, mentre i cittadini italiani continuano a scendere – come ormai da dieci anni – e hanno raggiunto i 55,7 milioni (-125 mila rispetto al 2013);
    la vita media in continuo aumento, da un lato, e il regime di persistente bassa fecondità, dall'altro, hanno fatto conquistare a più riprese all'Italia il primato di Paese con il più alto indice di vecchiaia del mondo: al 1o gennaio 2013 nella popolazione residente si contano 151,4 persone di 65 anni e oltre ogni 100 giovani con meno di 15 anni;
    questa misura rappresenta il «debito demografico» contratto da un Paese nei confronti delle generazioni future, soprattutto in termini di previdenza, spesa sanitaria e assistenza. Trent'anni di tale evoluzione demografica consegnano un Paese profondamente trasformato nella sua struttura e nelle sue dinamiche sociali e demografiche;
    forse il dato più allarmante registrato dall'indagine Istat 2014 è il seguente: l'Italia occupa la penultima posizione tra i Paesi europei per le risorse dedicate alle famiglie, per le quali lo stanziamento ammonta al 4,8 per cento della spesa totale erogata dallo Stato. Senza voler arrivare ai dati dei Paesi del Nord Europa, è chiaro a tutti che la coincidenza tra politiche per la famiglia e politiche a favore della natalità è un nodo fondamentale che non viene affrontato da troppo tempo dal Governo italiano;
    eppure molti sarebbero i fronti sui quali agire per favorire natalità e famiglia: parole come servizi per l'infanzia, esclusione sociale, povertà minorile, abbandono scolastico, disoccupazione, non solo stanno attraversando negli ultimi anni un periodo buio senza risposte, ma di fatto scoraggiano le giovani coppie italiane a creare una famiglia;
    infatti il Governo attuale non può pensare di continuare a «vivere» di rendita su quanto fatto dai Governi precedenti per le politiche familiari. Riconoscendo che nella legge di stabilità per il 2015, all'articolo 1, comma 131, si istituisce nello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze un fondo per interventi a favore della famiglia di 112 milioni di euro per il 2015, è chiaro che la carenza non risiede solo nei fondi, ma sul loro impegno e sul feedback ricevuto nell'impiego di spesa;
    anche se negli ultimi anni il sistema si era potenziato grazie al piano straordinario di sviluppo dei servizi socio-educativi per la prima infanzia, varato nel 2007 e sostenuto con 446 milioni di euro, di cui il 42 per cento destinato alle regioni meridionali a scopo perequativo, secondo diversi osservatori, tuttavia, la spinta propulsiva di tale piano si sarebbe ormai sostanzialmente esaurita;
    manca in Italia – a oltre 40 anni dalla legge istitutiva dei nidi d'infanzia, la n. 1044 del 1971 – un quadro di riforma organica dei servizi 0-6 anni, che ne identifichi i requisiti fondamentali, mettendo al centro i diritti dei bambini alla cura e all'educazione. Come scritto dal Gruppo nazionale nidi e infanzia del 2012, «la crisi ha già colpito e rischia di colpire ulteriormente la qualità di molti servizi e anche le eccellenze rischiano seriamente di non reggere di fronte alla prospettiva di una indiscriminata caduta di attenzione politica». Mettere in crisi il sistema dei servizi per l'infanzia vuol dire mettere in crisi la donna che lavora e che, fino all'ingresso dei figli alla scuola primaria, dovrà barcamenarsi per mantenere un lavoro o, come le statistiche dicono, sarà costretta a rinunciarvi;
    gli obiettivi fissati a Lisbona prevedono che il 33 per cento dei minori al di sotto dei 3 anni di età possa usufruire del servizio di asilo nido. Dai dati risulta che in media nel nostro Paese solo il 18,7 per cento dei bambini di 0-2 anni frequenta un asilo nido pubblico o privato;
    l'offerta di asili nido e di servizi integrativi per la prima infanzia mostra ampi divari territoriali: infatti, i dati evidenziano differenze estremamente rilevanti. Tra le regioni che vedono una situazione sfavorevole in termini di percentuale di comuni coperti la Calabria spicca con il valore più basso (13 per cento). I bambini che usufruiscono di asili nido comunali o finanziati dai comuni variano dal 3,5 per cento al Sud al 17,1 per cento al Nord-Est, mentre la percentuale dei comuni che garantiscono la presenza del servizio varia dal 24,3 per cento al Sud all'82,6 per cento al Nord-Est. Le regioni del Sud in cui si osservano le percentuali più basse di bambini che usufruiscono dei servizi all'infanzia sono la Campania (1,9 per cento) e la Calabria (2,4 per cento). Spiccano, invece, i valori di questo indicatore relativo alla presa in incarico degli utenti, per l'Emilia-Romagna (24,4 per cento), la provincia autonoma di Trento (19,5 per cento) e l'Umbria (19,1). Le regioni che registrano valori più alti per l'indice di copertura del servizio sono il Friuli Venezia Giulia, l'Emilia-Romagna e la Valle d'Aosta;
    i comuni svolgono un ruolo centrale nella gestione della rete di interventi e servizi sociali sul territorio che vengono destinati al sostegno alle famiglie per i bisogni connessi alla crescita dei figli, all'assistenza agli anziani e alle persone con disabilità, o al contrasto del disagio legato alla povertà e all'emarginazione. Le capacità di spesa dei comuni, del resto, sono fortemente condizionate dai vincoli posti dal patto di stabilità interno, dalla crisi economica e dalle riduzioni dei trasferimenti statali destinati a finanziare le politiche sociali: tutti fattori ancora senza risposta;
    non solo: come evidenziato in altri atti d'indirizzo parlamentare, in Italia il sistema fiscale si ostina ad operare come se la capacità contributiva delle famiglie non fosse influenzata dalla presenza di figli e dall'eventuale scelta di uno dei due coniugi di dedicare parte del proprio tempo a curare, crescere ed educare i figli. Investire nelle politiche familiari significa, pertanto, investire sulla qualità della struttura sociale e, di conseguenza, sul futuro stesso della società;
    accade poi che quanto di buono era stato fatto è, invece, smantellato dalle ultime posizioni governative. Basti pensare al seguente esempio: il decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 185, pubblicato nella Gazzetta ufficiale 6 luglio 2000, n. 156, in attuazione dell'articolo 45, comma 1, della legge 17 maggio 1999, n. 144, prevedeva incentivi per l'autoimprenditorialità e l'autoimpiego, al fine di favorire l'ampliamento della base produttiva e occupazionale, nonché lo sviluppo di una nuova imprenditorialità nelle aree economicamente svantaggiate del Paese. La misura è stata il principale strumento di sostegno alla realizzazione e all'avvio di piccole attività imprenditoriali da parte di disoccupati o persone in cerca di prima occupazione, per lo più giovani e donne. In attuazione del citato decreto legislativo sono stati erogati nell'arco temporale 2000-2012 incentivi per complessivi circa 4 miliardi di euro, che hanno consentito l'avvio di nuove iniziative imprenditoriali, con conseguente creazione di un significativo numero di posti di lavoro per un totale di circa 180 mila nuovi occupati, oltre all'occupazione aggiuntiva creata dall'indotto di tali attività. In particolare, una percentuale significativa degli aspiranti beneficiari sono stati donne e giovani (rispettivamente il 44 per cento e il 51 per cento del totale) e non c’è un solo comune del Sud Italia da cui non risulti pervenuta almeno una domanda, con effetti enormi sull'occupazione, senza contare gli enormi benefici nell'indotto. Eppure, il Governo ha deciso di non rifinanziare la misura di autoimpiego, togliendo la possibilità a molti giovani lavoratori di aprire un'attività a sostegno della propria famiglia;
    questo sembra ancor più paradossale se si pensa che in Italia giacciono inutilizzati, dal 2007, circa 20 miliardi di euro di fondi europei destinati allo sviluppo dell'occupazione giovanile,

impegna il Governo:

   a promuovere l'implementazione delle risorse destinate al fondo nazionale delle politiche sociali, verificandone l'equa ripartizione, ponendo attenzione alla reale ricaduta che tali risorse hanno sulle famiglie, assicurando che in tutti i comuni italiani vi sia la medesima accessibilità ai servizi e realizzando una rete di monitoraggio su quanto erogato e quanto investito relativamente a ciascun ente locale;
   a realizzare un'indagine ministeriale che quantifichi puntualmente l'effettiva domanda di servizi di asili nido, in modo tale da predisporre una programmazione di nuovi posti, in funzione della richiesta effettiva e non soltanto in base al numero complessivo dei bambini;
   ad intervenire con un sistema organico di politiche economiche, al fine di escludere dal patto di stabilità gli interventi pubblici relativi al funzionamento dei servizi per la famiglia e istituire meccanismi stabili di finanziamento pubblico, che prevedano la compartecipazione dei diversi livelli di governo alla spesa per i servizi per l'infanzia e per le scuole dell'infanzia.
(1-00791)
«Carfagna, Centemero, Palese, Prestigiacomo, Milanato, Calabria, Polverini».
(13 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    secondo l'ultimo rapporto del Censis, l'Italia ha un tasso di natalità tra i più bassi d'Europa, pari a 9,0 per mille abitanti;
    nell'anno 2013 il tasso di natalità è difatti sceso all'8,5 per cento, registrando il minimo storico: 514.308;
    la scarsa natalità e il relativo declino demografico che ne consegue sono il nemico occulto, ancora troppo sottovalutato, della sostenibilità del welfare futuro;
    dal 1995 fino al 2008 la crescita della natalità si è per gran parte realizzata grazie ai flussi migratori (aumento del numero di donne fertili e propensione culturale favorevole alla famiglia con figli);
    dopo il 2008, anche l'apporto derivante dalle migrazioni si è attualmente attenuato, poiché l'età media delle donne migranti in età fertile si è spostata nella fascia di età 30-40 anni, contro quella di 20-30 degli anni scorsi;
    sono diversi i fattori che hanno determinato la denatalità, in particolare la diminuzione delle donne fertili italiane dopo la progressiva uscita dalla fase riproduttiva delle baby-boomer, che hanno rinviato la maternità ad un'età più matura;
    la sfavorevole congiuntura economica evidenzia come rispetto a vent'anni fa la donna oggi lavori per necessità, e l'impossibilità di sostenere la propria famiglia, basandosi su un solo reddito, rimanda di fatto il più possibile il momento di una gravidanza, anche per allontanare il rischio di perdere il posto di lavoro;
    la crisi economica ha fissato la tendenza dei giovani di spostare in avanti la maternità, dovuta a una procrastinazione generale dei momenti di passaggio alla vita adulta: uscita dalla casa dei genitori, indipendenza, ingresso nel mondo del lavoro, autonomia economica e decisione di costruire una propria famiglia;
    come sostenuto da diversi economisti e studiosi, la famiglia costituisce «il primo generatore di esternalità sociali positive», configurandosi, in tale visione, come ammortizzatore sociale, generatore di capitale umano e soggetto economico;
    la famiglia è un «ammortizzatore sociale», perché da una parte «riequilibra» la distribuzione del reddito dal livello individuale a livello familiare dei proprio membri, coinvolgendo la catena generazionale e garantendo quel livello minimo di coesione sociale al proprio interno; dall'altra, funge da sistema di protezione per i soggetti più deboli, quali i minori, i disabili, i malati e i non-autosufficienti, in quanto in Italia è la famiglia stessa che tutela, durante tutte le fasi del ciclo di vita, i propri componenti e svolge, integrandosi con i sistemi di welfare, molte delle funzioni di assistenza e cura;
    nella sua qualità di «generatore di capitale umano», la famiglia rappresenta una fonte di reddito ed elemento necessario per il ricambio generazionale, poiché essa è promotrice, insieme al sistema educativo e formativo e al contesto sociale, del trasferimento di conoscenza ed esperienza per le nuove generazioni, costituendo un nodo fondamentale per il passaggio alla vita adulta, l'inserimento nel modo del lavoro e l'integrazione nella comunità;
    la famiglia è un «soggetto economico» dotato di una propria autonomia, il cui nucleo influenza decisioni di consumo, acquisto ed investimento;
    conseguentemente, in tale contesto, le politiche di sostegno alle famiglie devono essere sviluppate non in maniera unicamente assistenziale, ma in seno alla collettività;
    le suddette considerazioni mostrano come sia opportuno offrire misure di sostegno della maternità e della famiglia da parte dello Stato, che contribuiscano a rendere più facile la nascita di un figlio, creando altresì pari opportunità attraverso la promozione dei diritti delle donne in ambito lavorativo, familiare e sociale;
    la legge di stabilità per il 2015 (legge 23 dicembre 2014, n. 190), all'articolo 1, commi 125 e 129, ha introdotto un «bonus di 80 euro mensili, a favore dei genitori di bambini nati o adottati tra il 1o gennaio 2015 e il 31 dicembre 2017»;
    il suddetto «bonus bebé» tiene conto del reddito del nucleo familiare di appartenenza del genitore che richiede l'assegno, determinato utilizzando l'indicatore della situazione economica equivalente (ISEE), secondo quanto stabilito dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 159 del 2013. Di conseguenza, la spesa messa a preventivo è valutata in 202 milioni di euro per il 2015, 607 milioni di euro per il 2016, 1,012 miliardi di euro per l'anno 2017, 1,012 miliardi per il 2018, 607 milioni di euro per il 2019 e 202 milioni di euro per il 2020;
    ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo sarebbe più opportuno prevedere da parte del Governo investimenti concreti e permanenti, volti a sostenere appropriatamente la formazione di nuove famiglie e lo sviluppo di servizi per la prima infanzia, in armonia con i Consigli europei di Lisbona e di Barcellona che hanno indicato, tra gli obiettivi generali, la rimozione dei disincentivi alla presenza femminile nel mondo del lavoro, soprattutto attraverso lo sviluppo della rete dei servizi per la prima infanzia;
    in particolare, il dipartimento per le politiche della famiglia ed il dipartimento per le pari opportunità potrebbero avviare un progetto pilota per l'apertura o l'incentivazione di «nidi aziendali»;
    secondo il rapporto annuale dell'Istat, infatti, la distribuzione disomogenea sul territorio dei più importanti servizi alle famiglie, come gli asili nido, appare ancora evidente, nonostante gli interventi volti al riequilibrio delle disparità territoriali, finanziati nell'ambito delle politiche di coesione,

impegna il Governo:

   ad adottare tutti gli strumenti per aumentare il sostegno finanziario a favore delle famiglie a basso reddito, al fine di promuovere la natalità;
   a porre in essere tutte le iniziative, anche di carattere normativo, per istituire un «fondo statale» di garanzia sui prestiti concessi alle neo-mamme in condizioni di disagio, con reddito Isee del nucleo familiare medio-basso;
   ad adoperarsi, presso le competenti sedi europee, allo scopo di prevedere la sostanziale riduzione al 4 per cento o anche fino all'azzeramento dell'IVA sui prodotti destinati alla prima infanzia;
   ad assumere iniziative per lo stanziamento, nell'ambito del prossimo disegno di legge di stabilità, di risorse adeguate, atte a cofinanziare gli investimenti promossi dalle amministrazioni territoriali per la costruzione ovvero la riqualificazione di strutture destinate ad asili nido, da individuare con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali da adottare, previa intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano;
   sulla scorta di un eventuale progetto pilota, ad avviare un «piano programmatico a regime», volto a definire modalità, obiettivi, tempi e risorse per garantire:
    a) la continuità e la diffusione degli obiettivi di servizio relativi all'infanzia;
    b) l'istituzione di nuovi nidi aziendali, sia presso le sedi centrali e periferiche delle pubbliche amministrazioni nazionali, singole o tra loro consorziate, sia nei comuni, sia nel settore privato (attraverso convenzioni e relativi incentivi finanziari alle aziende) anche al fine di conseguire l'obiettivo comune europeo della copertura territoriale di almeno il 33 per cento per la fornitura di servizi per l'infanzia (bambini al di sotto dei tre anni), come fissato dall'Agenda di Lisbona;
    c) l'incentivazione su tutto il territorio di servizi integrativi e innovativi, quale «il nido di famiglia», gestito dalla «tagesmutter o mamma di giorno», che accudisce ed educa presso la propria abitazione bambini da 0 a 6 anni;
    d) la definizione, di concerto con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, delle modalità e dei criteri per percorsi professionali volti all'istituzione della nuova figura professionale «tagesmutter» o «assistente materna», al fine di valorizzare il contributo delle donne alla vita economica e sociale del Paese, incentivando l'autoimprenditorialità e favorendo al contempo il sostegno alla maternità e alla conciliazione familiare;
   ad adoperarsi per attuare progetti articolati per consentire alla lavoratrice madre o al lavoratore padre, anche autonomi, di usufruire di particolari forme di flessibilità degli orari e dell'organizzazione del lavoro, tra cui lavoro a tempo parziale reversibile, telelavoro e lavoro a domicilio, orario flessibile in entrata o in uscita, banca delle ore, flessibilità sui turni, orario concentrato, con priorità per i genitori che abbiano bambini fino ad otto anni di età o fino a dodici anni, in caso di affidamento o di adozione;
   a porre in essere iniziative normative volte ad estendere alle lavoratrici e ai lavoratori di cui all'articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, che non risultino iscritti ad altre gestioni di previdenza obbligatoria, nonché alle lavoratrici iscritte ad una delle gestioni Inps previste per i lavoratori autonomi, le tutele in materia di maternità e paternità previste dal testo unico di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151.
(1-00794)
«Lombardi, Cominardi, Ciprini, Dall'Osso, Chimienti, Tripiedi, Grillo, Silvia Giordano, Mantero, Baroni, Lorefice, Di Vita».
(13 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    il 12 febbraio 2015 l'Istat ha pubblicato il report sugli indicatori demografici, che evidenzia come i nuovi nati siano in costante diminuzione. Nel 2014 le nascite stimate risultano pari a 509 mila unità, circa cinquemila in meno rispetto al 2013, il livello minimo dall'Unità d'Italia. Il tasso di natalità scende dall'8,5 per mille nel 2013 all'8,4 per mille nel 2014. In media ogni donna ha 1,39 figli. La decisione di mettere al mondo dei figli viene sempre più posticipata, come documenta l'aumento dell'età media delle madri al parto, che si porta da 31 anni nel 2007 a 31,5 nel 2014;
    il Ministro della salute, Beatrice Lorenzin, ha da tempo avviato un lavoro con il supporto di un apposito gruppo di studio, per definire un ambiguo «piano nazionale sulla fertilità». Un piano accompagnato da affermazioni ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo fin troppo paternalistiche ed ideologiche. Come affermato dalla stessa Ministra Lorenzin, «i bambini devono tornare a nascere e serve educare alla maternità», dato che «il crollo demografico è un crollo non solo economico, ma anche sociale». «La decadenza» va «frenata con politiche di comunicazione, di educazione e di scelte sanitarie» e «bisogna dire con chiarezza che avere un figlio a trentacinque anni può essere un problema»;
    è di questi giorni la pubblicazione della seconda indagine del Censis sulla fertilità, nella quale si sottolinea come alla base della scarsa propensione ad avere figli vi siano motivazioni principalmente economiche (75,3 per cento). Ma le motivazioni sono anche culturali e politiche. L'ingresso delle donne nel mercato del lavoro non è stato, infatti, accompagnato da misure adeguate per la maternità. Le coppie sempre più tendono a pensare ai figli dopo i 35 anni, vale a dire proprio nel periodo in cui la fertilità di uomini e donne si riduce drasticamente, e a incidere su questo spostamento in avanti è, soprattutto, il mercato del lavoro precario;
    come ha sottolineato Concetta Maria Vaccaro, curatrice del suddetto rapporto del Censis, «non è un caso che nei Paesi del Nord Europa le donne facciano più figli, perché sono più tutelate dal welfare rispetto alla loro presenza nel mercato del lavoro. Il tasso di natalità in Italia è così basso anche perché fare figli è diventata una questione privata»;
    se il sistema del welfare si riduce sempre di più, e con esso i servizi socio-educativi, se il ruolo di cura è delegato alle madri, se non si affronta seriamente la questione dei congedi parentali, se mancano le opportunità di lavoro, è inevitabile che diventi marginale parlare di un piano nazionale della fertilità per sostenere le nascite nel nostro Paese;
    è, infatti, del tutto evidente che i principali motivi della denatalità risiedono nell'assenza di politiche organiche e attive di sostegno al lavoro femminile e a un nuovo rapporto tra lavoro e responsabilità di cura, nella carenza di opportunità e di servizi, nella carenza di strutture per l'infanzia, nonché in un quadro avvilente in fatto di welfare, con alti costi e forti disparità nell'offerta tra le diverse aree del Paese;
    il lavoro di cura grava ancora in modo preponderante sulle donne – con margini di tempo per loro stesse estremamente ristretti e con evidenti minori possibilità di occupazione e crescita professionale – spesso costrette a lasciare il proprio lavoro dopo la nascita dei figli, e in particolare con la nascita del secondo;
    le donne vogliono poter decidere di diventare madri e lavorare, malgrado i tanti ostacoli: precarietà, insufficienza dei servizi di welfare, quali strumenti di sostegno nella gestione del lavoro di cura e della vita professionale; dimissioni in bianco; mancato riconoscimento sociale della maternità e dei congedi di paternità, carenza di strutture per l'infanzia; un welfare con alti costi e forti disparità nell'offerta tra le diverse aree del Paese; assenza di politiche organiche e attive di sostegno al lavoro femminile;
    per quanto riguarda le politiche per l'infanzia – che incidono pesantemente sulla denatalità del nostro Paese – uno dei problemi strutturali dell'Italia è l'evidente carenza di strutture per l'infanzia e l'offerta comunale di asili nido e altri servizi socio-educativi. Gli asili nido comunali sembrano spesso più strutture a pagamento che statali, con costi medi che si aggirano intorno ai 300 euro mensili e tariffe in crescita rispetto agli anni passati. La distribuzione sul territorio nazionale di nidi comunali o finanziati dal comune è, peraltro, fortemente squilibrata;
    i pesanti tagli agli enti locali attuati in questi ultimi anni non hanno fatto che peggiorare la situazione dal punto di vista sia della qualità del servizio che dei costi. Il dato di fondo resta sempre l'enorme scarto esistente tra le esigenze delle famiglie e la reale possibilità di soddisfare tali esigenze;
    il dossier di «Cittadinanzattiva» 2012 ha confermato in pieno le difficoltà in questo ambito: le strutture comunali su cui possono contare le famiglie superano di poco quota 3.600 e sono in grado di soddisfare circa 147 mila richieste di iscrizione. I genitori di un bambino su quattro (23,5 per cento) restano in lista d'attesa e sono costretti a rivolgersi altrove;
    di fronte a questi dati non stupisce il fatto che molte giovani donne siano spinte a rinunciare o a rinviare sine die una maternità comunque desiderata. Fa riflettere la tendenza sempre più accentuata di richiesta delle donne di congelare gli ovociti per conservare la loro fertilità nel tempo;
    riguardo alla questione delle risorse destinate alla scuola, la stessa Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza ha sottolineato come debba «essere dato effettivo impulso a investimenti adeguati, da destinarsi alle strutture scolastiche, necessari per garantire condizioni di sicurezza e di vivibilità agli studenti, nonché servizi scolastici che siano in linea con gli standard dei principali Paesi europei», ricordando come «l'offerta pubblica di servizi socio-educativi per la prima infanzia si caratterizza per amplissime differenze territoriali, sia in termini di spesa che di utenti. Si conferma la carenza di strutture nelle regioni del Mezzogiorno»;
    è importante sottolineare che per la copertura dei nidi il target europeo è il 33 per cento. L'Agenda di Lisbona aveva, infatti, fissato l'obiettivo dell'Unione europea del 33 per cento della copertura territoriale per la fornitura di servizi per l'infanzia entro il 2010, mentre in Italia (al di là dell'Emilia-Romagna, che risulta la prima regione, con il 28 per cento), la media nazionale si attesta intorno al 17 per cento. L'Italia è, quindi, a circa la metà dell'obiettivo stabilito dall'Agenda di Lisbona;
    il 16 dicembre 2014 la Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza ha approvato il documento conclusivo dell'indagine conoscitiva sulla povertà e il disagio minorile. Nel documento si legge, tra l'altro, come tra il 2011 e il 2013 siano raddoppiati i bambini poveri e «ciò si deve al fatto che nel nostro Paese non solo si investono meno risorse rispetto ad altri Paesi, ma la capacità di ridurre la povertà con le risorse destinate risulta assolutamente deficitaria». Tra le chiavi di lettura del fenomeno viene sottolineata la circostanza che i trasferimenti monetari non accompagnati da servizi adeguati sono scarsamente efficaci;
    riguardo alle politiche di sostegno al reddito e al welfare – aspetti centrali per interpretare la progressiva riduzione della natalità – è evidente come il progressivo aumento della povertà nel nostro Paese abbia inciso pesantemente sulle condizioni di vita dei cittadini. A ciò si aggiungano le scelte politiche che hanno visto in questi anni ridurre sensibilmente gli stanziamenti a favore del welfare e dei servizi destinati alle famiglie;
    la Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza, nel suddetto documento conclusivo, ha ricordato come, nell'ambito della spesa per le politiche sociali, gli stanziamenti statali per combattere l'impoverimento in età adolescenziale risultano sensibilmente ridotti negli ultimi anni. Se nel 2008 i fondi nazionali per il contrasto della povertà ammontavano complessivamente a 2 miliardi e mezzo di euro, nel 2013 gli stanziamenti erano scesi a 766 milioni di euro, scontando nel complesso un taglio di un miliardo e 536 milioni di euro dall'inizio della crisi;
    un intervento di sostegno al reddito e ai nuovi nati e nate è il cosiddetto «bonus bebé», introdotto dal Governo, e comunque migliorato durante l'esame parlamentare, nella legge di stabilità per il 2015, che ha previsto che per ogni figlio nato o adottato dal 1o gennaio 2015 fino al 2017 sia riconosciuto un assegno di 960 euro annui, purché la condizione del nucleo familiare di appartenenza del genitore richiedente sia in condizione economica corrispondente a un valore isee non superiore a 25 mila euro annui. Una misura che costerà complessivamente 3,642 miliardi di euro complessivi (fino al 2020);
    si è di fronte a un trasferimento monetario alle famiglie meno abbienti che decideranno nei prossimi tre anni di metter al mondo dei figli. Sotto questo aspetto si è scelto per un sostegno monetario (che costerà, come visto, oltre 3 miliardi e mezzo di euro nei prossimi cinque anni) diretto, piuttosto che in un rafforzamento dei servizi socio-educativi per la prima infanzia. Cosa che avrebbe consentito (al contrario del bonus) di investire nel futuro del Paese, rispondere meglio alle esigenze reali dei genitori meno abbienti e dare nuove opportunità di occupazione;
    l'esperienza di molti Paesi europei dimostra, infatti, come la politica di trasferimenti monetari diretti per favorire la natalità può avere effetti anche controproducenti rispetto alla partecipazione al lavoro, mentre effetti positivi di sostegno alla genitorialità si sono avuti grazie a un insieme di interventi coordinati – sviluppo dei servizi socio-educativi per l'infanzia (cui la legge di stabilità per il 2015 destina solo 100 milioni di euro per il 2015), sgravi fiscali, congedi genitoriali ed altro – che hanno dimostrato di far crescere sia occupazione sia fecondità;
    riguardo alle politiche del lavoro, anch'esse condizionano fortemente le scelte di genitorialità;
    nelle economie dove vi sono sistemi di welfare più sviluppati e di impianto universalistico e con buone politiche del lavoro l'integrazione delle donne nel mercato del lavoro è più elevata e maggiore è la crescita demografica;
    in un suo recente articolo su la Repubblica, Chiara Saraceno ha ricordato come, riguardo all'occupazione femminile, è aumentato molto il part time involontario, ossia non quello scelto come temporanea strategia di conciliazione tra partecipazione al mercato del lavoro e responsabilità famigliari, ma il part time imposto dalle aziende, specie nel terziario. Il basso tasso di occupazione femminile è una delle cause dell'alta incidenza di povertà nelle famiglie in Italia, per contrastare la quale occorrono politiche sia imprenditoriali sia pubbliche intelligenti e non di corto respiro. Il dato della perdita di occupazione femminile è il segnale della persistenza delle difficoltà a entrare e rimanere nel mercato del lavoro;
    l'Italia si conferma uno dei Paesi europei a più bassa occupazione femminile. E qui, la crisi mostra il suo volto nell'impoverimento dei redditi e delle opportunità e, infine, nella sempre maggiore difficoltà di determinare il proprio progetto di vita;
    è necessario adottare efficaci misure per sostenere il reddito delle famiglie con figli (comprese le famiglie di origine straniera). A tal fine, è ineludibile incentivare sempre più la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, nonché favorire modalità di lavoro più flessibili per i genitori;
    è, inoltre, necessario intervenire per aumentare gli sgravi fiscali, in particolare per le micro e piccole imprese, sulle quali incidono in misura proporzionalmente maggiore i costi delle misure a favore della maternità delle lavoratrici;
    per favorire le madri lavoratrici occorre intervenire con incentivi a favore della destandardizzazione degli orari, sotto forma di orari flessibili e riduzioni volontarie temporanee o durature dell'impegno lavorativo;
    in considerazione del costo che la maternità ha in termini di salute e di dedizione totale del proprio tempo a favore dei figli, andrebbe riconosciuta a tutte le donne madri la contribuzione figurativa di almeno un anno per ogni figlio, indipendentemente dallo svolgimento di attività lavorativa al momento della gestazione, e un'ulteriore integrazione contributiva per i periodi di lavoro part time legati alla maternità;
    è attualmente all'esame della Commissione lavoro pubblico e privato della Camera dei deputati lo schema di decreto legislativo attuativo della legge delega sul mercato del lavoro (cosiddetto Jobs act) in materia di revisione delle misure volte a tutelare la maternità e a favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, allo scopo di garantire adeguato sostegno alle cure parentali;
    nonostante alcuni passi avanti, le misure contenute nello schema di decreto sono ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo ancora troppo modeste anche perché legate alla scelta del Governo di introdurre solo misure a costo zero (o quasi), scelta che non può che penalizzare una strategia di sostegno alla genitorialità che ancora una volta nel nostro Paese non riesce a decollare e che mantiene ancora distante la costruzione di quel sistema integrato di welfare per la cura che allarghi le possibilità di scelta delle madri e dei padri nelle strategie di cura tra servizi pubblici, servizi di mercato e cura diretta, evitando loro di scegliere di rinunciare all'occupazione;
    un contributo a una genitorialità libera e consapevole deve, inoltre, essere garantito dalla piena attuazione delle tecniche di fecondazione eterologa e di procreazione medicalmente assistita, le cui norme sono state modificate da diverse sentenze della Corte costituzionale, e da ultimo dalla sentenza n. 162 del 9 aprile 2014;
    attualmente si assiste a una situazione di discriminazione delle coppie a seconda della regione di appartenenza;
    la modalità di erogazione delle prestazioni dal punto di vista economico è caratterizzato da poca trasparenza, opacità della condotta di molte regioni e spreco di denaro pubblico. Le maggiori criticità riguardano la mancata trasparenza del sistema e l'inappropriatezza nell'erogazione delle prestazioni sia sul piano nazionale che su quello regionale e, in particolare, nel sistema della mobilità sanitaria tra regioni;
    è, quindi, assolutamente indispensabile che l'ormai – si spera – imminente aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, previsto nel Patto per la salute 2014/2016, e che sarebbe dovuto avvenire entro la fine del 2014, preveda – come dovrebbe essere – l'introduzione, tra le nuove prestazioni, anche delle tecniche di fecondazione,

impegna il Governo:

   a implementare, di concerto con le regioni, le politiche a favore dei servizi socio-educativi per la prima infanzia, con particolare riguardo alla riduzione delle attuali forti disomogeneità territoriali nell'offerta di detti servizi, anche attraverso il rifinanziamento del piano straordinario di interventi per lo sviluppo del sistema territoriale dei servizi socio-educativi previsto dalla legge n. 296 del 2006;
   ad assumere iniziative per incrementare le risorse assegnate al fondo per le politiche sociali e al fondo nazionale per l'infanzia e l'adolescenza;
   nell'impiego di risorse a sostegno delle politiche volte a sostenere la natalità, con particolare riguardo ai nuclei familiari più deboli, a privilegiare il finanziamento di interventi per incrementare l'offerta di strutture e servizi socio-educativi per l'infanzia, garantendone l'attuazione e l'uniformità su tutto il territorio nazionale, rispetto a una politica di meri sussidi e trasferimenti monetari diretti;
   a prevedere un piano straordinario per il lavoro femminile, che preveda, tra l'altro:
    a) di stabilizzare e incrementare il bonus introdotto dalla legge n. 92 del 2012 per l'acquisto di servizi di baby-sitting ovvero per far fronte agli oneri della rete pubblica dei servizi per l'infanzia o dei servizi privati accreditati in alternativa al congedo parentale;
    b) di sostenere politiche attive e misure efficaci di sostegno alla conciliazione dei tempi di lavoro e di cura, al fine di favorire la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, con particolare riguardo a chi ha redditi bassi e discontinui;
    c) di considerare le fasi della vita dedicate alla cura, come crediti ai fini pensionistici con il riconoscimento di: contributi figurativi legati al numero dei figli o ad eventuali altri impegni di cura; integrazioni contributive per i periodi di lavoro part time per ragioni di cura; possibilità di anticipo della pensione per necessità di accudimento di persone non autosufficienti, nel quadro di una revisione del sistema pensionistico che contempli flessibilità e libertà di scelta;
    d) nell'ambito delle misure di incentivazione al ricorso da parte dei padri ai congedi parentali, opportune risorse volte ad assicurare un aumento (almeno al 60 per cento) della relativa quota indennizzata;
    e) lo stanziamento di adeguate risorse finanziarie volte ad aumentare gli sgravi fiscali relativi alle misure a favore della maternità delle donne lavoratrici che sono a carico dei datori di lavoro, con particolare riguardo alle piccole e micro imprese, sulle quali i costi incidono in misura proporzionalmente maggiore;
    f) l'introduzione di incentivi per agevolare la destandardizzazione degli orari, sotto forma di orari flessibili e riduzioni volontarie temporanee o durature dell'impegno lavorativo, per favorire le madri lavoratrici;
   a prevedere più efficaci politiche tese a rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono alle donne di autodeterminarsi secondo il loro desiderio e di regolare liberamente la loro fecondità, nonché politiche che mettano al centro maggiormente il benessere della persona rispetto alla famiglia;
   a prevedere studi specifici di genere, anche riguardo agli effetti sulla fertilità e sulle malattie neo-natali prodotti dall'inquinamento e dalla contaminazione delle matrici ambientali;
   a provvedere, anche in conseguenza della sentenza della Corte costituzionale n. 162 del 9 aprile 2014, all'aggiornamento delle linee guida di cui al decreto del Ministero della salute dell'11 aprile 2008 secondo le indicazioni della medesima sentenza;
   a emanare quanto prima l'aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, previsto nel Patto per la salute 2014/2016, con l'inclusione, tra le nuove prestazioni, anche delle tecniche di fecondazione, anche al fine di garantire dette prestazioni in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale;
   ad assumere iniziative per estendere l'accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita a tutte le donne che hanno compiuto la maggiore età e in età potenzialmente fertile.
(1-00798)
«Nicchi, Pannarale, Airaudo, Scotto, Costantino, Duranti, Pellegrino, Ricciatti, Placido, Franco Bordo, Daniele Farina, Ferrara, Fratoianni, Giancarlo Giordano, Kronbichler, Marcon, Matarrelli, Melilla, Paglia, Palazzotto, Piras, Quaranta, Sannicandro, Zaccagnini, Zaratti».
(13 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    secondo le rilevazioni Istat sulla natalità, in Italia il trend delle nascite è sempre negativo e il nostro Paese è afflitto dal grave problema della bassa natalità secondo l'autorevole opinione dell'88,7 per cento di ginecologi, andrologi e urologi;
    nel 2011 sono nati 556.000 bambini, 6.000 in meno rispetto al 2010, e il tasso di natalità è sceso dal 9,3 per mille nel 2010 al 9,1 per mille nel 2011 ed il numero medio di figli per donna è pari ad 1,42;
    numerose sono le ragioni che sottendono al calo delle nascite, tra le quali, indubbiamente, una carenza a livello nazionale e territoriale di efficaci politiche per la famiglia e la preoccupazione della concorrenza nell'ambito lavorativo, se non addirittura del rischio di perdere il proprio posto di lavoro;
    investire per la famiglia significa investire per il futuro, per questo è fondamentale prevedere e finanziare azioni a sostegno delle gestanti ed a favore dei nuclei familiari;
    è necessario, dunque, il potenziamento di servizi di qualità per la primissima infanzia, incrementandone il numero a sostegno dell'occupazione femminile, differenziando anche le tipologie di offerta, sia sul versante degli orari (apertura-chiusura; tempo pieno-tempo parziale) che sul versante delle forme di iscrizione e frequenza;
    essenziale risulta essere l'individuazione della figura della baby-sitter: in alcuni casi, la problematica maggiore circa la natalità è dovuta al fatto che la donna non sa a chi lasciare i propri figli;
    attualmente, infatti, non vi sono albi o registri di persone competenti nella cura dei bambini, per cui la donna, se fortunata, si affida ai propri genitori quando questi ci sono, in altri casi si assenta dal lavoro: risulta, pertanto, indispensabile istituire e promuovere percorsi formativi specifici finalizzati alla creazione di figure professionali che svolgano attività di assistenza e cura di bambini, anziani, adulti malati o disabili, al fine di coadiuvare la lavoratrice, soprattutto nei periodi di malattia del figlio nei rapporti con la famiglia e permettere alla stessa di tornare con tranquillità, dopo il congedo obbligatorio, nel proprio posto di lavoro, con la previsione per le stesse famiglie di usufruire anche di sgravi contributivi e/o agevolazioni fiscali per il genitore che assuma alle proprie dipendenze baby-sitter ovvero professionisti dei servizi di cura ed assistenza alla persona;
    la dilatazione dei tempi della formazione e dell'ingresso nel mercato del lavoro e la relativa stabilizzazione professionale inducono un numero crescente di donne e di coppie a rinviare le scelte procreative, che richiedono un investimento non solo economico, ma anche di tempo molto forte ed impegnativo;
    il lavoro di cura è ancora oggi un fattore di forte depotenziamento dei diritti sociali delle donne, che risultano essere comunque penalizzate sul mercato del lavoro e discriminate in quanto potenziali madri; quindi, risulta indispensabile una revisione degli impegni economici/aziendali posti in capo ai datori di lavoro che hanno una dipendente in maternità: al giorno d'oggi, purtroppo, questa è una delle cause primarie di «non assunzione» delle donne in età fertile;
    è necessario che lo Stato si faccia carico degli ulteriori oneri dovuti dal datore di lavoro in caso di assunzione in sostituzione del personale assente per maternità, in maniera tale da permettere una sostituzione della dipendente assente in congedo obbligatorio o facoltativo, senza modificare il normale costo mensile sostenuto per la prestazione, anche prevedendo un rimborso a conguaglio dei contributi dovuti della quota eccedente il normale costo del lavoro: sicuramente un approccio di questo tipo comporterebbe una maggiore tranquillità nell'assumere una donna alle proprie dipendenze e prevedere, nel contempo, incentivi economici per i datori di lavoro che ricorrono allo strumento del telelavoro, riconoscendo, ad esempio, un rimborso totale della spesa effettuata per installazione negli ambienti domestici di strumentazioni di lavoro al fine di poter garantire una maggiore flessibilità dei relativi congedi parentali;
    la normativa cardine per gli interventi in favore della conciliazione tra vita professionale e vita familiare è l'articolo 9 della legge n. 53 del 2000, come modificato dall'articolo 38 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in attuazione del quale è stato poi emanato il «Regolamento recante criteri e modalità per la concessione dei contributi», di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 dicembre 2011, n. 277;
    in data 18 maggio 2011 è stato emanato l'avviso di finanziamento relativo all'anno 2011 per interventi in favore della conciliazione tra vita professionale e vita familiare, che ha stanziato 15 milioni di euro, ma poi non è stato rinnovato alcun finanziamento per gli anni successivi;
    tali stanziamenti rappresentano un valido sostegno economico ad operazioni che intendano introdurre misure flessibili e nuove forme di organizzazione del lavoro, compatibili con le esigenze e le caratteristiche dei vari contesti aziendali e con i presupposti per garantire la piena partecipazione delle donne alla vita professionale;
    per permettere un sano equilibrio tra il lavoro di cura, molto spesso prerogativa delle madri, e impegno professionale, andrebbero incentivati i servizi per l'infanzia e l'adolescenza e previsti maggiori sostegni ai costi di educazione dei figli, che prendano in considerazione non solo le spese per l'infanzia, ma anche le spese del periodo adolescenziale (scuola e libri scolastici per tutta la durata della scuola dell'obbligo);
    di grande importanza è la flessibilità dei dispositivi di congedo parentale, che dia la possibilità al soggetto richiedente di poter realmente conciliare, in date fasi del ciclo di vita, la sua presenza a casa per l'attività di cura con il lavoro professionale;
    importanti sono anche le agevolazioni finanziarie per le famiglie, come l'introduzione di un modello di assegno familiare unico (complessivo e personalizzato) che segua il complesso delle esigenze di cura espresse dalla famiglia e che permetta al titolare l'accesso a servizi di cura per l'infanzia e per i membri della famiglia in stato di non autosufficienza temporanea o permanente, oltre che per l'acquisto di prestazioni accessorie utili alla famiglia per fronteggiare esigenze di carattere quotidiano;
    fondamentale è, poi, l'incremento dei servizi aziendali per l'infanzia: nidi aziendali, nidi misti azienda-territorio, colonie estive, strutture di accoglienza per i figli in situazioni di emergenza, doposcuola attrezzati, buoni per baby-sitter (in particolare per chi fa lavoro notturno o per malattia del figlio), voucher familiari, voucher di cura; servizi aziendali di supporto all'attività scolastica dei figli, quali l'organizzazione del trasporto scolastico o l'organizzazione di centri estivi;
    la natalità può subire un incremento soltanto se si fornisce alle famiglie una rete di servizi e di strutture efficiente e diretta ad aiutare le madri che lavorano e prevedendo misure economiche che rendano conveniente per una famiglia avere un maggior numero di figli,

impegna il Governo:

   a potenziare i servizi di qualità per la primissima infanzia, incrementandone il numero a sostegno dell'occupazione femminile;
   ad incentivare i servizi per l'infanzia e l'adolescenza, prevedendo maggiori spazi per il tempo di cura e un incremento del sostegno ai costi di educazione dei figli che copra tutta la durata della scuola dell'obbligo;
   ad assumere iniziative per prevedere agevolazioni finanziarie per le famiglie che soddisfino il complesso di esigenze di cura espresse dalla famiglia, consentendo l'accesso a servizi di cura per l'infanzia e l'acquisto di prestazioni accessorie utili alla famiglia per fronteggiare esigenze di carattere quotidiano;
   a favorire, in particolare, i servizi aziendali per l'infanzia, quali nidi aziendali, nidi misti azienda-territorio, colonie estive, strutture di accoglienza per i figli in situazioni di emergenza, doposcuola attrezzati, buoni per baby-sitter (in particolare per chi fa lavoro notturno o per malattia del figlio), voucher familiari, voucher di cura; servizi aziendali di supporto all'attività scolastica dei figli;
   a valutare ogni possibile ulteriore iniziativa atta a promuovere misure efficaci a sostegno della natalità e della famiglia che rendano accessibili a tutti la costruzione e il sostentamento di un nucleo familiare e che abbiano un carattere di intervento permanente e non di una tantum a favore delle famiglie e dei nuovi nati;
   ad assumere iniziative per rivedere le disposizioni in essere riguardanti la disciplina della sostituzione di personale assente per maternità, con la previsione che sia lo Stato a farsi carico degli oneri ulteriori dovuti per la nuova assunzione in sostituzione e non il datore di lavoro;
   a prevedere iniziative normative volte ad istituire e promuovere percorsi formativi specifici finalizzati alla creazione di figure professionali che svolgano attività di assistenza e cura di bambini, anziani, adulti malati o disabili, al fine di coadiuvare la donna lavoratrice nei rapporti con la famiglia, prevedendo sgravi contributivi e/o agevolazioni fiscali per il genitore che assuma alle proprie dipendenze baby-sitter ovvero professionisti dei servizi di cura ed assistenza alla persona;
   a promuovere e sensibilizzare le imprese, anche attraverso campagne mediatiche, a ricorrere al telelavoro, prevedendo incentivi economici per i datori di lavoro che ricorrono a tale strumento e riconoscendo un rimborso totale della spesa effettuata per installazione negli ambienti domestici di strumentazioni di lavoro, al fine di poter garantire una maggiore flessibilità dei relativi congedi parentali.
(1-00802)
«Rostellato, Bechis, Mucci, Baldassarre, Barbanti, Prodani, Rizzetto, Segoni, Turco, Artini».
(14 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    secondo il «Report sugli indicatori demografici 2014», pubblicato a febbraio 2015 dall'Istat, sono 509 mila le nascite nel 2014, cinquemila in meno rispetto al 2013, il livello minimo dall'Unità d'Italia, e si conferma la tendenza evidenziata negli ultimi anni che vede progressivamente dilatarsi la forbice tra nascite e decessi: da -7 mila unità nel 2007 a -25 mila unità nel 2010, fino a -86 mila nel 2013;
    nel 2014 la stima del numero medio di figli per donna è pari a 1,39, come nel 2013, che la rende ancora distante dalla media dell'Unione europea (1,58 figli nel 2012, fonte Eurostat) e insufficiente a garantire il necessario ricambio generazionale;
    tale dato è già comprensivo di quello più alto relativo alle donne immigrate, senza il cui contributo la natalità in Italia risulterebbe ancora più bassa;
    risultano, tuttavia, in calo anche le nascite da madri straniere, che finora avevano compensato questo squilibrio strutturale andando a riempire i «vuoti» di popolazione femminile, scendendo sotto la soglia dei 2 figli per donna e attestandosi a 1,97;
    con 1,46 figli per donna il Nord, nel suo insieme, è la ripartizione con la più alta fecondità, il Centro registra un valore di 1,36, mentre il Mezzogiorno si attesta a 1,32. Nessuna delle regioni del Mezzogiorno presenta una fecondità di livello superiore alla media nazionale;
    secondo il citato report si registra un nuovo aumento della speranza di vita alla nascita. Gli uomini oltrepassano la soglia degli ottanta anni, le donne sono ormai prossime a quella degli ottantacinque;
    al 1o gennaio 2015 l'età media della popolazione ha raggiunto i 44,4 anni. L'aumento della vita media ed il regime di persistente bassa fecondità hanno portato l'Italia ad avere un alto indice di vecchiaia: al 1o gennaio 2013 nella popolazione residente si contavano 151,4 persone di 65 anni e oltre ogni 100 giovani con meno di 15 anni. Tra i Paesi europei supera l'Italia solo la Germania (158), mentre la media dell'Unione europea è pari 116,6. Questa misura rappresenta il «debito demografico» contratto da un Paese nei confronti delle generazioni future, soprattutto in termini di previdenza, spesa sanitaria e assistenza;
    tra le principali cause del calo delle nascite vi sarebbe la congiuntura economica sfavorevole: rispetto a vent'anni fa la donna oggi lavora per necessità e, non potendo per le famiglie andare avanti con un solo reddito, si rimanda il più possibile il momento di una gravidanza, anche per paura di perdere l'impiego e, quando poi sembra arrivato il momento adatto, subentrano l'età avanzata e la fertilità ridotta;
    il calo della natalità negli ultimi 5 anni è in atto in quasi tutti i Paesi europei, seppur con ritmi e intensità diverse, ma nel nostro Paese gli effetti della sfavorevole congiuntura economica sulla natalità si sommano a quelli «strutturali» dovuti alle importanti modificazioni della popolazione femminile in età feconda (da 15 a 49 anni);
    a differenza di quanto avviene negli altri Paesi europei il processo di autonomia dei giovani dalle proprie famiglie avviene con tempi più lunghi e questo si riflette negativamente sul tasso di natalità;
    le difficoltà del mercato immobiliare delle abitazioni e nell'accesso ai mutui, finanziamenti ed altre obbligazioni concesse da banche contribuiscono in maniera spesso decisiva alle decisioni di rinviare il momento della gravidanza;
    manca una strategia di interventi mirati nel settore degli asili nidi e degli alloggi a favore delle coppie giovani, che negli altri Paesi europei ha indotto le donne alla scelta del secondo figlio;
    il carico di lavoro di cura continua a essere particolarmente elevato ed il mutuo sostegno tra le generazioni di madri e di figlie è diventato sempre meno agevole; inoltre, le politiche di conciliazione dei tempi di vita non hanno ancora realizzato la necessaria flessibilità organizzativa caratteristica di molti altri Paesi europei;
    la Strategia di Lisbona prevede negli asili nido un numero di posti equivalente a 33 ogni 100 bambini di età compresa tra 0-3 anni (33 per cento) entro la fine del 2010: in Italia la copertura media del servizio non raggiunge neanche la metà di quella prevista (circa il 13 per cento), con punte drammatiche in alcune regioni del Mezzogiorno, contro il 60 per cento della Danimarca, il 40 per cento dell'Irlanda ed il 29 per cento della Francia;
    i tagli ai bilanci comunali e il patto di stabilità interno limita ulteriormente una buona dotazione di asili nido sul territorio;
    l'Italia rientra nel gruppo di Paesi europei in cui lo squilibrio generazionale potrebbe mettere a dura prova il modello del welfare state. Il rischio di veder realizzata in Italia la classica situazione della piramide rovesciata, contraddistinta da una vasta popolazione di anziani che grava su una ristretta popolazione di giovani, potrà avere effetti economici disastrosi;
    indagini e studi concordano nel sostenere che interventi legislativi volti a incrementare e migliorare la diffusione dei servizi in favore dell'infanzia e dell'adolescenza, oltre ad incentivi fiscali, per un'equa politica per le famiglie, e previdenziali, per facilitare il rientro al lavoro delle donne dopo la gravidanza, sarebbero gli strumenti ideali per una politica concreta in favore della natalità;
    oltre a tali misure, l'aumento della natalità potrebbe essere ottenuto attraverso una migliore gestione della legge n. 194 del 1978 e, soprattutto, attraverso una più attiva azione di prevenzione,

impegna il Governo:

   ad adottare iniziative, anche di tipo normativo, volte a favorire un'effettiva equità fiscale per le famiglie con figli a carico, soprattutto quelle monoreddito;
   a favorire i nuclei familiari con più di tre figli e quelli di nuova costituzione nelle politiche abitative;
   a inserire in una prossima iniziativa normativa la valutazione di impatto familiare;
   a valutare tutte le misure idonee a prevenire il conflitto esistente tra lavoro e maternità, agevolando il lavoro di cura dei genitori, soprattutto nei primi anni di vita dei figli;
   a dare piena e concreta applicazione all'articolo 16 («Valorizzazione e sostegno delle responsabilità familiari») della legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali n. 328 del 2000, al fine di sostenere la genitorialità con una moderna rete di servizi tesi ad incrementare la natalità responsabile;
   a rendere più efficaci gli strumenti per la prevenzione dell'aborto attraverso l'offerta di sostegno, anche economico, alle gestanti in difficoltà previsti dall'articolo 2, lettere b), c) e d), della legge n. 194 del 1978 sull'interruzione volontaria della gravidanza, promuovendo, inoltre, campagne di informazione sul parto in anonimato e sulle culle termiche presenti già in molti ospedali italiani, al fine di ridurre il rischio di infanticidio;
   ad assumere iniziative per trasformare i consultori familiari in efficaci strumenti di aiuto alle gestanti in difficoltà;
   a promuovere una revisione e semplificazione delle procedure di adottabilità e ad assumere iniziative a favore delle famiglie disponibili ad accogliere e adottare bambini senza famiglia;
   a promuovere una capillare campagna di informazione per prevenire le cause della diffusione di malattie, sempre più frequenti, che possano determinare interruzioni di gravidanza e infertilità.
(1-00804) «Gigli, Sberna, Capelli, Dellai».
(14 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    secondo dati Istat pubblicati a novembre 2014, nel 2013 sono stati iscritti in anagrafe per nascita 514.308 bambini, quasi 20 mila in meno rispetto al 2012, pari al 3,7 per cento in meno rispetto al 2012, mentre sono 509 mila le nascite nel 2014, cinquemila in meno rispetto al 2013, il livello minimo dall'Unità d'Italia;
    il dato conferma che è in atto una nuova fase di riduzione della natalità: oltre 62 mila nascite in meno a partire dal 2008;
    prosegue, quindi, la diminuzione della fecondità avviatasi dal 2010: nel 2013, così come nel 2014, il numero medio di figli per donna è sceso a 1,39 (rispetto a 1,46 del 2010). Per le italiane l'indicatore nel 2014 è pari a 1,31 figli per donna, per le cittadine straniere è pari a 1,97; mentre l'età media al parto sale a 31,5 anni;
    nel 2013 sono stati registrati 600.744 decessi (12 mila in meno rispetto al 2012, -2 per cento), mentre nel 2014 sono stati 597 mila, circa quattromila in meno del 2013, facendo sì che il saldo naturale, dato dalla differenza tra nati e morti, è risultato negativo per 86.436 unità nel 2013 e di circa poco più di 90 mila unità nel 2014;
    il saldo naturale della popolazione complessiva è negativo ovunque, con le sole eccezioni delle province autonome di Trento e Bolzano e della Campania;
    un significativo calo della mortalità ha determinato un ulteriore aumento della speranza di vita alla nascita, giunta a 80,2 anni per gli uomini e a 84,9 anni per le donne. Per via del processo di convergenza della sopravvivenza maschile a quella femminile, la differenza di genere è scesa a 4,7 anni;
    l'aumento dell'invecchiamento della popolazione e della vita media, da un lato, e il regime di persistente bassa fecondità, dall'altro, fanno sì che l'Italia abbia conquistato, a più riprese, il primato di Paese con il più alto indice di vecchiaia del mondo: al 1o gennaio 2013 nella popolazione residente si contano 151,4 persone di 65 anni e oltre ogni 100 giovani con meno di 15 anni. Tra i Paesi europei supera l'Italia solo la Germania (158), mentre la media dell'Unione europea è pari 116,6;
    questa misura rappresenta il «debito demografico» contratto da un Paese nei confronti delle generazioni future, soprattutto in termini di previdenza, spesa sanitaria e assistenza. Trent'anni di tale evoluzione demografica consegnano un Paese profondamente trasformato nella sua struttura e nelle sue dinamiche sociali e demografiche. Alle sfide che la globalizzazione e le crisi finanziarie impongono ai sistemi Paese, l'Italia si presenta con una struttura per età fortemente squilibrata, in termini di rapporto tra popolazione;
    la concomitanza tra la fase di crisi economica e la diminuzione delle nascite, che colpisce particolarmente la componente giovane della popolazione (ravvisabile in quasi tutti i Paesi europei), fa presumere una relazione di causa-effetto tra i due fenomeni, anche se non è possibile stabilirne con certezza il legame causale. Lo stesso è avvenuto per la diminuzione dei matrimoni, registrata proprio negli ultimi quattro anni;
    in Francia il tasso di fertilità totale supera i 2 figli per donna (Eurostat, 2013). Questo fattore viene in parte spiegato da politiche sociali per la famiglia, che storicamente hanno avuto una connotazione pro-natalità molto evidente;
    nel nostro Paese gli effetti della sfavorevole congiuntura economica sulla natalità vanno a sommarsi a quelli strutturali dovuti alle importanti modificazioni della popolazione femminile in età feconda. Con l'uscita dall'età feconda delle generazioni più numerose, si registra una progressiva riduzione delle potenziali madri, dovuta al prolungato calo delle nascite iniziato all'incirca a metà anni ’70, con effetti che si attendono ancora più rilevanti in futuro;
    alla luce di questo quadro assumono un significato rilevante le iniziative intraprese da questo Governo per incentivare le nascite, per aiutare le giovani coppie al fine di contrastare il trend negativo della natalità, quali il cosiddetto bonus bebé, assegno annuo di 960 euro erogato per ogni nuova nascita o adozione fino al 31 dicembre 2018; lo stanziamento di 100 milioni di euro per il rilancio del piano per lo sviluppo del sistema territoriale dei servizi socio-educativi per la prima infanzia; lo stanziamento di 45 milioni di euro per l'anno 2015 a favore dei nuclei familiari con un numero di figli minori pari o superiore a quattro; ed ancora gli incrementi per il fondo delle politiche sociali o per quello delle famiglia; l'emanazione del decreto legislativo a sostegno della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro di cui alla legge 14 dicembre 2014, n.183,

impegna il Governo:

   a sostenere ed incrementare politiche attive e misure efficaci di sostegno per favorire la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, con particolare riguardo a chi ha redditi bassi e discontinui;
   a promuovere politiche sociali di sostegno alla maternità e paternità, anche attraverso l'incremento delle strutture e dei servizi socio-educativi per l'infanzia e, in particolare, per la fascia neo-natale e pre-scolastica, garantendone l'attuazione e l'uniformità delle prestazioni su tutto il territorio nazionale, confermando, altresì, il tempo pieno in ambito scolastico;
   ad assumere iniziative per dare continuità alla misura del «bonus bebé» di cui all'articolo 1, comma 125, della legge n. 190 del 2014;
   ad assumere iniziative per incrementare la quota del bilancio statale destinata alle politiche di sostegno alla famiglia;
   ad assumere iniziative volte all'introduzione di misure stabili che garantiscano il diritto alla genitorialità e, in particolare, alle madri di poter scegliere la maternità senza rinunciare al lavoro;
   a favorire e stabilizzare le politiche di conciliazione dei tempi di cura, di vita e di lavoro al fine di consentire alle lavoratrici ed ai lavoratori di conciliare le proprie responsabilità professionali con quelle familiari, di educazione e cura dei figli e a consolidare la sperimentazione di azioni positive per la conciliazione famiglia-lavoro.
(1-00806)
«Sbrollini, D'Incecco, Lenzi, Albini, Amato, Argentin, Becattini, Beni, Paola Bragantini, Burtone, Capone, Carnevali, Casati, Fossati, Gelli, Grassi, Mariano, Miotto, Murer, Patriarca, Piazzoni, Piccione».
(14 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    le teorie neomalthusiane, indicando nella crescita demografica il peggiore dei mali hanno condizionato pesantemente le istituzioni internazionali e le politiche dei Governi, con risultati che sono all'origine della crisi economica e che si sono rivelati devastanti per l'economia e per lo sviluppo dell'umanità. Con il verificarsi del crollo delle nascite, il prodotto interno lordo mondiale è cominciato a decrescere ed i costi fissi ad aumentare. La mancanza di giovani e la crescita percentuale di anziani e pensionati hanno fatto lievitare le spese sanitarie e quelle dei sistemi pensionistici. Per sopperire alla mancata crescita demografica, le economie avanzate hanno aumentato le tasse e incrementato i costi, praticando politiche di credito facile e a basso interesse indebitando le famiglie in maniera vertiginosa. La riduzione del risparmio e la crescita del debito delle famiglie è più o meno simile in tutti i Paesi avanzati che hanno adottato politiche di decrescita demografica;
    la capacità dei genitori di investire sul futuro dei figli dipende da molti fattori, tra questi il loro stato occupazionale e di salute, il livello di istruzione raggiunto ed il sostegno nei compiti di cura che la comunità offre loro. La possibilità di disporre di competenze e risorse, non solo economiche, è essenziale, soprattutto nei primi anni di vita del bambino, quando l'offerta educativa e di relazione è decisiva per farne emergere le potenzialità;
    affiancando i dati su povertà di reddito, di lavoro e indici di deprivazione, creando quello che a livello europeo viene definito l'indice di povertà ed esclusione sociale (AROPE)3, emerge come l'Italia abbia delle percentuali più alte di minori a rischio povertà ed esclusione sociale dell'Unione europea, pari al 28 per cento, dato al di sopra di 6 punti percentuali della media europea ed inferiore soltanto a quella rilevata in alcuni nuovi Stati membri (Bulgaria, Romania, Ungheria, Lituania) o in Paesi particolarmente segnati dalla crisi finanziaria, come l'Irlanda e la Grecia;
    sono più di 1.400.000 i minori che vivono in condizione di povertà assoluta (il 13,8 per cento di tutti i minori del nostro Paese, con un aumento del 34 per cento sul totale) e circa 2.400.000 quelli che vivono in condizione di povertà relativa (il 23 per cento del totale, con un aumento di quasi 300.000 minori in 1 solo anno). I dati più drammatici riguardano il Sud e le isole, ma il peggioramento si registra in tutte le regioni ed è più marcato in relazione al numero dei figli: ad esempio, tra le famiglie con 3 o più figli, più di un terzo risulta in condizioni di povertà relativa e più di un quarto in povertà assoluta;
    questi dati allarmanti, incidenti sul destino delle nuove generazioni, incrociano le cause e gli effetti della denatalità, una realtà che rende l'Italia penultima in Europa, che frena la ripresa economica e finirà con il determinare un pesante squilibrio generazionale. Secondo il rapporto Svimez 2014, nel 2013, nel Mezzogiorno d'Italia le nascite hanno toccato il minimo storico, 177.000, il numero più basso dal 1861. Questa caduta demografica è strettamente correlata alla crisi economica e occupazionale di un'area del Paese che, tra il 2008 e il 2013, ha visto mancare 800.000 posti di lavoro con un crollo dei redditi pari al 15 per cento;
    la denatalità in Europa è ormai una emergenza, entro il 2025 i primi Paesi europei – Italia, Spagna, Germania, Grecia – potrebbero sperimentare l'implosione demografica, ovvero la diminuzione effettiva della popolazione;
    il progresso della società moderna è stato viziato dalla rinuncia a quei riferimenti valoriali che rappresentavano le fondamenta di una comunità capace di comprendere l'importanza della tutela dei propri figli quale bene primario, seminando il dubbio del significato stesso della verità e del bene, in ultima analisi della bontà della vita. L'accelerazione dei fenomeni di degenerazione nell'educazione sfocia, oggi giorno, in un vero e proprio allarme educativo. Sempre più in modo repentino si diffonde un pensiero unico laicista che trova sostegno anche in iniziative legislative assurde, come ad esempio quelle volte a cancellare dai documenti ufficiali i riferimenti alla madre e padre per sostituirli con surrogati asettici. Scelte dettate da quella che appare ai firmatari del presente atto di indirizzo una «idiozia» ideologica e che non possono essere sottovalutate e produrranno gravi danni nel medio lungo periodo;
    i genitori evidenziano maggiori difficoltà nell'assolvimento delle competenze di cura e di educazione dei figli, le conflittualità intraconiugali e intrafamiliari sfociano in sofferti procedimenti di separazione e di divorzio;
    è necessario affrontare in maniera sistematica la prima e più importante esigenza della famiglia: quella di esistere. L'obiettivo principale deve essere quello di incentivare la natalità attraverso una serie di strumenti che intervengano nella fascia di età più delicata del bambino (fino al compimento del terzo anno di età), delicata in termini educativi e di richieste di attenzioni e di cure, nonché per la maggiore difficoltà nella conciliazione delle esigenze familiari con quelle lavorative;
    in Italia la Costituzione ha operato una scelta assai chiara tra la famiglia fondata sul matrimonio, espressamente riconosciuta dagli articoli 29 e seguenti, e altre forme di rapporto fra le persone. Tuttavia, nel nostro Paese il numero dei matrimoni risulta essere in forte diminuzione. Ci si sposa meno, ma anche più tardi. I giovani rimangono ormai per un tempo sempre maggiore a casa dei genitori, le cause sono molteplici e infatti, non sempre, si tratta di una scelta. È il fenomeno della cosiddetta «posticipazione»: tutto il ciclo di vita individuale si è infatti progressivamente spostato in avanti, con la conseguenza di aver determinato un inevitabile allungamento dei tempi che cadenzano gli eventi decisivi della vita del singolo. Si lascia più tardi la famiglia di origine, ci si sposa più tardi, si hanno figli più tardi. L'età media di chi mette al mondo il primo figlio è aumentata di circa tre anni in un ventennio e si assesta ormai sui trent'anni nelle ultime generazioni;
    il nobile desiderio dei giovani di voler contribuire al bene comune in piena autonomia e indipendenza sposandosi e mettendo al mondo dei figli si infrange dinnanzi a problematiche di difficilissima soluzione. Si deve prendere esempio dalle politiche messe in atto in questi anni in altri Paesi europei; tra tutti la Francia, che in pochi anni è riuscita a invertire il trend demografico negativo grazie a interventi mirati a considerare la famiglia parte integrante dello Stato al centro di una politica di sicurezza sociale. Le politiche per la famiglia in Francia hanno avuto come obiettivo la ridistribuzione sia orizzontale che verticale del reddito per compensare i costi dovuti alla crescita dei figli. Nel sistema francese, infatti, le famiglie con più di un figlio ricevono contributi per la crescita dei figli e quelle con un reddito più basso possono beneficiare anche di altre forme di sostegno, come contributi per l'alloggio, per i libri scolastici e addirittura per le vacanze. In Francia è previsto, inoltre, un contributo economico in favore della prima infanzia dal settimo mese di gravidanza fino al compimento del terzo anno di età;
    è doveroso garantire il diritto di ogni persona a formare una famiglia o a essere inserita in una comunità familiare, sostenere il diritto delle famiglie al libero svolgimento delle loro funzioni sociali, riconoscere l'altissima rilevanza sociale e personale della maternità e della paternità, sostenere in modo più adeguato la corresponsabilità dei genitori negli impegni di cura e di educazione dei figli, promuovere e valorizzare la famiglia come struttura sociale primaria di fondamentale interesse pubblico;
    gli italiani, se interrogati sul numero ideale dei figli, hanno lo stesso orientamento dei francesi, degli svedesi e dei tedeschi. Ma quando poi si passa dai desideri alla realtà la condizione italiana precipita rispetto a quella di gran parte dell'Europa. I motivi sono noti e di facile individuazione: la situazione economica, l'esistenza o meno di adeguati servizi sociali, i tempi della vita familiare e di quella professionale, la qualità del sistema educativo, la disponibilità di alloggi adeguati ai livelli di reddito delle giovani generazioni. Investire nelle politiche familiari significa pertanto investire sulla qualità della struttura sociale e, di conseguenza, sul futuro stesso della nostra società;
    è necessario conferire piena attuazione all'articolo 31 della Costituzione, il quale sancisce che «La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze economiche la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi (...)»;
    anche quando si affronta il problema di misure di sostegno economico alle famiglie con interventi mirati, si agisce in modo assistenzialistico e non con una politica programmata di contrasto alla denatalità. Ad esempio la misura per il sostegno economico per le famiglie (contributo per ogni figlio nato o adottato dal 1° gennaio 2015) introdotta nella legge di stabilità 2015, nella sua struttura e formulazione è viziata da un approccio errato al problema estendendo la misura, oltre che a tutti i cittadini italiani comunitari, anche a tutti cittadini extracomunitari. In tal modo la misura introdotta si depotenzia rispetto ai suoi reali obiettivi e si trasforma in una disposizione di natura assistenzialista. Una misura finalizzata alla crescita demografica deve essere limitata ai cittadini italiani comunitari e agli stranieri extracomunitari che abbiano dimostrato di voler attraverso un processo di integrazione progettare come scelta di vita la permanenza nel territorio del nostro Paese;
    ogni efficace politica di sostegno alla famiglia non può tuttavia prescindere da strumenti fiscali mirati e graduati. In Italia il sistema fiscale sembra ancora ritenere che la capacità contributiva delle famiglie non sia influenzata dalla presenza di figli e dall'eventuale scelta di uno dei due coniugi di dedicare parte del proprio tempo a curare, crescere ed educare i figli, mentre di norma in Europa a parità di reddito la differenza tra chi ha e chi non ha figli a carico è consistente. Basti pensare che la differenza di imposta diretta su un reddito nominale di 30.000 euro per una famiglia con due figli e una coppia senza figli è di circa 3.500 euro in Francia, di circa 6.000 euro in Germania e di appena 1.300 euro nel nostro Paese;
    considerata l'esigenza di una maggiore equità orizzontale, appare evidente che l'introduzione di un nuovo sistema fiscale che indichi nella famiglia e non più nell'individuo l'unità impositiva dell'imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) segnerebbe una sostanziale inversione di rotta per il sistema fiscale italiano;
    sono passati oltre trent'anni da quando è entrata in vigore la legge quadro n. 405 del 1975, con la quale furono istituiti i consultori familiari. Essi sono nati sotto l'influenza del dibattito sulle rivendicazioni per l'emancipazione della donna che ha caratterizzato gli anni settanta e che ha imposto all'attenzione dell'opinione pubblica la necessità di un luogo di dialogo e di informazione sulla sessualità, sulla procreazione e sulla contraccezione. Nelle intenzioni del legislatore, le attività consultoriali avrebbero dovuto offrire un vasto programma di consulenza e un servizio globale alla donna, alle coppie e ai nuclei familiari in tutti quei settori tematici legati alla coppia e alle problematiche coniugali e genitoriali, ai rapporti e ai legami interpersonali e familiari, alla procreazione responsabile. Pur ponendo l'accento sul valore storico che hanno rappresentato per la società, è doveroso riconsiderare il lavoro svolto e l'attuale ruolo dei consultori familiari nel nostro Paese, alla luce anche dei notevoli cambiamenti sopravvenuti nell'attuale contesto socio-culturale. Il consultorio ha inoltre assunto in questi anni, anche a seguito della riforma sanitaria, di cui alla legge n. 833 del 1978, e successive modificazioni, la struttura di servizio marcatamente sanitario, in cui si sono privilegiati gli interventi di tipo ginecologico e pediatrico a discapito della vocazione di ispirazione sociale. I consultori familiari devono quindi qualificarsi sempre di più, evitando una rigida settorializzazione e riduzione al pur importante ma non esclusivo ambito sanitario di competenza. Per rispondere a queste problematiche è necessario che all'interno del consultorio si rafforzino interventi di tipo sociale, psicologico e di consulenza giuridica che nella loro interazione continua possano costituire un valido riferimento per la donna e per la famiglia;
    si rende urgente, dunque, e non più procrastinabile una riforma dei consultori familiari che dimostri nei fatti una particolare attenzione e sensibilità ai diritti dei minori e della famiglia, fortemente impegnata nella tutela sociale della genitorialità e del concepito. Di qui l'intendimento di garantire il ruolo partecipativo delle famiglie e delle organizzazioni di volontariato a difesa della vita per l'espletamento delle attività consultoriali. Bisogna tornare a ciò che già era ben esplicitato nelle intenzioni del legislatore che nel 1975 aveva approvato la legge n. 405 (ovvero l'assistenza alla famiglia, l'educazione alla maternità e alla paternità responsabili, l'educazione per l'armonico sviluppo fisico e psichico dei figli e per la realizzazione della vita familiare), ma che nei fatti è stato residualmente attuato, complice anche la talora mera funzione burocratica dei consultori, ridotti, troppo spesso, a pura assistenza sanitaria, carenti di quelle necessarie sensibilità e competenza su problematiche sociali per le quali furono istituiti. Nei consultori familiari, non sempre viene pienamente attuato il diritto della donna di ricevere valide alternative all'aborto, poiché c’è chi sostiene che sarebbe un'ingerenza nella scelta personale, eppure proprio secondo quanto stabilito dagli articoli 2 e 5 della legge n. 194 del 1978, l'assistenza da dare alla donna in gravidanza deve essere attuata con l'informazione sui diritti spettanti alla gestante, sui servizi sociali, sanitari e assistenziali a lei riservati, sulla protezione che il mondo del lavoro deve assicurare a tutela della gestante;
    il nostro Paese è agli ultimi posti tra i Paesi dell'Unione europea per la spesa per la famiglia e l'infanzia;
    l'introduzione del federalismo fiscale, che nella sua applicazione reale fa registrare ancora un ritardo ingiustificabile, segna una netta inversione di rotta in merito alle politiche a tutela della famiglia. Questa nuova autonomia regionale e locale dovrà, infatti, essere guidata in base ai principi di coordinamento che sono elencati nella legge delega. Tra questi principi di delega vi è, infatti, quello del favor familiae: «individuazione di strumenti idonei a favorire la piena attuazione degli articoli 29, 30 e 31 della Costituzione, con riguardo ai diritti e alla formazione della famiglia e all'adempimento dei relativi compiti»;
    per l'ordinamento italiano si conferma quindi la opportunità di rivisitare, dentro un quadro complessivo, il favor familiae previsto dalla Costituzione;
    le formule da questo punto di vista possono essere diverse. L'imposizione a livello familiare può essere realizzata con diverse metodologie: lo splitting, il quoziente familiare o il più recente sistema denominato fattore famiglia. Il metodo che si deciderà di adottare poco conta, se la volontà sarà quella di sostenere economicamente la famiglia dando finalmente piena attuazione al disposto Costituzionale;
    gli obiettivi fissati a Lisbona prevedono che il 33 per cento dei minori al di sotto dei tre anni di età possa usufruire del servizio di asilo nido. Dai dati risulta che in media nel nostro Paese solo il 18,7 per cento dei bambini di 0-2 anni frequenta un asilo nido pubblico o privato;
    è necessario affrontare in maniera sistematica il problema della carenza su tutto il territorio nazionale dei servizi socio-educativi (asili nido). Oggi l'offerta pubblica è di gran lunga inferiore alla domanda e in alcune città il rapporto è di un posto disponibile ogni dieci richiesti. Una realtà complessa e disomogenea e ancora molto lontana dal centrare gli obiettivi europei. La legge 6 dicembre 1971, n. 1044, che istituì i nidi comunali con la previsione di crearne 3.800 entro il 1976, ne vede ora realizzati poco più di 3.100 (e solo nel 17 per cento dei comuni): in termini di percentuale di posti disponibili rispetto all'utenza potenziale, si traduce in un misero 6 per cento a fronte del 33 per cento posto dall'agenda di Lisbona come obiettivo comunitario che si sarebbe dovuto raggiungere nel 2010. Un 6 per cento che diventa un 9,1 per cento se si considerano anche le strutture private che offrono il servizio di assistenza alla prima infanzia, con una grande sperequazione territoriale: si passa dal 16 per cento in Emilia Romagna all'1 per cento in Puglia, Calabria e Campania;
    gli asili nido comunali rientrano nella gamma dei servizi a domanda individuale resi dal comune a seguito di specifica domanda dell'utente. Nel caso degli asili nido, il livello minimo di copertura richiesta all'utente è del 50 per cento, ma le rette variano sensibilmente da comune a comune poiché la misura percentuale di copertura dei costi di tutti i servizi a domanda individuale da parte dell'utenza viene definita al momento dell'approvazione del bilancio di previsione comunale. Le rette sono determinate nel 75 per cento dei casi in base all'Isee, nel 20 per cento dei casi in base al reddito familiare e nel restante 5 per cento la retta è unica;
    si ritiene necessario un intervento che nel breve periodo possa offrire una risposta rapida alle richieste di posti nelle strutture socio-educative e per far questo è importante agire con formule nuove cercando di coniugare l'iniziativa pubblica a quella privata applicando sistemi di collegamento rapidi tra le istituzioni nel rispetto del principio di sussidiarietà verticale e orizzontale (presso la Camera dei deputati è stata presentata una proposta di legge del gruppo parlamentare Lega Nord e Autonomie A.C. 2163 «Norme in materia di gratuità dei servizi socio-educativi per l'infanzia»);
    l'ambizioso obiettivo che si vuole realizzare punta ad introdurre un sistema territoriale gratuito di servizi socio-educativi per la prima infanzia. Tutto ciò è realizzabile concependo e istituzionalizzando l'idea di un sistema articolato dei servizi socio-educativi per la prima infanzia. Sistema cui concorrono il pubblico, il privato, il privato sociale e i datori di lavoro, con l'obiettivo di creare sul territorio un'offerta flessibile e differenziata di qualità. Un particolare rilievo deve assumere la centralità della famiglia, anche attraverso le sue formazioni associative, poiché sempre più ampio devono essere il suo protagonismo, la capacità di espressione della sua libertà di scelta educativa e le forme di partecipazione che può mettere in atto, anche nelle scelte gestionali e nella verifica della qualità dei servizi;
    per la gestione dei servizi del sistema educativo integrato, la regione e gli enti locali devono riconoscere e valorizzare, fra l'altro, il ruolo delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale, richiedendo loro una collaborazione alla programmazione e gestione dei servizi educativi nel relativo ambito territoriale;
    si ricorda, inoltre che il Gruppo parlamentare Camera dei deputati della Lega Nord ha presentato un'altra proposta di legge sul tema l'A.C. 426, sempre finalizzata a potenziare il sistema territoriale dei servizi socio educativi. Questa proposta a differenza della prima non va a delineare il quadro entro il quale far si che il nostro Paese si doti di nuovi strumenti finalizzati a ridisegnare l'offerta dei nidi, ma intende realizzare in tempi rapidi 1.000 nuovi asili nido senza una spesa eccessiva per l'erario pubblico. Un piano straordinario per il potenziamento dei servizi socio-educativi da definire in sede di Conferenza unificata su iniziativa del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, fondato sull'erogazione di un contributo statale ripartito per le regioni e, a cascata, per gli enti locali, finalizzato alla ristrutturazione degli immobili in disuso affinché siano utilizzati come asili nido da concedere a titolo gratuito ai privati, che si impegnano a garantire rette sociali elaborate sulla media di quelli che sono i costi dei nidi pubblici della zona territoriale e ad assumere prioritariamente lavoratori socialmente utili al fine di offrire loro una vera occupazione. La realizzazione di questo piano straordinario renderà fruibili 1.000 nuovi asili nido su una superficie totale di 200.000 metri quadrati, 28.000 nuovi posti per i bambini, 10.000 nuovi posti di lavoro, contribuendo quindi anche ad un rilancio economico e occupazionale del Paese attraverso la ricollocazione di un numero importante di lavoratori socialmente utili in scadenza e il rilancio delle aziende edili di ristrutturazione e dell'indotto ad esse collegato;
    è una priorità sviluppare la formazione di un sistema integrato di servizi, che offra sostegno al lavoro di cura dei genitori, in modo da favorirne la conciliazione tra impegni familiari e lavorativi, facilitando e sostenendo l'accesso delle donne nel mercato del lavoro, in un quadro di pari opportunità e condivisione dei compiti;
    il nostro Paese deve essere da esempio nell'elaborare una linea politica di invito alla vita e operare per garantire tutte le condizioni utili ad una crescita della società incentrata sui valori di un umanesimo diffuso. Occorre, quindi, rimodulare l'azione politica sui valori fondanti della vita e della persona umana,

impegna il Governo:

   a promuovere una politica di sostegno della famiglia, quale nucleo fondamentale della società, nel riconoscimento del ruolo primario che riveste nell'educazione e nella crescita dei bambini e dei giovani adolescenti;
   a riconoscere il concepito quale componente a tutti gli effetti della famiglia;
   a non farsi promotore di iniziative volte a diffondere posizioni ideologiche che scardinano i riferimenti valoriali che appartengono, da sempre, alla tradizione culturale, sociale e religiosa del nostro Paese;
   a realizzare un'indagine amministrativa che quantifichi puntualmente l'effettiva domanda di servizi di asili nido, in modo tale da predisporre una programmazione di nuovi posti, in funzione della richiesta effettiva e non soltanto in base al numero complessivo dei bambini;
   a riconoscere, quale priorità inderogabile nell'attuazione delle linee politico- programmatiche, la realizzazione di interventi in materia di servizi socio-educativi per l'infanzia finalizzati ad efficientare il funzionamento del servizio territoriale, la sua diversificazione, flessibilità e capillarizzazione sul territorio secondo un sistema articolato, sistema cui concorrono il pubblico, il privato, il privato sociale e i datori di lavoro secondo i seguenti principi:
    a) gratuità dei servizi e delle prestazioni;
    b) requisito prioritario della residenza continuativa della famiglia nel territorio in cui sono richiesti i servizi e le prestazioni;
    c) partecipazione attiva della rete parentale alla definizione degli obiettivi educativi e delle scelte organizzative, nonché alla verifica della loro rispondenza ai bisogni quotidiani delle famiglie e della qualità dei servizi resi;
   a promuovere l'incremento delle risorse destinate al Fondo nazionale delle politiche sociali, verificandone, inoltre, l'equa ripartizione e garantendo che in tutte le città italiane vi sia la medesima accessibilità ai servizi;
   ad assumere iniziative per introdurre un sistema fiscale basato sul quoziente familiare, lo splitting o il fattore famiglia;
   ad assumere iniziative per riformare i consultori familiari al fine di dimostrare nei fatti una particolare attenzione e sensibilità ai diritti dei minori e della famiglia tutelando il valore sociale della genitorialità e del concepito;
   a promuovere una politica finalizzata a contrastare la crisi demografica introducendo, nei futuri provvedimenti a sostegno della famiglia e della natalità, un criterio volto ad individuare i beneficiari tra i cittadini italiani comunitari e i cittadini extracomunitari che abbiano dimostrato, realmente, di volersi integrare, avendo acquisito secondo i parametri di valutazione fissati dall'accordo di integrazione di cui all'articolo 4-bis del decreto legislativo n. 286 del 1998, testo unico sull'immigrazione, un punteggio pari ad almeno 30 punti.
(1-00809)
«Rondini, Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Busin, Caparini, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Saltamartini, Simonetti».

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE IN MERITO ALL'EMERGENZA UMANITARIA RELATIVA AL CAMPO PROFUGHI DI YARMOUK, IN SIRIA, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALLA SITUAZIONE DEI MINORI

   La Camera,
   premesso che:
    secondo le informazioni che giungono dai media locali e internazionali, nonché dalle organizzazioni umanitarie, come l'Unicef, la situazione già disumana del campo profughi di Yarmouk, a circa otto chilometri a sud di Damasco, in Siria, sta assumendo un carattere di emergenza umanitaria;
    il campo profughi su citato, abitato da circa 18 mila palestinesi, è stato occupato dal 1o aprile 2015 dallo Stato islamico (Is), che attualmente presidia gli accessi al medesimo campo;
    all'interno del campo di Yarmouk si trovano circa 3.500 bambini, ostaggi del terrorismo, senza acqua, cibo e medicinali, costantemente a rischio di morte, abusi e violenze;
    l'8 aprile 2015, il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, Paolo Gentiloni, ha previsto di mettere in campo un intervento urgente in favore dell'Unicef e dell'Unrwa (Agenzia dell'Onu per i rifugiati palestinesi), pari a 1,5 milioni di euro, contribuendo così all'attività di Unicef di protezione umanitaria e assistenza psicologica ai bambini palestinesi, che sono tuttora nel campo, oltre che alle famiglie che sono riuscite a evadere dalla spaventosa trappola di guerra, fame e deprivazioni;
    il Ministro Gentiloni ha, altresì, evidenziato la necessità di intervenire rapidamente e fare il possibile per creare corridoi umanitari, con l'obiettivo di limitare i danni di una situazione già drammatica;
    è necessario agire prontamente non solo con gli aiuti economici, ma con azioni finalizzate ad allontanare i bambini del campo profughi di Yarmouk dalle zone di guerra e da condizioni precarie al limite della sopravvivenza, favorendo programmi solidaristici di accoglienza e affidamenti temporanei;
    i citati programmi solidaristici possono essere realizzati dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, congiuntamente al Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, tramite l'accoglienza temporanea in Italia di minorenni non aventi cittadinanza italiana o di altri Stati dell'Unione europea, attraverso l'attività di promozione operata da enti, associazioni o famiglie, seguiti da uno o più adulti con funzioni di sostegno, guida e accompagnamento;
    la realizzazione di tali programmi potrà avvenire sulla base della normativa prevista dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 9 dicembre 1999, n. 535, che ha definito i compiti del «Comitato minori stranieri», affinché venga garantita la tutela dei minorenni accolti in Italia nell'ambito di programmi solidaristici, in linea con quanto dichiarato dalla Convenzione Onu sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza del 20 novembre 1989;
    la permanenza in Italia di breve durata potrà avvalersi dell'esperienza positiva, realizzata dal 1993, tramite l'accoglienza dei bambini vittime delle conseguenze della nube tossica di Chernobyl e residenti nelle zone contaminate della Bielorussia,

impegna il Governo:

   a mettere in atto a livello internazionale, nel più breve tempo possibile, tutte le azioni necessarie per arginare questa tragedia che coinvolge tanti bambini e adolescenti, prendendo immediati contatti con enti e associazioni che già operano sul territorio;
   ad attivare corridoi umanitari e programmi di accoglienza destinati ai bambini di Yarmouk e alle centinaia di minori che sono profughi in Libano, ostaggi del terrorismo;
   a promuovere permanenze temporanee in Italia dei bambini profughi da Yarmouk, assumendo come riferimento le modalità degli affidamenti temporanei, già sperimentati con successo in occasione dell'accoglienza dei bambini di Chernobyl da parte delle famiglie italiane.
(1-00785)
«Iori, Sberna, Daniele Farina, Locatelli, Pinna, Tidei, Antezza, Carra, Cimbro, Fossati, Gadda, Gasparini, Giacobbe, Gribaudo, Iacono, Incerti, Laforgia, Maestri, Malisani, Martelli, Romanini, Villecco Calipari, Zampa, Giovanna Sanna, Bazoli, Lodolini, Roberta Agostini, Senaldi, La Marca, Piccione, Patriarca, Rotta, Scuvera, Bergonzi, Piccoli Nardelli, Miotto, Zanin, Franco Bordo, Antimo Cesaro, Rabino, Albanella, Piazzoni».
(9 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    il campo profughi palestinese di Yarmouk, che dista qualche chilometro dal centro di Damasco, è diventato dal 1o aprile 2015 teatro di battaglia tra i jihadisti del sedicente Stato Islamico (Is) e del gruppo radicale al-Nusra; secondo fonti locali i terroristi controllerebbero ormai il 90 per cento del campo; risulta che i ribelli entrati nella parte sud del campo, aiutati da gruppi ribelli all'interno dello stesso, abbiano sposato la causa di Daesh (l'acronimo arabo per lo Stato islamico dell'Iraq e del Levante noto come Is), riuscendo in questo modo a compattare i diversi piccoli gruppi di ribelli;
    il campo è stato costruito dopo la guerra tra arabi e israeliani, con la cacciata di decine di migliaia di palestinesi dalle proprie terre e case, nel 1948; prima dell'inizio della guerra civile in Siria, a Yarmouk vivevano circa 150.000 palestinesi ed era una vera e propria città con le sue moschee, le sue scuole e i suoi edifici pubblici. Il numero dei residenti, poi, è calato quando la vita a Yarmouk è peggiorata a causa della recrudescenza e della crudeltà della guerra in Siria, in particolare da quando nel 2012 l'esercito e i ribelli hanno iniziato a contendersi la zona;
    da varie fonti di stampa, risulta che nel campo profughi siano attualmente tenuti in ostaggio almeno 3.500 bambini e oltre 10.000 adulti e molti di loro soffrono di disabilità, senza cibo né acqua o medicine; tra l'altro, si rincorrono voci circa la possibilità che vi siano state anche esecuzioni sommarie e non si hanno ancora notizie certe del numero di morti per combattimento;
    tale drammatica situazione è stata paventata dall'Unicef come una nuova Srebrenica, città tristemente nota poiché, nella zona protetta che si trovava in quel momento sotto la tutela delle Nazioni Unite, migliaia di musulmani bosniaci furono uccisi l'11 luglio 1995 da parte delle truppe serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladic, con l'appoggio dei gruppi paramilitari guidati da Zel   o Raznatovic;
    il Consiglio di sicurezza dell'Onu ha già chiesto che sia consentito l'accesso alle varie agenzie umanitarie per assicurare la protezione dei civili, l'assistenza umanitaria e salvare vite umane, come ha spiegato l'ambasciatrice giordana, Dina Kawar, il cui Paese ha la presidenza di turno;
    è, dunque, in corso una tragedia umana, oltre i confini di Israele, che pure dovrebbe fare la propria parte in questo sforzo internazionale, ad esempio concedendo all'Anp di accogliere una parte dei profughi di Yarmouk, visto che quasi venti mila profughi palestinesi sono intrappolati all'interno di un Paese dilaniato da 5 anni di guerra civile, assediati dalla ferocia di cellule estremiste;
    aerei dell'aviazione siriana hanno già bombardato l'accampamento di profughi palestinesi e siriani un paio di anni fa all'inizio del conflitto; gravi sono le responsabilità del regime di Al Assad nell'aver fatto deteriorare la situazione umanitaria a Yarmouk, costringendo decine di migliaia di persone a abbandonarla;
    il Commissario generale dell'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione per i rifugiati palestinesi (Unrwa), Pierre Krahenbuhl, ha dichiarato che i civili intrappolati nel campo profughi sono «più disperati che mai, la situazione si è capovolta (...) al di là del disumano. In questo momento è semplicemente troppo pericoloso entrare a Yarmouk»;
    i rifugiati palestinesi provenienti dalla Siria non godono degli stessi diritti dei rifugiati siriani, in quanto non sono formalmente riconosciuti come cittadini di un altro Stato, ma alla stregua dei palestinesi già presenti storicamente in Paesi come il Libano e la Giordania;
    dal 1948 i rifugiati palestinesi sono «assistiti» dall'Unrwa (che, tuttavia, per insufficienza dei fondi, non è in grado di fare molto) e si pone il problema di superare quella che appare ormai una vetusta organizzazione e dare, invece, pari dignità con gli altri rifugiati all'interno del sistema dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati,

impegna il Governo:

   a farsi promotore, di concerto con la comunità internazionale, di una forte iniziativa tesa alla protezione dei rifugiati palestinesi e alla loro eventuale evacuazione dal campo di Yarmouk, anche attraverso l'attivazione di corridoi umanitari sotto l'egida della Croce rossa internazionale;
   ad agire su tutti gli attori regionali in campo, compresi i Paesi confinanti, per giungere a un cessate-il-fuoco tra le parti in modo da rendere praticabile l'aiuto umanitario;
   a sostenere ogni iniziativa volta all'ospitalità di bambini palestinesi nelle strutture in Italia, alla stregua di quanto già fatto positivamente in passato, in altre occasioni drammatiche, nonché a predisporre l'eventuale cura dei feriti provenienti dai campi presso gli ospedali italiani;
   a chiedere il pieno riconoscimento delle pari dignità dei rifugiati palestinesi con gli altri rifugiati dentro il sistema di protezione previsto dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati in funzione del superamento dell'ormai obsoleta Unrwa;
   a valorizzare la rinnovata attenzione della comunità internazionale sul dramma che si sta consumando in Siria per stimolare la stessa e tutti gli attori interessati al fine di rendere finalmente concreto e credibile il non più rinviabile processo di pace in quella regione.
(1-00792)
«Manlio Di Stefano, Grande, Spadoni, Scagliusi, Sibilia, Del Grosso, Di Battista».
(13 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    la situazione nel campo profughi di Yarmouk, in Siria, è drammatica e si è di fronte a un'emergenza umanitaria che sta assumendo i contorni di una tragedia annunciata: 3.500 bambini sono senza acqua, cibo e medicinali;
    l'Unicef parla di una nuova Srebrenica e afferma che il campo profughi di Yarmouk è un vero e proprio inferno nell'inferno del conflitto siriano, alle porte di Damasco, sotto il controllo violento dello Stato islamico e del fronte al-Nusra, che, secondo fonti locali, controllano ormai l'80 per cento del campo. Da sei giorni si combatte casa per casa;
    l'Unicef, l'agenzia dell'Onu che si occupa dell'infanzia, ricorda che nel 1995 i serbo-bosniaci trucidarono circa 8.000 musulmani e parla delle atrocità compiute dai jihadisti, come di qualcosa che va «oltre il disumano»: esecuzioni sommarie, decapitazioni, rapimenti;
    il Segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, il 10 aprile 2015 ha detto alla stampa che: «Nell'orrore che è la Siria, il campo profughi di Yarmouk è il cerchio più profondo dell'inferno. È un campo profughi che comincia a sembrare un campo di sterminio (...) Non possiamo semplicemente stare in attesa e vedere un massacro che si realizza». Ban Ki-moon ha aggiunto che il livello di brutalità dell'Isis è «indescrivibile e che i residenti di Yarmouk, inclusi i bambini, vengono usati come scudi umani»;
    Dina Kawar, ambasciatrice giordana negli Stati Uniti e attuale presidente del Consiglio di sicurezza dell'Onu, chiede che i civili vengano protetti e venga garantito l'accesso umanitario alla zona, per fornire assistenza, salvare vite e assicurare che i civili vengano fatti uscire dal campo in sicurezza. La preoccupazione dell'Onu è stata espressa dopo la presentazione da parte di Pierre Krahenbuhl dell'Unrwa – l'agenzia delle Nazioni Unite che si occupa solo di rifugiati palestinesi – di un rapporto sulle condizioni di vita a Yarmouk, che sono «più disperate che mai». Christopher Gunness, un altro operatore dell'Unrwa, ha raccontato che i convogli dell'agenzia non riescono a entrare nel campo a causa dei combattimenti tra i gruppi palestinesi e i ribelli siriani che dal 1o aprile 2015 cercano di fermare l'avanzata dell'Isis: a Yarmouk non c’è cibo, non c’è acqua, ci sono pochissime medicine;
    l'8 aprile 2015 il Governo italiano, prendendo atto che i bambini sono a rischio di morte, abusi e violenze, ha annunciato di aver stanziato 1,5 milioni di euro per sostenere le attività dell'Unicef e dell'Unwra. Il Ministro Paolo Gentiloni, dopo un vertice trilaterale con i Ministri di Egitto, Sameh Shoukry, e Algeria, Abdelkader Messahel, ha detto: «L'emergenza umanitaria nel campo profughi di Yarmouk è drammatica. La Farnesina ha deciso di stanziare 1,5 milioni di euro destinato ai 3.000 bambini del campo profughi di Yarmouk attraverso l'Unicef e l'Unwra». Il Ministro ha anche ribadito che occorre intervenire rapidamente e fare il possibile per creare corridoi umanitari che consentano di limitare i danni,

impegna il Governo:

   a mettere tempestivamente in atto tutte le politiche internazionali necessarie per arginare questa tragedia che coinvolge oltre 3.500 tra bambini e adolescenti, facilitando i contatti con gli enti e le associazioni che già operano sul territorio, per far giungere loro le risorse necessarie a far fronte a questa emergenza;
   ad attivare corridoi umanitari e programmi di accoglienza destinati ai bambini di Yarmouk e alle centinaia di minori profughi in Libano, attualmente ostaggi del terrorismo, individuando residenze, luoghi di accoglienza, altri campi in altri Paesi, in cui accogliere questi bambini in attesa di soluzioni che abbiano un carattere di maggiore stabilità per la loro vita e per il loro futuro;
   a facilitare il ricongiungimento di questi bambini con le loro famiglie attraverso specifici interventi delle associazioni presenti sul territorio, orientando gli aiuti ai nuclei familiari ricomposti;
   a promuovere permanenze temporanee in Italia dei bambini profughi da Yarmouk, in analogia con quanto fatto a suo tempo dalle famiglie italiane per l'accoglienza dei bambini di Chernobyl.
(1-00796)
«Binetti, Dorina Bianchi, Buttiglione, De Mita, Cera».
(13 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    il 1o aprile 2015 la televisione libanese Al Mayadin ha informato il mondo intero del fatto che miliziani del sedicente Stato islamico avevano raggiunto il campo profughi palestinese di Yarmouk, inaugurato nel lontano 1948 e situato alle porte di Damasco, dove risiedono circa 15 mila persone;
    si ricorda come la protezione dei rifugiati palestinesi fosse un elemento importante della posizione internazionale adottata dal regime siriano degli Assad, sempre attento a presentarsi ufficialmente come un campione della cosiddetta «resistenza» (all'occupazione israeliana), intrattenendo rapporti privilegiati prima con l'Olp e poi anche con l'organizzazione rivale denominata Hamas, costola della Fratellanza musulmana a Gaza ed alleata dell'Iran;
    all'attacco condotto dai miliziani dello Stato islamico contro il campo profughi di Yarmouk hanno fatto seguito decapitazioni e violenze di varia natura, nonché lo scoppio di una gravissima crisi umanitaria, le cui prime vittime sono i circa 3.500 bambini rimasti nella struttura occupata dai miliziani dello Stato islamico, oltre alle centinaia di civili che avrebbero già perso la vita, mille secondo il deputato arabo-israeliano Ahmed Tibi;
    si esprimono perplessità sui reali obiettivi dell'attacco sferrato dal sedicente califfato contro il campo profughi di Yarmouk, potendo teoricamente esserne bersagli tanto i simpatizzanti di Hamas, significativamente numerosi nella struttura, quanto quelli dell'Olp e lo stesso regime di Damasco, per ragioni naturalmente differenti;
    si stigmatizza la circostanza che, una volta di più, ad infliggere sofferenze ingiustificate al popolo palestinese siano proprio le forze ed i movimenti che alla sua condizione fanno riferimento per reclutare giovani da mandare al macello contro l'Occidente ed i suoi alleati in Medio Oriente;
    si rileva, altresì, la dichiarata e sospetta indisponibilità dell'Olp a tentare la riconquista manu militari del campo profughi di Yarmouk, espressa con una nota pubblicata il 10 aprile 2015, appena 24 ore dopo un annuncio del tutto differente reso dall'inviato del Presidente palestinese Abu Mazen nell'area, Ahmad Majdalani, che aveva parlato di 14 fazioni pronte all'azione contro lo Stato islamico;
    si richiamano le notizie di origine saudita, secondo le quali Ayman al-Zawahiri avrebbe recentemente autorizzato i membri di al-Qaeda a collaborare con il sedicente Stato islamico, cosa che in Siria comporterebbe la ripresa della cooperazione organica tra al-Nusra e gli adepti del califfato, proprio mentre in chiave anti-sciita ed anti-iraniana si osserva in Yemen una significativa convergenza tra l'Arabia Saudita, il Qatar e la Turchia;
    le sopra menzionate potenze regionali del Medio Oriente sono, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, in grado di esercitare efficaci pressioni sul sedicente Stato islamico ed i suoi partner ed alleati, inducendolo a ritirarsi invece di dare battaglia,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative affinché i Governi di Arabia Saudita, Qatar e Turchia condannino senza riserve quanto sta accadendo a Yarmouk, esercitando, altresì, sui vertici del sedicente Stato islamico ed i suoi partner ed alleati tutta la pressione indispensabile ad ottenerne un cambio di atteggiamento;
   a riconsiderare anche i termini ufficiali della posizione del Paese nei confronti delle parti belligeranti in Siria;
   a confermare l'offerta di sostegni umanitari alla popolazione del campo di Yarmouk, una volta che sarà possibile assicurarne in sicurezza il trasporto e la consegna agli interessati, evitando nel frattempo di concorrere con truppe italiane all'eventuale apertura di corridoi umanitari che potrebbero essere presto interrotti senza preavviso da forze preponderanti.
(1-00799)
«Gianluca Pini, Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Busin, Caparini, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Rondini, Saltamartini, Simonetti».
(13 aprile 2015)

INTERROGAZIONI A RISPOSTA IMMEDIATA

   VARGIU. — Al Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione. — Per sapere – premesso che:
   l'articolo 22 del decreto legislativo n. 33 del 2013 dispone precisi obblighi di pubblicazione dei dati relativi agli enti pubblici vigilati e agli enti di diritto privato in controllo pubblico, nonché alle partecipazioni in società di diritto privato;
   nello specifico il comma 1 prescrive a ciascuna amministrazione la pubblicazione e l'aggiornamento annuale di tre diversi elenchi che riguardano:
    a) gli enti pubblici, comunque denominati, istituiti, vigilati e finanziati dall'amministrazione medesima ovvero per i quali l'amministrazione abbia il potere di nomina degli amministratori dell'ente. Per tali enti vanno elencate le funzioni attribuite e le attività svolte in favore dell'amministrazione o le attività di servizio pubblico affidate;
    b) le società di cui sono detenute direttamente quote di partecipazione anche minoritaria. Per tali società sono da indicare l'entità della quota, con l'indicazione delle funzioni attribuite e delle attività svolte in favore dell'amministrazione o delle attività di servizio pubblico affidate;
    c) gli enti di diritto privato, comunque denominati, in controllo dell'amministrazione, con l'indicazione delle funzioni attribuite e delle attività svolte in favore dell'amministrazione o delle attività di servizio pubblico affidate;
   il comma 2 prescrive, per ciascuno di tali enti, la pubblicazione dei dati relativi alla ragione sociale, alla misura dell'eventuale partecipazione dell'amministrazione, alla durata dell'impegno, all'onere complessivo a qualsiasi titolo gravante per l'anno sul bilancio dell'amministrazione, al numero dei rappresentanti dell'amministrazione negli organi di governo, al trattamento economico complessivo a ciascuno di essi spettante, ai risultati di bilancio degli ultimi tre esercizi finanziari. Sono, altresì, pubblicati i dati relativi agli incarichi di amministratore dell'ente e il relativo trattamento economico complessivo;
   un'approfondita e scrupolosa ricerca condotta dal centro studi dei Riformatori sardi, sulla base di quanto pubblicato dalle amministrazioni provinciali e comunali sui loro siti, ha rilevato la presenza di 29 società partecipate dalle province e 26 partecipate comunali al 100 per cento. Di queste ultime 15 si trovano nei comuni con popolazione inferiore ai 15 mila abitanti;
   i ricercatori del centro studi dei Riformatori sardi hanno verificato la sussistenza dei requisiti previsti dal comma 2 dell'articolo 2 del decreto legislativo n. 33 del 2013 e dall'analisi è emerso che il 58 per cento delle partecipate provinciali e il 73 per cento delle società partecipate comunali in house non pubblica o non aggiorna i dati relativi specificatamente agli oneri erogati dalle amministrazioni alle partecipate e ai risultati di bilancio;
   la ricerca ha accertato, inoltre, che le amministrazioni provinciali e comunali hanno erogato complessivamente negli ultimi anni circa 60 milioni di euro (rispettivamente 32,5 milioni di euro le province e 26,8 milioni di euro i comuni per le società in house). Tale ammontare si intende come parziale e sottostimato, perché limitato solo alle cifre dichiarate dalle singole amministrazioni;
   un focus specifico sugli enti controllati nei sette comuni con popolazione superiore ai 30 mila abitanti (Cagliari, Sassari, Nuoro, Quartu Sant'Elena, Oristano, Alghero, Olbia) ha rilevato la presenza, in questi comuni, di 66 enti tra enti pubblici vigilati, società partecipate a qualsiasi quota ed enti di diritto privato controllati per un totale di oneri dichiarati pari ad almeno 35,1 milioni di euro;
   tra le suddette realtà si riscontra oltre la metà di enti con requisiti di trasparenza non coincidenti con quanto stabilito dall'articolo 22 del decreto legislativo n. 33 del 2013;
   al comma 4 dell'articolo 22 del decreto legislativo n. 33 del 2013 si dispone che, nel caso di mancata o incompleta pubblicazione dei dati relativi agli enti sopra indicati, è vietata l'erogazione in loro favore di somme a qualsivoglia titolo da parte dell'amministrazione interessata –:
   se possano essere considerati legittimi i trasferimenti alle società partecipate e agli altri enti citati dal comma 1 dell'articolo 22 del decreto legislativo n. 33 del 2013 erogati dalle amministrazioni inadempienti con gli obblighi previsti dallo stesso articolo e, in caso negativo, se possano essere revocati. (3-01432)
(14 aprile 2015)

   AIRAUDO, PLACIDO, SCOTTO, FRANCO BORDO, COSTANTINO, DURANTI, DANIELE FARINA, FERRARA, FRATOIANNI, GIANCARLO GIORDANO, KRONBICHLER, MARCON, MATARRELLI, MELILLA, NICCHI, PAGLIA, PALAZZOTTO, PANNARALE, PELLEGRINO, PIRAS, QUARANTA, RICCIATTI, SANNICANDRO, ZARATTI, ZACCAGNINI. — Al Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione. — Per sapere – premesso che:
   il burrascoso avvio dell’iter di riordino delle funzioni istituzionali di cui alla legge n. 56 del 2014 (cosiddetta legge Delrio), che vede coinvolte in primis le province e che sposterà, secondo un preciso ed affrettato timing scandito dai commi da 418 a 430 dell'articolo 1 della legge n. 190 del 2014 (legge di stabilità per il 2015), funzioni e personale corrispondenti in altri enti, attraverso una riduzione della dotazione organica del personale, nella misura del 50 per cento per le province e del 30 per cento per le città metropolitane, e l'avvio delle relative procedure per la mobilità per le unità in esubero hanno generato una situazione di vero stallo istituzionale;
   secondo il suddetto timing, infatti, il 31 marzo 2015 scadeva il termine entro cui ogni ente provinciale, con la presentazione delle liste di eccedenza di organico, avrebbe dovuto individuare il personale che intende mantenere per gestire le nuove funzioni attribuitegli dalla «riforma Delrio». Ma, com'era ampiamente e tristemente prevedibile, la medesima data è scivolata via senza novità di rilievo;
   è, inoltre, trascorso, oramai da quasi un mese, il termine entro il quale, secondo lo stesso cronoprogramma, il Ministro interrogato avrebbe dovuto adottare il decreto per fissare tutti quei criteri finalizzati alle procedure di mobilità del personale soprannumerario delle province, con riferimento all'ambito territoriale della mobilità, al domicilio ed alle caratteristiche professionali e di anzianità anagrafica e contributiva, al fine di favorire il più possibile la ricollocazione del personale interessato e valorizzarne la professionalità acquisita, tutti criteri fondamentali anche ai fini della realizzazione, da parte dello stesso dicastero, della piattaforma informatica alla quale è affidato il compito di realizzare l'incontro domanda/offerta di mobilità tra i dipendenti provinciali in sovrannumero e gli enti coinvolti nella loro ricollocazione;
   l'assenza del suddetto decreto si accompagna anche all'assenza del censimento dei posti vacanti e delle disponibilità finanziarie delle pubbliche amministrazioni. È, infatti, rimasto solo sulla carta quel passaggio, oramai scaduto il 1o marzo 2015, entro cui le amministrazioni avrebbero dovuto redigere piani di riassetto economico, organizzativo, economico, finanziario e patrimoniale, fissandone le relative procedure per la mobilità;
   anche gli enti intermedi, come le regioni su tutti, non si stanno mostrando particolarmente collaborativi (qualcuno parla addirittura di una forma di boicottaggio più o meno esplicito da parte loro). Il rimescolamento di personale, infatti, coinvolgerà in primo luogo le stesse regioni, a cui saranno dirottati molti dei dipendenti finiti in esubero per effetto della redistribuzione delle funzioni provinciali. Risulta agli interroganti che ad oggi soltanto Liguria, Toscana, Umbria e Marche hanno approvato la legge propedeutica al trasferimento delle competenze sottratte alle province e sulla base della quale andranno definite le classi di mobilità e di ripartizione dei dipendenti in esubero;
   ma non sono soltanto le regioni a dover allargare i propri organici, pur se chiamate ad integrare la quota più ampia di lavoratori. Stessa linea dovrà essere seguita anche da Stato e comuni, gli altri due livelli istituzionali, in cui, secondo i dettami della legge di stabilità per il 2015, saranno dirottati i lavoratori delle province in esubero. D'altra parte non si può, in ogni caso, non prendere atto della circostanza che molte amministrazioni pubbliche hanno estrema difficoltà ad accettare l'influenza nella propria autonomia della scelta normativa di congelare le nuove assunzioni al fine di assorbire tutto il personale delle disciolte province;
   tale situazione, unita all'assenza di un coordinamento nel processo di ricollocazione, sta determinando il caos più totale, come casi di: mobilità riservate ma non esclusivamente ai dipendenti soprannumerari; mobilità neutre aperte a tutti; concorsi, come quello indetto dall'Agenzia delle entrate per effetto del «decreto milleproroghe» 2015; mobilità che non considerano la priorità dei dipendenti soprannumerari, come loro collocazione in testa a ogni altro interessato, ma solo come punteggio di favore, situazione determinatasi nel caso del bando da 1.031 posti del Ministero della giustizia;
   il numero esatto dei lavoratori coinvolti dalla suddetta diaspora, secondo i calcoli delle parti sociali, è prossimo alle 20.000 unità: si tratterebbe, pertanto, del più grande processo di mobilità dei dipendenti pubblici mai realizzato nel nostro Paese;
   il fondato timore di tutti è che i dipendenti delle province, da esuberi designati, possano finire, tra continui rinvii amministrativi, in un limbo senza un esito prevedibile, vittime dell'impeto riformatore di un Governo che sembra più preoccupato di annunciare il risultato piuttosto che assumere l'atteggiamento migliore con il quale guidare il cambiamento;
   all'incertezza sulla complessiva tenuta del sistema, soprattutto dopo i preoccupanti tagli apportati ai finanziamenti degli enti locali con la legge di stabilità per il 2015, e sulle effettive garanzie a salvaguardia dei livelli occupazionali e salariali, si aggiunge la difficoltà delle amministrazioni interessate al processo di riorganizzazione di conciliare la ricollocazione del personale provinciale alle proprie effettive esigenze lavorative, senza mortificare o disperdere il patrimonio professionale di quanti, sino ad oggi, sono stati quotidianamente al servizio dei cittadini;
   qualsiasi ipotesi d'indiscriminata messa in mobilità di lavoratori pubblici va, pertanto, contrastata attraverso una gestione condivisa del processo di riforma dell'assetto istituzionale che consenta di riorganizzare il sistema valorizzando il capitale umano –:
   come si intendano rispettare i termini di perfezionamento del suddetto processo di riordino e come si intenda giungere, entro il 31 dicembre 2016, al pieno ricollocamento di tutto il personale delle province, intervenendo, se necessario, anche normativamente per correggere i tagli finanziari a regioni, province e comuni, al fine di evitare il collocamento in disponibilità anche di un solo dipendente e, quindi, scongiurare l'avvio dei licenziamenti a conclusione dell'intero iter. (3-01433)
(14 aprile 2015)

   ALFREIDER, GEBHARD, PLANGGER, SCHULLIAN e OTTOBRE. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   l'articolo 1, comma 118, della legge 23 dicembre 2014, n. 190 (legge di stabilità per il 2015), ha istituito uno sgravio contributivo per le assunzioni a tempo indeterminato effettuate nel 2015, consistente nell'esonero dal versamento dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro, per un importo massimo di 8.060 euro annui per un massimo di 36 mesi;
   tale disposizione prevede uno stanziamento limitato di risorse, pari a 1 miliardo di euro annui, a valere sul fondo di rotazione gestito dal Ministero dell'economia e delle finanze, di cui all'articolo 5 della legge 16 aprile 1987, n. 183, il cui monitoraggio viene effettuato sulla base di una relazione mensile che l'Inps fa al Ministero del lavoro e delle politiche sociali e al Ministero dell'economia e delle finanze;
   da notizie di stampa, anche di riviste specializzate del settore, sembra che l'agevolazione abbia sortito l'effetto di produrre un notevole incremento di assunzioni a tempo indeterminato con risvolti positivi in termini occupazionali, ma, con risorse così limitate, le imprese che stanno assumendo, nonostante tutte le difficoltà connesse alla perdurante crisi economica, temono che non potranno usufruire dell'incentivo fiscale e sarebbe opportuno dare un segnale di sostegno anche ad esse –:
   se possa fornire dati aggiornati in suo possesso sull'attuale disponibilità del fondo di rotazione utilizzato a copertura dell'esonero contributivo di cui all'articolo 1, comma 118, della legge 23 dicembre 2014, n.190, e, visto il successo in termini occupazionali della norma, se ritenga di poter promuovere la proroga di tale previsione normativa, ovvero promuoverne l'evoluzione nel senso di renderla strutturale, anche tramite l'ampliamento della disponibilità finanziaria del fondo destinata allo sgravio contributivo per le imprese che assumono a tempo indeterminato. (3-01434)
(14 aprile 2015)

   PIZZOLANTE. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. Per sapere – premesso che:
   il riconoscimento comunitario del buon lavoro svolto dal Governo, in termini di riforme strutturali e di politiche di bilancio, ha consentito una maggiore flessibilità nell'applicazione delle regole comunitarie sul rientro del debito pubblico; si è così formato una «spazio di manovra», definito «tesoretto», del valore di 1,6 miliardi di euro per il 2015 da destinare ad interventi urgenti; ulteriori e più ampi spazi di manovra sono previsti per i prossimi anni;
   il Governo ha preannunziato che utilizzerà queste risorse tramite un apposito provvedimento; sulle possibili destinazioni sono state avanzate le più disparate ipotesi;
   i lavoratori autonomi sono stati tra i più colpiti dalla crisi economica che affligge il nostro Paese dal 2008, in particolare perché nei loro confronti non sono applicabili gli ammortizzatori sociali, né gli altri interventi a sostegno del reddito dei lavoratori dipendenti; numerosissimi sono gli artigiani, commercianti e professionisti espulsi dal sistema economico –:
   se il Governo non ritenga opportuno adottare appositi strumenti a sostegno dei lavoratori autonomi, in particolare prevedendo un «bonus per il lavoro autonomo», dando così l'opportunità a chi ne è stato «espulso» di rientrare nel circuito economico, utilizzando a tal fine le risorse evidenziate in premessa. (3-01435)
(14 aprile 2015)

   SIMONETTI, FEDRIGA, ALLASIA, ATTAGUILE, BORGHESI, BOSSI, BUSIN, CAPARINI, GIANCARLO GIORGETTI, GRIMOLDI, GUIDESI, INVERNIZZI, MARCOLIN, MOLTENI, GIANLUCA PINI, RONDINI e SALTAMARTINI. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. Per sapere – premesso che:
   è notizia pubblicata sul quotidiano La Nazione il 12 aprile 2015 quella di uno studio scientifico svolto presso la facoltà di psicologia di un'università italiana nel periodo settembre 2013-aprile 2014 su un campione di 50 esodati, finalizzato a verificare se la «riforma Fornero» del 2011 ha provocato «l'insorgenza di alterazioni psicopatologiche conclamate e se ha avuto ripercussioni sullo stato di salute generale e sulla qualità di vita dei diretti interessati»;
   dalla ricerca è emerso che le persone coinvolte «condividono una dolorosa e arrabbiata constatazione di uno stravolgimento esistenziale, non solo per effetto della sopraggiunta precarietà economica, ma anche per la rottura dei legami sociali, talvolta anche familiari». Non essendo l'esodato né più lavoratore né ancora pensionato, «l'inattesa perdita dell'identità sociale porta inevitabilmente a riflettere sul tratto di vita già vissuto e su quello a venire. Sorge un sentimento di sfiducia, uno scoraggiamento che fa sentire fragili, vulnerabili, inutili, impotenti. Alcuni sperimentano un senso di vergogna, che conduce lentamente all'isolamento»;
   lo studio conferma, dunque, gli effetti destabilizzanti che la «riforma Fornero» ha prodotto sotto il profilo economico, sociale e psicologico, sulle persone rimaste in mezzo al guado; «L'aspetto intergenerazionale svolge anch'esso una parte importante: da un lato, i genitori anziani che necessitano di assistenza suscitano una serie di implicazioni psicologiche legate al processo di “presa di coscienza” del proprio invecchiamento; dall'altro, i rapporti con i figli (universitari, disoccupati, indipendenti con o senza una famiglia) si fanno complessi e ambivalenti: si acuiscono le difficoltà di comunicazione, si entra in “concorrenza” nella ricerca di un lavoro, si invertono i ruoli (sono i figli che “mantengono” il padre o la madre esodato/a)»;
   a parere degli interroganti è vergognoso che il Governo, a quattro anni dall'indecente riforma che l'attuale maggioranza ha condiviso ed approvato, tenga ancora centinaia di persone nel limbo, adducendo ragioni di copertura finanziaria ed indisponibilità di risorse;
   in proposito si ricorda che circa un mese fa il Ministro interrogato ha dichiarato: «Abbiamo più soldi che esodati finora quantificati», «sono stati stanziati quasi 12 miliardi di euro» e che dalle verifiche sembrerebbe emergere che «c'erano più soldi che domande»;
   sempre con riguardo alle risorse economiche necessarie per completare il processo di salvaguardia ed includere nella platea dei beneficiari le persone e le categorie (ad esempio lavoratori precoci, postali, lavoratori della scuola «quota 96» ed altre) ad oggi escluse, il Presidente del Consiglio dei ministri Renzi, nel presentare il documento di economia e finanza, ha annunciato l'esistenza di un «tesoretto» di 1,6 miliardi di euro, sul cui utilizzo ancora non è stata presa alcuna decisione –:
   se non convenga sull'opportunità di emanare con urgenza provvedimenti di propria competenza che contemplino una settima e conclusiva salvaguardia per tutti gli esclusi dalle precedenti sei salvaguardie, utilizzando a copertura degli oneri le risorse disponibili nel fondo di cui all'articolo 1, comma 235, della legge n. 228 del 2012, come derivanti dall'avanzo di amministrazione delle entrate già accertate e vincolate alle misure di salvaguardie dai precedenti sei provvedimenti in materia, eventualmente ricorrendo, qualora le stesse dovessero risultare insufficienti, al cosiddetto «tesoretto» di cui al documento di economia e finanza. (3-01436)
(14 aprile 2015)

   BRUNETTA, MOTTOLA, POLVERINI, PALESE e OCCHIUTO. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. Per sapere – premesso che:
   sul sito dell'Inps compaiono rielaborazioni statistiche che prefigurano un ricalcolo delle pensioni relativamente ai seguenti comparti: fondo speciale delle Ferrovie dello Stato spa; fondo speciale dirigenti ex-Inpdai; fondo speciale per il trasporto aereo. Il tutto etichettato sotto la rubrica «operazione porte aperte», quasi a voler far intendere che gli attuali trattamenti pensionistici per queste categorie di lavoratori siano non stati il frutto dell'applicazione delle leggi vigenti in materia, ma di oscuri raggiri che dovrebbero essere corretti sulla base di criteri arbitrariamente scelti dagli analisti che hanno compiuto le simulazioni;
   le simulazioni mettono a confronto gli attuali trattamenti con quanto invece gli interessati avrebbero dovuto percepire in base ad ipotesi teoriche che sono solo nella testa degli loro estensori. Con la conseguenza di determinare un drastico ridimensionamento dei trattamenti in essere;
   l'operazione è scorretta da diversi punti di vista. Gli anonimi analisti, infatti, si appropriano di competenze che, fino a prova contraria, appartengono al legislatore nazionale e non sono delegabili. La loro analisi, inoltre, è viziata da evidenti incongruenze. I dati mettono a confronto la situazione effettiva, che è frutto della storia personale di ciascun pensionato, basata sulla certificazione amministrativa fornita al momento del pensionamento, con ipotesi che, per carenza di informazione, sono frutto, innanzitutto, di un «a priori»: le ipotesi di riforma non hanno, infatti, avuto il vaglio del Parlamento e presumono una ricostruzione che, non avendo a disposizione le necessarie informazioni, mescola elementi diversi (come risulta dalle note metodologiche), tra loro non omogenei, ricorrendo a forme di interpolazione arbitraria e comunque non verificate, nel metodo, da nessun organo terzo;
   operazioni di tale natura sono naturalmente legittime, quando sono effettuate da istituzioni private, il singolo ricercatore, l'università, eventuali centri studi e via dicendo; diventano inaccettabili quando collocate nel sito istituzionale dell'ente preposto alla gestione del sistema previdenziale. In questo secondo caso la loro valenza informativa assume un significato diverso. Rischia di diventare, oggettivamente, incubatore per future, più o meno prossime, decisioni governative. Tanto più che il presidente dell'Inps non fa mistero di avere un suo personale progetto di riforma del sistema pensionistico, che confonde ulteriormente i profili della previdenza con quelli della semplice assistenza;
   autorevoli esponenti del Governo hanno più volte escluso che l'ennesima riforma del sistema pensionistico faccia parte dell'agenda politica. Tuttavia il presidente dell'Inps insiste. Ne illustra gli ipotetici contenuti in conferenze stampa, dibattiti, interviste e talk show. Tutto ciò lascia intendere che quelle elaborazioni rappresentano il pavimento analitico sulla base del quale – congiuntura politica permettendo – impostare la futura riforma, i cui effetti sarebbero devastanti. Visto che si tratterebbe di introdurre un'ulteriore stretta fiscale, con conseguente taglio – comunque la si chiami o lo si giustifichi – che dovrebbe riguardare le pensioni superiori alle 2 mila euro al mese. Ritenute, a torto, appartenenti alla categoria delle «pensioni d'oro»;
   il presidente dell'Inps non può in alcun modo avocare a sé la facoltà di proporre dei radicali cambiamenti di quelle leggi che avrebbe il dovere di applicare e che assicurano stabilità al sistema pensionistico. Compito istituzionale dell'Inps non è quello di sostituirsi impropriamente al circuito decisionale – Parlamento e Governo – cui spetta deliberare in materia. Compito dell'Inps è gestire al meglio le risorse di cui dispone, che sono frutto del sacrificio di milioni di lavoratori. La priorità del suo presidente dovrebbe essere quello di garantire il massimo dell'efficienza – che oggi lascia molto a desiderare – dell'istituto che è stato chiamato a dirigere; piuttosto che occuparsi di argomenti ultronei. Del resto, se vuole coltivare il terreno dell'innovazione, gli spazi che ha a disposizione sono sterminati. Basti pensare al tema della separazione tra assistenza e previdenza. Qui la confusione, anche contabile, regna sovrana. E genera equivoci a non finire, che pesano sulla stessa reputazione internazionale del Paese. Fa lievitare impropriamente la spesa previdenziale, caricandovi gli oneri impropri delle prestazioni sociali. Nei quadri di contabilità nazionale, pertanto, la prima appare sovradimensionata, creando l'immagine di un suo carico eccessivo, rispetto alle analoghe elaborazioni – molto più puntali – degli altri Paesi;
   secondo l'ultimo consuntivo approvato (2013) le spese di funzionamento dell'Inps ammontano a 4.209,6 milioni di euro. Il personale addetto è pari a oltre 33 mila unità, ma gli sportelli sono aperti al pubblico solo dalle 8.30 del mattino alle 11.30. Dati che dimostrano quanti siano ancora ampi gli spazi di razionalizzazione, specie se si considera che nel 2013 l'Inps è riuscito a riversare nelle casse dello Stato, grazie alle economie realizzate, ben 536,3 milioni di euro. E che una cifra ancora maggiore, pari a 552,8 milioni di euro, era stata versata nel 2012. È, pertanto, auspicabile che il nuovo presidente, di cui è nota la preparazione accademica, possa fare ancora di più, dedicando tutta la sua attenzione a quello che è il core business dell'istituto;
   è bene, quindi, che ogni equivoco sia sgombrato e che tutti coloro che operano in campo pensionistico seguano uno stesso indirizzo di coerenza e di rigore;
   mantenere questa situazione di ambiguità è, infatti, intollerabile e alimenta il sospetto che sia lo stesso Governo a spingere i tecnici a precostituire il terreno più favorevole, su cui intervenire successivamente. Com’è già avvenuto per il contributo di solidarietà sulle pensioni più elevate, che poi la Corte costituzionale ha dichiarato anticostituzionale. Il tema delle pensioni, che investe milioni di persone, non può essere agitato in modo scomposto. Ogni ventilata ipotesi di riforma genera incertezze. Spinge milioni di cittadini ad adottare comportamenti conservativi, comprimendo i consumi e quindi aggravando la situazione congiunturale del Paese. Il cui principale handicap è dato proprio dalla caduta della domanda interna –:
   se il Ministro interrogato condivida le proposte di riforma più volte enunciate dal presidente dell'Inps, con la prevista riduzione delle pensioni superiori a 2 mila euro al mese, e se, nel caso, il Governo intenda predisporre un atto formale su cui avviare una discussione di merito in Parlamento, oppure se, qualora quanto esposto in premessa corrisponda ad un'iniziativa estemporanea del presidente dell'Inps, che travalica, quindi, le competenze attribuitegli, intenda stigmatizzare tale atteggiamento, in particolare per l'utilizzo strumentale del sito istituzionale dell'Inps, eliminando ogni ambiguità, soprattutto nei confronti di tutti quei cittadini potenzialmente colpiti dalle proposte di riforma, e richiamando il dovere e la necessità per il presidente di adottare un comportamento coerente con il ruolo che è stato chiamato a svolgere, fermo restando che i propri interessi accademici possono essere coltivati nelle sedi all'uopo dedicate. (3-01437)
(14 aprile 2015)

   SBERNA e GIGLI. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. Per sapere – premesso che:
   utilizzando l'indicatore della situazione economica equivalente (isee), introdotto dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 109, i contribuenti a basso reddito possono accedere in condizioni agevolate a prestazioni sociali e servizi di pubblica utilità;
   con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 5 dicembre 2013, n. 159, ed il decreto ministeriale del 7 novembre 2014 sul nuovo modello della dichiarazione sostitutiva unica è stata varata una riforma dell'isee (ex articolo 5 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201) con decorrenza 1o gennaio 2015;
   con la circolare n.48/2015 l'Inps ha comunicato le soglie isee 2015 ricalcolate con i nuovi criteri previsti dalla riforma;
   l'11 febbraio 2015 il tribunale amministrativo regionale del Lazio, con le sentenze nn. 2454, 2458 e 2459 del 2015, ha stabilito che il nuovo isee deve essere rivisto, dichiarando l'illegittimità dell'articolo 4 decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 5 dicembre 2013, n. 159, nella parte in cui prevede che nel reddito complessivo siano conteggiate anche le indennità e le pensioni percepite dai soggetti disabili;
   in una delle tre sentenze, inoltre, il tribunale amministrativo regionale del Lazio ha ritenuto illegittima la differenza tra le franchigie previste per i maggiorenni con disabilità/non autosufficienti e quelle, più alte, previste per i minori con disabilità non autosufficienti;
   essendo il software in uso all'Inps per le elaborazioni della dichiarazione sostitutiva unica tarato sulla normativa vigente, senza i correttivi apportati dalle sentenze, potrebbe verificarsi un'ulteriore situazione di stallo, che porterebbe a ritenere le certificazioni rilasciate a partire dal dicembre 2002 illegittime;
   agli interroganti giungono numerose segnalazioni relative alle criticità che il nuovo isee comporta: è diffuso il disorientamento per famiglie, centri di assistenza fiscale, sportelli informativi, associazioni, enti locali;
   l'Associazione comuni bresciani segnala, insieme alle criticità già segnalate da altri soggetti, quali la complessità burocratica e il raddoppio dei tempi di espletamento delle pratiche da parte dei centri di assistenza fiscale, la forte preoccupazione per la sostenibilità economica e di sistema per le amministrazioni locali in relazione alle franchigie per persone con disabilità media o grave e per non autosufficienti, collegate alle prestazioni agevolate di natura sociosanitaria erogate in ambiente residenziale a ciclo continuativo;
   sulla base di simulazioni effettuate si sono evidenziate alcune criticità: il potenziale incremento di spesa a carico dei comuni per le persone già collocate in strutture residenziali; la difficoltà a determinare la reale e attuale situazione reddituale, dal momento che il reddito considerato per la determinazione dell'isee non fa riferimento alla situazione reddituale al momento dell'ingresso dell'ospite in struttura, ma al secondo anno solare precedente la presentazione della dichiarazione sostitutiva unica; le problematiche relative alla corretta imputazione dei costi tra la quota socio-sanitaria e quella sociale –:
   se il governo, considerate le criticità su esposte e gli enunciati delle sentenze del tribunale amministrativo regionale del Lazio, non intenda procedere ad una tempestiva sospensione dell'applicabilità del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 5 dicembre 2013, n. 159, in vista di una sua revisione. (3-01438)
(14 aprile 2015)

   GNECCHI, ALBANELLA, BARUFFI, BOCCUZZI, CASELLATO, DAMIANO, DELL'ARINGA, DI SALVO, CINZIA MARIA FONTANA, GIACOBBE, GREGORI, GRIBAUDO, INCERTI, MAESTRI, MARTELLI, MICCOLI, PARIS, GIORGIO PICCOLO, ROTTA, SIMONI, TINAGLI, ZAPPULLA, MARTELLA e BINI. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. Per sapere – premesso che:
   il 7 maggio 2014, presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, si è tenuto un incontro con il Ministro interrogato e i capigruppo delle Commissioni lavoro di Camera e Senato per affrontare il tema delle salvaguardie che permettono ad alcune tipologie di lavoratori di accedere al trattamento pensionistico secondo le regole previgenti alla manovra sulle pensioni del 2011 della Ministra Fornero; l'incontro ha portato ad un emendamento del Governo sostitutivo delle proposte di legge in Commissione lavoro alla Camera dei deputati ed è stata approvata la sesta salvaguardia;
   è ormai convinzione consolidata e condivisa che il tema previdenziale necessiti di una soluzione strutturale, in grado di consentire alle persone che si sono ritrovate senza lavoro a pochi mesi dal pensionamento secondo le vecchie regole di potervi accedere, così favorendo anche il naturale turn over e l'ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, a vantaggio delle esigenze delle aziende e per ridare fiducia ai giovani;
   altrettanto indispensabile è affrontare anche le contraddizioni che si sono sin qui manifestate nell'applicazione pratica delle salvaguardie già approvate, quali, ad esempio, quelle riguardanti i lavoratori e le lavoratrici in mobilità da procedure concorsuali di fallimento o per cessata attività dell'impresa, a causa delle quali, nell'ovvia impossibilità di poter presentare un accordo di mobilità, non sono stati ammessi alle salvaguardie. Lo stesso dicasi per il diverso trattamento riconosciuto agli accordi sottoscritti in sede governativa o non governativa, facendone scaturire un'illogica discriminazione per i secondi e un'incomprensibile penalizzazione per lavoratori e imprese;
   ancora, l'aspettativa di vita non viene considerata per i «quarantisti» in mobilità, a differenza di quanto si applica per i «quotisti» e per le pensioni di vecchiaia, penalizzando, quindi, in particolare le donne, che, per l'aspettativa di vita, non maturano il diritto a pensione entro la mobilità e quindi rimangono per anni senza alcun trattamento, una situazione che potrebbe ulteriormente aggravarsi a decorrere dal gennaio del 2016, quando dovrebbe scattare un ulteriore aumento legato all'aspettativa di vita;
   i lavoratori agricoli ed edili sono stati trattati in modo diverso dagli altri lavoratori dipendenti;
   ancora non sono state adottare le soluzioni amministrative relative alla conferma della sperimentazione della così detta «opzione donna» fino al 31 dicembre 2015 e all'applicazione della finestra mobile e dell'aspettativa di vita successivamente al 31 dicembre 2015, con la decorrenza del trattamento pensionistico come per tutti gli altri pensionandi. Si consideri che diverse lavoratrici che sono andate in mobilità o in esodo, soprattutto nel settore bancario, sono state licenziate contando sul pensionamento entro la fine del 2015 e, qualora venisse confermata questa opzione, rimarranno senza lavoro, senza ammortizzatore sociale e senza pensione fino all'età per la pensione di vecchiaia, per un periodo anche di 10 anni –:
   quali iniziative il Governo intenda adottare con riferimento a quanto evidenziato in premessa, prevedendo a tal fine una sollecita apertura di un confronto tecnico con l'Inps, le Commissioni lavoro di Camera e Senato e le parti sociali, volto ad approfondire le molteplici situazioni rimaste ancora irrisolte e poter individuare le opportune soluzioni entro tempi programmati e congrui. (3-01439)
(14 aprile 2015)

   BRESCIA, DI BENEDETTO, SIMONE VALENTE, LUIGI GALLO, VACCA, MARZANA, D'UVA e CHIMIENTI. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. Per sapere – premesso che:
   risale soltanto a lunedì, 13 aprile 2015, l'ultimo episodio di crollo in un edificio scolastico;
   il fatto è avvenuto nella scuola elementare «Pessina» di Ostuni (Brindisi) quando gli alunni erano in classe; si sono staccati 5 metri quadrati di intonaco di solaio e alcuni bambini sono stati colpiti violentemente alla testa, ma fortunatamente non versano in gravi condizioni;
   la scuola interessata è frequentata da 687 bambini, dei quali 462 frequentano la scuola elementare e 225 la materna, e l'edificio è stato inaugurato nel 2015 dopo 4 anni di chiusura per lavori di ristrutturazione;
   ormai non si contano più episodi di questo tipo, solo per fare qualche esempio: il distacco dell'intonaco nella scuola di Pescara, il 18 febbraio 2015, che ha causato il ferimento di tre studenti; il crollo di un soffitto in un asilo in Lombardia, l'8 gennaio 2015, che ha ferito sette bambini; la morte di uno studente in un liceo di Lecce, l'8 gennaio 2014, caduto in un pozzo di luce a causa del cedimento di una grata; il crollo, il 30 aprile 2014, del soffitto di una palestra della scuola elementare di Russi (Ravenna); il crollo dell'intonaco del soffitto di una palestra, il 10 settembre scorso, in una scuola di Tivoli, dove sono rimasti feriti due insegnanti;
   tutti questi fatti sono avvenuti durante il mandato dell'attuale Presidente del Consiglio dei ministri, che sin dal giorno del suo insediamento, ha dichiarato che la scuola e, in particolare, l'edilizia scolastica sarebbero state al centro della sua agenda politica;
   sulla pagina Facebook, il Presidente del Consiglio dei ministri, a maggio del 2014, annunciava: «10.000 nuovi cantieri, 5 miliardi di euro di investimenti tra 2014 e 2015, quasi 4.000 scuole interessate e, soprattutto, 2 milioni di ragazzi studieranno in scuole più sicure»;
   è all'esame alla Camera dei deputati, in Commissione cultura, scienza e istruzione, il disegno di legge « la buona scuola» che dedica un intero capo all'edilizia scolastica, ma, al di là di un mero riordino della normativa attuale e al tentativo di recupero delle risorse esistenti, non si ravvisano risorse aggiuntive, né una seria programmazione pluriennale, la sola in grado di affrontare in modo adeguato il problema;
   infine, è preoccupante che dalla lettura del documento di economia e finanza, appena licenziato dal Consiglio dei ministri, si evinca che ci sarà un taglio dello 0,2 per cento rispetto al prodotto interno lordo delle risorse destinate alla scuola fino al 2020 e che, di questi tagli, 500 milioni interesseranno l'edilizia scolastica –:
   come il Ministro interrogato intenda intervenire per garantire, anche attraverso una modifica del quadro normativo vigente, che siano effettuati controlli più incisivi ed efficaci sulla qualità degli interventi realizzati nelle strutture scolastiche, in modo da evitare nella maniera più assoluta che sia messa a rischio l'incolumità degli studenti e degli operatori scolastici. (3-01440)
(14 aprile 2015)

   RAMPELLI. — Al Ministro della difesa. Per sapere – premesso che:
   in attuazione della delega contenuta nella legge 4 novembre 2010, n. 183, per la riorganizzazione della Croce rossa, è stato adottato il decreto legislativo 28 settembre 2012, n. 178, che, tuttavia, invece di limitarsi al mero riassetto dell'ente, ne ha sancito la completa privatizzazione, mettendo a rischio sia la funzionalità delle sue strutture sul territorio, sia i servizi sinora resi allo Stato ed ai cittadini;
   a fronte di un risparmio di spesa a suo tempo stimato in 42 milioni di euro in un quinquennio, oggi la Croce rossa è passata ad un disavanzo di circa 54 milioni di euro, dovuto anche agli aiuti elargiti dalla parte ancora pubblica della Croce rossa italiana (comitato centrale) in favore dei comitati privatizzati (provinciali e locali) per evitarne la paralisi funzionale o la chiusura;
   in questo complesso ambito si inserisce anche la previsione di cui al decreto legislativo 28 settembre 2012, n. 178, relativa alla smilitarizzazione del contingente di personale militare della Croce rossa italiana in servizio permanente, composto da circa 900 persone, che dovrebbe compiersi entro il 31 dicembre 2017;
   ciò comporterà inevitabili ripercussioni sull'operatività della Croce rossa, che sarà privata dei soggetti indispensabili all'addestramento e alla preparazione del personale in congedo (oltre 17.000 uomini) da impiegare in tempo di pace per assicurare anche funzioni di difesa civile, di grave crisi nazionale o internazionale e nel caso di eventi bellici;
   nei prossimi mesi l'Italia dovrà garantire lo svolgimento in sicurezza di molteplici eventi, quali ad esempio l'Expo di Milano e il giubileo straordinario, per i quali è previsto un notevole afflusso di presenze, nei quali tutti gli apparati dello Stato saranno chiamati a dare il loro contributo e funzionare in modo da garantire tutte le risposte legate anche agli aspetti di difesa civile;
   il corpo militare della Croce rossa svolge attualmente molteplici compiti, che per le loro implicazioni sulla sicurezza difficilmente potranno essere appaltati a privati –:
   se non ritenga opportuno sospendere immediatamente la smilitarizzazione del corpo militare della Croce rossa italiana alla luce degli eventi internazionali in atto e delle recenti concrete minacce terroristiche per il nostro Paese che rendono indispensabile la presenza di reparti sanitari militari specializzati, come quelli del corpo militare della Croce rossa italiana, per il soccorso sanitario sia al personale militare che alla popolazione civile, anche tenuto conto delle specializzazioni e delle qualifiche dei militari suddetti, che li rendono indispensabili nel caso in cui si debbano fronteggiare anche eventuali rischi legati al bioterrorismo. (3-01441)
(14 aprile 2015)