TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 408 di Martedì 14 aprile 2015

 
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INTERPELLANZE E INTERROGAZIONI

A) Interrogazione

   IACONO. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   il 2 febbraio 2013 il ponte di attraversamento veicolare sul fiume Verdura, sito in territorio di Ribera (Agrigento), crolla drammaticamente, a causa dei gravissimi danni apportati alle già vetuste strutture portanti (si sta parlando di un ponte realizzato nella seconda metà dell'800) dai costanti movimenti idraulici del letto del fiume;
   l'evento in questione, che solo per un miracolo non ha causato una strage, in considerazione del fatto che al momento del crollo non transitava alcun mezzo, ha, tuttavia, determinato nei mesi successivi un autentico tsunami per la già povera economia di un intero territorio, costituita prevalentemente da imprese agricole e commerciali, a dir poco massacrate dall'improvvisa e non preventivabile assenza di alternative viarie di collegamento con la provincia e con il resto della Sicilia;
   il ponte si trova, infatti, sulla strada statale 115, com’è noto l'unica arteria di collegamento della provincia di Agrigento con il resto dell'isola, che tale episodio ha reso di fatto impraticabile, tagliando un intero comprensorio territoriale fuori dal contesto economico siciliano e dunque nazionale;
   i danni al tessuto produttivo sono incalcolabili, acuendo notevolmente una crisi già devastante;
   le istituzioni di ogni livello si mettono immediatamente in moto, sollecitando l'Anas all'adozione di provvisori interventi di ripristino della viabilità, seppur a senso unico alternato e contestualmente alla predisposizione di un'adeguata progettazione per il rifacimento del ponte;
   nel frattempo, sull'onda dell'esasperazione sociale determinata dalle conseguenze economiche di questa vicenda, nascono e si moltiplicano esponenzialmente comitati civici e movimenti spontanei che alzano la voce contro i ritardi della burocrazia e l'indifferenza dei Governi regionale e nazionale nei confronti di un comprensorio condannato al sottosviluppo;
   il Governo Letta, con il decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla 9 agosto 2013, n. 98, reperisce le risorse necessarie alla copertura finanziaria dell'opera, circa 12 milioni di euro, da impegnare per lavori appaltati;
   da quel momento inizia un'interminabile odissea di passaggi burocratici, autorizzazioni e nulla osta vari, che oggi stanno seriamente mettendo a rischio la realizzazione dell'opera, causando così l'ennesima beffa per un territorio da sempre mortificato dall'atavica assenza di collegamenti infrastrutturali ed opere pubbliche al servizio dell'occupazione e dello sviluppo;
   nello specifico, affinché l'Anas definisca la progettazione allo stadio esecutivo, necessario per poter appaltare l'opera, mancano ancora due passaggi indispensabili;
   si attende, infatti, che gli uffici competenti della Regione siciliana si esprimano con apposito parere in merito alla cosiddetta localizzazione dell'opera da realizzarsi;
   inoltre, si attende che vengano realizzate le indagini, già da tempo sollecitate dalla soprintendenza dei beni culturali di Agrigento, a mezzo di appositi interventi di scavo finalizzati ad accertare l'eventuale presenza di siti di interesse archeologico o artistico lungo l'area interessata dal progetto;
   interventi che, stando a quanto appreso, dovrebbero – in base a quanto richiesto dalla soprintendenza – concretizzarsi con uno scavo per ogni 20 metri di rilevato;
   in tal senso pare, altresì, opportuno evidenziare l'atteggiamento, ad avviso dell'interrogante di palese inerzia, manifestato dall'ufficio centrale per la progettazione dell'Anas, che in tutto questo tempo si è distinto per l'assoluta lentezza nell'acquisire i necessari pareri e consumare i passaggi richiesti dalla legge;
   la logica conseguenza di tutto questo, oltre ai consueti ritardi nel cronoprogramma comunicato, è, soprattutto, il rischio che le coperture finanziarie reperite per il rifacimento del ponte si perdano nei meandri della legislazione, o più verosimilmente vengano utilizzate per opere già provviste di progettazione esecutiva e pronte ad essere appaltate;
   questa è un'eventualità che la provincia di Agrigento non può permettersi il lusso di prendere nemmeno in considerazione e che condannerebbe intere comunità a decenni di sottosviluppo e povertà –:
   quale sia il reale stato delle cose e quali iniziative di competenza il Governo intenda assumere per velocizzare l’iter burocratico ed autorizzativo, necessario al completamento della fase progettuale e dunque alla realizzazione di un'opera pubblica vitale per la Sicilia. (3-00881)
(12 giugno 2014)

B) Interrogazione

   CAUSIN e VARGIU. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti e al Ministro della difesa. — Per sapere – premesso che:
   Gregorio De Falco, il capitano di fregata divenuto famoso per la telefonata con il comandante Schettino in cui gli intimò di tornare a bordo, dopo dieci anni termina l'incarico nel settore operativo della capitaneria di Livorno; a fine settembre 2014, infatti, sarà trasferito in altri uffici, sempre della direzione marittima di Livorno;
   la notizia è arrivata dal comandante Faraone, il quale ha comunicato a De Falco che dovrà lasciare il servizio operativo della capitaneria e verrà destinato ad un ufficio di carattere amministrativo;
   De Falco, ai tempi del naufragio della Costa Concordia, era a capo della sezione operativa e dal 2013 aveva assunto l'incarico di caposervizio operazioni della direzione marittima di Livorno, passato agli onori della cronaca per la famosa frase con cui aveva detto al comandante della Costa Concordia Schettino di ritornare a bordo;
   la replica del comando della Guardia costiera è stata: «Il cambio di incarico del comandante De Falco, da capo del servizio operativo a capo dell'ufficio studi, sempre nell'ambito della direzione marittima di Livorno, rientra nelle ordinarie dinamiche di impiego degli ufficiali delle capitanerie di porto e risponde, in primo luogo, alla migliore organizzazione funzionale proprio di quella direzione marittima»;
   far permanere sine die il comandante De Falco nell'attuale posizione impedirebbe ai suoi stessi colleghi di maturare le stesse esperienze e, soprattutto, le stesse condizioni giuridiche, per poter essere promossi –:
   se non si ritenga opportuna una verifica su quanto dichiarato dal comando della Guardia costiera che «si tratta di un normale avvicendamento, comune a tutti coloro i quali, come il comandante De Falco, hanno assolto ai propri obblighi di comando ed aspirano, poi, all'avanzamento al grado superiore». (3-01064)
(2 ottobre 2014)

C) Interrogazione

   NIZZI. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   è facile constatare da parte di tutti coloro che frequentano l'aeroporto di Fiumicino che il servizio navetta (cosiddetto interpista) si presenti spesso in condizioni indecorose;
   oltre alla sporcizia, capita che i sedili siano rotti e che, comunque, lo stato dei mezzi sia, in qualche caso, tale da poter determinare rischi per l'incolumità dei passeggeri –:
   chi gestisca tale servizio;
   se tutti i mezzi abbiano superato i collaudi di legge;
   se l'Enac ed il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti abbiano dato i necessari nulla osta per l'utilizzo dei mezzi in questione;
   se risulti che la società di gestione dell'aeroporto di Fiumicino abbia fatto le necessarie verifiche dei mezzi che movimentano i passeggeri nell'area aeroportuale e se la sicurezza di questi ultimi sia garantita;
   quali altre azioni intenda assumere il Ministro interrogato volte a garantire la sicurezza all'interno delle aree aeroportuali di Fiumicino. (3-01083)
(8 ottobre 2014)

D) Interrogazione

   TERZONI, CECCONI, DAGA, MICILLO, BUSTO, SEGONI, MANNINO, ZOLEZZI e DE ROSA. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   da fonti stampa si apprende la notizia secondo la quale l'Enav avrebbe nei suoi piani il ridimensionamento dell'aeroporto Falconara Ancona;
   il piano di riorganizzazione priverebbe l'unico aeroporto presente nella regione Marche del sistema Atis, il servizio automatico di trasmissione delle informazioni utili al pilota per acquisire in modo aggiornato e continuativo i dati meteorologici per l'atterraggio e decollo, fondamentale in caso di condizioni meteo marginali, nonché dell'apparato di emergenza delle frequenze di comunicazione e del sistema meteo di riserva, che gestisce l'acquisizione e la distribuzione di dati relativi a temperatura, umidità dell'aria, pressione, vento;
   inoltre, ad essere investito dal piano sarebbe anche il personale, con la previsione che controllori di volo e osservatori meteo «esperti» vengano trasferiti negli aeroporti e sostituiti, in quantità numericamente ridotta, da personale neo assunto, abilitato a entrambe le funzioni;
   l'aeroporto Falconara Ancona rappresenta una struttura strategica per tutta l'economia regionale per quanto riguarda le attività di trasporto sia di merci che di passeggeri. Questo, soprattutto, in considerazione della chiusura del vicino aeroporto di Rimini, con prevedibile spostamento di parte del traffico aereo sull'aeroporto marchigiano, con conseguente aumento del traffico passeggeri e merci;
   la regione è attraversata da una profonda crisi del settore industriale e il turismo potrebbe rappresentare una possibilità per diminuire la disoccupazione che nelle aree interne raggiunge picchi pari al 16,9 per cento –:
   se il Ministro interrogato sia a conoscenza delle notizie di cui in premessa;
   se il Ministro interrogato sia a conoscenza e sia quindi in grado di illustrare i motivi alla base della decisione dell'Enav;
   se il Ministro interrogato non ritenga di dover intervenire, per quanto di competenza, per rivedere il piano di riorganizzazione, tenendo conto delle possibilità di sviluppo dell'aeroporto e dell'importanza strategica della struttura per lo sviluppo economico della regione. (3-01239)
(13 gennaio 2015)

E) Interpellanze e interrogazione

   I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, per sapere – premesso che:
   il Parco nazionale dello Stelvio è uno dei più antichi parchi naturali italiani. È nato allo scopo di tutelare la flora, la fauna e le bellezze del paesaggio del gruppo montuoso Ortles-Cevedale e di promuovere lo sviluppo di un turismo sostenibile nelle vallate alpine della Lombardia, del Trentino e dell'Alto Adige-Südtirol. Si tratta di un'area ambientalmente omogenea, per la quale, al di là dei confini amministrativi, è stato ritenuto necessario appunto prevedere una tutela omogenea;
   il parco si estende sul territorio di 24 comuni e di 4 province ed è a diretto contatto a nord con il Parco nazionale svizzero, a sud con il Parco naturale provinciale Adamello-Brenta e con il Parco regionale dell'Adamello: tutti questi parchi, insieme, costituiscono una vastissima area protetta nel cuore delle Alpi, per quasi 400.000 ettari;
   oltre che essere un'area di grande importanza per il mantenimento del delicato ecosistema alpino, il parco rappresenta anche un'opportunità di marketing per un turismo responsabile e per la promozione di prodotti e tradizioni locali, tutta a favore delle località insediate nelle vallate del parco;
   fino a oggi, almeno sulla carta, il Parco nazionale dello Stelvio è stato amministrato da un consorzio costituito dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, dalla provincia di Bolzano, dalla provincia di Trento e dalla regione Lombardia. Il consorzio, nato nel 1993 e mai veramente operativo, è costituito da tre comitati di gestione (Bolzano, Trento e Lombardia) cui sono state già delegate numerose funzioni operative. Il vecchio consorzio aveva al suo vertice un consiglio direttivo, in cui, oltre al presidente e ai rappresentanti dei tre comitati di gestione, delle due province autonome e della regione Lombardia, vedeva anche la qualificata presenza di tre rappresentanti delle associazioni ambientaliste, una per territorio, e di due persone esperte in campo scientifico, designate d'intesa tra diverse istituzioni di ricerca botanica e zoologica, comprese le università presenti nelle province in cui ricade il parco;
   purtroppo, da anni il parco è definanziato e di fatto «paralizzato», anche in seguito al mancato rinnovo degli organi collegiali scaduti da parecchio tempo: il consiglio direttivo dal 26 dicembre 2010; il comitato di gestione della provincia di Bolzano dal 12 marzo 2011; il comitato di gestione della provincia di Trento dal 16 luglio 2011; il comitato di gestione della regione Lombardia dal 3 ottobre 2012;
   da anni si discute di dare una nuova organizzazione al parco, tramite una sua «provincializzazione». Nel settembre 2009 la «Commissione dei 12» (l'organismo paritetico che regolamenta i rapporti tra lo Stato e le province di Trento e Bolzano) elaborò una prima norma di attuazione allo statuto di autonomia per la regione Trentino-Alto Adige, che prevedeva il passaggio della gestione del parco agli enti interessati, cioè Lombardia, provincia autonoma di Trento e provincia autonoma di Bolzano. Tuttavia, nel marzo del 2011 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano non convalidò la norma, che fu dunque di nuovo rinviata alla «Commissione dei 12». Nel frattempo, per effetto degli accordi Stato-province autonome, è stato deciso (e ribadito anche nella legge di stabilità per il 2014) che le due province autonome si assumano l'onere di finanziare l'operatività del parco (anche per la sua parte lombarda) come loro concorso al riequilibrio della finanza pubblica;
   la suddetta «Commissione dei 12» sta, dunque, lavorando a una norma di attuazione che sostituisca l'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica n. 279 del 1974 in materia di funzioni esercitate dalle province di Trento e Bolzano sul Parco dello Stelvio. Secondo la bozza attualmente in discussione, il nuovo articolo sarà composto di 8 commi: il comma 1 trasferisce la competenza sul parco alle province autonome, pur precisando che ad esso «sarà conservata una configurazione unitaria»; il comma 2 prevede che con legge provinciale le due province possano modificare i confini del parco, previa consultazione dell'altra provincia e del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare; il comma 3 prevede che siano le province a disciplinare con propria legge «le forme e i modi di specifica tutela» nel territorio di propria competenza, «in armonia con le finalità e i principi dell'ordinamento giuridico nazionale in tema di aree protette»; per favorire l'omogeneità delle discipline le province devono ricercare intese tra loro – intese comunque limitate dalle competenze garantite loro dagli articoli 4 e 8 dello statuto: il comma 4 prevede che «la configurazione unitaria del parco è assicurata mediante la costituzione di un apposito comitato di coordinamento con funzioni di programmazione ed indirizzo», così composto: 4 persone che rappresentano la provincia di Bolzano, la provincia di Trento, la Lombardia e il Ministero, più altre tre persone che rappresentano i comuni dei tre territori (in pratica 7 persone, tutte rappresentanti le amministrazioni, e nessuno che rappresenti le ragioni dell'ambiente e della scienza, come era nel vecchio consorzio); il comma 5 prevede che le funzioni amministrative siano esercitate dai tre enti territoriali; il comma 6 prevede la messa a carico degli oneri finanziari alle due province; il comma 7 prevede la soppressione del vecchio consorzio del parco; il comma 8 trasferisce il personale agli enti gestori di Trento, Bolzano e Lombardia, garantendo le posizioni giuridico-economiche acquisite;
   diverse associazioni ambientaliste hanno sottolineato il pericolo che il parco perda la sua connotazione unitaria, che si affermino sistemi di tutela differenziati a seconda degli orientamenti politici delle diverse amministrazioni, con gravi rischi per la conservazione dell’habitat naturale che è invece unico ed omogeneo;
   peraltro, si sottolinea anche la volontà di mantenere «la configurazione unitaria del parco» e questo è scritto anche nella norma in discussione. Tuttavia, il «coordinamento» previsto appare uno strumento troppo debole per garantire a pieno tale unitarietà, in esso non è rappresentata più né la voce di chi difende la natura, né quella della comunità scientifica e, infine, non si dice se e come il parco verrà dotato di un «piano» e di un «regolamento» unitari, che sono gli strumenti a cui in ogni parco vengono incardinati le tutele e i programmi di sviluppo;
   altro punto critico è il fatto che nell'elaborazione di tale norma non risulta essere mai stato coinvolto il consiglio provinciale di Bolzano, né il mondo ambientalista e scientifico. Trasparenza e partecipazione sono, invece, un presupposto indispensabile per decisioni di questa portata –:
   se non si ritenga indispensabile – anche attraverso i rappresentanti del Governo all'interno della suddetta «Commissione dei 12» – attivarsi al fine:
    a) di rafforzare il carattere unitario del Parco dello Stelvio, sottolineando nella norma l'importanza di una pianificazione unitaria e precisando le procedure di adozione (e/o modifica) di un piano e di un regolamento del parco unitari e ancorati a criteri scientifici, definendo con precisione anche l'organismo che è competente per l'adozione di tali strumenti e prevedendo le necessarie intese con le province autonome, nel rispetto delle competenze sul territorio loro garantite dallo statuto di autonomia;
    b) di prevedere che all'interno dell'organismo che adotta il piano e il regolamento del parco sia prevista la presenza di rappresentanti delle associazioni di protezione ambientale più rappresentative in ciascuno dei tre territori, così come previsto dalla legge quadro n. 394 del 1991 sulle aree protette, e un'adeguata presenza di rappresentanti della comunità scientifica, su designazione degli enti culturali e di ricerca, tra cui le università presenti nelle province e nella regione interessate dal parco;
    c) di garantire nella pianificazione e gestione del parco forme concrete ed efficaci di partecipazione democratica della popolazione interessata;
    d) di prevedere, in prospettiva, un allargamento degli orizzonti del Parco dello Stelvio, da parco nazionale a parco transfrontaliero, vista la stretta vicinanza del parco con altre aree protette, quali il Parco nazionale svizzero, il Parco naturale provinciale Adamello-Brenta e il Parco regionale dell'Adamello.
(2-00424)
«Kronbichler, Lacquaniti, Fran- co Bordo, Daniele Farina».
(27 febbraio 2014)

   I sottoscritti chiedono di interpellare il Presidente del Consiglio dei ministri e il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, per sapere – premesso che:
   il Parco nazionale dello Stelvio si estende su parte dei territori della provincia di Trento, della provincia di Bolzano e della regione Lombardia. Al fine di conservarne la configurazione unitaria, l'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 22 marzo 1974, n. 279, e l'articolo 35 della legge 6 dicembre 1991, n. 394, hanno disposto che la sua gestione fosse attuata mediante la costituzione di un apposito consorzio fra lo Stato e gli enti territorialmente competenti;
   il consorzio, che è stato costituito con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 26 novembre 1993, ha manifestato molte criticità e, sotto il profilo dell'ordinamento di riferimento e dell'organizzazione amministrativa, il parco era configurato quale ente pubblico nazionale;
   l'articolo 79, comma 1, dello statuto speciale del Trentino-Alto Adige/Sudtirol, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670, come modificato dalla legge n. 191 del 2009 (legge finanziaria per il 2010), a seguito del cosiddetto «accordo di Milano», che ha adeguato lo statuto ai principi in materia di federalismo fiscale, prevede ora specifiche forme di concorso finanziario della regione e delle due province autonome di Trento e di Bolzano al conseguimento degli obiettivi di perequazione e di solidarietà e all'assolvimento degli obblighi posti dall'ordinamento comunitario, dal patto di stabilità interno e dalle altre misure di coordinamento della finanza pubblica stabilite dalla normativa statale, prevedendo, tra l'altro, oltre all'assunzione di oneri relativi all'esercizio di funzioni statali delegate, il finanziamento di iniziative e di progetti relativi ai territori confinanti;
   la legge 27 dicembre 2013, n. 147 (legge di stabilità per il 2014), all'articolo 1, comma 515, ha da ultimo ribadito il passaggio delle funzioni relative al Parco nazionale dello Stelvio dallo Stato alle province autonome di Trento e di Bolzano, da attuare con apposite norme di attuazione, sulla base di intese che in tal caso ci sono già state con il memorandum di Bolzano siglato con il Governo Letta, confermato anche dall'attuale Governo;
   il modello di consorzio, individuato nel 1993, non ha funzionato, dimostrando, al contrario, tutta la necessità che il parco sia gestito interamente a livello locale, con la diretta partecipazione delle popolazioni del territorio interessato, che da secoli garantiscono la cura del paesaggio di montagna e della natura incontaminata;
   per le ragioni appena illustrate il parco da anni è sostanzialmente abbandonato («abbandono istituzionale») a se stesso, oltre che privo di adeguate risorse finanziarie necessarie per la sua gestione (specialmente con riguardo alla parte relativa alla regione Lombardia), ivi compresa la tutela della flora, della fauna e del paesaggio, che le province autonome di Trento e di Bolzano e gli amministratori locali saprebbero, invece, di sicuro valorizzare al meglio, anche con il coinvolgimento della popolazione interessata, grazie ad un'ottima e attenta conoscenza delle necessità e delle specificità del parco;
   a tal proposito è pendente presso la commissione paritetica del Trentino-Alto Adige/Sudtirol uno schema di norma di attuazione recante modifiche e integrazioni all'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 22 marzo 1974, n. 279, volto a rivedere le funzioni delle province autonome di Trento e di Bolzano relative al Parco nazionale dello Stelvio nel senso sopra richiamato;
   il carattere unitario del Parco dello Stelvio è pienamente garantito dal comitato di coordinamento con ampie funzioni di programmazione ed indirizzo. La presenza del rappresentante del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare nel comitato garantirà la tutela, in armonia con i principi dell'ordinamento giuridico nazionale in tema di aree protette, ma lascia spazio a forme di autogoverno «responsabile», che può invertire la tendenza negativa degli anni passati, nei quali il parco non è stato visto dalla popolazione come una risorsa «pregiata» da valorizzare;
   troppe regole sono state elaborate in luoghi urbani e su scrivanie lontane, che non hanno rispettato il principio di sussidiarietà e l'auto-responsabilità della popolazione che vive all'interno del parco, dove sono in prima linea gli amministratori locali che sanno come valorizzare al meglio il proprio territorio, con il coinvolgimento della popolazione interessata e grazie anche ad un'ottima e attenta conoscenza delle necessità e delle specificità del parco e dell'agricoltura di montagna, che deve essere rafforzata e garantita, in quanto misura d'eccellenza contro lo spopolamento delle zone alpine e la perdita di quel «paesaggio culturale» creato in tanti secoli da gente affezionata al proprio territorio;
   il Parco nazionale svizzero, sul cui territorio non vivono stabilmente delle persone, è già gestito da decenni dalla popolazione e dai comuni che ne fanno parte e che da decenni hanno riconosciuto positivamente i valori e le opportunità di avere una parte del parco nazionale nel proprio comune;
   l'esempio di autogoverno responsabile locale non è, pertanto, da inventare, ma solo da copiare –:
   se ritenga indispensabile attivarsi al fine di attuare al più presto l'articolo 1, comma 515, della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (legge di stabilità per il 2014), attraverso il passaggio delle funzioni relative al Parco nazionale dello Stelvio dallo Stato alle province autonome di Trento e di Bolzano, sulla base dello schema di norma di attuazione giacente presso la commissione paritetica del Trentino-Alto Adige/Sudtirol, in seguito alle intese già raggiunte con il memorandum di Bolzano, siglato con il Governo Letta e confermato anche dall'attuale Governo.
(2-00492)
«Plangger, Alfreider, Gebhard, Schullian, Ottobre».
(7 aprile 2014)

   ROSTELLATO, ARTINI, BALDASSARRE, BARBANTI, BECHIS, MUCCI, PRODANI, RIZZETTO, SEGONI e TURCO. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   nel 2015 il Parco nazionale dello Stelvio compirà i suoi primi ottant'anni;
   oltre ad essere uno dei più antichi d'Europa, è anche il più esteso dell'arco alpino; fu istituito nel 1935, al fine di garantire una tutela unitaria delle valli del massiccio montuoso Ortles-Cevedale tra Lombardia, Trentino e Sudtirolo;
   proprio l'essere ripartito tra una regione a statuto ordinario e due a statuto speciale ha scatenato da cinque anni a questa parte l'offensiva «autonomistica» per ottenere lo smembramento e la ripartizione in tre ambiti distinti;
   l'11 febbraio 2015 il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, regione Lombardia e province autonome di Trento e Bolzano hanno, infatti, sottoscritto un'intesa che ne modifica radicalmente la governance e le tutele. Desta preoccupazione il fatto che, qualora il Governo dovesse ratificare tale intesa, il parco verrà diviso in tre unità separate e autonome, perdendo così lo status di parco nazionale;
   un siffatto piano del parco e il relativo regolamento sono inaccettabili e non coerenti con l'indirizzo comunitario promosso dalla Convenzione per la protezione delle Alpi, sottoscritta dai Paesi alpini (Austria, Francia, Germania, Italia, Liechtenstein, Monaco, Slovenia e Svizzera) e dall'Unione europea, con l'obiettivo di promuovere lo sviluppo sostenibile e tutelare gli interessi della popolazione residente, tenendo conto delle complesse questioni ambientali, sociali, economiche e culturali;
   l'accordo sottoscritto, infatti, non solo prevede che al posto dell'ente unitario di gestione si insedi un «comitato di coordinamento», ma viene, ancor più grave, prevista la piena libertà per la regione e le province autonome di decidere un proprio ente autonomo per la gestione del territorio e, di conseguenza, deliberare autonomamente qualsiasi modifica sia al piano del parco che al perimetro dell'area protetta;
   attraverso la ratifica di tale accordo il parco non avrà più i requisiti per essere considerato parco nazionale e con questo le Alpi perderanno la loro più grande area protetta;
   se risulta evidente l'importanza di un vero ed efficace coordinamento internazionale degli interventi, a maggior ragione appare anacronistico frazionare gli interventi in base ai confini amministrativi interni agli Stati –:
   se l'eventuale suddivisione del Parco nazionale in tre distinti ambiti possa minacciare la tutela dei valori ambientali e paesistici, anche in considerazione del fatto che il declassamento dello Stelvio da parco nazionale a «collage» di parchi provinciali comporterebbe, per le norme vigenti, un alleggerimento dei vincoli di tutela, e se il frazionamento del parco debba considerarsi un clamoroso passo indietro rispetto alla «direttiva habitat» e alla Convenzione per la protezione delle Alpi. (3-01431)
(13 aprile 2015)
(ex 5-05266 dell'8 aprile 2015)

F) Interpellanza

   I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e il Ministro dell'interno, per sapere – premesso che:
   in data 27 settembre 2014, alle ore 00:50 del mattino, si iniziano a vedere delle fiamme intense in prossimità della Raffineria di Milazzo, la raffineria operante nel territorio «del Mela» dall'ottobre 1961. Oltre alle fiamme ed al fumo, la popolazione inizia a percepire anche i forti odori frutto della combustione: a bruciare è un serbatoio di virgin naphtha che può contenere fino ad 1 milione di litri di carburante;
   alle ore 2:00 dal comune di Milazzo, dove opera il centro operativo comunale, parte la comunicazione indirizzata alla popolazione mediante la quale si consiglia di rimanere chiusi in casa e tenere le finestre serrate, nel frattempo l'aria diventa irrespirabile in tutta la zona, il traffico aumenta notevolmente, ma non sembrano esserci per fortuna feriti né all'interno della raffineria, né all'esterno;
   le fiamme e il fumo continuano incessanti fino alla mattina del giorno dopo, la nube nera arriva ad oltre 15 chilometri dal luogo dell'incidente; i comuni più colpiti, oltre a Milazzo, sono stati San Filippo del Mela, Pace del Mela, Santa Lucia del Mela, Condrò, Gualtieri Sicaminò, San Pier Niceto e Barcellona Pozzo di Gotto;
   secondo la Gazzetta del Sud di domenica 28 settembre 2014 «in fumo» sono andati circa 600.000 litri di idrocarburi provenienti da uno dei circa 40 serbatoi, il TK513, presenti nel sito, uno dei più vicini alle abitazioni antistanti la Raffineria di Milazzo; fortunatamente la direzione del vento ha impedito che prendessero fuoco anche i serbatoi vicini al TK513, ma ancora una volta la tragedia di proporzioni inimmaginabili non è avvenuta solo per un colpo di fortuna;
   l'incendio, che sembrava domato, si ravviva verso le ore 15.00 del pomeriggio di sabato, formando nuovamente un'enorme nuvola nera che il vento sposta in direzione della Valle del Mela. Anche nelle giornate di domenica e lunedì, cioè due giorni e mezzo dopo l'incidente iniziale, i cittadini vedono l'alternarsi di nuovi incendi alla formazione di enormi nuvole nere, che, in base al vento, si dirigono verso la Valle del Mela o verso il centro di Milazzo;
   già dal primo pomeriggio del giorno 26 settembre 2014, cioè prima dell'incendio del serbatoio TK513, numerosi cittadini segnalavano forti odori provenienti dalla Raffineria di Milazzo. Pare che la causa dei miasmi fosse conseguenza dell'operazione del tentato svuotamento del serbatoio TK513, che presentava sicuramente un malfunzionamento del tetto mobile: probabilmente tale serbatoio non aveva ricevuto la manutenzione necessaria e, quindi, non garantiva il necessario livello di sicurezza;
   nel 1993 in questo impianto si è già verificato un gravissimo incidente che ha causato la morte di 7 persone ed il ferimento di sedici; oltre ciò, giornalmente, una buona parte della popolazione subisce gli «effetti collaterali» della scellerata decisione di far nascere un impianto di questo tipo in una zona altamente abitata ed in prossimità di alcune zone di protezione speciale. Sempre nello stesso territorio sono presenti una centrale termoelettrica ad olio combustibile, una fabbrica di amianto (dismessa ma non del tutto bonificata), un elettrodotto totalmente aereo quasi ultimato ed un altro elettrodotto che si spera venga dismesso definitivamente in tempi brevi;
   la «direttiva Seveso», recepita in Italia dal decreto legislativo n. 334 del 1999, è stata voluta a seguito di un gravissimo incidente che si ricorda oggi come il «disastro di Seveso», avvenuto il 10 luglio 1976. Tale direttiva impone agli Stati di identificare i propri siti a rischio e prevede un piano di emergenza interno allo stabilimento ed uno esterno come riportato nel capo IV alla voce «procedure» articolo 20 («Piano di emergenza esterno»), secondo il quale il prefetto, d'intesa con le regioni e gli enti locali interessati, previa consultazione della popolazione e nell'ambito delle disponibilità finanziarie previste dalla legislazione vigente, predispone il piano di emergenza esterno allo stabilimento e ne coordina l'attuazione. Il piano è comunicato al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, ai sindaci, alla regione e alle province competenti per territorio, al Ministero dell'interno ed al dipartimento della protezione civile. Nella comunicazione al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare devono essere segnalati anche gli stabilimenti di cui all'articolo 15, comma 3, lettera a);
   il piano deve essere predisposto anche al fine di informare adeguatamente la popolazione e le autorità locali competenti e deve essere riesaminato, sperimentato e, se necessario, riveduto ed aggiornato, nei limiti delle risorse previste dalla legislazione vigente, dal prefetto ad intervalli appropriati e, comunque, non superiori a tre anni. Sia la regione che il comune devono rendere accessibile il piano alla popolazione e l'intervallo massimo di ridiffusione delle informazioni alla popolazione non può, in nessun caso, essere superiore a cinque anni;
   nel recente incidente della Raffineria di Milazzo le amministrazioni locali non hanno fornito, però, tempestivamente direttive precise ai cittadini per fronteggiare la situazione. Solo dopo le ore 2:00 gli organi di stampa, principalmente testate on line, hanno diffuso la notizia secondo la quale ai cittadini era consigliato di stare in casa, unica precauzione le finestre chiuse; per strada, invece, non c'era modo di ricevere alcuna informazione e/o indicazione;
   lascia perplessi la decisione di posizionare la centralina mobile dell'Arpa in una zona del comune di Milazzo abbastanza lontana dal luogo dell'incidente e in direzione opposta a quella del vento, quindi in una zona non investita dalla nuvola nera e dai residui della combustione di centinaia di migliaia di litri di prodotti petroliferi. Ovviamente, dato il posizionamento «anomalo» della centralina di acquisizione dati, risulta che siano stati acquisiti parametri nella norma –:
   se siano a conoscenza dei tempi necessari per la messa in sicurezza dell'impianto di Milazzo e la bonifica e lo smaltimento dei residui causati dall'incendio del serbatoio TK513 anche in relazione alla zona sin di Milazzo (ex legge n. 266 del 2005);
   se il Governo non ritenga opportuno verificare l'esistenza e l'eventuale adeguatezza del piano di emergenza esterno prescritto dall'articolo 20 del decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 334, e se esso sia stato comunicato agli abitanti delle zone interessate nelle idonee forme previste dalle legge;
   se i Ministri interpellati, anche in ragione dell'istruttoria di cui al quesito precedente, non ritengano di assumere le opportune iniziative normative al fine di stralciare dalla previsione normativa di cui al citato articolo 20 del decreto legislativo n. 334 del 1999 il riferimento «alle disponibilità finanziarie previste dalla legislazione vigente», che vedrebbe illegittimamente sacrificate le prioritarie esigenze di tutela della salute, che non possono essere subordinate in alcun modo a limiti o vincoli di bilancio;
   se il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare abbia già effettuato un sopralluogo all'interno dello stabilimento e provveduto alla conseguente comunicazione alla Commissione europea dell'accadimento di un incidente rilevante sul proprio territorio, così come prescritto dall'articolo 15, comma 3, lettera b), del decreto legislativo n. 334 del 1999;
   se il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, nell'esecuzione del sopralluogo di cui al quesito precedente, abbia assunto i documenti ritenuti «necessari e quelli indispensabili» per verificare il corretto funzionamento dello stabilimento in relazione alla puntuale osservanza delle norme in materia di rischio di incidente rilevante, nonché per verificare se eventuali ditte esterne affidatarie degli interventi di manutenzione abbiano operato nel pieno rispetto delle norme tecniche di sicurezza, anche in considerazione del fatto che nello stesso stabilimento sono stati già registrati in passato numerosi incidenti, l'ultimo dei quali è oggetto di questa interpellanza;
   se il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare abbia assunto tutte le informazioni sia da parte dell'operatore, ai sensi dell'articolo 305 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, sia da parte dell'Ispra sui dati attuali relativi all'aria ed al terreno delle zone interessate dall'incidente ed a quelle interessate dall'enorme nuvola nera sprigionatasi a seguito della combustione dei circa 600.000 litri di idrocarburi, per valutare i danni ambientali verificatisi, anche in relazione all'esistenza di zone di protezione speciale nelle immediate vicinanze, e le misure da adottare immediatamente al fine di contenerne gli effetti;
   se il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare non ritenga necessario, vista anche la classificazione di sin, avviare un tavolo di confronto tra l'azienda, le autorità locali e l'Arpa al fine di verificare il rispetto delle prescrizioni dell'autorizzazione integrata ambientale, rilasciata dal suddetto dicastero in data 16 maggio 2011, anche a fronte degli incidenti che si sono verificati.
(2-00703)
«Villarosa, Currò, D'Uva, Mannino, Segoni, Zolezzi, Busto, De Rosa, Terzoni, Daga, Micillo».
(2 ottobre 2014)

MOZIONI CONCERNENTI INTERVENTI A FAVORE DEL MEZZOGIORNO

   La Camera,
   premesso che:
    il quadro già grave e complesso evidenziato dalla Svimez (Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno), nell'anticipazione del rapporto 2014 sull'economia del Mezzogiorno, presentato a fine luglio 2014, si è ulteriormente aggravato in sede di presentazione del rapporto Svimez 2014 e delle proiezioni elaborate dal medesimo istituto per l'anno 2015, al punto che apertamente si parla di un «Sud a rischio desertificazione umana e industriale»;
    la riduzione del prodotto interno lordo nel 2014, quantificata dal Governo in -0,4 per cento, è la risultante tra la stazionarietà del Centro-Nord (0 per cento) e la flessione del Sud (-1,5 per cento); il quadro risulta ancora più divergente nel 2015: il prodotto interno lordo nazionale secondo le stime Svimez è previsto a +0,8 per cento, quale risultato tra il positivo +1,3 per cento del Centro-Nord e il negativo -0,7 per cento del Sud;
    a livello regionale, nel 2013, il calo del prodotto interno lordo è compreso tra il -1,8 per cento dell'Abruzzo e il -6,1 per cento della Basilicata, fanalino di coda nazionale, che ha così registrato un segno negativo per la crisi dell`industria meccanica e dei mezzi di trasporto. In posizione intermedia la Campania (-2,1 per cento), la Sicilia (-2,7 per cento), il Molise (-3,2 per cento). Giù anche Sardegna (-4,4 per cento), Calabria (-5 per cento) e Puglia (-5,6 per cento). Tra il 2008 e il 2013 difficoltà, soprattutto in Basilicata e Molise, che segnano cali cumulati superiori al 16 per cento, accanto alla Puglia (-14,3 per cento), la Sicilia (-14,6 per cento) e la Calabria (-13,3 per cento). Ha perso oltre il 13 per cento di prodotto anche la Sardegna, mentre cali superiori al 12 per cento si registrano in Campania, Marche e Umbria;
    dal 2008 al 2013 il settore manifatturiero al Sud ha perso il 27 per cento del proprio prodotto e ha più che dimezzato gli investimenti (-53 per cento). Nello stesso periodo al Centro-Nord il manifatturiero ha perso circa il 16 per cento del proprio prodotto e oltre il 24 per cento degli investimenti;
    i consumi delle famiglie meridionali sono ancora scesi, arrivando a ridursi nel 2013 del 2,4 per cento, a fronte del -2 per cento delle regioni del Centro-Nord. Dal 2008 al 2013 la caduta cumulata dei consumi delle famiglie ha sfiorato nel Sud i 13 punti percentuali (-12,7 per cento), risultando di oltre due volte maggiore di quella registrata nel resto del Paese (-5,7 per cento);
    tra il 2008 ed il 2013 delle 985 mila persone che in Italia hanno perso il posto di lavoro, ben 583 mila sono residenti nel Mezzogiorno. Nel Sud, pur essendo presente appena il 26 per cento degli occupati italiani si concentra il 60 per cento delle perdite determinate dalla crisi. Nel solo 2013 in Italia sono andati persi 478 mila posti di lavoro, di cui 282 mila al Sud. La nuova flessione riporta il numero degli occupati del Sud per la prima volta nella storia a 5,8 milioni, sotto la soglia psicologica dei 6 milioni, il livello più basso dal 1977, anno da cui è possibile disporre della serie storica dei dati;
    tra il 2008 ed il 2013 si registra al Sud una caduta dell'occupazione del 9 per cento, a fronte del -2,4 per cento del Centro-Nord. Negli anni Settanta il tasso di occupazione al Sud era del 49 per cento; nel 2013 è sceso al 42 per cento; al Centro-Nord invece si è passati dal 56 per cento degli anni Settanta al 63 per cento del 2013; Sud e Centro-Nord sono lontani dal target del 75 per cento di Europa 2020, ma per il Meridione l'obiettivo si allontana e continua ad allontanarsi. In calo soprattutto l'occupazione giovanile: al Sud nel 2013 fra gli under 34 flette del 12 per cento, contro il -6,9 per cento del Centro-Nord;
    al Sud appena il 21,6 per cento (1 su cinque) delle donne sotto i 34 anni ha un lavoro contro il 43 per cento del Centro-Nord ed una media nazionale del 34,7 per cento; il confronto con la media dell'Unione europea è impietoso: nell'Europa a 27 le donne sotto i 34 anni che lavorano sono il 50,9 per cento. Considerando tutte le classi di età, l'occupazione femminile meridionale si ferma al 33 per cento; al Centro-Nord la percentuale di donne che lavorano non è lontana dalla media europea (59,2 per cento rispetto al 62,6 per cento dell'Unione europea). Anche la nuova occupazione che si crea per le donne perde di qualità: dal 2008 al 2013 le professioni qualificate femminili sono scese dell`11,7 per cento, mentre sono aumentati del 15 per cento i posti di lavoro nelle professioni poco qualificate. Indicativo anche il dato sul part-time: le donne che lo scelgono, circa il 30 per cento del totale in Italia, non lo fa per scelta: al Sud addirittura il 75 per cento dei part-time femminili è involontario;
    i consumi delle famiglie meridionali sono ancora scesi, arrivando a ridursi nel 2013 del 2,4 per cento, a fronte del -2 per cento delle regioni del Centro-Nord. Dal 2008 al 2013 la caduta cumulata dei consumi delle famiglie ha sfiorato nel Sud i 13 punti percentuali (-12,7 per cento), risultando di oltre due volte maggiore di quella registrata nel resto del Paese (-5,7 per cento);
    al di là delle aride cifre riferite a prodotto interno lordo, produzione e occupazione, la questione che riveste assoluta gravità è quella sociale: nel 2007 la povertà assoluta interessava il 4,1 per cento delle famiglie italiane (3,3 per cento al Centro-Nord e 5,8 per cento al Sud), mentre a fine 2013 si è arrivati al 7,9 per cento a livello nazionale, con il 5,8 per cento di nuclei familiari in povertà assoluta al Centro-Nord e il 12,6 per cento al Sud; in termini assoluti, nel periodo 2007-2013 al Sud le famiglie assolutamente povere sono cresciute oltre due volte e mezzo, da 443 mila a 1 milione 14 mila, con un incremento del 40 per cento solo nell'ultimo anno della serie. Nel 2012 il 9,5 per cento delle famiglie meridionali guadagna meno di mille euro al mese, mentre per il Centro-Nord tale dato si attesta al 3,8 per cento; si tratta, in particolare, del 9,2 per cento delle famiglie lucane, del 9,3 per cento delle calabresi, del 10,9 per cento delle molisane e del 14,1 per cento di quelle siciliane;
    secondo stime Svimez, anche nel 2013, come nel 2012, nel Meridione i decessi hanno superato le nascite: un risultato negativo che si era verificato solo nel 1867 e nel 1918. Proseguendo questo trend, il Sud avrebbe una perdita di 4,2 milioni di abitanti nei prossimi 50 anni, arrivando così ad una consistenza del 27 per cento sul totale nazionale a fronte dell'attuale 34,3 per cento; la situazione è aggravata dall'emigrazione: negli ultimi venti anni sono emigrati dal Sud al Centro-Nord circa 2,3 milioni di persone. Nel 2013 secondo Svimez si sono trasferiti dal Mezzogiorno al Centro-Nord circa 116 mila abitanti; altro elemento da valutare è che anche gli stranieri rifuggono dal Sud: a dicembre 2013 i residenti stranieri nel nostro Paese sono circa 5 milioni, di cui solo 717 mila al Sud e 4 milioni e 200 mila nel Centro-Nord;
    i giovani meridionali si trovano di fronte ad una drammatica realtà sociale e culturale: secondo una recente ricerca l'80 per cento dei giovani meridionali maschi sotto i 30 anni vive ancora in casa con i propri genitori, mentre oltre tre quinti delle giovani del Sud intravedono per sé un futuro di casalinga: una situazione simile a quella dei primi anni del dopo guerra. Le abitazioni non mancano: mancano le risorse per potersi stabilire;
    annualmente Il Sole 24 ore pubblica un'indagine sulla qualità della vita condotta nelle 107 città italiane capoluogo di provincia. L'indagine è piuttosto approfondita e complessa e si basa su 36 parametri, raggruppati in sei macro-aree (tenore di vita, affari e lavoro, servizi ambiente e salute, popolazione, ordine pubblico e tempo libero), fino alla compilazione di una classifica generale. Anche per il 2014 il Sud continua a essere fanalino di coda della classifica e Napoli in particolare si conferma la città dove si vive peggio, mentre Palermo è la penultima; a salire si trovano: Reggio Calabria; Taranto; Caserta; Vibo Valentia; Catania; Caltanissetta, Foggia, Trapani, Bari, Agrigento e Cosenza; la prima città non meridionale è Frosinone all'87esimo posto;
    in termini di ricchezza prodotta la città che ne produce di meno è Crotone (12.930 euro; Milano 37.642 euro), seguita da Agrigento, Enna e Caserta; la prima città non meridionale è Isernia al 78esimo posto;
    in termini di propensione al risparmio la provincia peggiore è Carbonia-Iglesias (7.903 euro, Trieste 43.228 euro), seguita da Crotone, Trapani e Siracusa; la prima città non meridionale è Rieti all'82esimo posto;
    in termini di assegno pensionistico medio la città in cui la media è più bassa è Catanzaro (485 euro, Milano 1.100 euro), seguita da Agrigento, Campobasso, Benevento ed Enna;
    in termini di ambiente favorevole agli affari e al lavoro, la città meno attraente è Reggio Calabria, seguita da Caltanissetta, Caserta, Napoli e Cosenza;
    in termini di servizi, ambiente e salute, la città nelle peggiori condizioni è Crotone, seguita da Vibo Valentia, Foggia, Caltanissetta e Agrigento;
    le risorse inizialmente programmate nel quadro strategico nazionale 2007-2013 ammontavano originariamente a oltre 60 miliardi di euro, di cui circa 28,8 miliardi di euro di fondi strutturali provenienti dall'Unione europea e circa 31,6 miliardi di euro di risorse di cofinanziamento nazionale (iscritti sul fondo di rotazione per l'attuazione delle politiche comunitarie previsto dalla legge n. 183 del 1987); la gran parte di tali risorse, 43,6 miliardi di euro (all'incirca il 75 per cento del totale), risultava destinata all'obiettivo «convergenza», che interessa le regioni Calabria, Campania, Puglia, Sicilia e Basilicata;
    a seguito del Piano di azione per la coesione, l'ammontare complessivo delle risorse destinate ai programmi operativi (quota comunitaria più cofinanziamento nazionale) si è ridotto da 60,1 miliardi di euro (28,5 miliardi di euro di fondi comunitari e 31,6 miliardi di euro di cofinanziamento) a circa 48,5 miliardi di euro. Sulla base delle informazioni disponibili (fornite dalla Ragioneria generale dello Stato), alla data del 30 giugno 2014 le risorse ancora da spendere entro il 31 dicembre 2015 (termine ultimo per effettuare pagamenti) ammontano a circa 20 miliardi di euro, la maggior parte dei quali (15 miliardi di euro) nell'area dell'obiettivo «convergenza»;
    secondo le indicazioni offerte dal Governo nei primi giorni del mese di ottobre 2014, la programmazione 2014-2020 potrà contare su 32 miliardi di euro di fondi strutturali europei, cui ne andrebbero aggiunti altrettanti di cofinanziamenti nazionali (24 miliardi di euro a carico dello Stato, il resto a carico delle regioni). È stata avanzata anche la proposta di ridurre, nelle regioni «convergenza», la quota di cofinanziamento regionale e sono state indicate tre priorità per questo nuovo programma: competitività delle imprese, occupazione e istruzione/formazione. Nel decreto-legge «sblocca Italia» (n. 133 del 2014) si affidano nuove funzioni al Presidente del Consiglio dei ministri al fine di accelerare l'impiego delle risorse comunitarie nelle regioni «convergenza»; il Presidente del Consiglio dei ministri avrà la facoltà di proporre al Cipe il definanziamento e la riprogrammazione delle risorse non impegnate;
    ma, a seguito della presentazione della legge di stabilità 2015, è intervenuto un richiamo comunitario che ha richiesto un ulteriore aggiustamento di bilancio; il Governo ha pertanto provveduto riducendo, tra l'altro, di 500 milioni di euro la quota delle risorse nazionali dai fondi di cofinanziamento di coesione dell'Unione europea; inoltre l'articolo 12 della legge di stabilità per finanziare gli sgravi contributivi per assunzioni a tempo indeterminato ha ridotto di un miliardo di euro per ciascuno degli anni 2015, 2016 e 2017 e a 500 milioni di euro per l'anno 2018 le risorse del fondo di rotazione di cui all'articolo 5 della legge 16 aprile 1987, n. 183, già destinate agli interventi del Piano di azione per la coesione;
    se è vero che i dati di per sé risultano aridi e che, comunque, vanno integrati, si può convenire che dagli elementi presentati emerge una realtà drammatica e fortemente preoccupante per l'intero Mezzogiorno d'Italia;
    una parte fondamentale del Paese ha nella storia, nella cultura, nell'economia un bacino di potenzialità a sua disposizione e gli strumenti per crescere svilupparsi, integrare e sostenere con vigore lo sforzo dell'esecutivo per risanare e rilanciare il Paese;
    il quadro macroeconomico che emerge dalle considerazioni effettuate suscita timori sotto diversi profili. Ma ciò che risalta soprattutto è l'allarmante crisi sociale che impedisce il formarsi di nuove famiglie, la crescita delle famiglie esistenti e la stessa natalità. Una preoccupazione forte che ha sollecitato il Ministro della salute a dar vita al piano nazionale per la fertilità, nel quale sono coinvolti esperti di natalità, pediatri, sociologi, esperti di economia sanitaria ed altri. Un'operazione questa che, se risulta indubbiamente utile al Paese intero, lo è ancor di più per il Sud che, nelle condizioni attuali, non è di sicuro sostenuto e assecondato sul piano della crescita demografica: una questione, quest'ultima, che è strettamente collegata ora e di più lo sarà nel futuro al tema della sostenibilità del sistema sanitario e previdenziale,

impegna il Governo:

   ad adottare ogni iniziativa, anche attraverso ulteriori interventi normativi, volta ad attribuire adeguate quote di cofinanziamento e comunque adeguate risorse comunitarie e nazionali alle regioni meridionali ed individuando la sede idonea in cui Governo, regioni ed i competenti organi parlamentari, a seguito di un naturale, approfondito confronto, siano in grado di definire un insieme coordinato di opere strategiche di importanza prioritaria, la cui realizzazione favorisca la crescita economica complessiva delle regioni meridionali;
   ad assicurare, attraverso una specifica programmazione infrastrutturale, forti politiche di investimento da parte dello Stato a favore delle regioni meridionali ed impegnandosi, altresì, a riconsiderare le regole del patto di stabilità per gli enti territoriali;
   a perseguire con decisione, in sede di Unione europea e quale obiettivo del semestre di Presidenza italiana, l'obiettivo della riduzione delle quote di partecipazione nazionale ed in particolare regionale, con specifico riferimento alle regioni meridionali, da erogare a titolo di concorso al cofinanziamento del Fondo europeo per lo sviluppo regionale e del Fondo sociale europeo;
   con riferimento alla programmazione 2014-2020, a prevedere l'utilizzo di parte significativa delle risorse del Fondo sociale europeo per realizzare politiche attive di lavoro e inserimento professionale nei confronti dei giovani disoccupati meridionali;
   ad avviare politiche a sostegno della natalità e della genitorialità, con particolare riferimento alle zone socialmente ed economicamente più disagiate;
   ad assicurare tempestiva e rigida applicazione dei poteri sostitutivi del Governo in materia di utilizzo delle risorse comunitarie, previsti dall'articolo 9 del decreto-legge n. 69 del 2013, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 98 del 2013, e dall'articolo 12 del decreto-legge n. 133 del 2014 in caso di ritardo delle regioni nelle assegnazioni ed erogazioni;
   ad adoperarsi al fine di consentire all'Agenzia per la coesione territoriale di operare da subito e con poteri rafforzati negli ambiti di sua competenza.
(1-00653)
«De Girolamo, Pagano, Garofalo, Calabrò, Dorina Bianchi, Pizzolante, Bosco, Minardo, Misuraca, Scopelliti, Cicchitto, Alli, Bernardo, Piccone, Piso, Roccella, Saltamartini, Sammarco, Tancredi, Vignali».
(31 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    la Svimez con il suo recentissimo rapporto sull'economia del Mezzogiorno ha ricordato che questa fase del Mezzogiorno è la peggiore dal dopoguerra in poi. Le previsioni lasciano intravedere ancora altri due anni di recessione (si arriverà così ad 8 anni consecutivi). Eppure questa situazione così drammatica non viene affatto percepita come tale dal mondo politico ed imprenditoriale;
    non si può sottovalutare il fenomeno dell'impoverimento industriale e fisico del Mezzogiorno che, in assenza di contromisure, condurrà le regioni meridionali, oggi le più ricche di giovani, a un drammatico invecchiamento se i giovani laureati e competenti continueranno ad abbandonare le città del Sud al ritmo di più di centomila all'anno;
    tutti i dati – da quelli di Banca d'Italia a quelli di Unioncamere, di Svimez e Istat – concordano nell'analisi di una realtà non ferma, ma in profonda regressione dal punto di vista sociale, dal punto di vista economico, dal punto di vista culturale e civile. I dati su occupazione, procedure fallimentari, liquidazione e scioglimenti di società di persone e di capitale convergono tutti nella direzione di descrivere una condizione che, negli anni, ha visto crisi sovrapporsi a crisi, fino ad incrociare la crisi perfetta che si sta vivendo in questi tempi;
    l'Esecutivo ha confermato la sua politica di totale disimpegno nei confronti di un'area del Paese, il Mezzogiorno, che con la sua produzione contribuisce ad un quarto del prodotto interno nazionale, dimostrando in tal modo di sottovalutare la dimensione nazionale e le ricadute della questione meridionale e l'impossibilità per una nazione di mantenere la propria unità, se parti di essa procedono a velocità diverse, accentuando fra loro il disequilibrio;
    sarebbe auspicabile che il Governo facesse un'inversione di rotta e ricomprendesse nella sua agenda politica le istanze e le energie delle tante forze vive presenti nel tessuto sociale ed imprenditoriale del Mezzogiorno, al fine di farle emergere ed esprimersi nei contesti internazionali e sui mercati con maggiore facilità, senza rimanere penalizzate, come troppo spesso oggi accade, da fattori di contesto;
    d'altra parte, nel corso degli anni le politiche per il Mezzogiorno hanno oscillato tra due paradigmi, quello assistenziale e quello compensativo, in funzione della diminuzione più o meno graduale del gap con il Centro-Nord, e che si sono rivelati fallimentari e non premianti;
    il Mezzogiorno ha subito più del Centro-Nord le conseguenze della crisi economica, con una caduta maggiore del prodotto interno lordo e una riduzione ancora più pesante dell'occupazione nel biennio di recessione 2008-2009, mentre la debole ripresa del successivo biennio 2010-2011 è stata nell'area troppo incerta e insufficiente;
    tra il 2007 e il 2011 il prodotto interno lordo meridionale ha subito una riduzione in termini reali del 6,1 per cento, a fronte di una riduzione del 4,1 per cento nel Centro-Nord;
    il Mezzogiorno è a rischio desertificazione umana e industriale, si continua a emigrare (116 mila abitanti nel solo 2013) e a non fare figli, infatti nel 2013 continuano a esserci più morti che nati. Nel Sud la popolazione continua a impoverirsi, con un aumento del 40 per cento di famiglie povere nell'ultimo anno. Sono alcuni dati che emergono dal rapporto Svimez sull'economia del Mezzogiorno 2014 presentato il 28 ottobre a Roma;
    nel 2013 al Sud i decessi hanno superato le nascite, confermando il trend già in atto dall'anno precedente. Un fenomeno così grave si era verificato solo nel 1867 e nel 1918, cioè alla fine di due guerre, la terza guerra d'indipendenza e la prima Guerra mondiale: «Nel 2013 il numero dei nati ha toccato il suo minimo storico, 177 mila, il valore più basso mai registrato dal 1861». «Il Sud – sottolinea la Svimez – sarà interessato nei prossimi anni da uno stravolgimento demografico, uno tsunami dalle conseguenze imprevedibili, destinato a perdere 4,2 milioni di abitanti nei prossimi 50 anni, arrivando così a pesare per il 27 per cento sul totale nazionale a fronte dell'attuale 34,3 per cento»;
    la Svimez sottolinea come gli investimenti produttivi nel Sud sono crollati del 53 per cento;
    la Calabria, come si evince dalla drammaticità e dalla crudezza del dato statistico, confermato da altri autorevoli centri di ricerca istituzionali, evidenzia sul piano socio-economico una drammatica specificità negativa, continuando inesorabilmente a declinare in un lento processo di separazione anche rispetto alle altre regioni del Mezzogiorno: i dati dei centri di ricerca evidenziano, sul piano socio-economico, una forte specificità negativa, anche rispetto alle altre regioni del Mezzogiorno;
    la Calabria si conferma, infatti, la regione più povera d'Italia con un prodotto interno lordo pro capite che nel 2013 si è fermato a 15.989 euro, meno della metà delle regioni più ricche come Valle d'Aosta, Trentino Alto Adige e Lombardia. Nel Mezzogiorno la regione con il prodotto interno lordo pro capite più elevato è stata l'Abruzzo (21.845 euro). Seguono il Molise (19.374 euro), la Sardegna (18.620), la Basilicata (17.006 euro), la Puglia (16.512 euro), la Campania (16.291 euro), la Sicilia (16.152 euro) e la Calabria (15.989 euro). In generale, in termini di prodotto interno lordo pro capite, il Mezzogiorno nel 2013 è sceso al 56,6 per cento del valore del Centro-Nord, tornando ai livelli del 2003, con un prodotto interno lordo pro capite pari a 16.888 euro. In valori assoluti, a livello nazionale, il prodotto interno lordo è stato di 25.457 euro, risultante dalla media tra i 29.837 euro del Centro-Nord e i 16.888 euro del Mezzogiorno;
    nel Sud appena il 21,6 per cento delle donne sotto i 34 anni è occupata contro il 43,0 per cento del Centro-Nord e una media nazionale del 34,7 per cento. Il confronto con la media dell'Unione europea evidenzia il divario. Nell'Europa a 27 Stati le donne sotto i 34 anni che lavorano sono il 50,9 per cento. Le donne che rientrano, o entrano per la prima volta, nel mercato del lavoro, vanno a ricoprire posizioni poco qualificate. Dal 2008 al 2013 le professioni qualificate femminili sono scese dell'11,7 per cento, mentre sono aumentati del 15 per cento i posti di lavoro nelle professioni poco qualificate;
    il prodotto interno lordo si attesterà a -0,4 per cento nel 2014, come «risultato tra la stazionarietà del Centro-Nord (0 per cento) e la flessione del Sud (-1,5 per cento)». Per il Sud è il settimo anno di recessione. Forbice ancora divaricata nel 2015: il prodotto interno lordo nazionale, secondo le stime Svimez, è previsto a +0,8 per cento, quale risultato tra il +1,3 per cento del Centro-Nord e il -0,7 per cento del Sud;
    nel 2013 il prodotto interno lordo è crollato nel Mezzogiorno del 3,5 per cento, peggiorando la flessione dell'anno precedente (-3,2 per cento), con un calo superiore di quasi due punti percentuali rispetto al Centro-Nord (-1,4 per cento). Il peggior andamento del prodotto interno lordo meridionale nel 2013 è dovuto soprattutto a una più sfavorevole dinamica della domanda interna con i consumi in calo del 2,4 per cento e gli investimenti crollati del 5,2 per cento. Da segnalare l'ulteriore perdita di posti di lavoro scesi sempre nel Mezzogiorno del 3,8 per cento. In un panorama fortemente negativo, le esportazioni nel 2013 hanno segnato -0,6 per cento al Sud. Tra il 2008 e il 2013 i redditi al Sud sono crollati del 15 per cento e i posti di lavoro sono diminuiti di circa 800 mila persone;
    al Sud le famiglie assolutamente povere sono cresciute oltre due volte e mezzo, da 443 mila (il 5,8 per cento del totale) a 1 milione 14 mila (il 12,5 per cento del totale), cioè il 40 per cento in più solo nell'ultimo anno. È quanto emerge dal rapporto Svimez sull'economia del Mezzogiorno 2014. Secondo il rapporto, in Italia, dal 2008 al 2012, sono aumentate del 7 per cento le famiglie in stato di «deprivazione materiale severa», cioè che non riescono, ad esempio, a pagare l'affitto o il mutuo, fare una vacanza di una settimana una volta l'anno fuori casa, pagare il riscaldamento, fronteggiare spese inaspettate, e che magari non hanno l'automobile, la lavatrice, il telefono, la TV, e fanno fatica a fare un pasto di carne o pesce ogni due giorni. In Italia oltre due milioni di famiglie si trovavano nel 2013 al di sotto della soglia di povertà assoluta, equamente divise tra Centro-Nord e Sud (1 milione e 14 mila famiglie per ripartizione), con un aumento di 1 milione e 150 mila famiglie rispetto al 2007;
    tra il 2008 e il 2013 delle 985 mila persone che in Italia hanno perso il posto di lavoro, ben 583 mila sono residenti nel Mezzogiorno. Nel Sud, pur essendo presente appena il 26 per cento degli occupati italiani si concentra il 60 per cento delle perdite determinate dalla crisi. Nel solo 2013 sono andati persi 478 mila posti di lavoro in Italia, di cui 282 mila al Sud. La nuova flessione riporta il numero degli occupati del Sud per la prima volta nella storia a 5,8 milioni, sotto la soglia psicologica dei 6 milioni; il livello più basso almeno dal 1977, anno da cui sono disponibili le serie storiche basi di dati. Nel primo trimestre 2014 il Sud ha perso 170 mila posti di lavoro rispetto all'anno precedente, contro –41 mila nel Centro-Nord. A fronte di una quota di occupati pari a circa un quarto dell'occupazione complessiva, tra il primo trimestre del 2013 e il primo trimestre del 2014 l'80 per cento delle perdite di posti di lavoro in Italia si è concentrata al Sud;
    l'ultimo rilevamento dell'Istat del 28 novembre 2014 certifica una volta di più che il tasso disoccupazione nel Mezzogiorno nel mese di ottobre 2014 supera il 20 per cento (rispetto ad un dato nazionale, pur preoccupante, del 13,3 per cento);
    in questo scenario, rischiano di apparire come semplice palliativo anche strumenti e programmi, che avevano rappresentato almeno una speranza per i territori del Sud, come «Garanzia giovani»: quelle risorse rischiano di essere utili più a chi fa dell'intermediazione del lavoro o dell'intermediazione finanziaria la propria attività, piuttosto che per creare lavoro e reddito in quelle aree;
    il tessuto sociale si presenta sempre più lacerato e le manifestazioni di insofferenza e di conflitto, che si allargano giorno dopo giorno, sono i sintomi di una malattia che potrebbe rendere instabile sia la coesione sociale che la forza stessa delle istituzioni;
    di fronte a questa drammatica realtà tutto il dibattito sul Sud sembra appuntarsi sui fondi comunitari, come se questi fossero da soli in grado di portare il Mezzogiorno fuori dalle sue difficoltà attuali. Molti studiosi, viceversa, concordano sul fatto che lo sviluppo del Sud non può essere delegato interamente alle politiche di coesione dell'Europa;
    basti riflettere che per il quadro strategico 2007-2013 restano da spendere da qui al 31 dicembre 2015 quasi 15 miliardi di euro tra Ministeri, regioni e privati. Per centrare l'obiettivo bisognerebbe spendere un miliardo al mese. Ma tale spesa è in larga misura inibita dal patto di stabilità interno. Secondo uno studio di Confindustria, nel 2015 per cinque regioni (Campania, Puglia, Calabria, Basilicata e Molise) il cofinanziamento nazionale e il fondo di coesione supereranno il 60 per cento della spesa massima consentita dal loro patto di stabilità, rendendo nei fatti impossibile il completo utilizzo delle risorse europee;
    il Governo continua ad indicare la spesa dei fondi come unica via per uscire dalla crisi, ma esso sa bene che nel patto di stabilità non ci sono le condizioni finanziarie sufficienti ad effettuare i pagamenti. Quel poco che c'era (500 milioni di euro) nella legge di stabilità per il 2015 di esclusione dal patto di stabilità interno per il cofinanziamento delle regioni è stato, in seguito ai richiami della Commissione europea, addirittura soppresso;
    inoltre, l'articolo 12 della legge di stabilità per finanziare gli sgravi contributivi per assunzioni a tempo indeterminato ha ridotto di un miliardo di euro per ciascuno degli anni 2015, 2016 e 2017 e a 500 milioni di euro per l'anno 2018 le risorse del fondo di rotazione di cui all'articolo 5 della legge 16 aprile 1987, n. 183, già destinate agli interventi del Piano di azione per la coesione che, dal sistema di monitoraggio del dipartimento della Ragioneria generale dello Stato, risultano non ancora impegnate alla data del 30 settembre 2014;
    in pratica, si tratta di risorse tolte al Mezzogiorno per finanziare gli sgravi contributivi per supposte nuove assunzioni, sgravi che saranno attribuiti prevalentemente al Centro-Nord;
    infine, non è ancora entrata in funzione l'Agenzia per la coesione a cui in tanti guardavano come una possibilità di aiuto per le regioni e i Ministeri, in questa ultima e difficile fase di completamento del programma comunitario 2007/2013;
    l'incremento della dotazione infrastrutturale diventa pertanto assolutamente prioritario ed indilazionabile per rendere il Mezzogiorno area capace di creare e di attrarre investimenti e a farsi partecipe del nuovo ruolo di cerniera negli scambi commerciali tra Europa, Africa, Medio Oriente ed Asia, e che, sfruttando la sua collocazione geografica, è chiamato ad assumere nello scacchiere euromediterraneo, anche raccogliendo le nuove opportunità del contesto competitivo internazionale che torneranno a presentarsi dopo la tregua di tutti i conflitti del Nord Africa;
    la sopradetta collocazione geopolitica del Meridione, crocevia geografico naturale e storico degli interessi e degli scambi economici e culturali tra Europa e Nord Africa e punto di approdo più vicino ai rivolgimenti in atto in quella regione, lo trova però costretto a fare i conti con quella che oramai è considerata una grande emergenza umanitaria e cioè l'esplosione del fenomeno immigratorio;
    l'immigrazione non può essere arrestata, perché è parte della storia dell'umanità, ma va gestita nell'interesse dei Paesi di origine e di quelli di destinazione dei flussi migratori, anche e soprattutto per impedire il rischio di una deriva razzista, rischio che impone una rinnovata tensione ed un'azione pedagogica che si fondino su valori quali il rispetto della dignità umana, la solidarietà e la condivisione tra i popoli, tutti presupposti sui quali costruire una nuova politica dell'accoglienza di un territorio che, nonostante la sua grande vocazione solidale, è costretto a mettere a disposizione risorse logistiche, umane ed economiche necessarie per evitare il collasso del suo territorio, e che in questo sforzo ha dovuto e potuto contare solo sulle proprie forze che a volte sono risultate deboli e inadeguate per affrontare l'emergenza;
    il Mezzogiorno, più che soldi, chiede più politica e più intelligenza. Il Mezzogiorno ha bisogno di un bacino produttivo autocentrato, esteso dal napoletano alla Sicilia;
    sul versante della formazione i sistemi scolastico ed universitario del Meridione esprimono professionalità con buoni livelli di qualifica che il tessuto produttivo locale non riesce però ad assorbire e valorizzare adeguatamente, relegando molti giovani nella condizione di dover scegliere fra l'emigrazione o l'inattività. Infatti, il mancato superamento dei vincoli costituiti da un apparato produttivo debole e da un sistema sociale bloccato, nonostante i progressi raggiunti nella formazione scolastica ed universitaria, condanna il Mezzogiorno al ruolo di fornitore di risorse umane qualificate al resto del Paese, ed i suoi migliori giovani a cercare altrove le modalità per mettere a frutto le proprie competenze e realizzare i propri sogni;
    occorre affrontare il declino italiano partendo dalla debolezza dell'economia meridionale: un deficit commerciale – quasi tutto in prodotti industriali – che è quasi il 20 per cento del suo prodotto interno lordo. Le numerose aree di eccellenza di cui è costellato il Mezzogiorno confermano che, al di là della retorica, quel territorio può costituire una risorsa per l'Italia, purché riesca a valorizzare ed esprimere pienamente le sue potenzialità, a partire da quelle umane e naturali,

impegna il Governo:

   a prevedere a favore delle regioni ad obiettivo convergenza:
    a) la messa a regime di forme di credito d'imposta automatico sugli investimenti in ricerca, innovazione e formazione, a favore delle imprese disposte ad investire nel Mezzogiorno;
    b) lo sfruttamento del potenziale che ha il Sud per la produzione di energie tramite fonti rinnovabili attraverso il riconoscimento di significative tariffe incentivanti, come attualmente previsto dal V conto energia, ma limitato ai parchi solari su terreni delle pubbliche amministrazioni e sui tetti e le serre fotovoltaiche, per evitare ulteriori speculazioni sui terreni agricoli;
    c) l'avvio di un'innovativa programmazione del fondi strutturali europei, non solo per accelerare la capacità di spesa, ma anche per migliorarne la qualità e l'efficacia, attraverso la concentrazione degli stessi su alcuni obiettivi, come scuola, formazione, ferrovie, agenda digitale, occupazione, servizi di cura per bambini e anziani, anche attraverso una maggiore responsabilizzazione delle strutture politico-amministrative centrali, con un orientamento ai risultati tramite obiettivi misurabili, e con la concentrazione su alcuni obiettivi prioritari senza comunque prescindere dall'ammodernamento dell'intera rete infrastrutturale del Sud, presupposto determinante per sfruttarne le potenzialità di piattaforma logistica e di collocamento geo-strategico che ne fanno il crocevia naturale degli scambi internazionali lungo le direttrici nord-sud e est-ovest;
   a rilanciare gli investimenti in infrastrutture, la riqualificazione del territorio, la rigenerazione delle città, con uno specifico programma di risanamento urbano per le città capitali del Sud a partire dalla città di Napoli, e l'ammodernamento della rete dei trasporti e tutti gli interventi in grado di aumentare la competitività delle aree meridionali: gli assi viari, i collegamenti ferroviari tra le città del Mezzogiorno, le opere di consolidamento idrogeologico, di adeguamento statico e di efficientamento energetico degli edifici e di risanamento dell'edilizia pubblica e scolastica e il risanamento dei centri storici e delle periferie;
   a mettere in essere una politica industriale articolata per la promozione delle energie rinnovabili, dell’hi-tech e delle infrastrutture immateriali;
   a sostenere con politiche specifiche l'industria della cultura ed il turismo sostenibile e promuovere i territori e i diffusi «know how» locali;
   a realizzare la linea ferroviaria di alta capacità Napoli-Reggio Calabria, facendo sì che la nuova linea – proprio perché è alta capacità e non alta velocità – sia spina dorsale di tutto il territorio meridionale, in grado di assicurare quasi dovunque frequentazioni giornaliere, con un tracciato che attraversi i territori interni, in cui sono storicamente situati gli insediamenti più rilevanti, e non – come il Governo sembra preferire – la costa tirrenica o, peggio, la costa ionica, tenendo conto che Potenza, in particolare, appare un nodo ferroviario irrinunciabile;
   a realizzare la linea Alta velocità/Alta capacità Napoli-Bari ed a prevedere un raccordo ferroviario con Matera, città europea della cultura per il 2019;
   ad assumere iniziative, per quanto di competenza, nell'ottica della creazione di tre nuove città policentriche, per un adeguato servizio ferroviario regionale che, in sinergia con l'alta capacità, leghi in relazioni urbane (60 minuti) due gruppi di comuni, uno in Basilicata e Puglia (Potenza, Tricarico, Ferrandina, Matera, Altamura, Gravina, Genzano) e l'altro in Calabria (Cosenza, Rogliano, Serrastretta, Catanzaro, più gli insediamenti limitrofi);
   ad assumere le iniziative di competenza per realizzare la terza città policentrica con baricentro nel bipolo Reggio Calabria-Messina, nonché il tracciato anulare della città policentrica apulolucana (peraltro, in parte già realizzato ma mai completato), mentre il tracciato lineare della città calabrese sarebbe a costo zero (coincidendo con quello dell'alta capacità), considerato che il nuovo assetto territoriale aprirebbe una prospettiva industriale oggi impensabile;
   a costruire, grazie alla potenza delle economie di agglomerazione messe in gioco e le filiere produttive (prime fra tutte quelle distrettuali del made in Italy) che potrebbero agevolmente superare la loro frammentazione, configurando articolate relazioni intersettoriali ed integrando vecchie e nuove attività, un bacino produttivo aperto ai Paesi rivieraschi del Mediterraneo, in grado di offrire tutto ciò che occorra ad un loro appropriato sviluppo;
   ad intraprendere le opportune iniziative per fare diventare i porti di Taranto, Gioia Tauro e Crotone – in coordinamento con Genova e Trieste – il nodo esclusivo dei flussi commerciali tra Oriente e Occidente e, quindi, sedi di nuove rilevanti attività manifatturiere, in modo che si possano trasformare, grazie al gigantismo navale e alle crescenti economie di scala con cui stanno facendo i conti le grandi compagnie di navigazione, i porti che diverrebbero luoghi appetibili non solo per le attività indotte dalla movimentazione container (assemblaggio, imballaggio ed altro), ma anche per altre attività cui sia strategico l'accesso al mare, potendosi creare nei retro-porti un polo specializzato della meccanica strumentale pesante;
   a confermare la percentuale di riparto del Fondo per lo sviluppo e la coesione assegnando l'85 per cento delle risorse al Sud e il 15 per cento al Centro-Nord;
   a dare rapida attuazione agli interventi a favore dei lavoratori in mobilità, dei licenziati, dei giovani e delle donne disoccupati, degli inattivi e di coloro che né lavorano, né svolgono un'inattività di studio o formazione (neet) del Mezzogiorno, nonché ad aumentare gli sforzi per creare un contesto favorevole allo sviluppo economico ed alla crescita dell'occupazione, utilizzando parte significativa delle risorse derivanti dalla terza e ultima riprogrammazione dei fondi comunitari;
   a finanziare misure di agevolazione fiscale de minimis per le micro e le piccole imprese, con particolare attenzione alle imprese a conduzione o a prevalente partecipazione giovanile e femminile, operative nelle città con aree a più elevata criticità economico-sociale del Meridione;
   a promuovere, coerentemente con quanto recita l'articolo 119, quinto comma, della Carta costituzionale, «la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona», con un forte presidio nazionale degli interventi finanziati con il Piano di azione coesione, con particolare riferimento ai servizi di cura per la prima infanzia e gli anziani, verificando, in tale contesto di promozione dei diritti di cittadinanza, la possibilità di concentrare le risorse del Fondo per lo sviluppo e la coesione per gli obiettivi di servizio sugli interventi volti ad aumentare i servizi socio-assistenziali per bambini ed anziani nei comuni, nonché l'opportunità di estendere la sperimentazione della nuova social card familiare a tutti i comuni del Sud o, in alternativa, ai soli comuni capoluogo e valutando ogni altro adempimento, di competenza del Governo, necessario a migliorare l'efficienza delle strutture ospedaliere;
   a promuovere l'internazionalizzazione delle imprese meridionali, in particolare attraverso interventi mirati a sostegno della capacità di penetrazione nei mercati esteri dei settori di specializzazione e l'attivazione di forme di tutoraggio a vantaggio delle piccole e medie imprese dei settori ad elevato potenziale;
   a promuovere, attraverso un tavolo permanente Cipe-regioni del Mezzogiorno e Trenitalia o altri concessionari, un efficace monitoraggio della qualità del servizio di trasporto passeggeri di media e lunga percorrenza, anche con riferimento al contratto di servizio con Rete ferroviaria italiana, nel più ampio tema della mobilità nel Mezzogiorno e dal Sud verso il Centro-Nord e viceversa, che interessi anche la razionalizzazione e il rafforzamento del sistema portuale e aeroportuale calabrese, anche attraverso un progetto che preveda l'utilizzo in modo integrato e intermodale dell'attuale assetto del trasporto (treni, aliscafi, bus e aerei), per rendere più efficiente ed economica la gestione del sistema stesso, in sinergia con il sistema dei trasporti della Sicilia;
   a sostenere per le regioni obiettivo convergenza, nell'ambito dei negoziati per la riforma della politica agricola comune, una riforma non penalizzante dei pagamenti diretti, favorendo l'inserimento nel greening anche dell'olivicoltura e dell'agrumicoltura, nonché una riforma che preveda un aiuto specifico in favore delle coltivazioni tipiche di tali aree, anche sotto forma di maggiorazione degli aiuti diretti della politica agricola comune;
   a sollecitare la realizzazione di interventi per lo sviluppo dei principali siti archeologici ed un programma specifico per i siti Unesco del Mezzogiorno, anche per accrescere l'offerta turistica, rendendola adeguata e competitiva, attraverso, in particolare, il potenziamento dei servizi di accoglienza delle aree archeologiche, nel quadro dell'ampia riprogrammazione dell'intervento per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale delle regioni del Sud, finanziato attraverso le risorse dei fondi strutturali comunitari;
   a riprogrammare le risorse disponibili mantenendole integralmente al Mezzogiorno, ivi incluse quelle derivanti dalla riduzione del cofinanziamento nazionale;
   ad indirizzare interventi adeguati nelle agglomerazioni produttive vitali, industriali e agricole, del Mezzogiorno allo scopo di rafforzare soprattutto il contesto territoriale nelle aree capaci di esportare e di cogliere così i benefici della domanda mondiale;
   a compensare i maggiori costi unitari delle imprese del Mezzogiorno e le loro difficoltà nell'accesso al credito, sia rilanciando lo strumento del fondo di garanzia, sia sbloccando i contratti di sviluppo, sia rifinanziando gli strumenti volti al sostegno dell'imprenditoria giovanile, sia infine, ricorrendo, previa intesa con la Commissione europea, ai crediti d'imposta per l'occupazione e gli investimenti destinando una quota significativa di risorse;
   ad assumere iniziative, per quanto di competenza, per rafforzare i servizi per la cura dell'infanzia e degli anziani non autosufficienti, ambito nel quale gli interventi possono migliorare significativamente la condizione dei cittadini specie in una fase di forte compressione del reddito disponibile dalle famiglie del Mezzogiorno;
   ad assumere iniziative per reintegrare, nell'ambito del riparto e della programmazione 2014-2020 delle risorse comunitarie e del Fondo per lo sviluppo e la coesione, le risorse che il Mezzogiorno ha perduto negli ultimi anni.
(1-00680)
(Nuova formulazione) «Scotto, Costantino, Sannicandro, Palazzotto, Duranti, Piras, Giancarlo Giordano, Ferrara, Placido, Matarrelli, Pannarale».
(2 dicembre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    come riporta la Svimez nel suo Rapporto sull'economia del Mezzogiorno per l'anno 2014 ci si trova di fronte ad un Sud dove si continua a: emigrare (116 mila abitanti nel solo 2013); non fare figli (continuano nel 2013 a esserci più decessi che nascite); impoverirsi (+40 per cento di famiglie povere nell'ultimo anno i consumi delle famiglie crollano di quasi il 13 per cento in cinque anni) perché manca il lavoro;
    dall'inizio della crisi (fine 2008) il prodotto interno lordo meridionale è caduto di quasi 14 punti percentuali, contro poco più di 5 nel resto del Paese (attualmente il prodotto interno lordo pro capite meridionale è pari ad appena il 56 per cento di quello del Centro-Nord, come negli anni Cinquanta). Gli investimenti fissi lordi meridionali sono caduti, sempre da inizio crisi, di oltre trenta punti percentuali, con punte di quasi il 50 per cento nel settore industriale. Nel Sud, dove vive circa il 30 per cento dell'intera popolazione italiana, vi è più del 50 per cento dell'intero stock di disoccupati italiani (e il tasso di disoccupazione è doppio rispetto a quello italiano);
    fino ad oggi, come richiamato anche dalla stessa Commissione europea, la dispersione e la parcellizzazione delle risorse in un numero eccessivo di progetti, la mancanza delle condizionalità ex ante, che mirano a garantire efficacia ed efficienza, la scarsa capacità amministrativa e l'assenza di piani specifici settoriali sono state le criticità che hanno caratterizzato la gestione dei fondi europei nel nostro Paese;
    in conseguenza degli effetti del patto di stabilità interno e delle limitazioni della finanza pubblica, tra i principali strumenti per il finanziamento di tali interventi, un ruolo cruciale è svolto dalle risorse destinate agli interventi del Piano di azione per la coesione che, come noto, ha l'obiettivo di colmare i ritardi ancora rilevanti nell'attuazione e, al contempo, rafforzare l'efficacia degli interventi, in attuazione degli impegni assunti con la lettera del Presidente del Consiglio dei ministri pro tempore al presidente della Commissione europea e al presidente del Consiglio europeo del 26 ottobre 2011 e in conformità alle conclusioni del vertice dei «Paesi euro» dello stesso 26 ottobre 2011, impegnando quindi le amministrazioni centrali e locali a rilanciare i programmi in grave ritardo, garantendo una forte concentrazione delle risorse su alcune priorità;
    sul tema del rilancio economico e sociale del Mezzogiorno, nella seduta dell'11 novembre 2014, la Camera dei deputati ha approvato la mozione n. 1-00612 che prevedeva l'impegno del Governo a:
     a) velocizzare l’iter per rendere pienamente operativa l'Agenzia per la coesione territoriale con adeguata dotazione di personale, al fine di migliorare la capacità di impiego dei fondi strutturali sia per quanto riguarda la parte rimanente della programmazione 2010-2013, sia in relazione alla prossima programmazione;
     b) proporre al Cipe, entro 30 giorni dall'approvazione della presente mozione, l'adozione di un'apposita delibera per la formalizzazione delle questioni legate al cofinanziamento, assicurando che tutte le risorse nazionali destinate al cofinanziamento rimangano comunque a disposizione delle regioni a cui erano originariamente destinate;
     c) relazionare al Parlamento semestralmente circa l'impiego delle citate risorse;
     d) attivare una procedura concertativa con le regioni volta ad individuare i meccanismi correttivi e perequativi che consentano al Mezzogiorno di superare le criticità della «spesa storica» in materia di welfare;
     e) procedere rapidamente ad un censimento delle risorse ancora disponibili e non ancora utilizzate nell'ambito degli strumenti della programmazione negoziata, finalizzato alla predisposizione di un piano di rilancio industriale, improntato sulle specificità e le eccellenze produttive presenti nel Mezzogiorno, avviando una nuova stagione di utilizzo degli strumenti della programmazione negoziata, ivi compresi i contratti d'area, i patti territoriali, i contratti di programma e i contratti di localizzazione, sulla base delle migliori pratiche e delle esperienze di successo del passato;
     f) rafforzare, ulteriormente, i progetti in materia di sicurezza e legalità per contrastare la presenza dei fenomeni criminali, prima vera condizione per il rilancio delle politiche di sviluppo;
     g) creare un apposito osservatorio sulle infrastrutture del Mezzogiorno con l'obiettivo di velocizzare gli investimenti in atto e individuare le priorità per la connessione del Sud ai principali corridoi di comunicazione europei;
     h) potenziare i progetti concernenti il contrasto alla povertà come previsto dall'Obiettivo tematico n. 9, mettendoli in relazione agli strumenti per la realizzazione di politiche attive di lavoro ed inserimento professionale per la creazione di un nuovo welfare;
     i) concentrare la dovuta attenzione, nell'ambito della prossima programmazione, nei confronti di progetti legati alla messa in sicurezza del territorio e al contrasto dei fenomeni di dissesto idrogeologico che caratterizzano il Mezzogiorno;
     l) valorizzare il patrimonio culturale e paesaggistico del Sud, riservando parte della dotazione disponibile a partire dal residuo della programmazione 2007-2013 per le politiche di recupero e promozione, mettendo in rete i grandi poli di attrazione e i siti Unesco;
     m) riservare alle regioni del Sud parte della dotazione disponibile per quanto riguarda la programmazione 2014-2020 per le politiche ambientali nonché per il prosieguo dei processi di bonifica e messa in sicurezza dei siti di interesse nazionale e dei siti caratterizzati da particolari lavorazioni;
    si è trattato di impegni che rappresentano un punto di svolta dopo anni in cui il Mezzogiorno è stato, di fatto, derubricato dalle priorità politiche e di governo;
    in questi mesi l'attività dell'Esecutivo Renzi ha consentito al Sud di rientrare nell'agenda del Governo e lo stesso Presidente del Consiglio dei ministri non ha mancato di manifestare la sua attenzione, monitorando l'andamento dell'utilizzo dei fondi strutturali da parte delle regioni meridionali e visitando personalmente, insieme al Sottosegretario di Stato Delrio diverse realtà complesse e, allo stesso tempo, ricche di opportunità del Sud, come Pompei, Bagnoli, Termini Imerese, Mola di Bari, Catania, Reggio Calabria, Morra De Sanctis solo per citarne alcune;
    è evidente l'urgenza di una policy specifica per attirare gli investimenti nel Mezzogiorno e consolidare le realtà produttive già presenti; è opportuno, a tal proposito, tenere presente due importanti elementi: a) nel Sud, nonostante la crisi che l'ha colpito, sono tuttora rinvenibili agglomerati industriali significativi. Basti pensare all'elettronica nell'area di L'Aquila e Avezzano; l'aerospaziale in Campania e in Puglia; le aziende attive nelle tecnologie dell'informazione e della comunicazione a Cagliari; la meccatronica a Bari e l'elettronica a Catania. In questi poli, nel complesso, trovano occupazione più di 40 mila addetti; il fatturato totale (2011) supera gli 8,5 miliardi di euro, di cui circa un terzo destinato all'esportazione; relativamente ampio è il ricorso a ricercatori e personale qualificato; b) sono in corso fenomeni di reshoring, ovvero ritorno in Italia (ed anche nei Paesi di più antica industrializzazione) di produzioni precedentemente delocalizzate, anche in produzioni cosiddette «tradizionali». Il Sud potrebbe intercettare parte di questo movimento;
    appare ragionevole e condivisibile scongiurare il rischio che vadano inutilizzate le risorse europee non ancora impegnate, ed è non solo auspicabile, ma assolutamente necessario, dare corso a tutte le misure volte a superare i ritardi e le inefficienze sin qui registrate nell'utilizzo delle risorse dei fondi strutturali e, in ogni caso, individuare i meccanismi, anche di carattere sostitutivo da parte dello Stato, finalizzati ad assicurare per il futuro la realizzazione nei territori del Mezzogiorno di quegli interventi indispensabili per il suo riscatto;
    è essenziale, quindi, assumere provvedimenti anche urgenti al fine di assicurare interventi concreti in favore dei territori del Mezzogiorno, nella convinzione che, se non ripartirà l'economia del Mezzogiorno, è l'intero Paese che rimarrà più povero e più fragile sul piano della concorrenza internazionale, oltre che più ingiusto,

impegna il Governo:

   a promuovere interventi aventi per obiettivo quello di potenziare le strutture nel Mezzogiorno finalizzate a facilitare l'incontro tra domanda e offerta di lavoro, in particolare per i giovani;
   a promuovere lo sviluppo di un sistema creditizio e finanziario in grado di sostenere e supportare le imprese, con particolare attenzione ai settori ad alta capacità di innovazione, nonché a procedere ad un riordino complessivo, e ad un loro effettivo coordinamento, di enti e strutture, a partire dalla Banca del Mezzogiorno, che operano nel settore;
   a favorire, d'intesa con le regioni interessate, piani di formazione permanente a beneficio dei lavoratori ultracinquantenni al fine di promuovere politiche attive di reinserimento lavorativo;
   a rendere pienamente operativi e a rafforzare gli strumenti di contrasto del disagio sociale presente in ampie fasce della società meridionale;
   ad attivare politiche generali e di promozione locale finalizzate ad una nuova residenzialità nei territori caratterizzati, in questi ultimi anni, da un forte calo demografico, prevedendo politiche sperimentali in favore dei piccoli comuni, situati nelle zone svantaggiate e nelle aree interne;
   ad individuare, nel quadro di un ampio confronto con le regioni e le amministrazioni del Mezzogiorno, le opportune soluzioni, anche di carattere normativo, volte ad assicurare il tempestivo utilizzo delle risorse dei fondi strutturali della Politica agricola comune per interventi e progetti da realizzarsi esclusivamente nelle regioni obiettivo-convergenza del Sud, facendo ricorso, ove necessario, all'esercizio del potere sostitutivo nei confronti delle amministrazioni che si dovessero rivelare inadempienti;
   ad indire, entro il mese di marzo 2015, una conferenza nazionale di governo sul Mezzogiorno con la quale coinvolgere tutti i soggetti istituzionali e sociali del Sud nella redazione di misure finalizzate al rilancio economico e sociale del meridione.
(1-00685)
«Famiglietti, Covello, Mura, Valiante, Mariano, Ventricelli, Tino Iannuzzi, Sgambato, Greco, Oliverio, Grassi, Capone, Venittelli, Iacono, Tartaglione, Schirò, Moscatt, Magorno, Migliore, Censore, Vico, Amoddio, Zappulla, Capodicasa».
(3 dicembre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    il persistere della crisi economica, trasformatasi in recessione con fenomeni di stagnazione, sta compromettendo in modo irreversibile il sistema economico e produttivo italiano e, in particolare, ha reso insostenibili i livelli di disoccupazione e di deindustrializzazione e mancato sviluppo nel Mezzogiorno d'Italia;
    a maggior ragione è più sentita l'esigenza di una prioritaria attenzione per risollevare l'economia meridionale, caratterizzata da anni da un gap infrastrutturale, in termini di trasporti, logistica, ricerca e innovazione, rispetto al resto del Paese;
    le conseguenze della persistenza delle associazioni mafiose nel Mezzogiorno si intrecciano in modo complesso con l'economia del Sud, stravolgendo le regole del «fare impresa» e scoraggiando gli investimenti stranieri, oltre che creando un grave e indiscusso disagio sociale;
    ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, l'attuale politica governativa non sta assumendo misure per sostenere la debole economia del Sud, in un grave contesto economico e sociale di disagio e disoccupazione diffusa;
    a fronte di questa situazione disastrosa, l'impegno del Governo per il Mezzogiorno sembrerebbe consistere solo in una migliore e più razionale utilizzo dei fondi strutturali, misura indispensabile e dovuta, ma non sufficiente;
    nonostante l'enorme ammontare di risorse, che negli anni sono state destinate al Mezzogiorno, il Sud permane arretrato e caratterizzato da un'evidente carenza di infrastrutture, mai realizzate, ancorché grazie alla posizione geografica ed alla dotazione di porti e aeroporti, potrebbe svolgere un ruolo di cerniera negli scambi commerciali tra Europa, Mediterraneo e Paesi del far east e raccogliere le nuove opportunità del contesto competitivo internazionale;
    oltre che dall'inefficienza e dallo spreco, ovvero dal mancato utilizzo delle risorse europee per le regioni del Sud, lo sviluppo dell'economia locale è da sempre ostacolato dalla presenza delle associazioni mafiose nel Mezzogiorno, che stravolgono le regole del «fare impresa» e scoraggiano gli investimenti stranieri, che le politiche del Governo Renzi vorrebbero attrarre con le misure adottate soprattutto in materia di diritto del lavoro, il cosiddetto Jobs act, e che rischiano di non approdare mai nelle regioni meridionali per la diffusa criminalità;
    è fondamentale che lo Stato rafforzi la propria presenza in tali territori, consolidando i tribunali, presidio di legalità e freno alla criminalità, che permane uno dei principali fattori di ostacolo e disincentivo all'esercizio della libera imprenditorialità;
    indispensabile, inoltre, sarebbe un maggior impegno da parte del Governo a porre in essere misure più incisive per sconfiggere la criminalità organizzata e tutti quei fenomeni di illegalità da essa generati, che rallentano e ostacolano la crescita e lo sviluppo, come il già citato racket, nonché tutte le condotte tipiche della microcriminalità ed il fenomeno illegale diffuso del lavoro sommerso;
    occorre un intervento capace di promuovere sviluppo ed occupazione nel Mezzogiorno, al fine di favorire la ripresa dell'economia meridionale, come base per la crescita e lo sviluppo dell'intero Paese, anche favorendo, sin dall'età scolare, percorsi educativi volti a stimolare un cambio culturale che determini, già in età giovanile, l'educazione all'impresa;
    la gravità della crisi economica induce molte imprese a chiudere, in quanto non rientrano nei parametri degli studi di settore, e il complesso scenario economico italiano, aggravato dalle conseguenze della crisi finanziaria, pone ancora una volta in primo piano la questione di un Paese con due differenti velocità di sviluppo; infatti, nel Mezzogiorno si produce solo un quarto del prodotto interno e si genera soltanto un decimo delle esportazioni italiane;
    oltre alla già citata distorsione delle risorse destinate al Sud, si aggiungono i critici tagli operati sulla dotazione del fondo per aree sottoutilizzate, per finanziare interventi di diversa natura o fatti oggetto di corruttela o non sempre corrispondenti a finalità di sviluppo e quasi sempre non localizzati nel Mezzogiorno;
    la politica statale si dovrebbe coordinare con le politiche delle regioni meridionali con il precipuo obiettivo di dare impulso e proseguire lo sviluppo del sistema industriale meridionale, ancora in larga misura sottodimensionato: lo Stato dovrebbe farsi promotore di una politica attiva di sviluppo e di investimento nell'ambito di un disegno in cui lo Stato divenga responsabile di una politica di sostegno all'industria come elemento catalizzatore della crescita, consolidando e adeguando l'attuale sistema produttivo e riqualificandone il modello di specializzazione, abbracciando settori che possano creare nuove opportunità di lavoro e fette di mercato anche per le piccole e medie imprese;
    per quanto riguarda le problematiche connesse alla formazione delle nuove generazioni, si consideri che oltre un terzo dei laureati del Mezzogiorno under 34 è inattivo e la differenza con le regioni settentrionali diventa enorme, se si considera il tasso di inattività dei diplomati under 34; i tassi di scolarizzazione in Italia presentano divari sfavorevoli al Meridione e sono accompagnati da un parallelo aumento del tasso di abbandono, dovuto alle condizioni di degrado sociale e familiare. Negative sono anche le evidenze in termini di «qualità» della formazione, dal momento che gli studenti meridionali, che terminano la loro carriera accademica, hanno maggiori difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro. Si genera così un ampio fenomeno migratorio dei «cervelli» che lasciano le regioni del Sud, provocando un depauperamento del capitale umano disponibile, fenomeno che, non solo interessa l'area del Sud Italia, bensì tutto il territorio nazionale e incide fortemente e in modo negativo sul livello della qualità della ricerca effettuata nel nostro Paese, fattore necessario per la ripresa economica. Basti pensare alla ricerca nel know how e all'impiego dello stesso nelle imprese;
    il settore della ricerca e dell'innovazione risulta in questi ultimi anni incisivamente compromesso da interventi sulla spesa pubblica con tagli lineari che hanno agito sul sistema universitario nazionale e, quindi, sulla ricerca. Il sistema nazionale universitario è stato oggetto di recente riforma con la legge n. 240 del 2010 e, seppur presenti dei punti di forza, quali il buon posizionamento della ricerca italiana a livello internazionale e la crescita della percentuale dei laureati tra i giovani, registra significative carenze strutturali e di organico nei confronti dei Paesi europei, come:
     a) il forte e crescente sottodimensionamento del personale universitario e, in particolare, del corpo docente, che aggrava il già basso numero di ricercatori rispetto agli altri Paesi europei e il rapporto ancora molto basso tra docenti e studenti;
     b) un'eccezionale lunghezza del percorso pre-ruolo, con conseguente innalzamento dell'età di ingresso di ruolo;
     c) un livello insufficiente dei finanziamenti pubblici e privati dell'università;
     d) un diritto allo studio privo di adeguate garanzie;
     e) un disallineamento tra formazione universitaria e lavoro;
    in base al comma 13-bis dell'articolo 66 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, le università statali possono procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato e di ricercatori a tempo determinato nel limite di un contingente corrispondente ad una spesa pari al 50 per cento di quella relativa al corrispondente personale complessivamente cessato dal servizio nell'anno precedente e la predetta facoltà è fissata nella misura del 50 per cento per gli anni 2014 e 2015, del 60 per cento per l'anno 2016, dell'80 per cento per l'anno 2017 e del 100 per cento a decorrere dall'anno 2018;
    auspicabile, quindi, sarebbe mettere al centro dell'agenda politica l'istruzione e la ricerca, potenziando il sistema universitario in termini di risorse umane, finanziamenti e di infrastrutture, agendo sul fondo per il finanziamento ordinario delle università;
    per quanto riguarda le opportunità di sviluppo, il Sud avrebbe modo di risollevare le sorti occupazionali già solo attraverso l'industria del turismo; tuttavia, i dati relativi al turismo nel Meridione sono paradossali: su 100 stranieri che visitano l'Italia, meno di 1 va in Calabria (0,9 per cento per chi ama l'esattezza), ancora meno in Molise. In Basilicata si raggiunge lo 0,1 per cento e in Abruzzo lo 0,6 per cento. Sommando le otto regioni meridionali, includendo Sicilia e Sardegna, si arriva al 13,2 per cento. Fa di più il solo Trentino-Alto Adige, con il 14,2 per cento. Le politiche del turismo sono, pertanto, fallimentari;
    vari studi hanno tentato di quantificare, in termini di ritorno economico e occupazionale, lo sviluppo turistico del Sud anche per sollecitare un cambiamento culturale in tal senso, ma senza rilevanti risultati, e la causa non è la mancanza di fondi (le recenti difficoltà del programma operativo interregionale «Attrattori culturali, naturali e turismo» confermano che le criticità sono spesso politiche): i contributi europei arrivati al Sud non hanno generato virtuose sinergie tra destinazioni, operatori e investitori esterni, né hanno dato vita a poli di eccellenza che potessero «contaminare» positivamente i territori;
    è necessario promuovere lo sviluppo sostenibile del territorio, con particolare attenzione alle opportunità che offre la richiesta turistica per le località meridionali, che richiedono una implementazione di prodotti, servizi e infrastrutture in grado di far fronte alla domanda. Opportuno sarebbe selezionare le strutture, i siti, i beni di più grande interesse siti nel Meridione e abbandonati per valorizzarli, nonché rafforzare a livello regionale la convergenza della governance territoriale in materia di politiche culturali e turistiche, la conoscenza dell'eredità storica e archivistica degli interventi per lo sviluppo del territorio, la partecipazione alle scelte amministrative in materia di gestione e fruizione dei beni culturali e la capacità di tutela e valorizzazione del patrimonio archeologico;
    in materia ambientale, da oltre un decennio permane insoluto il problema di un'efficiente gestione delle acque nel distretto idrografico dell'Appennino meridionale, con particolare riguardo al sistema di depurazione delle acque, che nella regione Puglia rappresenta una vera emergenza nel settore della tutela delle acque superficiali e sotterranee e dei cicli di depurazione;
    l'emergenza ambientale che ne consegue, oltre ad essere incompatibile con la normativa europea in materia ambientale, di cui alla direttiva comunitaria 2000/60, ripresa ed integrata nel decreto legislativo n. 152 del 2006, nel decreto legislativo n. 30 del 2009, nella legge n. 13 del 2009 e nel decreto legislativo n. 194 del 2009, rende improcrastinabili investimenti urgenti per la risoluzione definitiva della gestione e depurazione delle acque, interventi che contribuirebbero sia all'incremento occupazionale, sia al sostegno di piani di sviluppo delle attività agricole nei territori meridionali interessati;
    peraltro, l'efficiente gestione del sistema di depurazione è un importante obiettivo per garantire la massima tutela dell'ambiente e per la tutela della salute dei cittadini, sia per questione etiche sia come contributo per lo sviluppo delle attività turistiche, compromesse dai casi di inquinamento dei tratti di mare, interessati dallo sversamento di liquidi non sufficientemente depurati e ricchi di sostanze prodotte da impianti industriali;
    il rilancio dell'economia del Mezzogiorno non può prescindere da interventi di sostegno al settore agricolo, finalizzati a migliorare la commercializzazione, adeguare la produzione alla domanda, ottimizzare i costi di produzione e stabilizzare i prezzi alla produzione, incentivare l'utilizzo di strumenti di gestione del rischio e contribuire al rafforzamento della posizione dei produttori, nonché di facilitare il dialogo tra i soggetti della filiera; è indispensabile promuovere forme di organizzazioni di produttori ed organizzazioni interprofessionali,

impegna il Governo:

   ad utilizzare le risorse finanziarie dell'Unione europea, anche mediante il cofinanziamento nazionale, per interventi di adeguamento e messa a norma, nonché di incremento dei depuratori in tutte le regioni del Meridione, con particolare priorità per la regione Puglia, assolutamente insufficienti ed inadeguati;
   ad adottare provvedimenti necessari ad aumentare il reclutamento dei ricercatori e garantire la stabilizzazione del personale di ricerca nel sistema universitario, con particolare riguardo alle regioni del Mezzogiorno, anche al fine di valorizzare la ricerca propedeutica allo sviluppo di nuove tecnologie e progetti industriali innovativi per lo sviluppo dell'economia meridionale, nonché a valutare l'opportunità di un intervento volto ad aumentare le capacità assunzionali fortemente limitate dall'articolo 66, comma 13-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, della legge 6 agosto 2008, n. 133;
   nell'ambito della riorganizzazione e razionalizzazione dei corpi di polizia e dei corpi armati, a garantire un maggior presidio delle medesime nelle zone del Mezzogiorno maggiormente interessate da fenomeni di criminalità organizzata, al fine di eliminare gli ostacoli e i disincentivi alle attività imprenditoriali;
   nel settore agricolo, a promuovere forme di organizzazioni di produttori ed organizzazioni interprofessionali nel Mezzogiorno come disposto dal regolamento (UE) n. 1308/2013 recante organizzazione comune dei mercati dei prodotti agricoli.
(1-00688)
«Cariello, Baldassarre, Currò, Rostellato, Barbanti, Tripiedi, Bechis, Chimienti, Ciprini, Cominardi, Rizzetto».
(12 dicembre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    i dati trimestrali diffusi nel mese di novembre 2014 dall'Istituto nazionale di statistica – Istat, relativi al terzo trimestre sull'andamento dell'economia italiana, confermano una situazione di estrema debolezza, in particolare con riferimento al tasso di disoccupazione pari all'11,8 per cento (in crescita di 0,5 punti percentuali su base annua), i cui livelli da record restano i più alti dall'inizio delle serie storiche introdotte dal 1977;
    nel Mezzogiorno l'incremento rilevato, a fronte della media nazionale del 39,3 per cento, risulta essere al 19,6 per cento e raggiunge nel complesso valori estremamente preoccuparti sul piano sociale ed economico fra le fasce giovanili, pari 51,3 per cento, intensificando pertanto i divari territoriali tra le aree del Nord (con l'indicatore pari al 7,8 per cento) con quelle meridionali (il cui differenziale risulta essere pari al 19,6 per cento);
    la ripartizione regionale pubblicata dal citato istituto, evidenzia, inoltre, che la regione Sicilia risulta, secondo l'ultimo trimestre, quella con il numero più elevato di disoccupati a livello nazionale, con il tasso di disoccupazione salito al 21,2 per cento e (+1,5 per cento rispetto allo stesso periodo del 2013) un differenziale di 10 punti percentuali in più rispetto alla media nazionale (11,8 per cento), ovvero il più alto della media del Mezzogiorno (19,6 per cento);
    alle citate rilevazioni statistiche, si affiancano ulteriori analisi più approfondite e significative, provenienti dall'Associazione per lo sviluppo dell'industria e il Mezzogiorno – Svimez, connesse alle condizioni di profonda sofferenza e disagio, sociale ed economica che persiste nel sesto anno di crisi italiana per l'economia meridionale, che evidenzia come il fenomeno si stia radicalizzando nelle aree sottoutilizzate ad alta densità di disoccupati, in cui ad un'emergenza economica, contrassegnata da forti rischi di desertificazione industriale, s'intreccia, in modo sempre più stringente, l'esigenza di una mancata crescita e un potenziale sviluppo produttivo;
    alla persistente crescita tendenziale del numero dei disoccupati nelle regioni del Mezzogiorno (pari a oltre 3,5 milioni di individui, con quella giovanile giunta al 43,3 per cento e sempre più fuori controllo), si collegano i dati sulla mancata capacità competitiva delle imprese localizzate nelle aree territoriali del Sud Italia, che risentono della maggiore fragilità strutturale di «fare sistema», rispetto alle altre del Paese, ed il cui valore aggiunto in termini di produttività si attesta soltanto al 16,9 per cento, a differenza delle regioni del Nord Italia, che contribuiscono, invece, per il 61,7 per cento, e quelle del Centro, che si attestano al 21,4 per cento;
    l'evidente assenza di significativi interventi da parte del Governo Renzi, diretti al superamento dei divari di crescita esistenti tra il Centro-Nord ed il Mezzogiorno, volti alla promozione dello sviluppo territoriale nelle aree sottoutilizzate, manifestatisi sin dall'inizio del suo insediamento, hanno accresciuto le dinamiche negative delle regioni meridionali e, in particolare, riferite al sistema imprenditoriale, che per dimensione, caratteristiche settoriali e capacità competitiva è meno attrezzato a resistere ad una dinamica negativa di un ciclo recessivo così lungo e pervasivo;
    la debolezza delle aree sottosviluppate emerge in maniera rilevante anche dal confronto con altre realtà territoriali europee, caratterizzate da un livello di sviluppo economico simile, a causa dell'inefficienza (emersa in particolare nell'ultimo anno) nell'accelerazione dei programmi di spesa, in ragione dei consistenti ritardi europei, già destinati agli interventi del piano di azione e coesione e, in particolare, dal fondo di rotazione per l'attuazione delle politiche comunitarie;
    il dimezzamento delle risorse nazionali previsto da recenti interventi del Governo nell'ambito della politica di coesione relativo al periodo 2014-2020, per la definizione del nuovo quadro strategico nazionale, nei confronti della Campania, la Calabria e la Sicilia, a cui si aggiunge il concreto rischio di aggiungere 30 miliardi di euro relativi ai fondi strutturali relativi al periodo 2007-2013, che stanno per essere persi definitivamente, non riconosciuti dall'Unione europea, o perfino restituiti dalle regioni ritardatarie (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia), confermano a tal fine come lo svolgimento delle competenze attribuite all'Agenzia per la coesione territoriale (istituita ai sensi dell'articolo 10 del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125), finalizzate ad imprimere una svolta decisiva nella capacità di spesa dei fondi europei e sostenere pertanto lo sviluppo produttivo del Mezzogiorno, risulta essere inadeguato rispetto alle finalità per le quali l'Agenzia era stata istituita;
    a tal fine, il quadro previsionale decisamente sconfortante che rileva la Svimez, per il biennio 2014-2015, nell'ambito delle politiche di coesione a fronte della crisi economica e sociale del Mezzogiorno, evidenzia che nel periodo 2007-2013, a conclusione del ciclo di programmazione dei fondi (nel caso si fosse raggiunto l'obiettivo di spesa delle regioni rientranti all'interno del piano convergenza), si sarebbero potute attivare importanti leve per gli interventi di riequilibrio territoriale;
    la manifesta lentezza della nuova governance della citata agenzia, le cui evidenti difficoltà nell'imprimere una svolta decisiva nella capacità di spesa dei fondi europei hanno contribuito a determinare il ridimensionamento della quota di cofinanziamento dei fondi strutturali comunitari, (con evidenti ripercussioni sullo sviluppo territoriale nelle aree sottoutilizzate del Mezzogiorno), rende realmente incompatibili i tempi di operatività e gli obiettivi predeterminati a livello comunitario, concordati nell'ambito della strategia Europa 2020;
    la mancanza di significative misure di rilievo adottate dal Governo Renzi, in favore del Mezzogiorno, che conferma, secondo i firmatari del presente atto di indirizzo, un'azione di disimpegno generale per le aree sottoutilizzate e di scarsa attenzione relativa alla questione meridionale, accresce, inoltre, e soprattutto in prospettiva, i ritardi delle regioni meridionali, in particolare nei termini di fragilità del sistema produttivo e industriale (in particolare il comparto manifatturiero già poco presente nell'economia del Sud), provocando il crollo dei consumi delle famiglie meridionali e di debolezza in senso strutturale, che si riflette nella maggiore difficoltà di accesso al credito e un più elevato costo dei finanziamenti;
    di fronte al sopra esposto quadro macroeconomico, che configura una condizione di costante e progressiva divaricazione del sentiero di sviluppo dell'industria del Mezzogiorno, in termini di produttività e competitività con il resto del Paese, necessitano interventi decisionali in tempi rapidi, anche a livello europeo, in netta controtendenza rispetto alla cornice normativa attualmente prevista, in grado di mettere in campo una strategia di sviluppo nazionale, che ponga al centro dell'azione del Governo il rilancio del Mezzogiorno, attraverso la riduzione degli squilibri economico e sociali intensificati nell'attuale periodo di crisi;
    l'emergenza sociale determinata dal crollo occupazionale e quella produttiva esige, a tal fine, una strategia di sviluppo nazionale centrata sul Mezzogiorno con una «logica di sistema» e un'azione strutturale di medio-lungo periodo fondata su quattro driver di sviluppo tra loro strettamente connessi in un piano di «primo intervento»: rigenerazione urbana, rilancio delle aree interne, creazione di una rete logistica in un'ottica mediterranea e valorizzazione del patrimonio culturale;
    i ritardi nell'utilizzo delle risorse della politica di coesione, in particolare nelle regioni dell'obiettivo convergenza, anche dovuti alle difficoltà organizzative e operative dell'Agenzia per la coesione territoriale, impongono a tal proposito una decisa rivisitazione delle politiche del Governo a sostegno della crescita meridionale;
    il rispetto del vincolo di territorialità necessita, a tal fine, di essere adeguatamente rafforzato, in coerenza, peraltro, con quanto disposto dal Ministro per gli affari regionali e la coesione territoriale, pro tempore Raffaele Fitto e proseguito dal Ministro pro tempore Fabrizio Barca, all'interno del quale sono state indicate le priorità d'intervento che ha rappresentato una linea di continuazione indispensabile per l'impatto che l'utilizzo che i fondi strutturali avranno sull'economia del Mezzogiorno e che il Governo Renzi, invece, intende erroneamente rivedere;
    il semestre di presidenza italiana del Consiglio dell'Unione europea, a tal fine, ha confermato una scarsa efficacia del Governo Renzi, in ambito comunitario, anche sull'azione di intraprendere misure favorevoli per il nostro Paese, in grado di migliorare l'utilizzo dei fondi strutturali e rendere immediatamente cantierabili un insieme di progetti, per esplicare da subito i loro effetti sull'economia e il lavoro nelle regioni del Mezzogiorno;
    la dimensione macroeconomica dell'area, dove risiede un terzo della popolazione in cui si produce circa un quarto del prodotto interno, richiede, pertanto, in considerazione degli articolati rilievi in precedenza indicati, politiche di correzione e di riequilibrio per le aree meridionali, la cui crescita dell'economia italiana appare indissolubilmente legata al miglioramento dell'utilizzo delle risorse produttive del Sud,

impegna il Governo:

   a prevedere iniziative, in tempi rapidi, volte a potenziare l'attività istituzionale dell'Agenzia per la coesione territoriale, le cui evidenti incapacità, nell'imprimere una svolta decisiva nella capacità di spesa dei fondi europei, hanno contribuito a determinare il ridimensionamento della quota di cofinanziamento dei fondi strutturali comunitari (con evidenti ripercussioni sullo sviluppo territoriale nelle aree sottoutilizzate del Mezzogiorno), nonché l'introduzione di misure penalizzanti come quelle recentemente previste, cosa che potrebbe determinare ulteriori effetti depressivi sullo sviluppo dell'economia del Mezzogiorno nel 2015;
   a prevedere, altresì, attraverso iniziative normative ad hoc, interventi in favore dello sviluppo economico in aree svantaggiate, destinati a sostenere le zone franche urbane, in particolare delle regioni meridionali, per le quali le misure di carattere finanziario recentemente stabilite hanno previsto per il prossimo triennio 2015-2017 una rilevante riduzione o addirittura un azzeramento dei rifinanziamenti;
   ad intervenire in sede europea, attraverso un'azione politica più convincente, in grado di consentire nei confronti delle regioni del Mezzogiorno, in ritardo nella nuova programmazione dei fondi strutturali europei 2014-2020, i cui programmi operativi non saranno approvati entro fine 2014 o l'inizio del 2015, interventi in deroga, connessi al nuovo regolamento comunitario, che prevede una sospensione dell'approvazione dei programmi finché non sarà approvato il bilancio dell'Unione europea e il suo assestamento;
   a intervenire per compensare il ridimensionato delle quote di cofinanziamento dei fondi strutturali nell'ambito dei programmi operativi regionali del Mezzogiorno e a prevedere adeguate risorse comunitarie e nazionali in favore delle aree territoriali che rientrano nel «piano di convergenza», al fine di sostenere l'economia meridionale in considerazione dei dati statistici e della analisi socioeconomiche riportate in premessa, che evidenziano una condizione complessiva per dimensione macroeconomica dell'area di estrema gravità;
   a confermare, infine, l'osservanza dei principi stabiliti nell'accordo tra il Governo e le regioni del Mezzogiorno siglato il 3 novembre 2011, secondo i quali le risorse destinate al piano di azione e coesione siano vincolate al principio di territorialità.
(1-00689) «Palese, Russo, Occhiuto».
(12 dicembre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    l'eredità che lasciano sei anni di recessione fotografa un Paese ancora più diviso e diseguale, con una flessione ancora più estesa e profonda nel Mezzogiorno;
    secondo i dati del rapporto Svimez relativo al 2014, si evidenzia, ancora una volta, la questione di un Paese con due differenti velocità di sviluppo, dove al Sud il persistere della crisi si sta sempre più radicalizzando e dove all'emergenza economica si sta sempre di più intrecciando un'emergenza sociale e civile;
    nel Mezzogiorno, dove risiede un terzo della popolazione, il prodotto interno lordo, nel 2013, è calato del 3,5 per cento, approfondendo la flessione già registrata nel 2012, in cui la flessione è stata registrata al -3,2 per cento: quasi il doppio della flessione registrata al Centro-Nord. In tale contesto le regioni del Sud hanno risentito non solo dello stimolo relativamente inferiore al resto del Paese della domanda estera, ma anche della riduzione della domanda interna e questo, come evidenziato nel rapporto Svimez, è dovuto essenzialmente alla mancanza di mercato del lavoro dell'area e alla mancata spesa per investimenti che si è ulteriormente ridotta rispetto al resto del Paese;
    secondo le stime effettuate dalla Svimez non si ipotizzano per il prossimo biennio segnali di un'inversione di tendenza; infatti, si prevede per il 2015, in un quadro di recessione, un ulteriore ampliamento del divario tra Nord e Sud, con un differenziale negativo di circa mezzo punto al Sud rispetto alla media nazionale, che dovrebbe far segnare una flessione del prodotto interno lordo, tra il 2014 ed il 2015, di oltre l'1 per cento;
    anche le misure economiche degli ultimi anni, miranti al necessario aggiustamento dei conti pubblici, non hanno tenuto conto delle diversità territoriali, determinando effetti maggiormente negativi nel Mezzogiorno;
    negli ultimi anni si è avvertita l'assenza, nei programmi di Governo, di un respiro strategico, volto a ridurre il gap economico, infrastrutturale e sociale del Sud;
    il Mezzogiorno è ancora privo di quella rete di infrastrutture essenziale per lo sviluppo, anzi questi territori soffrono maggiormente della politica infrastrutturale del nostro Paese, la cui profonda crisi, registratasi nel 2013, ha visto un così basso livello di investimenti mai registrato dal 1970. La profonda caduta degli investimenti in opere pubbliche, conseguenza della crisi finanziaria, ha visto dimezzarsi anche quei valori di «sopravvivenza infrastrutturale», come li definisce il rapporto Svimez, che determineranno la compromissione da parte del Mezzogiorno di quel ruolo chiave di snodo dei traffici tra l'Europa, l'Oriente e i Paesi del bacino del Mediterraneo;
    in uno Stato dove tutte le regioni dovrebbero essere dotate degli stessi strumenti e delle stesse infrastrutture si assiste invece ad una continua rivisitazione di quello che dovrebbe essere il documento per eccellenza, la cosiddetta legge obiettivo. La riprogrammazione risulta del tutto chiara: nel Mezzogiorno si ridimensionano gli interventi e si reimpiegano risorse già ad esso destinate in altri ambiti programmatici; in parte le risorse si trasferiscono al Centro-Nord;
    ciò appare evidente da una lettura dei due ultimi rapporti della Camera dei deputati, dai quali si evince come nel Centro-Nord la programmazione si sia concentrata soprattutto su nuovi collegamenti autostradali in ppt, sul completamento della rete ferroviaria alta velocità/alta capacità nazionale e la connessione con quella europea, sulle metropolitane delle principali città e sugli interventi riguardanti l'Expo 2015. Nel Mezzogiorno, invece, si continua con l'estenuante completamento della Salerno-Reggio Calabria, della strada statale 106 jonica, delle autostrade siciliane e della rete metropolitana campana;
    nel Mezzogiorno, dunque, l'attività infrastrutturale si è limitata ad interventi di modesta dimensione, che, per loro natura, non sono in grado di infittire la rete infrastrutturale e consolidare i nodi logistici in modo da garantire una dimensione sistemica all'apparato meridionale. Il pericolo reale, a questo punto, è che il divario tra Nord e Sud da incolmato divenga incolmabile;
    la crisi finanziaria ha colpito il Sud e le politiche congiunturali anche in altri versanti, in quanto, davanti alle stringenti necessità della finanza pubblica, risorse assegnate allo sviluppo del Mezzogiorno, come il fondo per le aree sottoutilizzate, sono state distratte per altre finalità;
    per lungo tempo si è assistito, a giudizio dei firmatari del presente atto di indirizzo, a dissennati tagli operati sulla dotazione del fondo per le aree sottoutilizzate per finanziare interventi di diversa natura, non sempre corrispondenti a finalità di sviluppo e quasi sempre non localizzati nel Mezzogiorno;
    i dati sull'andamento dell'occupazione hanno evidenziato come proprio nelle regioni del Sud si siano concentrate le riduzioni più significative di posti di lavoro, legate, soprattutto, al fenomeno della desertificazione industriale. Nel Mezzogiorno una persona su due è fuori dal mercato del lavoro regolare: in valori assoluti, sette milioni di uomini e donne che convivono con lavori in nero o precari. Inoltre, è al Sud che vive un esercito di oltre due milioni di giovani e delle giovani, i cosiddetti neet (acronimo che sta per «not in education, employment or training», ovvero che non lavorano, non studiano e non seguono corsi di formazione), che sono praticamente invisibili poiché vivono in una zona grigia fatta di lavoro irregolare, occupazione estemporanea e lavori saltuari e che rappresentano la faccia più impietosa della crisi economica;
    la quota dei neet sul totale della popolazione è arrivata nel 2013 al 27 per cento e il 55 per cento è al Sud. Con la crisi, la condizione dei neet si è estesa anche ai giovani e alle giovani con titoli di studio più elevati: tra gli inattivi al Sud i diplomati e le diplomate sono il 37,5 per cento e i laureati e le laureate il 32,4 per cento;
    per quanto riguarda le donne, il rapporto Svimez rileva impietosamente che, a fronte di un tasso di occupazione che in Europa raggiunge nel 2013 mediamente il 66 per cento, nelle regioni del Sud si attesta a malapena al 38 per cento in Puglia, al 37 per cento in Calabria e Campania, per poi scendere al 35 per cento in Sicilia;
    la disoccupazione ufficiale al Sud è quasi 2,5 volte quella del Nord: l'insieme di persone in cerca di occupazione e forza lavoro potenziali nel primo trimestre del 2014 si avvicina ai 7 milioni, di cui 3,7 milioni solo nel Mezzogiorno;
    con riferimento alle imprese del Mezzogiorno, il sistema produttivo è legato a fattori strutturali di debolezza che riguardano le dimensioni piccole o piccolissime delle imprese di quest'area, spesso a gestione familiare, operanti prevalentemente in settori a basso valore aggiunto e con una conseguente scarsa propensione a investire nell'innovazione e in ricerca e sviluppo. Tra le condizioni di contesto capaci di favorire, nel medio periodo, la crescita del sistema economico meridionale c’è senza dubbio anche la crescita degli investimenti in ricerca ed innovazione, unica risposta lungimirante rispetto alla perdita di competitività delle produzioni e dei servizi rispetto a quelle dei Paesi emergenti e a quelle dei Paesi tecnologicamente più avanzati; occorre, pertanto, mettere a regime forme di credito d'imposta automatico sugli investimenti in ricerca, innovazione e formazione, nell'ambito di un più vasto sistema di fisco premiale per le imprese disposte ad investire nel Mezzogiorno;
    la mancata soluzione al problema della sicurezza complica ogni ipotesi di sviluppo per le regioni meridionali. Permane, infatti, una forte presenza della criminalità organizzata, che tenta di infiltrarsi nei grandi appalti per opere pubbliche e tenta di condizionare l'attività d'impresa, e della microcriminalità, che peggiora la qualità della vita nei centri urbani, aumentando il disagio sociale. Questa situazione richiede un impegno forte da parte dello Stato per assicurare condizioni di legalità e di sicurezza alle imprese e alle cittadine e ai cittadini; occorre salvaguardare e rilanciare il patrimonio produttivo meridionale, scongiurando la fuga dell'industria manifatturiera e l'ampliarsi dei fenomeni di delocalizzazione e intervenendo sulla promozione d'impresa, sostenendo con servizi innovativi i settori d'eccellenza, quali il turismo sostenibile, l'agroalimentare tipico, le attività ad alto contenuto tecnologico; la capacità di realizzare politiche di sviluppo mirate, in particolare ottimizzando l'utilizzo dei fondi europei, è divenuta il principale motore della crescita di molti Paesi europei, simili al Mezzogiorno per storia, tradizioni, condizioni economiche e collocazione geografica;
    il dualismo del sistema economico italiano continua ad essere una costante, che ha, però, assunto negli ultimi anni valenze differenti, in considerazione dei vincoli e delle opportunità connessi ai processi di integrazione europea e di globalizzazione; tutti gli indicatori economici lasciano presagire che nel prossimo biennio le regioni centro-settentrionali saranno caratterizzate da un forte impulso produttivo, che permetterà loro di raggiungere le performance europee, mentre il Mezzogiorno resterà penalizzato, dati i ritardi strutturali che da sempre ne condizionano lo sviluppo economico;
    si rende necessario individuare formule di intervento verso il Mezzogiorno efficaci e, soprattutto, capaci di supportare la ripresa di uno sviluppo durevole e non assistenzialistico, così, grazie alla posizione geografica ed alla dotazione di porti e aeroporti, il Sud potrebbe svolgere un ruolo di cerniera negli scambi commerciali tra Europa, Mediterraneo e Paesi del far east e raccogliere le nuove opportunità del contesto competitivo internazionale. Per il Sud italiano, così come per altri Sud europei, potrebbe aprirsi una prospettiva inedita, rappresentata dai crescenti flussi commerciali e finanziari provenienti dall'Asia e dall'Africa, da Medio Oriente, Cina, India, Giappone, Oceania e che potrebbero trasformarlo in uno dei principali poli dello sviluppo mondiale di questo nuovo secolo,

impegna il Governo:

   a promuovere una politica di sviluppo che, sulla base della rilevata inefficacia degli interventi effettuati per il Mezzogiorno nell'ultimo decennio, tenda a privilegiare interventi infrastrutturali in una logica di concentrazione settoriale delle risorse;
   ad attuare un piano di recupero di efficienza e competitività territoriale delle regioni del Mezzogiorno, attraverso la realizzazione ed il completamento definitivo di opere infrastrutturali di indubitabile importanza sotto il profilo della riduzione dei costi logistici totali di mobilità di merci e persone, integrate con le reti infrastrutturali di regioni e Paesi del Mediterraneo, grazie alle quali il Mezzogiorno potrebbe realmente rappresentare un'area strategica di operatività logistica a servizio non solo del sistema endogeno meridionale ed italiano, ma principalmente quale territorio di concentrazione e smistamento di traffico lungo le direttrici Asia-Europa e Asia-Medio Oriente-Nord-Africa;
   ad assumere iniziative per riformare i programmi regionali del fondo per le aree sottoutilizzate, modificando, al contempo, la governance dell'utilizzo dei fondi e introducendo lo strumento del contratto istituzionale di sviluppo che definisce tempi, modalità e responsabilità per l'attivazione degli investimenti finanziati con i fondi europei e nazionali destinati alle politiche di sviluppo e coesione territoriale, così come delineato nei documenti della Commissione europea relativi all'approvanda riforma della politica regionale dell'Unione europea;
   a valutare l'opportunità di assumere iniziative volte a promuovere, all'interno delle regole del patto di stabilità interno, meccanismi premiali finanziati con le risorse del fondo europeo per lo sviluppo regionale a favore delle regioni meridionali che si impegnano a ridurre la spesa corrente a favore di quella in conto capitale;
   ad assumere un impegno straordinario per sconfiggere la criminalità organizzata e tutti quei fenomeni di illegalità, dal lavoro sommerso alla microcriminalità, che determinano un ambiente sfavorevole agli investimenti ed allo sviluppo;
   a favorire lo sviluppo nelle regioni meridionali di un sistema creditizio e finanziario che sia in grado di accompagnare e promuovere la crescita dimensionale delle imprese, l'innovazione e l'internazionalizzazione;
   a qualificare e semplificare, per quanto di competenza, la pubblica amministrazione, specie nelle aree meridionali, in maniera tale che diventi fornitrice di servizi efficienti alle imprese e alle cittadine e ai cittadini;
   a valutare l'opportunità di definire progetti finalizzati al rientro nelle regioni di provenienza delle giovani e dei giovani ad alta ed altissima qualificazione universitaria e post-universitaria, contribuendo in tal modo ad invertire i consistenti flussi di emigrazione che coinvolgono in modo preoccupante le migliori energie intellettuali del Mezzogiorno.
(1-00764)
«Di Lello, Catalano, Fava, Di Gioia, Locatelli, Pastorelli, Currò, Furnari, Pinna, Tacconi».
(24 marzo 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    il periodo attuale di crisi economica, la peggiore dal dopoguerra ad oggi, sta determinando in tutto il Paese e soprattutto al Sud Italia una forte emergenza sociale dovuta al crollo dei livelli occupazionali e produttivi, che evidenziano il reale rischio di una desertificazione industriale causata dal crescente numero di imprese che chiudono la loro attività;
    l'analisi del periodo 2007-2014, preso a riferimento dalle recenti ricerche portate a termine da diversi istituti, evidenzia un quadro di insieme fortemente negativo del Sud Italia segnato da una crisi strutturale consolidata che accentua le proprie differenze in termini economici, sociali e di sicurezza rispetto al Centro-Nord, che invece sta registrando timidi segnali di ripresa;
    la situazione economica del Mezzogiorno a fine 2014 si è ulteriormente aggravata rispetto al resto del Paese e le prospettive per il 2015 sono in netto peggioramento, come si evince dalle stime elaborate da Istat, Svimez e da ultimo da Confindustria. Quella del Mezzogiorno è una crisi economica e sociale che nel suo evolversi negli anni ha sempre sofferto la mancanza di una programmazione a medio-lungo termine di interventi efficaci e di provvedimenti strutturali da parte dello Stato. I ritardi consolidatisi al Sud hanno generato, in questo grave momento di crisi, un clima di sfiducia nel sistema delle imprese, che si traduce in mancanza di investimenti, rilevante calo occupazionale, elevata emigrazione di giovani che non trovano lavoro e che smettono di cercarlo, con il contestuale paradosso di risorse dello Stato e dell'Unione europea che colpevolmente non vengono utilizzate o lo sono con gravi ritardi;
    l'indice sintetico della situazione del Mezzogiorno, riportato nell'analisi elaborata da Confindustria e da Srm-Studi e ricerche per il Mezzogiorno (centro studi del gruppo Intesa Sanpaolo), è nettamente inferiore al dato di partenza del 2007 ed in calo ulteriore rispetto al minimo già registrato nel 2013. A deprimere l'indice sono gli investimenti pubblici e privati, stimati in calo di quasi 29 miliardi di euro tra il 2007 ed il 2014, il prodotto interno lordo ridottosi di oltre 51 miliardi di euro, l'occupazione, ben al di sotto della soglia psicologica dei 6 milioni, ed un tasso di disoccupazione che ha superato il tetto del 20 per cento;
    Confindustria segnala che nel Mezzogiorno imprese e lavoratori sono, ovviamente, i soggetti che per primi e in modo più diretto risentono degli effetti della crisi che si conferma «crisi di domanda interna», caratterizzata, cioè, da minori consumi e minori investimenti. Nel 2013 hanno cessato la propria attività (cancellandosi dal registro delle imprese) 121 mila imprese e nei primi nove mesi del 2014 altre 88 mila imprese hanno chiuso ad un ritmo di 326 cessazioni al giorno. Nel complesso, tra il 2007 e il 2013 il numero di imprese attive nel Mezzogiorno è calato di circa 31 mila unità: secondo le stime, nel 2014 si prevede la chiusura di ulteriori 10 mila aziende;
    se, da un lato, molte aziende chiudono ed escono dal mercato, dall'altro, quelle che stanno «sopravvivendo» alla crisi registrano un progressivo peggioramento nei propri conti economici e finanziari. In media, infatti, le imprese manifatturiere meridionali hanno perso l'1,2 per cento del fatturato nel 2012 rispetto al 2011 e, successivamente, l'1,8 per cento nel 2013 (-0,1 per cento per il Centro-Nord). Il ridotto «giro d'affari» ha, altresì, determinato un calo nella redditività delle imprese: il return on investment medio delle imprese manifatturiere meridionali, pari al 4,9 per cento nel 2007, si è ridotto all'1,6 per cento nel 2013, ben più del Centro-Nord. Flussi di cassa sempre più esigui determinano anche un maggior ricorso all'indebitamento (finanziario e commerciale) da parte delle imprese: tra il 2007 e il 2013 i valori iscritti a debito nelle imprese meridionali sono aumentati complessivamente del 13,8 per cento;
    il rapporto di Confindustria evidenzia un Mezzogiorno stretto in una morsa costituita da una domanda interna in calo e da una pressione fiscale giunta a livelli insostenibili. Al Sud, infatti, ancor più che nel Centro-Nord, il calo della domanda interna sta influendo in modo negativo sulle capacità economiche e finanziarie delle imprese, al pari dell'imposizione fiscale: le imprese in perdita nel Mezzogiorno sono circa un terzo del totale ed il 5,5 per cento è in perdita dopo il pagamento delle imposte. Tutto questo è causa di margini sempre più esigui ed evidenzia una pressione fiscale, soprattutto locale, significativa e sempre più insostenibile in questo stato di crisi: come certifica la Banca d'Italia, nel 2011-2012 le entrate fiscali sono aumentare dell'1,7 per cento all'anno nel Mezzogiorno, dove ormai il rapporto tra gettito fiscale e prodotto interno lordo è ormai prossimo a quello del Centro-Nord, nonostante gli obiettivi di riequilibrio territoriale. La crescita delle sofferenze bancarie, ben oltre quota 36 miliardi di euro, certifica questo stato di difficoltà delle imprese;
    la ridotta attività economica del Mezzogiorno sta, altresì, disperdendo il «capitale umano» delle regioni meridionali. Tra il 2007 e il 2013 è stata registrata una perdita di oltre 600 mila posti di lavoro, con una variazione di -9,5 per cento. In base agli ultimi dati disponibili (II trimestre 2014) il numero di occupati è ulteriormente calato nel 2014 (-1,5 per cento rispetto al II trimestre 2013). Il tasso di disoccupazione nel Mezzogiorno è così salito al 19,7 per cento nel 2013 (era pari all'11 per cento nel 2007) e risulta superiore sia al valore medio italiano (12,2 per cento) sia a quello dell'Unione europea a 28 (10,8 per cento). In base agli ultimi dati disponibili (II trimestre 2014) il tasso di disoccupazione nel Mezzogiorno ha addirittura superato la soglia del 20 per cento. Dal 2008 al 2013 in Italia hanno perso il lavoro 985 mila persone, delle quali 583 mila sono al Sud dove, nel solo 2013, si sono persi 282 mila posti di lavoro, pari ad oltre il 50 per cento del totale nel suddetto periodo. Il numero degli occupati al Sud per la prima volta dal 1977 è sotto i 6 milioni, attestandosi nel 2103 a 5,8 milioni;
    il calo dell'occupazione, la riduzione del reddito medio disponibile, un welfare non in grado di supportare pienamente le persone in strutturale o temporanea difficoltà economica hanno comportato nel corso degli ultimi anni un acuirsi del livello di «povertà»; il numero di persone che vivono in condizioni di povertà assoluta nel Mezzogiorno è più che raddoppiato tra il 2007 e il 2013, passando da 1,2 a 3 milioni di individui: il 50 per cento del totale delle persone in povertà assoluta in Italia è nel Mezzogiorno;
    secondo la ricerca e le stime elaborate da Svimez, l'andamento produttivo dell'Italia nel 2013 rimane stagnante ed anche gli indicatori congiunturali del 2014 non mostrano segni di miglioramento. Il Sud Italia è da considerarsi in recessione, non solo per il 2014 ma anche per il 2015. Le previsioni porterebbero a otto gli anni consecutivi nei quali il prodotto interno lordo meridionale è stato negativo, con un crollo dei redditi al Sud del 15 per cento tra il 2008 e il 2013;
    in particolare, nel Mezzogiorno, tra il 2008 e il 2013, il forte calo occupazionale, mediamente di quattro volte superiore a quella del Centro-Nord, ha generato un crollo dei consumi delle famiglie di quasi 13 punti percentuali (-12,7 per cento), di oltre due volte maggiore di quello registrato nel resto del Paese (-5,7 per cento). Tutti i settori dell'economia meridionale sono in crisi, assumendo, in particolare, dimensioni «epocali» nell'industria in senso stretto, crollata al Sud nel 2008-2013 addirittura del 53,4 per cento, più che doppia rispetto a quella, assai grave, del Centro-Nord (-24,6 per cento). Un così massiccio fenomeno di riduzione drastica di investimenti ha ulteriormente aggravato la già scarsa competitività dell'area e ha comportato un forte ridimensionamento dell'estensione e delle dimensioni dell'apparato produttivo, favorendo nella sostanza un processo di downsizing e al tempo stesso di desertificazione dei territori meridionali;
    Svimez ha analizzato a fondo il processo di riduzione del valore aggiunto, che ha toccato il picco nel settore delle costruzioni, che nella media cumulata del 2008-2013 ha ridotto il prodotto del 35,3 per cento contro il 23,8 per cento del Centro-Nord. In particolare, nel 2013, l'edilizia ha accusato un calo del 9,6 per cento nel Mezzogiorno, esattamente il doppio di quello del Centro-Nord (-4,8 per cento). Nel comparto terziario la perdita è stata nel 2014 del 2,3 per cento nel Sud, a fronte di una sola leggera flessione (-0,4 per cento) al Centro-Nord. Ancora in calo risulta nel 2013 l'agricoltura meridionale, che perde lo 0,2 per cento rispetto a un incremento dello 0,6 per cento nel Centro-Nord. Il settore industriale ha perso, nel 2013, 6 punti e mezzo percentuali, più del doppio del Centro-Nord (-2,7 per cento). Nella media cumulata del periodo di crisi 2008-2013, la contrazione del prodotto industriale ha raggiunto quasi il 25 per cento, dieci punti in più rispetto al Centro-Nord;
    nonostante tutto, il rapporto Confindustria-Srm individua segnali confortanti e contrastanti nelle esportazioni delle imprese del Sud Italia, dati che, però, da soli non consentono un'inversione di tendenza sufficiente, anche perché concentrati in alcune aree e con numeri ancora troppo esigui e, soprattutto, non supportati da un'azione pubblica convintamente anticiclica, se si eccettua l'effettivo saldo di buona parte dei debiti della pubblica amministrazione verso le imprese. Tra il 2009 e il 2013, infatti, la spesa in conto capitale nel Mezzogiorno si è ridotta di oltre 5 miliardi di euro, tornando ai valori del 1996, contribuendo alla riduzione del numero e del valore degli appalti pubblici. Di valore sempre più ridotto sono, inoltre, le gare di partenariato pubblico-privato bandite al Sud e pressoché dimezzati, rispetto all'anno precedente, i mutui concessi agli enti locali per il finanziamento degli investimenti. Si realizzano, dunque, sempre meno investimenti pubblici, sia che lo Stato li finanzi direttamente sia che li promuova indirettamente;
    nell'indagine annuale de Il Sole 24 ore sulla qualità della vita della 107 città italiane capoluoghi di provincia, le città del Sud sono nelle ultime posizioni per servizi, ambiente e salute, affari e lavoro e ordine pubblico;
    i suddetti dati, aggravatisi con la grave crisi attuale che investe prioritariamente l'economia più debole del nostro Paese che da sempre è quella meridionale, testimoniano che il Mezzogiorno non ha mai avuto una politica industriale e di investimenti ben programmata, che gli consentisse di recuperare il gap storico, che risale all'unità d'Italia, nei confronti del Centro-Nord;
    questo stato di fatto chiama in causa il tema della programmazione di bilancio dello Stato e della spesa delle risorse stanziate, ordinarie e straordinarie, destinate allo sviluppo del Paese e, in particolare, del Mezzogiorno ed impone di confrontarsi con numerose criticità che hanno ridotto e che possono ridurre ulteriormente l'efficacia dell'intervento pubblico;
    i fondi comunitari sono di fondamentale importanza per tutto il Paese, ma è necessario evidenziare che hanno una particolare rilevanza per il Sud Italia, in quanto sono molto spesso sostitutivi delle risorse statali per gli investimenti. Già nel rapporto strategico nazionale di dicembre 2009, prima ancora dei numerosi tagli che sono stati effettuati alle politiche di sviluppo (20 miliardi di tagli al fondo per le aree sottoutilizzate 2007-2013 destinato al Sud), il Ministero dello sviluppo economico dichiarava il mancato rispetto del principio di addizionalità previsto dai regolamenti europei. In quel periodo, infatti, il 15 per cento dei fondi europei fu utilizzato per sopperire alla mancanza di risorse nazionali;
    la Banca d'Italia, nel corso dell’Eurofi financial forum 2014, ha segnalato la necessità di «rilanciare gli investimenti pubblici e privati nazionali ed europei» per la ripresa economica e di affiancare alle riforme strutturali specifiche sul lato dell'offerta «una più ampia azione di politica economica per accelerare la costituzione di infrastrutture materiali ed immateriali indispensabili per un vero mercato unico europeo»; in particolare, sono due gli elementi di criticità che ostacolano ed inficiano l'effettiva redditività dei provvedimenti dello Stato finalizzate alle politiche di sviluppo;
    il primo elemento di criticità si rileva nella distorsione dell'utilizzo delle risorse della programmazione unitaria che sono state utilizzate come variabile di aggiustamento dei conti pubblici italiani nei provvedimenti di finanza pubblica adottati dal 2008 ad oggi. Circa un terzo (pari a 20 miliardi di euro) delle risorse dell'ex fondo per le aree sottoutilizzate (relative al periodo 2007-2013, ora denominato fondo per lo sviluppo e la coesione, sono state tagliate o destinate ad altre finalità. Tale distrazione ha determinato una forte incertezza sulle disponibilità finanziarie da utilizzare per le politiche di sviluppo;
    il taglio delle risorse destinate alla coesione territoriale è proseguito con la legge di stabilità per il 2015, che ha ridotto di 4,5 miliardi di euro l'importo delle risorse destinate al piano di azione e coesione, che finanzia in gran parte infrastrutture nel Mezzogiorno e ha ridotto di 1,8 miliardi di euro le risorse del fondo sviluppo e coesione, di cui 540 milioni di euro relativi alle 6 regioni del Mezzogiorno a statuto ordinario;
    il secondo elemento di criticità si ravvisa nei vincoli di finanza pubblica, con particolare riferimento al patto di stabilità interno di regioni, province e comuni, che hanno rallentato la spesa delle risorse stanziate, con la conseguenza che, a fine 2014, circa il 29 per cento dei fondi strutturali e più del 90 per cento delle risorse regionali dell'ex fondo per le aree sottoutilizzate devono ancora essere spese;
    secondo quanto si evince dalle analisi del bilancio dello Stato, risulta che, nel corso degli ultimi anni, si sia verificato una distrazione delle risorse destinate alle infrastrutture da una molteplicità di capitoli ordinari a pochi «maxi-capitoli», con una crescente concentrazione delle risorse nei maxi-capitoli dei fondi strutturali e del fondo per lo sviluppo e la coesione;
    le stime dell'Ance, di Confindustria e del Cresme evidenziano la grande portata delle risorse distratte dai capitoli ordinari: i due maxi-capitoli dei fondi strutturali e del fondo per lo sviluppo e la coesione rappresentano oggi tra il 40 ed il 45 per cento delle risorse destinate ogni anno dallo Stato alle infrastrutture e all'adeguamento del territorio. Appare, dunque, strategico il celere utilizzo di queste risorse proprio in ragione del contesto in cui versa il nostro Paese, nel quale le risorse pubbliche a disposizione dell'infrastrutturazione sono ai livelli minimi degli ultimi 20 anni;
    il rapporto annuale del Cresme sull'attivazione della «legge obiettivo» al 31 dicembre 2014 evidenzia una sperequazione tra gli investimenti infrastrutturali al Centro-Nord per 192.137 milioni di euro, pari al 67,4 per cento del totale, e per 90.469 milioni di euro per il Sud, pari al 31,7 per cento;
    la spesa dei fondi comunitari è prioritaria per la ripresa economica particolarmente nel Mezzogiorno. Infatti, questa zona ha subito pesantemente la crisi economica più di ogni altra area del Paese. Eurispes, nell'ultimo rapporto annuale, analizzando i dati economici dell'Italia, ha evidenziato che al Sud vi è una condizione molto critica con indicatori inferiori rispetto a quelli di altre aree e rispetto alle medie nazionali. Dal 2007, la crisi ha piegato il tessuto economico e produttivo del Sud, aumentando ulteriormente il divario con il Nord d'Italia. Nel Mezzogiorno le aziende registrano il peggior saldo del portafoglio ordini e della relativa variazione nel periodo. Non a caso, al Sud, dal 2007 ad oggi, ben 11.500 aziende (pari al 25 per cento del totale in Italia) hanno registrato una situazione di incapacità prolungata nel tempo di ripagare i propri debiti e hanno fatto richiesta di fallimento presso le cancellerie dei tribunali;
    è importante evidenziare che sugli investimenti finanziati con questi fondi grava non solo l'ostacolo rappresentato dal patto di stabilità interno delle regioni, ma anche quello rappresentato dal patto di stabilità interno degli enti locali (comuni e province), quando questi risultano destinatari dei finanziamenti della politica di coesione. Su questo punto, il legislatore non è intervenuto nella legge di stabilità, nonostante le reiterate richieste di «nettizzazione» di queste risorse nel calcolo del patto di stabilità interno;
    secondo le dichiarazioni rilasciate ad organi di stampa da rappresentanti del Governo, sarebbe allo studio una consistente riduzione delle risorse destinate al cofinanziamento degli interventi dei fondi strutturali per il periodo 2014-2020, rispetto ai circa 41 miliardi di euro che erano allo scopo previsti dal progetto di accordo di partenariato trasmesso alla Commissione europea il 22 aprile 2011;
    tale riduzione produrrebbe effetti positivi in termini di finanza pubblica, ma determinerebbe la rinuncia ad avvalersi di una quota consistente delle risorse assegnate alle regioni italiane nell'ambito della programmazione 2014-2020;
    nel corso dell'informativa urgente sulle linee di attuazione del programma di Governo del 16 settembre 2014, il Presidente del Consiglio dei ministri ha inteso evidenziare l'urgenza dell'investimento dei fondi comunitari, pronunciando queste parole: «Al termine dei mille giorni o spendiamo bene i fondi europei o i fondi europei porteranno via noi»;
    l'esclusione delle spese di investimento dal calcolo europeo del deficit, in particolare di quelle finanziate da fondi strutturali europei, appare sempre più la chiave di volta per rimettere in moto investimenti da troppo tempo bloccati e per ridare ai bilanci pubblici spazi di manovra senza i quali nessuna fase espansiva appare ipotizzabile. La sfida è costituita da una selezione attenta e mirata degli investimenti pubblici e privati, in alcune aree prioritarie e dal valore strategico: dalla ricerca e sviluppo alla competitività delle imprese, dalle risorse naturali e culturali all'istruzione, dall'efficienza energetica alle infrastrutture materiali e sociali e ai servizi che tali infrastrutture utilizzano;
    in questa direzione andrebbe orientata prioritariamente l'Agenzia di sviluppo e coesione nella sua attività di monitoraggio e, soprattutto, accompagnamento e supporto tecnico ai ministeri ed alle regioni titolari degli interventi finanziati dai fondi europei e dal fondo sviluppo e coesione;
    i dati di crisi del Mezzogiorno evidenziano quanto sia fondamentale l'immediata spesa delle risorse disponibili bloccate da adempimenti procedurali e burocratici o da inadempimenti degli enti beneficiari. Evidenziano, inoltre, l'urgente necessità di interventi strutturali dello Stato da aggiungersi agli impegni ed agli investimenti previsti dalle politiche dell'Unione europea per le aree di minor sviluppo. Tutto ciò al fine di favorire la ripresa puntando su settori che hanno tradizionalmente maggiore potenzialità in termini di crescita occupazionale e di coinvolgimento di molteplici attività produttive, quali innovazione, turismo, cultura, istruzione, agricoltura, infrastrutture e riqualificazione urbana, facendo emergere con orgoglio le realtà economiche nascoste nell'indifferenza e nella rassegnazione,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative dirette a riformare con estrema urgenza il patto di stabilità interno e le regole di finanza pubblica affinché sia possibile assicurare la spesa dei fondi europei nei tempi programmati, ricorrendo ai poteri sostitutivi del Governo nei confronti delle regioni inadempienti previsti dalle vigenti leggi in materia (decreto-legge n. 69 del 2013, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 98 del 2013 ed articolo 12 del decreto-legge n. 133 del 2014), nonché garantire un'equilibrata politica di investimenti da parte degli enti territoriali;
   ad assumere iniziative per rifinanziate la misura che prevede l'esclusione di parte dei cofinanziamenti nazionali dai parametri del patto di stabilità interno e che ha esaurito, con positivi riscontri in termini di accelerazione della spesa, i propri effetti nel 2014 dopo un triennio di operatività, con lo stanziamento di 1 miliardo di euro all'anno, tenuto conto che tale provvedimento si è già rivelato determinante per impedire la paralisi completa della spesa comunitaria e nazionale;
   a ridistribuire gli obiettivi di finanza pubblica stabiliti a livello nazionale in favore di una politica di investimento degli enti locali del Mezzogiorno, accompagnata da una revisione delle regole del patto di stabilità a livello nazionale ed europeo, con l'introduzione di un'adeguata flessibilità per favorire gli investimenti;
   a garantire che la programmazione infrastrutturale rappresenti l'elemento centrale dei programmi dei fondi strutturali europei e del fondo per lo sviluppo e la coesione 2007-2013 e 2014-2020, evitando di utilizzare impropriamente questi fondi per finanziare altre esigenze nell'attuale difficile contesto di finanza pubblica;
   a rafforzare l'azione dell'Agenzia di sviluppo e coesione nel supportare efficacemente le regioni del Mezzogiorno nella programmazione dei fondi europei, affinché essa sia strutturata e coerente con gli obiettivi e soprattutto integrata tra le stesse regioni e affinché possa garantire la tempestiva redazione dei relativi progetti, promuovendo la semplificazione delle procedure di autorizzazione degli interventi e della conseguente spesa;
   a favorire, nel corso della programmazione 2014-2020, l'utilizzo di risorse del fondo sociale europeo per la realizzazione di politiche attive a carattere sociale e quindi di contrasto alla povertà crescente, di inserimento nel mondo del lavoro dei giovani disoccupati, nonché di sostegno per le famiglie socialmente ed economicamente disagiate;
   a favorire lo sviluppo di un sistema creditizio e finanziario di effettivo sostegno alle imprese in crisi per il mantenimento o l'incremento dei livelli occupazionali;
   a promuovere, con la supervisione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e dei suoi uffici territoriali, di concerto con il dipartimento della gioventù e del servizio civile nazionale, iniziative di servizio civile culturale destinato ai giovani del Mezzogiorno per la valorizzazione e la divulgazione dei beni culturali, architettonici e paesaggistici presenti nelle regioni del Sud;
   a promuovere l'adozione di protocolli multilaterali di facilitazione istituzionale, legislativa e amministrativa e di semplificazione procedurale che coinvolgano le regioni del Mezzogiorno ed altri Paesi o enti di interesse economico intenzionati a investire in progetti di riqualificazione di attività produttive o di ricerca ed innovazione tecnologica e scientifica che abbiano significativo impatto per le comunità locali, così come già avvenuto in occasione del protocollo tra Governo, regione Sardegna e il fondo Qatar foundation endowment per il recupero dell'ospedale ex San Raffaele di Olbia.
(1-00765)
«Matarrese, Mazziotti Di Celso, D'Agostino, Dambruoso, Vargiu, Antimo Cesaro, Cimmino, Molea, Vecchio, Piepoli, Vezzali».
(24 marzo 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    la crescita economica, sociale e culturale del Mezzogiorno è la vera sfida sulla quale si gioca il futuro dell'Italia;
    gli ultimi dati Istat e Svimez sono a questo proposito allarmanti: aumenta il divario con il Centro-Nord, mancano investimenti pubblici e privati, si assiste ad un impoverimento del capitale umano. In questo quadro sarà difficile che il Sud possa agganciare la ripresa e la sua lentezza potrebbe rivelarsi un deterrente per lo sviluppo di tutto il Paese;
    l'Italia sconta gli effetti negativi di un grande divario territoriale: un dualismo economico che si sta ampliando e che minaccia di essere una palla al piede di qualsiasi ipotesi di ripresa nazionale;
    di questo il rapporto Svimez 2014 sull'economia del Mezzogiorno, presentato nel mese di ottobre 2014, aveva già lanciato un avvertimento, delineando uno scenario preoccupante: l'aumento dell'emigrazione (+116 mila abitanti nel 2013), un basso indice di natalità (continuano nel 2013 a esserci più morti che nati), l'aumento della povertà (+40 per cento di famiglie povere nell'ultimo anno) perché manca il lavoro (al Sud si è perso l'80 per cento dei posti di lavoro nazionali tra il primo trimestre del 2013 e del 2014); l'industria continua a soffrire di più (-53 per cento degli investimenti in cinque anni di crisi, -20 per cento degli addetti); i consumi delle famiglie crollano di quasi il 13 per cento in cinque anni; gli occupati arrivano a 5,8 milioni, il valore più basso dal 1977 e il dato corretto sulla disoccupazione sarebbe il 31,5 per cento invece che il 19,7 per cento;
    uno scenario che secondo Svimez rischia di divenire strutturale: anche quando, dopo l'inizio della crisi nel 2008, il Centro-Nord aveva fatto segnare una limitata ripresa, con un aumento del prodotto interno lordo dal 2011 al 2012 del 3,8 per cento, il Sud aveva continuato a perdere prodotto, con una diminuzione dello 0,9 per cento. In totale, nonostante la crisi, il prodotto interno lordo del Centro-Nord dal 2001 al 2013 è aumentato del 2 per cento, mentre quello del Sud è sceso del 7,2 per cento;
    i conti economici territoriali dell'Istat, riferiti al periodo 2011-2013 e pubblicati il 9 gennaio 2015, confermano il quadro sopra descritto: il prodotto interno lordo per abitante nel 2013 risulta pari a 33,5 mila euro nel Nord-ovest, a 31,4 mila euro nel Nord-est e a 29,4 mila euro nel Centro. Il Mezzogiorno, con un livello di prodotto interno lordo pro capite di 17,2 mila euro, presenta un gap molto ampio con il Centro-Nord, dove si registra un livello di prodotto interno lordo pro capite di 31,7 mila euro; il valore registrato nel Mezzogiorno è quindi inferiore del 45,8 per cento rispetto a quello del Centro-Nord;
    i dati sopra evidenziati si traducono in un impoverimento dell'apparato produttivo a causa del calo degli investimenti: dal 2008 al 2013, gli investimenti in agricoltura sono calati del 44,6 per cento nel Mezzogiorno e del 14,5 per cento nel Centro-Nord; quelli nell'industria del 49,4 per cento nel Mezzogiorno e del 26,6 per cento nel Centro-Nord. Al tempo stesso gli investimenti in opere pubbliche sono scesi a un quinto di quelli di 20 anni fa, mentre nel Centro-Nord sono rimasti sostanzialmente invariati;
    dal punto di vista demografico, la fotografia dell'Istat è impietosa. I dati riferiti all'anno 2014, pubblicati il 12 febbraio 2015, dicono che nel Sud si fanno sempre meno figli e si assiste a un forte esodo di migranti verso le altre regioni del Paese e verso l'estero. Il Nord ha assorbito (al netto delle ripartenze) 2,4 migranti ogni mille residenti tra esteri e italiani da altre regioni; il Mezzogiorno, a causa della minore attrattività per l'immigrazione e dei flussi verso le regioni settentrionali e l'estero, ha perso 2,1 abitanti ogni mille. Dal 2001 al 2013 se ne sono andati, al netto dei rientri, 708 mila emigranti, di cui 494 mila giovani tra i 15 e i 34 anni e 188 mila laureati: una perdita enorme per lo sviluppo futuro del Mezzogiorno, a totale beneficio di altri territori. Di questo passo, conferma il rapporto Svimez, nei prossimi cinquant'anni il Sud scenderà dal 34,3 per cento della popolazione italiana al 27,3 per cento, perdendo quattro milioni di abitanti;
    è significativo, altresì, quello che accade in sanità, dove il rapporto annuale Istat 2014 evidenzia – se mai ce ne fosse bisogno – che per quanto il Servizio sanitario nazionale abbia migliorato il suo livello di accountability, attraverso la riduzione del debito accumulato, e i suoi standard di appropriatezza, si registrano aspetti ancora problematici sul fronte dell'equità, per la quale gli indicatori segnalano persistenti divari di genere, sociali e territoriali sia in termini di esiti di salute sia di accessibilità alle cure;
    nel Mezzogiorno, infatti, la speranza di vita è più bassa (79 anni per gli uomini e 83,7 per le donne, contro rispettivamente il 79,9 e l'84,8 del Nord), la prevalenza di patologie croniche gravi si attesta al 16,1 per cento contro il 14,2 per cento registrato al Nord, e aumenta, infine, la disabilità: non si può parlare, in generale, di un peggioramento delle condizioni di salute bensì di un incremento della popolazione esposta al rischio di ammalarsi con il conseguente aumento per il futuro della pressione sul Servizio sanitario nazionale a causa dell'incremento delle persone bisognose di cure e assistenza;
    il Servizio sanitario nazionale è nel Mezzogiorno anche meno equo che nel resto del Paese come testimonia la percentuale di persone che, pur in presenza di un bisogno di salute, rinunciano alla prestazione sanitaria: a questo riguardo, nel 2012, se a livello nazionale la quota di cittadini che ha rinunciato alle cure si attesta all'11,1 per cento (in prevalenza le donne sono il 13,2 per cento, mentre gli uomini sono il 9,0 per cento), nel Mezzogiorno la percentuale è del 14,4 per cento (anche in questo caso le donne sono il 16,5 per cento, mentre gli uomini il 12,2 per cento). La motivazione addotta è prevalentemente quella economica (50,4 per cento, in media);
    la sanità nel Mezzogiorno risulta penalizzata sotto più aspetti. Alla minore speranza di vita alla nascita si accompagna una maggiore mortalità, rispetto al resto del Paese, per malattie cardiovascolari, che costituiscono la prima causa di morte. Per quanto riguarda la mortalità per tumori, alcune regioni del Sud, anche in presenza di un'incidenza della malattia inferiore rispetto alle regioni del Nord, registrano tassi di mortalità analoghi; questo a testimoniare che coloro che si ammalano di tumore nel Mezzogiorno hanno una probabilità di sopravvivere sensibilmente inferiore rispetto ad un cittadino del Nord. Sul versante delle dotazioni finanziarie, negli ultimi anni, il settore sanitario si è caratterizzato per una diminuzione della spesa per investimenti, un dato che rischia di diventare allarmante nel Sud dove le strutture e la strumentistica medico-ospedaliera risultano in molti casi vecchie ed obsolete. Di conseguenza, risultano insufficienti i servizi per la prevenzione, come pure molti servizi specialistici. Carenze importanti riguardano i servizi territoriali per la medicina di base, per la salute della donna, per la salute mentale, per l'assistenza domiciliare agli anziani e alle persone non autosufficienti. Un settore caratterizzato da una situazione di particolare emergenza è quello oncologico, nel quale manca circa la metà degli strumenti di radioterapia necessari a servire la popolazione locale;
    le insufficienze strutturali e, soprattutto, la carenza di tecnologie avanzate e di divisioni specialistiche di eccellenza costringono i cittadini residenti nel Mezzogiorno a spostarsi per ricevere cure adeguate: le statistiche la definiscono mobilità sanitaria (ovvero il diritto del cittadino di ottenere cure, a carico del proprio sistema sanitario, anche in un luogo diverso da quello di residenza), ma in questo specifico caso – in cui la decisione di curarsi fuori dalla propria regione non è la conseguenza di una scelta ma di una necessità – è più corretto parlare di migrazione sanitaria: non è un caso, infatti, che – come certifica la settima edizione di «Noi Italia 2015. 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo» a cura dell'Istat, la maggior parte delle regioni del Mezzogiorno abbiano un alto indice di emigrazione ospedaliera. Le regioni del Sud mostrano, altresì, un basso indice di attrazione (inferiore ad uno), ovvero un deficit tra i flussi di entrata e di uscita rispetto ai ricoveri dei propri residenti. L'indice di attrazione conferma il dualismo tra alcune regioni del Centro-Nord, che registrano un valore significativamente più elevato di uno e quasi tutte le regioni del Mezzogiorno, con un indice pari o inferiore a 0,7;
    un quadro problematico, quello appena descritto, dal quale si discosta l'approccio alla tematica ambientale. Secondo i dati Istat – relativi al triennio 2010-2012 e pubblicati il 21 gennaio 2015 – la spesa per interventi di protezione dell'ambiente e di uso e gestione delle risorse naturali erogata complessivamente dalle amministrazioni regionali italiane nel 2012 ammonta a 3.825 milioni di euro, pari a 64,2 euro per abitante, con un'incidenza sul prodotto interno lordo dello 0,23 per cento;
    dallo scorporo dei dati, emerge che le amministrazioni regionali del Nord-ovest, del Nord-est e del Centro presentano una spesa ambientale per abitante inferiore alla media nazionale (rispettivamente 26,54, e 40 euro per abitante), mentre quelle del Mezzogiorno dedicano risorse pari a 113 euro per abitante: un dato incoraggiante, anche se l'Istat precisa che esso riflette la maggior presenza nel meridione di spese realizzate a valere sui fondi strutturali, nonché quelle connesse ad accordi di programma quadro in materia di servizi e infrastrutture ambientali. In ogni caso, rispetto al 2011, solo nel Mezzogiorno la spesa ambientale è aumentata (+0,6 per cento), mentre, rispetto al 2010, la spesa ambientale segna una diminuzione molto marcata nel Nord-ovest, Centro e Nord-est (-33 per cento, -24,9 per cento, -18,6 per cento rispettivamente) e un calo contenuto nel complesso delle amministrazioni regionali del Mezzogiorno (-2,9 per cento);
    in relazione alla tipologia, nel 2012 la quota prevalente della spesa ambientale (circa 3.825 milioni di euro) erogata nel triennio di riferimento è assorbita da attività e interventi finalizzati alla salvaguardia dell'ambiente (65 per cento del totale della spesa ambientale, circa 2.491 milioni di euro) e da interventi di uso e gestione delle risorse naturali (1.334 milioni di euro, 35 per cento del totale). Le amministrazioni regionali del Nord-ovest e del Nord-est riservano la quota maggiore della spesa ambientale a interventi per la protezione della biodiversità e del paesaggio (rispettivamente il 23,5 per cento e 24,7 per cento del totale nel 2012). Nel Centro una parte significativa della spesa ambientale è destinata a interventi di protezione e risanamento del suolo, delle acque del sottosuolo e delle acque di superficie (21,3 per cento del totale). Nel Mezzogiorno il 41,4 per cento del totale della spesa ambientale si ripartisce quasi in uguale misura tra interventi di protezione e risanamento del suolo, delle acque del sottosuolo e delle acque di superficie (21,5 per cento) e interventi di gestione delle risorse idriche (19,9 per cento);
    altro segnale in controtendenza: secondo la Coldiretti, che ha rielaborato i dati Istat relativi all'andamento economico ed occupazionale nel Mezzogiorno d'Italia nel 2013, l'agricoltura è l'unica attività economica che nel Mezzogiorno resiste alla crisi con una sostanziale stabilità sia del valore aggiunto (-0,3 per cento) che nel numero di occupati (-0,9 per cento) rispetto al crollo generalizzato: Coldiretti, infatti, sottolinea che nello stesso periodo la performance dell'agricoltura nel Centro-nord è peggiore (-2,4 per cento del numero di occupati) che al Sud, dove – è bene ricordarlo – il settore primario, pur in presenza di grandi potenzialità (due terzi delle coltivazioni biologiche nazionali con quasi la metà delle imprese agricole nazionali, il 10 per cento del territorio coperto da parchi e aree protette) sconta difficoltà infrastrutturali e di mercato;
    i segnali positivi sull'economia italiana si rafforzano e per il primo trimestre 2015 è previsto il ritorno alla crescita del prodotto interno lordo: questo è quanto certificato dall'Istat nella nota mensile pubblicata il 27 febbraio 2015;
    in questo quadro – reiterando quanto già detto all'inizio – è indiscutibile che la prossima ripresa economica sociale e culturale dell'Italia sarà tanto più immediata e strutturale quanto più efficaci saranno le politiche messe in campo affinché anche il Mezzogiorno agganci – questa volta davvero – la ripresa;
    un obiettivo fondamentale per il raggiungimento del quale – è bene sottolinearlo – non si parte da zero. Al di là della freddezza oggettiva dei numeri, infatti, si sa che nel Mezzogiorno d'Italia, pur con le difficoltà sopradescritte, sono presenti realtà produttive solide e – purtroppo – semisconosciute, o peggio ignorate, dalle istituzioni nazionali;
    si parla di realtà economiche che si fanno strada come fiori attraverso il manto di cemento dell'indifferenza politica: non si devono definirle «isole felici», perché non costituiscono «monadi» in un deserto. Sono il volano, o i driver se si preferisce, del riscatto del Mezzogiorno e della ripresa del Paese intero;
    la regione Puglia può essere considerata il paradigma di questa vivacità produttiva ed economica, a dispetto delle condizioni generali: già il rapporto Svimez 2012 sull'economia del Mezzogiorno (dati 2011), in un focus dedicato alla regione aveva certificato – in uno scenario di declino da brivido per la macro area – una sua modesta ma significativa ripresa pur in presenza di importanti punti di debolezza (calo dei consumi, basso reddito pro capite, alto livello di disoccupazione, in particolare femminile e giovanile, arretramento del prodotto interno lordo previsto per il 2012);
    il rapporto finale 2014 dell'Osservatorio Mezzogiorno di «The European House – Ambrosetti», dopo aver rilevato come la Puglia abbia perso nell'ultimo quinquennio ben il 10 per cento del prodotto interno lordo, colloca la regione in un quadro economico e produttivo caratterizzato dalla contestuale presenza di una perdurante situazione di crisi e di deboli segnali di ripresa da verificare, in particolare, nel biennio 2013-2014;
    la valutazione è confermata anche nel rapporto «Economie regionali – L'economia della Puglia» della Banca d'Italia, secondo il quale nei primi mesi del 2014 in Puglia si è attenuata la fase recessiva, anche se l'attività industriale rimane debole, con un fatturato ulteriormente ridotto per il calo della domanda interna. Il mercato del lavoro risente ancora della debole congiuntura e il numero degli occupati continua a diminuire. Dalla fine del 2012 il tasso di disoccupazione in regione è progressivamente cresciuto, raggiungendo il 21 per cento, oltre otto punti percentuali in più rispetto alla media nazionale;
    secondo il citato rapporto dell'Osservatorio Mezzogiorno di «The European House – Ambrosetti» – l'Osservatorio nasce nel 2006 proprio come «Osservatorio Puglia» – la regione Puglia deve anche essere pronta ad afferrare l'occasione che le si presenta in relazione al nuovo ciclo di programmazione dei fondi comunitari 2014-2020;
    nel nuovo ciclo della politica di coesione l'Europa investirà 351,8 miliardi di euro e l'Italia riceverà complessivamente 32,2 miliardi di euro, ovvero il 9,3 per cento del totale delle risorse europee;
    il 70 per cento delle risorse assegnate all'Italia è allocato a favore delle regioni dell'Obiettivo convergenza (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia): circa 22,2 miliardi di euro;
    sono 5,12 i miliardi di euro provenienti dall'Europa, in aggiunta alla quota di cofinanziamento nazionale, che la Puglia sarà chiamata ad impegnare in progetti per tradurre l'obiettivo europeo per il 2020 di uno sviluppo sostenibile, inclusivo e intelligente;
    tali risorse aggiunte, come si diceva, a quelle nazionali, possono realmente imprimere una svolta positiva all'economia della Puglia;
    nonostante le criticità che hanno continuato ad interessare il sistema economico pugliese, il citato rapporto 2014 dell'Osservatorio Mezzogiorno di «The European House – Ambrosetti» rileva come il sistema produttivo regionale sia caratterizzato da una particolare dinamicità con aziende dotate di importanti capacità di resilienza alla crisi in termini di fatturato e di redditività;
    emblematico a questo proposito è il caso della provincia di Taranto e del comune capoluogo, in particolare, in cui – pur in presenza di un quadro economico caratterizzato da indicatori economici e produttivi negativi – si possono iniziare a percepire i segnali di una ripresa certamente non immediata ma possibile;
    nella relazione previsionale e programmatica 2015 redatta dalla camera di commercio di Taranto, infatti, si rileva come, tenuto conto della gravità dello scenario economico generale e locale e le difficoltà quotidianamente vissute dalle aziende, risulta interessante la capacità di sopravvivenza del sistema produttivo locale nel suo complesso. Tuttavia, precisa il documento, tutto ciò sembrerebbe il risultato di pesanti e spesso dolorosi aggiustamenti nell'utilizzo delle risorse (economico – finanziarie, umane ed altro), con la conseguenza di un decremento della redditività e dell'occupazione e, in ultima analisi, un effettivo depauperamento del tessuto imprenditoriale, non tanto e non solo in termini numerici quanto sostanziali;
    una conferma con riguardo all'occupazione arriva dal sistema informativo Excelsior Unioncamere relativo ai programmi occupazionali delle imprese per il primo trimestre 2015. A differenza di quanto accade in Italia, nei primi mesi del 2015 in Puglia è prevista una variazione negativa dell'occupazione: il «saldo» occupazionale atteso in regione è pari, infatti, a -1.140 unità, in miglioramento, comunque, rispetto alle -1.700 di un anno prima. Dal punto di vista territoriale, considerando sempre sia il lavoro dipendente che quello atipico, saldi occupazionali positivi si prevedono soltanto nella province di Foggia (+290) e Lecce (+50), mentre a Taranto (-330), Brindisi (-490) e Bari (-660) si registrano decrementi significativi;
    in una situazione occupazionale già difficile, dunque, il territorio tarantino è interessato attualmente da numerose vertenze lavorative tra le quali spicca quella relativa al call center di Teleperformance, la seconda realtà produttiva della provincia di Taranto dopo l'Ilva. A fronte degli undicimila posti dello stabilimento siderurgico, infatti, Teleperformance garantisce occupazione a circa duemila dipendenti ai quali si aggiungono circa mille contratti a progetto. I lavoratori coinvolti sono per lo più donne sole, con figli. A giugno 2015 scadranno gli ammortizzatori sociali garantiti dall'accordo firmato nel gennaio 2013, che ha permesso di scongiurare temporaneamente i licenziamenti e a quel punto, senza una strategia che permetta di evitare contraccolpi lavorativi, il futuro occupazionale dei lavori del call center si presenta piuttosto cupo;
    mentre nel 2013 la citata relazione previsionale e programmatica della camera di commercio di Taranto sottolinea che il saldo tra imprese nuove iscritte e cessazioni, pur restando in area negativa, registra nella provincia performance migliori rispetto alla media regionale e delle singole province pugliesi; nel 2014 lo stesso dato risulta negativo: -0,09 per cento. Dal confronto dei dati a disposizione di Movimprese sulla natimortalità delle aziende, emergono le forti criticità territoriali. La camera di commercio sottolinea, altresì, come Taranto sconti la vicenda Ilva nel suo complesso e il previsto e temuto effetto domino; tuttavia, tutti i comparti produttivi sono in sofferenza: in agricoltura, il saldo tra nuove imprese e chiusure è di -259 unità, nelle attività manifatturiere -103 unità, nelle costruzioni -131 unità e nel commercio -324 unità;
    proprio la presenza dell'Ilva fa sì che il territorio tarantino presenti un quadro abbastanza complesso anche dal punto di vista sanitario ed ambientale strettamente connesso. Il comune di Taranto a partire dal 1987, insieme ai comuni di Statte, Crispiano, Massafra e Montemesola, è inserito in un'area definita dall'Organizzazione mondiale della sanità «ad elevato rischio ambientale» ed è ormai da tempo oggetto di studio per la stima del rischio di salute conseguente all'esposizione dell'area abitata del comune alle emissioni provenienti dall'adiacente area insidiata dal più grande stabilimento siderurgico a ciclo integrato d'Europa. Nell'area di Taranto indagini ambientali ed epidemiologiche hanno documentato una compromissione dell'ambiente e dello stato di salute dei residenti. Sono stati osservati eccessi di mortalità, a livello comunale, per malattie dell'apparato respiratorio, cardiovascolare e per diverse sedi tumorali. Nella coorte dei residenti, nei quartieri più vicini alla zona industriale, anche al netto dei differenziali sociali, sono stati misurati eccessi della mortalità e delle ospedalizzazioni per malattie dell'apparato respiratorio, cardiovascolare e per tumori. Questi dati – elaborati all'interno del progetto «Indagine epidemiologica nel sito inquinato di Taranto» (IESIT), finanziato dalla provincia – sono stati successivamente confermati nella loro gravità dallo studio Sentieri curato dall'Istituto superiore di sanità, il quale ha, altresì, evidenziato come la problematica riguardi anche la fascia pediatrica (0-14 anni): a questo proposito è stato osservato un eccesso di mortalità per tutte le cause e di ospedalizzazione per le malattie respiratorie acute, ed un eccesso di incidenza per tutti i tumori (54 per cento). Nel corso del primo anno di vita è stato rilevato un eccesso di mortalità per tutte le cause (20 per cento) ascrivibile all'eccesso di mortalità per alcune condizioni morbose di origine perinatale (45 per cento), mentre per questa stessa causa si osserva un eccesso di ospedalizzazione;
    dal punto di vista ambientale, lo stato di emergenza ormai acclarata nell'area di Taranto ha portato il Governo ad emanare nel breve arco di due anni (a partire dal 2012) ben sette provvedimenti urgenti al fine di fronteggiare e risolvere la situazione, in un'ottica di salvaguardia della salute dei cittadini e della rinascita della città;
    sono provvedimenti in cui – in massima parte – è mancata una visione di insieme sia delle problematiche che gravano sulla città di Taranto e sull'area ad essa circostante, sia delle soluzioni da adottare e nei quali, soprattutto, si è voluto pervicacemente continuare a legare il destino della città a quello dell'Ilva;
    solo di recente, con il decreto-legge 5 gennaio 2015, convertito, con modificazioni, dall'articolo 1, comma 1, della legge 4 marzo 2015, n. 20, sembra si sia avviata una nuova fase per lo sviluppo della città e dell'area di Taranto;
    lo stesso Presidente del Consiglio dei ministri, in occasione dell'approvazione definitiva presso la Camera dei deputati del citato decreto-legge n. 1 del 2015, ha, infatti, parlato di un «progetto Taranto», con particolare riferimento alla cultura, al porto, alle bonifiche e alla salute e non più solo all'Ilva;
    il porto di Taranto situato nel cuore del Mediterraneo è la struttura ideale per il traffico commerciale tra l'Europa ed il resto del mondo e per il traffico a corto raggio nazionale ed europeo. Non si deve tuttavia considerare il porto solo per la sua tradizionale vocazione commerciale, bensì anche in un'ottica di integrazione con la città e di maggiore apertura ai traffici turistici;
    il nuovo piano regolatore del porto, adottato di recente, prevede, infatti, da un lato, di incrementare le aree destinate alle attività commerciali per consentire l'acquisizione di nuovi traffici e, dall'altro, di migliorare il rapporto con la città, aprendo ad essa nuove aree dell'ambito portuale. A questo proposito sono stati avviati i seguenti progetti: la piastra logistica, il consolidamento/adeguamento banchina terminal contenitori, dragaggi, nuova diga foranea, collegamenti ferroviari adattamento/riqualificazione del molo S. Cataldo e Calata 1; realizzazione di un nuovo terminal contenitori al 5o sporgente, il Distripark;
    nel 2012, l'autorità portuale di Taranto ha – altresì – avviato una programmazione mirata allo sviluppo della piena operatività del porto dal punto di vista turistico, in particolare per quanto riguarda il traffico crocieristico, alimentato dal bacino territoriale lucano (destinato ad assumere una dimensione internazionale e mondiale in seguito alla designazione di Matera capitale della cultura 2019) diretto in Nord Africa, in Medio ed Estremo Oriente e in tutti i porti del Mediterraneo. Sempre al fine di promuovere la competitività dello scalo tarantino nel settore turistico e del traffico passeggeri si segnalano le seguenti iniziative: la partecipazione ad eventi fieristici di settore, quale la fiera Seatrade Cruise and Shipping di Miami, memorandum of understanding con la regione Basilicata e il successivo memorandum of understanding con la provincia di Matera, la formulazione nel 2012 della domanda di acquisizione da parte dell'autorità portuale della banchina «ex Torpediniere», per l'utilizzazione della stessa ai fini della nautica da diporto e trasporto passeggeri, la realizzazione di un port exhibition center, da realizzare in ambito portuale con l'intento di valorizzare la vocazione tipicamente portuale di Taranto attraverso l'utilizzo di container marittimi per allestire un centro espositivo multimediale, la realizzazione, infine, del centro servizi polivalente, un edificio polifunzionale finalizzato alla riqualificazione del waterfront portuale;
    al fine di adeguare lo standard competitivo del porto di Taranto rispetto a quello dell'area mediterranea, l'autorità portuale sta puntando sulla diversificazione delle attività del porto. A questo proposito sono stati avviati cantieri per 377 milioni di euro destinati ad aumentare per progetti non legati alla monocultura industriale. Fra questi il progetto «Fresh Port», che mira ad individuare un percorso teso a valorizzare, in forma consorziata, l'intera catena produttiva e logistica del settore agroalimentare di alcune regioni del Sud Italia (Puglia, Basilicata, Calabria) e del Nord Africa, attraverso l'utilizzazione delle aree e dei servizi portuali e retroportuali di Taranto, e il riconoscimento nel maggio 2014 dell'area portuale di Taranto quale zona franca doganale non interclusa, gestita dalla stessa autorità portuale;
    Taranto ha anche l'arsenale militare marittimo, una struttura di grande potenzialità per la quantità e la qualità del personale impiegato (circa duemila e quattrocento dipendenti), per la consistenza e la funzionalità delle infrastrutture, degli impianti e dei mezzi ed attrezzature di lavoro in dotazione. I suoi compiti consistono principalmente nell'assicurare il supporto e l'efficienza delle unità navali, costituendo una struttura tecnico-logistica di grande rilievo. In aggiunta ai compiti istituzionali, l'arsenale è chiamato a svolgere, nei limiti e con le modalità previste dai regolamenti e dalle leggi in vigore, attività che, seppure di carattere secondario, sono altrettanto importanti e significative: assistenza alla protezione civile, interventi nelle calamità naturali, supporto alle unità navali appartenenti ad altre Forze armate ed alla Marina mercantile, assistenza ai barotraumatizzati;
    la struttura dell'arsenale deve essere messa al servizio della riqualificazione della città, non solo in un'ottica di sviluppo turistico e culturale – come previsto nel citato decreto-legge n. 1 del 2015 – ma anche sociale,

impegna il Governo:

   a valutare l'opportunità, compatibilmente con i vincoli di bilancio, di predisporre interventi di rilancio del sistema economico e produttivo del Mezzogiorno, incentivando lo sviluppo più completo delle potenzialità presenti nei relativi territori, attraverso interventi finalizzati:
    a) all'avvio di tempestive iniziative volte a salvaguardare gli attuali livelli occupazionali, con particolare attenzione all'occupazione giovanile e femminile;
    b) alla soluzione di tutte le vertenze lavorative aperte e con specifico riguardo alla vertenza Teleperformance e, più in generale, al personale impiegato nei call center, e a pervenire alla definizione, anche attraverso disposizioni di legge che rimandino a quanto previsto dalla contrattazione collettiva, di precise regole procedurali di confronto sindacale per la gestione delle crisi conseguenti a cambi di appalto, che possa condurre a configurare clausole sociali volte a salvaguardare la posizione dei lavoratori della società appaltatrice uscente, attraverso la configurazione di obblighi in capo all'appaltatore subentrante;
    c) a potenziare le strutture ospedaliere territoriali colmando le insufficienze strutturali e, soprattutto, la carenza di tecnologie avanzate, nell'ottica di un ammodernamento della strumentistica medica e dello sblocco del turnover del personale, con particolare attenzione per quelle zone in cui le evidenze epidemiologiche e scientifiche testimoniano un'elevata presenza di patologie oncologiche;
    d) a fronteggiare in maniera realistica ed incisiva l'emergenza ambientale, con particolare riguardo per quelle zone in cui tale allarme sia diretta conseguenza della presenza di realtà produttive di grandi dimensioni, valutando, in riferimento all'area di Taranto e alla presenza dell'Ilva, l'opportunità di assumere iniziative di carattere legislativo volte ad assicurare un aggiornamento quantomeno trimestrale della valutazione del danno sanitario prevista dall'articolo 1-bis, del decreto-legge n. 207 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 dicembre 2012, n. 231, in modo da avere stime puntuali e dati precisi a fronte di medie annuali;
    e) a valorizzare e a potenziare i sistemi logistico-intermodali del Mezzogiorno, in particolare quelli portuali, che, in virtù della centralità dell'Italia nei traffici marittimi intra-mediterranei e non solo, sono destinati ad avere un ruolo strategico nel rilancio dell'economia nazionale e del Mezzogiorno, valutando altresì l'opportunità di supportare con particolare attenzione i progetti finalizzati a diversificare le funzionalità delle strutture portuali, quali, ad esempio, quelli già avviati dall'autorità portuale di Taranto, dei quali si è dato conto nelle premesse del presente atto di indirizzo;
    f) a valutare l'opportunità di favorire intese, anche fra le diverse amministrazioni pubbliche, per mettere al servizio del territorio le strutture presenti e attualmente adibite a compiti istituzionali, sviluppandone le potenzialità al fine di promuovere il recupero e la riqualificazione sociale dei centri urbani, in particolare quelli soggetti ad un pesante degrado, con particolare riferimento all'uso per tale scopo dell'arsenale marittimo di Taranto.
(1-00766)
«Labriola, Pisicchio, Catalano, Pinna, Furnari, Capelli, Caruso, Lo Monte».
(25 marzo 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    la crisi economica evidenzia ogni giorno di più l'esigenza di una rinnovata e prioritaria attenzione, in particolare per il Sud, ai problemi dell'occupazione, del lavoro, dei redditi e dell'impresa;
    ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, l'attuale politica governativa, per molti aspetti sembra non abbia ancora una strategia indirizzata al miglioramento e all'innovazione del contesto, con un evidente vuoto d'iniziativa che emerge come grave di fronte ad una crisi che colpisce particolarmente l'economia meridionale dispiegando effetti drammatici, anche se talvolta meno visibili a causa della frammentazione del tessuto imprenditoriale e del peso dell'economia cosiddetta a-legale, sospesa tra sommerso e illegalità;
    a fronte di questa situazione disastrosa l'impegno del Governo per il Mezzogiorno sembrerebbe racchiuso nell'unica promessa del raccordo dei fondi strutturali, cosa di per sé positiva ma del tutto insufficiente a risolvere l'enorme problema;
    v’è sovente inefficienza o vero e proprio spreco nel mancato utilizzo delle risorse europee per le regioni del Sud. Ma è noto anche che non basta mettere in elenco le risorse dei fondi europei per risolvere la questione perché i dati che sono sotto gli occhi di tutti non possono essere modificati con le semplici buone intenzioni, né con la sola stigmatizzazione delle regioni inadempienti. Occorre viceversa comprendere che la crisi del Mezzogiorno è la crisi dell'intero Paese e occorre agire di conseguenza con interventi urgenti e prioritari;
    al Sud vi è un gap infrastrutturale, in termini di trasporti, logistica, ricerca e innovazione, rispetto al resto del Paese; le conseguenze della presenza delle associazioni mafiose nel Mezzogiorno si intrecciano in modo complesso con l'economia del Sud, stravolgendo le regole del «fare impresa» e scoraggiando gli investimenti stranieri, oltre che creando un grave e indiscusso disagio sociale. Tutto ciò appare paradossale se solo si pensa che ogni iniziativa di carattere pubblico adottata nella storia repubblicana in favore del Sud va regolarmente a patire gli effetti della corruzione e dello sperpero. A tal proposito è opportuno fare appena cenno a quanto accaduto negli ultimi decenni: il Sud ha fruito, infatti, dapprima dei fondi della Cassa per il Mezzogiorno, durata dal 1950 al 1992, la quale dal 1957 in avanti erogò contributi a fondo perduto e crediti agevolati. Nel primo ventennio circa di attività la Cassa per il Mezzogiorno sembrò funzionare, ma la qualità del suo servizio andò progressivamente declinando mano a mano che i partiti invadevano e inquinavano la vita pubblica. La Cassa per il Mezzogiorno tramontò malinconicamente, abbandonata agli scandali e rappresentò uno dei più gravi esempi di corruzione e di interrelazione fra affari, politica e malavita nel Sud;
    poi fu la volta dei fondi della legge n. 488 del 1992, oggetto di frodi e di truffe fino alla sua conclusione avvenuta nel 2008. La legge n. 488 del 1992 è stata lo strumento attraverso il quale il Ministero delle attività produttive aveva messo a disposizione delle imprese che intendevano promuovere programmi di investimento, nelle aree depresse, agevolazioni sotto forma di contributi in conto capitale («a fondo perduto»);
    nel frattempo si erano aggiunti i fondi europei, destinati dall'Unione europea alle politiche di coesione, ma anche questi non hanno fatto una fine migliore. La sintesi migliore la offrì il Governatore della Banca d'Italia pro tempore Draghi nelle «considerazioni finali» di una delle sue relazioni in Banca d'Italia: «Il Mezzogiorno ha goduto in questo decennio (1998-2008) di fondi paragonabili per entità a quelli dell'intervento straordinario e che equivalevano a circa 45 miliardi di euro o a quasi tre punti di PIL». E tuttavia non esiste evidenza di vantaggi visibili;
    un esempio su tutti è quello legato al capitolo di spesa privilegiato dalla riprogrammazione dei programmi della convergenza, ossia dell'Agenda digitale europea: 1.140 milioni di euro destinati agli investimenti nel Sud per la banda ultra larga, 118,9 milioni di euro per la banda larga fino a 2 mega, 320 milioni di euro per i data center;
    allo stesso modo si rammentano i 1.242 milioni di euro destinati esclusivamente alle quattro regioni obiettivo convergenza (Calabria, Campania, Puglia e Sicilia), o i 142 milioni di euro per il credito di imposta per l'occupazione, o ancora le risorse per la rete dei trasporti, cui erano stati assegnati 1,2 miliardi di euro: per strade (866 milioni di euro) e aeroporti (28 milioni di euro);
    ma la sequenza di interventi che tardano a dispiegare effetti non finisce qui: si pensi alla legge n. 191 del 2009 che ha previsto la nascita di una banca con l'obiettivo di finanziare progetti di investimento nel Mezzogiorno, di erogare credito alle piccole e medie imprese, di favorire la nascita di nuove imprese e l'imprenditorialità giovanile e femminile, nonché di promuovere l'aumento dimensionale e l'internazionalizzazione di tali imprese, di finanziare attività di ricerca e innovazione, il tutto come detto, nelle regioni del sud Italia. Per questo motivo, il 1o agosto 2011 Poste Italiane spa aveva acquisito, per 136 milioni di euro, il 100 per cento di Unicredit Mediocredito Centrale e, pertanto, da settembre 2011, la nuova denominazione societaria è Banca del Mezzogiorno – Mediocredito Centrale spa operativa dal 2 febbraio 2012;
    tuttavia anche in questo caso, nonostante siano i soldi pubblici a sostenere l'impresa, non pare che detto strumento abbia dato respiro alle piccole e medie imprese del Sud. Nel corso della XVII legislatura sono stati già presentati diversi atti di sindacato ispettivo nei quali vengono richiesti i dettagli delle erogazioni della Banca del Mezzogiorno perché sovente destinati a gruppi industriali estranei alla «mission» meridionalista dell'istituto finanziario;
    da tali esperienze consegue che, per uscire dall'angolino dove la storia lo ha confinato, il Mezzogiorno ha bisogno di buona amministrazione, di correttezza, di lungimiranza e non di farsesche vicende di comuni, di municipalizzate e di privilegi regionali;
    è fondamentale che lo Stato rafforzi la propria presenza in tali territori, consolidando i tribunali, presidio di legalità e freno alla criminalità; occorre un intervento capace di promuovere sviluppo ed occupazione nel Mezzogiorno, al fine di favorire la ripresa dell'economia meridionale, come base per la crescita e lo sviluppo dell'intero Paese anche favorendo, sin dall'età scolare, percorsi educativi volti a stimolare un cambio culturale che determini già in età giovanile l'educazione all'impresa. In questo momento di crisi molte imprese sono costrette alla chiusura, non rientrando nei parametri degli studi di settore e il complesso scenario economico italiano, aggravato dalle conseguenze della crisi finanziaria, pone ancora una volta in primo piano la questione di un Paese con due differenti velocità di sviluppo: nel Mezzogiorno si produce solo un quarto del prodotto interno e si genera soltanto un decimo delle esportazioni italiane;
    il Mezzogiorno italiano è ancora privo di quella rete di infrastrutture essenziale per lo sviluppo e negli ultimi anni si è avvertita l'assenza, nei programmi di Governo, di un respiro strategico, volto a ridurre il gap economico, infrastrutturale e sociale del Sud;
    come già descritto nel presente atto di indirizzo, per lungo tempo si è assistito alla distorsione delle risorse destinate al Sud perché oggetto ora di dissennati tagli operati sulla dotazione del fondo per le aree sottoutilizzate per finanziare interventi di diversa natura o fatti oggetto di corruttela o non sempre corrispondenti a finalità di sviluppo e quasi sempre non localizzati nel Mezzogiorno. Ed invece il Meridione, grazie alla posizione geografica ed alla dotazione di porti e aeroporti, potrebbe svolgere un ruolo di cerniera negli scambi commerciali tra Europa, Mediterraneo e Paesi del far East e raccogliere le nuove opportunità del contesto competitivo internazionale;
    altresì si consideri che oltre un terzo dei laureati del Mezzogiorno under 34 è inattivo e la differenza con le regioni settentrionali diventa enorme se si considera il tasso di inattività dei diplomati under 34; i tassi di scolarizzazione in Italia presentano divari sfavorevoli al Meridione e sono accompagnati da un parallelo aumento del tasso di abbandono, dovuto alle condizioni di degrado sociale e familiare. Negative sono anche le evidenze in termini di «qualità» della formazione, dal momento che gli studenti meridionali che terminano la loro carriera accademica hanno maggiori difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro. Si genera così un ampio fenomeno migratorio dei «cervelli» che lasciano le regioni del Sud, provocando un depauperamento del capitale umano disponibile;
    il sistema produttivo del Mezzogiorno è legato a fattori strutturali di debolezza che riguardano le dimensioni piccole o piccolissime delle imprese di quest'area, spesso a gestione familiare, operanti prevalentemente in settori a basso valore aggiunto e con una conseguente scarsa propensione a investire nell'innovazione e in ricerca e sviluppo; inoltre, come già detto, permane una forte presenza della criminalità organizzata, che tenta di infiltrarsi nei grandi appalti per opere pubbliche e tenta di condizionare l'attività di impresa, e della microcriminalità che peggiora la qualità della vita nei centri urbani, aumentando il disagio sociale;
    eppure il Sud avrebbe modo di risollevare le sorti occupazionali già solo attraverso l'industria del turismo, tuttavia i dati relativi al turismo nel Meridione sono paradossali: su 100 stranieri che visitano l'Italia, meno di uno va in Calabria (0,9 per cento per chi ama l'esattezza), ancora meno in Molise. In Basilicata si raggiunge lo 0,1 per cento e in Abruzzo lo 0,6 per cento. Sommando le otto regioni meridionali, includendo Sicilia e Sardegna, si arriva al 13,2 per cento. Fa di più il solo Trentino Alto Adige, con il 14,2 per cento. Le politiche del turismo sono pertanto fallimentari;
    vari studi hanno tentato di quantificare, in termini di ritorno economico e occupazionale, lo sviluppo turistico del Sud anche per sollecitare un cambiamento culturale in tal senso ma nulla sembra essersi modificato in questi anni e la causa non è la mancanza di fondi (le recenti difficoltà del Programma operativo interregionale «Attrattori culturali, naturali e turismo» confermano che le criticità sono spesso politiche): i contributi europei arrivati al Sud non hanno generato virtuose sinergie tra destinazioni, operatori e investitori esterni, né hanno dato vita a poli di eccellenza che potessero «contaminare» positivamente i territori;
    è necessario promuovere lo sviluppo sostenibile del territorio e coniugare il tutto con le imprescindibili logiche di mercato del turismo che impongono prodotti, servizi e infrastrutture in grado di far fronte a una domanda che ha sempre più alternative a disposizione. Occorre selezionare, previa individuazione, le strutture, i siti e i beni di più grande interesse siti nel Meridione e abbandonati a sé stessi – ve ne sono di innumerevoli – e procedere per la loro valorizzazione sul piano nazionale;
    il drastico calo di investimenti pubblici dovuti ad una riduzione della spesa in conto capitale pari a circa 5 miliardi di euro (periodo 2009-2013) ha fatto tornare i livelli degli investimenti pubblici e privati ai dati del 1996;
    l'articolo 12 del decreto-legge n. 133 del 2014, cosiddetto «sblocca Italia», convertito, con modificazioni, dalla legge n. 164 del 2014, interviene di nuovo sulla materia della spesa dei fondi comunitari. Si affidano nuove funzioni al Presidente del Consiglio dei ministri al fine di accelerare l'impiego delle relative risorse ed evitare il rischio di incorrere nell'attivazione delle sanzioni comunitarie;
    va detto che una ragione rilevante dell'incapacità di spesa consiste nel patto di stabilità comunitario. La quota dell'Unione europea non si riesce a spendere perché le regioni, in particolare quelle del Sud, non possono mettere a bilancio le risorse di cofinanziamento, altrimenti sforerebbero il patto di stabilità;
    nel vertice sul lavoro del 9-10 ottobre 2014 l'Italia ha avanzato la proposta di escludere dal calcolo del deficit il cofinanziamento nazionale dei fondi europei;
    il sistema produttivo del Mezzogiorno evidenzia limiti di debolezza strutturali che riguardano le dimensioni piccole o piccolissime delle imprese di quest'area, spesso a gestione familiare, operanti prevalentemente in settori a basso valore aggiunto e con una minima propensione a investire nell'innovazione, nella ricerca e nello sviluppo;
    il sistema produttivo ed in generale tutto il tessuto economico, inoltre, sono fortemente compromessi dalla presenza della criminalità organizzata, che pervade il territorio infiltrandosi in ogni tipo di realtà;
    il tasso di scolarizzazione continua a presentare rilevanti criticità le quali continuano ad incide per oltre il 13 per cento in regioni come la Basilicata e la Calabria cui si collega anche il fenomeno dell'abbandono scolastico dovuto alle condizioni di degrado sociale e familiare;
    occorre un rilancio del settore turistico nonché la valorizzazione del patrimonio storico monumentale del Mezzogiorno, riconoscendo un grande significato e considerando una grande opportunità la nomina di Matera capitale europea della cultura nel 2019;
    la crisi economica ha inciso e sta incidendo in misura significativa sulla produzione, sui consumi e sull'attività delle piccole e medie imprese, soprattutto allocate nel Mezzogiorno d'Italia,

impegna il Governo:

   a verificare, avvalendosi della collaborazione del Cipe, le quote di cofinanziamento già assegnate alle regione e rimaste inutilizzate al fine di prevedere una nuova riassegnazione che comunque mantenga gli stanziamenti già previsti così da determinare una disponibilità immediata delle risorse;
   a porre, in sede comunitaria, il tema dell'esclusione, dal calcolo del Patto di stabilità e crescita, del cofinanziamento nazionale alla politica di coesione, in coerenza peraltro con la risoluzione approvata dal Parlamento europeo dell'8 ottobre 2013 «sugli effetti dei vincoli di bilancio per le autorità regionali e locali con riferimento alla spesa di Fondi strutturali dell'Ue negli Stati membri»;
   a procedere rapidamente ad un censimento delle risorse ancora disponibili e non ancora utilizzate nell'ambito degli strumenti della programmazione negoziata, finalizzato alla predisposizione di un piano di rilancio industriale, improntato sulle specificità e sulle eccellenze produttive presenti nel Mezzogiorno, avviando una nuova stagione di utilizzo degli strumenti sopra citati, ivi compresi i contratti d'area, i patti territoriali, i contratti di programma e i contratti di localizzazione, sulla base delle migliori pratiche e delle esperienze di successo del passato;
   a valorizzare il patrimonio culturale, turistico e paesaggistico del Sud, riservando parte della dotazione disponibile a partire dal residuo della programmazione 2007-2013 per le politiche di creazione, recupero, valorizzazione e promozione di grandi poli di attrazione, di siti Unesco e di prossimi eventi sportivi internazionali – come ad esempio i mondiali di kite surf – che potrebbero essere un importante volano per l'economia turistica del meridione;
   ad adottare le più opportune azioni anche in sede comunitaria, al fine di introdurre in favore delle regioni del Mezzogiorno una serie di misure, anche in via temporanea, di carattere eccezionale, sia di alleggerimento fiscale e contributivo, che finanziarie volte a consentire la nascita di nuove aziende e la prosecuzione delle attività delle aziende in conclamata difficoltà gestionale ed economica, al fine di tutelare il personale qualificato e formato proveniente da aziende affini e conformi, come nel caso Getek ed Infocontact, tutelando il più possibile le competenze ed evitando la dispersione di professionalità acquisite oppure la dequalificazione dei lavoratori attraverso fenomeni di dumping salariale;
   a prevedere azioni concrete dirette alla realizzazione di un programma di messa in sicurezza del patrimonio edilizio pubblico, in particolare degli edifici scolastici ed universitari ma anche in ambito di edilizia sanitaria e carceraria, e di opere legate alla messa in sicurezza del territorio e al contrasto dei fenomeni di dissesto idrogeologico che caratterizzano il Mezzogiorno;
   a riservare alle regioni del Mezzogiorno parte della dotazione disponibile per quanto riguarda la programmazione 2014-2020 per gli investimenti in energie rinnovabili, nel piano gestione delle acque e per le politiche ambientali, nonché per il prosieguo dei processi di bonifica e messa in sicurezza dei siti di interesse nazionale, con particolare riferimento all'area della Legnochimica di Rende in provincia di Cosenza e della Pertusola in provincia di Crotone e dei siti caratterizzati dalla presenza di particolari lavorazioni impattanti e per una promozione della diffusione della raccolta differenziata e del riciclo al fine di migliorare gli attuali livelli che vedono il Sud ancora mediamente in ritardo;
   a potenziare i progetti che prevedono nuove linee ad alta velocità con particolare attenzione per la direttrice Napoli-Reggio Calabria fino a Messina e Palermo e soprattutto per la direttrice ionica Taranto-Reggio Calabria, prevedendo la riorganizzazione dei principali nodi ferroviari urbani, riportando lo standard tecnologico della tratta a livelli conformi alle direttive europee, a partire dalla sua completa elettrificazione, garantendo la manutenzione ordinaria e straordinaria dell'intera tratta della ferrovia silana, inserendo la stessa tra le proposte per la mobilità sostenibile e il turismo della Strategia nazionale per le aree interne da finanziare attraverso le risorse della programmazione comunitaria 2014/2020;
   a prevedere la definizione di alcune priorità infrastrutturali tra cui quelle riguardanti i 491 chilometri della strada statale n. 106 ionica tra Taranto e Reggio Calabria, programmando sia interventi di adeguamento e messa in sicurezza della strada statale n. 106 esistente nei punti di maggiore pericolosità, sia la realizzazione di nuovi tratti in variante a quattro corsie per la realizzazione di un itinerario di lunga percorrenza, integrando il tutto con la Salerno-Reggio Calabria attraverso il completamento e la messa in sicurezza delle arterie trasversali di collegamento come la nuova strada statale n. 182 «Trasversale delle Serre», già in parte in esecuzione, la strada statale n. 280 «dei Due Mari» e la strada statale n. 534 tra lo svincolo di Firmo (autostrada A3) e Sibari (Megalotto 4);
   ad assumere iniziative dirette ad ottimizzare l'arretrato sistema fognario/depurativo presente in diverse zone del Meridione, con particolare riferimento alla provincia di Cosenza dove la situazione è oramai al tracollo sia dal punto di vista ambientale che da quello della salute, al fine di realizzare nuove e più efficienti condotte e un risparmio energetico dato dalla realizzazione di impianti fotovoltaici per la produzione di energia;
   a destinare quota parte dei fondi strutturali al fine di provvedere ad urgenti interventi per la messa in pristino dell'acquedotto pugliese, finalizzandoli all'ottimizzazione delle risorse idriche con particolare riferimento alle aree del Salento in quanto particolarmente popolate nel periodo estivo, alla costruzione di nuovi depuratori nonché all'adeguamento di quelli già esistenti anche al fine di ovviare alla deprecabile prassi dello sversamento di liquami in mare già oggetto di procedura di infrazione comunitaria.
(1-00770)
«Barbanti, Baldassarre, Segoni, Mucci, Rizzetto, Rostellato, Prodani, Turco, Bechis, Artini».
(31 marzo 2015)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE IN MERITO ALLA COSIDDETTA CARTA DI MILANO, IN RELAZIONE AD EXPO 2015

   La Camera,
   premesso che:
    la Carta di Milano vuol essere un «patto sul cibo» da consegnare al pianeta per vincere la sfida alimentare globale. Una reale assunzione di responsabilità da parte degli Stati e dei cittadini del mondo per garantire il diritto a un cibo sano, sicuro e sufficiente per tutti;
    la Carta di Milano nasce dalla sintesi di un percorso di ricerca, di confronto, di idee e di culture sul tema di Expo 2015 «Nutrire il Pianeta, energie per la vita», avviato da Laboratorio Expo fin dal 2013 e proseguito in vari incontri, fino all'evento organizzato il 7 febbraio 2015 a Milano «Expo delle Idee» articolato in 42 tavoli di lavoro suddivisi in quattro percorsi di studio: le dimensioni dello sviluppo tra equità e sostenibilità, la cultura del cibo, l'agricoltura gli alimenti e la salute per un futuro sostenibile, la città umana e i futuri possibili tra smart e slow city;
    la versione finale della Carta di Milano verrà presentata al pubblico il 28 aprile 2015; il testo sarà, poi condiviso il 4 giugno 2015 con i Ministri dell'agricoltura dei 147 Paesi partecipanti ad Expo 2015 e, infine, il 16 ottobre 2015 il documento verrà consegnato al Segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon, in occasione della sua visita all'Expo;
    la Carta di Milano rappresenta un percorso bottom-up, ovvero dal basso verso l'alto: essa, infatti, vedrà protagonisti i cittadini, la società civile e le imprese che saranno chiamate, dal 1o maggio 2015, a sottoscrivere la Carta di Milano assumendosi la responsabilità di dare attuazione a precisi impegni. La Carta di Milano, infatti, conterrà una serie di impegni per cittadini, società civile e imprese contro lo spreco alimentare, per l'alimentazione sostenibile, per il diritto alla nutrizione, contro l'uso scorretto del suolo e delle risorse naturali. Saranno poi i cittadini, la società civile e le imprese a chiedere ai Governi e ai Parlamenti di tutto il mondo di assumere ulteriori impegni, giuridici e politici, puntualmente indicati dalla Carta;
    in questo senso la Carta di Milano rappresenta un modello del tutto innovativo di «protocollo» per il cibo: non sono i Governi a imporre dall'alto gli impegni, ma sono cittadini, società civile e imprese a impegnarsi in prima persona e a chiedere ai Governi di impegnarsi per raggiungere gli Obiettivi del Millennio;
    sostenendo la Carta di Milano, il Governo italiano fa propria la sfida di un sistema alimentare globale sostenibile attraverso azioni mirate a combattere lo spreco di cibo, favorire l'agricoltura sostenibile e contrastare fame e obesità. La strada da percorrere è indicata dalle parole di Maurizio Martina, Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali con delega a Expo 2015: «La principale eredità di Expo è di contenuto e l'Italia darà anima al grande tema Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita con la Carta di Milano, un protocollo per tutti i Paesi che decideranno di aderirvi e che in autunno arriverà a New York nella sede Onu per la definizione dei nuovi Obiettivi del Millennio». Un'eredità, dunque, di contenuto e di sostanza: immateriale nella sua definizione ma concreta, operativa e tangibile nella sua attuazione;
    secondo la Commissione europea la produzione e il consumo di cibo generano il 20-30 per cento di tutti gli impatti ambientali dell'Europa, il 17 per cento delle emissioni di gas serra, il 28 per cento di consumo di risorse materiali e altri impatti come consumo di suolo, perdita di biodiversità, deforestazione. Negli ultimi anni, inoltre, il settore agro-alimentare è divenuto terreno di numerose illegalità gestite anche dalla criminalità organizzata. Ma l'agricoltura può in realtà divenire un'importante prospettiva di futuro per il nostro pianeta, sul piano economico e ambientale, ma anche culturale e sociale. Questo è possibile se si riscopre e si coltiva una relazione stretta fra cibo e produzione, se sono valorizzate e privilegiate le numerose pratiche agricole sostenibili, che da anni dimostrano di essere efficaci e di rappresentare una valida alternativa e se si favorisce la diffusione di un modello di agricoltura multifunzionale;
    il cibo che si mangia, il modo in cui lo si produce, gli effetti sul nostro pianeta. Questi sono i temi di Expo 2015 e su questi temi tutto il mondo è chiamato a dare un contributo. Expo è un incrocio di culture. Fin dalla prima edizione londinese del 1851, le Expo servono soprattutto a questo: fare incontrare culture, etnie e comunità nazionali. A Milano ci saranno rappresentanti di 147 Pesi e turisti da tutto il mondo;
    per la prima volta nella storia delle Esposizioni universali, i Paesi partecipanti verranno raggruppati, anziché per criteri geografici, secondo identità tematiche e filiere alimentari. Sono nove i cluster telematici presenti a Expo Milano 2015: riso, cacao, caffè, frutta e legumi, spezie, cereali e tuberi, bio-mediterraneo, isole, mare e cibo, zone aride. Al loro interno saranno visitabili aree comuni – mercato, mostra, eventi, degustazioni – e spazi espositivi individuali, in cui ciascun Paese interpreterà a modo proprio i temi dell'Esposizione;
    se si guarda al sistema alimentare globale ci si accorge di tre grandi paradossi del nostro tempo riguardanti il cibo: a fronte di un numero elevatissimo di persone che non vi hanno accesso, un terzo della produzione nel mondo è destinato ad alimentare gli animali e una quota crescente dei terreni agricoli è dedicata alla produzione di biocarburanti per alimentare le auto. E a fronte di quasi un miliardo di persone al mondo che patiscono la fame o sono malnutrite, circa un miliardo e mezzo soffre le conseguenze dell'eccesso di cibo, aumentando il rischio di diabete, tumori e patologie cardiovascolari. Ogni anno si registrano 36 milioni di decessi per assenza di cibo e 29 milioni di decessi per eccesso di cibo, 144 milioni di bambini sono sottopeso, 155 milioni di bambini sono obesi o in sovrappeso. Infine, ogni anno viene sprecato un terzo della produzione alimentare globale, per un totale di circa 1,3 milioni di tonnellate all'anno, una quantità che sarebbe sufficiente a nutrire quasi un miliardo di persone che soffrono la fame o sono malnutrite. Nei Paesi in via di sviluppo le perdite più significative si concentrano nella prima parte della filiera agroalimentare, soprattutto a causa dei limiti nelle tecniche di coltivazione, raccolta e conservazione, o per la mancanza di adeguate infrastrutture per il trasporto e l'immagazzinamento. Nei Paesi industrializzati la quota maggiore degli sprechi avviene nelle fasi finali della filiera agroalimentare (consumo domestico e ristorazione, in particolare);
    compito di Expo è fornire una valida risposta alla domanda se la crescita esponenziale dell'accaparramento delle terre (land grabbing), l'intensificazione dell'agricoltura mediante un eccessivo input di fertilizzanti e pesticidi, l'introduzione di organismi geneticamente modificati siano gli unici strumenti che si hanno per sfamare il mondo oppure se sia nostro dovere, in primo luogo, rendere l'intera filiera del cibo, dalla produzione alla trasformazione e consumo inclusi stili di vita alimentari, più efficiente e sostenibile;
    di «ritorno alla terra» in Italia si parla ormai da diversi anni. La crisi e la disoccupazione spingono i più giovani a cercare nuove strade: anche in professioni, quelle agricole, che fino a qualche anno fa erano snobbate e considerate un retaggio del passato. È un fenomeno ancora marginale da un punto di vista numerico, ma che porta nuova linfa – e nuove competenze – nell'agricoltura italiana e che va seguito con attenzione;
    in tale contesto si segnala l'importanza del progetto, WE-Women for Expo, che parla di nutrimento mettendo al centro la cultura femminile, con la convinzione che la sostenibilità del pianeta passa attraverso una nuova alleanza tra cibo e cultura e che le artefici di questo nuovo sguardo e nuovo patto per il futuro debbano essere le donne;
    l'acqua è destinata a diventare una risorsa strategica quanto il petrolio, se non di più. Già oggi la scarsità d'acqua colpisce circa 1,2 miliardi di persone in ogni continente e altre 500 milioni di persone si troveranno presto a fare i conti con la siccità a causa del cambiamento climatico. Il consumo d'acqua potabile è cresciuto a velocità doppia rispetto alla crescita della popolazione nell'ultimo secolo. La produzione di cibo è in assoluto uno dei fattori che incidono di più sul consumo d'acqua potabile e ridurre l'impronta idrica degli alimenti è una priorità strategica;
    senza ricerca non c’è futuro, anche nel settore agroalimentare. La Carta di Milano è l'occasione per definire strategie di sviluppo scientifico dalla pesca sostenibile al consumo di suolo, dalle biotecnologie all'agricoltura di precisione, dagli organismi geneticamente modificati alla gestione degli scarti alimentari, dal food packaging al food-print;
    a fine Ottocento esistevano circa 8000 varietà di frutta. Oggi ce ne sono meno di 2000. Le motivazioni sono diverse: l'industrializzazione dei processi produttivi, il cambiamento climatico e quello delle abitudini alimentari. Le varietà sopravvissute sono quelle più convenienti da produrre e più adatte al trasporto. È necessario sostenere tutti quei processi che favoriscono il ritorno ad un maggiore biodiversità. La biodiversità comprende la vita in tutte le sue forme e implica la centralità della tutela di tutte le specie viventi sulla terra. L'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha sancito il valore di tale patrimonio nel 1992 – a Rio De Janeiro – siglando la convenzione sulla diversità biologica. Quando si rinuncia alla biodiversità in agricoltura si corrono gravi rischi perché si rende facile la vita dei parassiti e si mettono a repentaglio intere filiere produttive;
    la sicurezza alimentare è una questione complessa che coinvolge l'intera filiera agro-alimentare. Attiene ai rischi diretti e indiretti per la salute pubblica connessi a cibi, mangimi e materiali a contatto, ma anche alle contraffazioni, alla tracciabilità e alle etichettature. Nonostante i piani nazionali integrati e gli accordi comunitari, le sfide da affrontare sono ancora difficili e richiedono soluzioni globali;
    l'educazione alimentare è senza dubbio un investimento importante per il futuro. Tutti gli studi dimostrano come un'alimentazione corretta sia il principale alleato nella prevenzione di malattie cardiovascolari e tumori, le malattie da cui deriva la maggior parte della spesa sanitaria;
    in tale contesto la dieta mediterranea, patrimonio culturale immateriale dell'Unesco, è un vero e proprio stile di vita che incorpora saperi, sapori, elaborazioni, prodotti alimentari, coltivazioni e spazi sociali legati ai territori. Proprio per valorizzare i valori legati alla dieta mediterranea e rivendicare una sorta di «orgoglio mediterraneo», l'Expo, su proposta del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali italiano, dedicherà una settimana di incontri, dibattiti, sperimentazioni alla «Dieta mediterranea patrimonio dell'Umanità UNESCO», dal 14 al 20 settembre 2015;
    le indicazioni geografiche dop (denominazione di origina protetta) e igp (indicazione geografica protetta) sono strumenti fondamentali per tutelare il made in Italy. I prodotti dop e igp italiani, infatti, rappresentano il 40 per cento dell'intera produzione a denominazione comunitaria, con un fatturato complessivo in relazione alla produzione di circa 7 miliardi di euro;
    dal falso olio extravergine di oliva ai prodotti italian sounding che abbondano sui mercati internazionali: la contraffazione dei prodotti alimentari è una minaccia per la sicurezza dei consumatori e un danno per le imprese del settore, in particolare quelle che operano sui prodotti di alta qualità;
    dalle mozzarelle ai terreni agricoli, dai ristoranti all'autotrasporto, il business dell'agromafia fattura in Italia circa 14 miliardi di euro, trovando terreno fertile proprio nel tessuto economico indebolito dalla crisi e offrendo alla criminalità organizzata un appetibile strumento per riciclare denaro frutto di attività criminose;
    la creazione di un modello di consumo e produzione sostenibili necessita di un intervento globale in cui le azioni dei Governi e delle istituzioni siano tese alla protezione e alla conservazione delle risorse del pianeta, allo sviluppo sostenibile, ad un uso efficiente delle risorse, alla lotta contro la fame e ad affermare il diritto alla sicurezza alimentare per tutti gli abitanti del pianeta ed è importante che la Carta di Milano sia il luogo d'assunzione di impegni di buone pratiche e modelli sostenibili in termini di politiche agricole,

impegna il Governo:

   ad assumere il diritto al cibo come un diritto fondamentale anche valutando l'opportunità di adottare iniziative per inserirlo nella Carta costituzionale;
   ad adoperarsi affinché la Carta di Milano sancisca un «patto per il cibo» che sia una reale assunzione di responsabilità da parte degli Stati per garantire il diritto a un cibo sano, sicuro e sufficiente per tutti, prevedendo, in particolare, i seguenti impegni:
    a) individuazione di un meccanismo che permetta ai Governi e ai sistemi di produzione, trasformazione e commercializzazione della filiera agroalimentare il raggiungimento di risultati dichiarati in modo esplicito e trasparente, prevedendo, ad esempio, che ogni singolo Paese sia tenuto a comunicare le finalità che intende raggiungere e gli obiettivi realizzati nell'ambito dei rapporti Ocse in modo che possano essere monitorati e giudicati dai cittadini;
    b) contenimento e riduzione del consumo di suolo in modo da limitarne l'impermeabilizzazione ed incremento delle food policy in modo da concentrare l'attenzione sulle funzioni ambientali ed agricole del suolo piuttosto che sugli usi urbanistici, per il contrasto al dissesto idrogeologico e per la produzione di cibo;
    c) incremento delle risorse per la ricerca scientifica ed applicata in agricoltura, per sviluppare modelli di adattamento delle colture ai cambiamenti climatici e per i migliorare la produttività agricola nell'ambito della biodiversità, con particolare riguardo alle principali colture euro-mediterranee;
    d) predisposizione di politiche agricole a sostegno dell'agricoltura contadina familiare, dei modelli di aziende biologiche, degli agricoltori che lavorano in modo ecosostenibile e dei piccoli agricoltori locali, che consentano il recupero e la coltivazione dei prodotti tradizionali, che preservino la biodiversità e la varietà delle sementi, delle reti di acquisto di prodotti a chilometro zero e che migliorino le condizioni sociali ed economiche dei piccoli agricoltori;
    e) promozione dell'agricoltura urbana attraverso l'impulso alla creazione di orti urbani e di spazi destinati alla coltivazione assegnati dai comuni in comodato ai cittadini;
    f) implementazione delle esperienze di agricoltura sociale e degli aspetti connessi alla multifunzionalità agricola e delle politiche connesse al ricambio generazionale e al sostegno delle donne in agricoltura, anche attraverso l'istituzione a tale scopo di banche dati nazionali delle terre incolte e abbandonate;
    g) promozione di azioni educative nella scuola sulla base di tre assi principali: quali cibi figurano nella dieta; cosa e quanto si spreca in particolare come consumatori finali, ma anche durante l'intera filiera; come si produce (rispetto agli impatti sulle risorse naturali e sulla salute);
   in considerazione delle dimensioni assunte dal fenomeno dello spreco alimentare e soprattutto dalla portata dei suoi impatti, a sostenere le azioni necessarie a contrastare il fenomeno medesimo ed in particolare:
    a) a dare un significato univoco ai termini food losses e food waste ed armonizzare a livello internazionale la raccolta dei dati statistici;
    b) a comprendere le ragioni degli sprechi alimentari nelle varie filiere agroalimentari e a valutarne meglio gli impatti;
    c) ad investire prima nella riduzione delle perdite e degli sprechi alimentari e poi sul loro recupero;
    d) ad avviare iniziative di recupero degli sprechi non ancora eliminati attraverso la distribuzione a persone svantaggiate e l'impiego come mangime o, come ultima alternativa, per la produzione di bioenergia;
    e) a favorire lo sviluppo di accordi di filiera tra agricoltori, produttori e distributori per una programmazione più corretta dell'offerta alimentare;
    f) a rendere il consumatore consapevole dello spreco e a insegnargli come rendere più sostenibili l'acquisto, la conservazione, la preparazione e lo smaltimento finale del cibo;
   ad istituire la «settimana della dieta mediterranea» coinvolgendo scuole, enti di ricerca, soggetti pubblici e privati, al fine di sensibilizzare l'opinione pubblica e di diffondere e far conoscere la cultura del mangiare mediterraneo e i suoi effetti benefici non solo sulla salute ma anche sui territori, sul paesaggio e sulla biodiversità agricola;
   ad individuare le possibili modifiche, nell'ambito dell'Unione europea, alle direttive in materia di appalti pubblici, prevedendo misure premiali per le aziende biologiche nell'affidamento dei servizi di ristorazione nelle mense scolastiche.
(1-00769)
«Speranza, Dellai, Oliverio, Sani, Rostellato, Fregolent, Martella, Luciano Agostini, Antezza, Anzaldi, Capozzolo, Carra, Cenni, Cova, Dal Moro, Fiorio, Lavagno, Marrocu, Mongiello, Palma, Prina, Romanini, Taricco, Tentori, Venittelli, Zanin, Fauttilli, Gadda, Artini, Baldassarre, Barbanti, Bechis, Mucci, Prodani, Rizzetto, Segoni, Turco».
(31 marzo 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    in occasione dell'Expo 2015, il cui adagio è «Nutrire il Pianeta. Energia per la Vita», è in corso un dibattito su alcuni nodi cruciali della sfida alimentare globale, che culminerà con l'adozione della «Carta di Milano», un documento che, su esperienze precedenti, come, ad esempio, il «Protocollo di Kyoto», vuole essere lo strumento e il frutto di un percorso partecipato, per guidare il dibattito che si svolgerà nei prossimi mesi, e per tutte le iniziative che diverranno eventi nel semestre dell'Expo 2015;
    la Carta di Milano sarà la dichiarazione conclusiva dell'Esposizione universale da consegnare al Segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon, quale atto di indirizzo internazionale e quale contributo alle riflessioni che saranno svolte in sede di discussione sui millennium goals a novembre 2015;
    la sua nascita si deve alla giornata «Expo delle idee», del 7 febbraio 2015, nella quale 500 esperti, riuniti all’hangar Bicocca di Milano, hanno avuto modo di cominciare a confrontarsi e analizzare le sfide dell'alimentazione globale intorno a 42 tavoli tematici su argomenti come: lo sviluppo sostenibile all'interno dell'interrelazione tra economia, ambiente e società; culture, identità e stili alimentari; agronomia, nutrizione, economia del cibo; Milano/Italy tra smart e slow city;
    un percorso di riflessione globale, attivato dal basso, che mira al reale coinvolgimento della società civile, che, ponendosi in fase dialogante con i governatori dei vari Paesi, ha l'ambizione di arrivare alla stesura di un documento finale, che in linea con i suoi scopi originali sia in grado di coinvolgere nel dibattito tanti più contributi possibili, ponendosi come obiettivo finale la sfida di un sistema alimentare ed agricolo globale sostenibile, in grado di contrastare gli sprechi alimentari, la fame nel mondo, dai Paesi con economie più povere, alle malattie legate all'alimentazione di Paesi con economie più avanzate, tutelare le culture indigene e le realtà di agricoltura contadina e familiare e garantire cibo sano. Il Governo italiano, sostenendo la Carta di Milano, farà suo questo intento;
    il 22 dicembre 2013 l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha dichiarato il 2014 anno internazionale dell'agricoltura familiare, International year of family farming; tutta la campagna in favore dell’International year of family farming ha avuto inizio nel 2008, ha visto coinvolte oltre 350 organizzazioni provenienti da Paesi di tutto il mondo, da piccole e medie comunità rurali ed aziende agricole fino ai popoli indigeni. L'obiettivo è quello di orientare radicalmente le politiche agricole a favore dell'agricoltura contadina familiare, sia nel mondo sviluppato che nei Paesi in via di sviluppo, ponendo l'attenzione sull'importante ruolo che essa gioca nell'alleviare la fame e la povertà, nel rafforzare la sicurezza alimentare e la nutrizione, nel migliorare i mezzi di sussistenza, nella gestione delle risorse naturali, nella protezione dell'ambiente e nel raggiungere uno sviluppo sostenibile, in particolare nelle zone rurali e marginali. Secondo un'analisi condotta da «Via Campesina», un'organizzazione internazionale fondata nel 1993 con più di 160 organizzazioni in 79 Paesi, che conta più di 200 milioni di contadini e contadine aderenti, le piccole e medie aziende contadine sono la spina dorsale economica e sociale dell'agricoltura europea, la più potente a livello mondiale, dove in media le aziende agricole sono di 14 ettari, oltre il 69 per cento delle aziende agricole coltivano meno di 5 ettari e solo il 2,7 per cento possiede più di 100 ettari. Imperniate sulle capacità e sull'intensità del lavoro – non sul capitale – adattate all'infinita diversità delle condizioni naturali, sociali ed economiche, queste strutture produttive garantiscono la sicurezza e la diversità alimentare ai cittadini europei e sono un modello di sostenibilità sociale, economica ed ecologica. Sposando un altro modello di sviluppo agricolo che, contrapponendosi all'agricoltura industriale, basata sul mercato di grossa scala e sulle monoculture, salvaguarda il territorio ed è in grado di dare risposte adeguate sia alla crisi economica che a quella climatica;
    in Europa e in Nord America si stima che i consumatori buttino via tra i 95-115 chilogrammi pro capite di cibo all'anno, mentre nel Sud-Est asiatico e nell'Africa sub-sahariana il dato è di 6-11 chilogrammi pro capite; lo spreco alimentare ha assunto, e sta sempre più assumendo, una dimensione di portata mondiale, tanto che metà del cibo prodotto nel mondo non arriva mai ad essere consumato. Il problema dello spreco alimentare è da ritenersi connesso alle politiche economiche e di marketing che, negli ultimi 20 anni, hanno prodotto fattori e azioni comportamentali altamente distorsivi della realtà fattuale con tutte le conseguenze effettuali che da tale modus comportandi e vivendi sono derivate. Le politiche di marketing delle multinazionali e le normative sulla brevettazione dei prodotti agroalimentari hanno contribuito a generare comportamenti sociali tendenti a produrre sempre più «spreco» e «scarto» alimentare. I dati sullo spreco di cibo nei Paesi industrializzati ammonta a 222 milioni di tonnellate, ossia il corrispettivo della produzione alimentare disponibile nell'Africa sub-sahariana, che è di 230 milioni di tonnellate; la Fao stima che a livello mondiale la quantità di cibo che finisce tra i rifiuti ammonta a 1,3 miliardi di tonnellate e che 925 milioni di persone nel mondo sono a rischio di denutrizione, mentre la popolazione mondiale ipernutrita è pari a quella sottonutrita e/o denutrita: questi dati allontanano, oggettivamente, il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo del millennio, incluso quello di dimezzare la fame e la povertà entro il 2025; sempre secondo dati della Fao, il previsto aumento da 7 miliardi a 9 miliardi della popolazione mondiale richiederà un incremento minimo del 70 per cento della produzione alimentare entro il 2050. Secondo i dati dell'indagine realizzata nel 2012 dalla Fondazione per la sussidiarietà e dal Politecnico di Milano, in collaborazione con Nielsen Italia, lo spreco alimentare in Italia ammonta a 6 milioni di tonnellate, pari a un valore di 12,3 miliardi di euro (6,9 miliardi direttamente dai consumatori);
    rispetto ai trattati internazionali in corso di negoziazione, come, ad esempio, il Transatlantic trade and investment partnership, Ttip, è doveroso sottolineare come l'agricoltura europea, frammentata in milioni di piccole aziende, finirebbe per entrare in crisi se non venisse più protetta dai dazi doganali e, soprattutto, se venisse dato il via libera alle colture geneticamente modificate. Ci sarebbero anche rischi per i consumatori perché i principi su cui sono basate le leggi europee sono diverse da quelli degli Stati Uniti. In Europa vige il principio di precauzione (l'immissione sul mercato di un prodotto avviene dopo una valutazione dei rischi), mentre negli Stati Uniti per una serie di prodotti si procede al contrario: la valutazione viene fatta in un secondo momento ed è accompagnata dalla garanzia di presa in carico delle conseguenze di eventuali problemi legati alla messa in circolazione del prodotto (possibilità di ricorso collettivo o class action, indennizzazione monetaria). Oltre alla questione degli organismi geneticamente modificati, questa critica viene sollevata relativamente all'uso di pesticidi, all'obbligo di etichettatura del cibo, all'uso del fracking per estrarre il gas e alla protezione dei brevetti farmaceutici, ambiti nei quali la normativa europea offre tutele maggiori. Non ultime, in questo discorso, le produzioni di qualità che contraddistinguono l'Italia nello scenario mondiale quale leader nell'esportazione di prodotti alimentari dop, igp e stg. Evocare la denominazione di un prodotto tipico fa parte di quel fenomeno di slealtà commerciale chiamato italian sounding, ossia la contraffazione imitativa che danneggia gravemente il made in Italy anche in Paesi come gli Stati Uniti. Non è che l'Italia sia più competitiva degli Usa in generale, ma l'Italia esporta prodotti alimentari di altissima qualità legati agli elevati standard qualitativi che i disciplinari tecnici europei richiedono per conseguire le denominazioni;
    alcuni prodotti alimentari italiani sono salvaguardati dalle imitazioni nell'Unione europea ma non negli Stati Uniti. Le conseguenze di tale accordo potrebbero seriamente minare le produzioni di qualità e, quindi, mettere in crisi non solo l'Italia, ma anche quei Paesi europei che basano i propri prodotti sulla “tipicità”. Proteggere dall'immissione di organismi geneticamente modificati vuol dire agire a tutto tondo: dalla mangimistica ai controlli sull'immissione in commercio, avvalendosi della clausola di salvaguardia che garantisce al nostro Paese il successo del marchio made in Italy; con il Transatlantic trade and investment partnership questa garanzia non sarebbe più tale e le ricadute economiche sul settore agroalimentare e sulla salute dei cittadini potrebbero assumere contorni catastrofici;
    la prima causa del diffondersi delle fitopatie e parassiti delle piante è senza dubbio rappresentata dai grandi flussi di merci che alimentano gli scambi commerciali. Gli imballaggi, i mezzi di trasporto ed il materiale vegetale trasportato si spostano da un continente all'altro, raggiungendo zone geografiche anche molto lontane dal loro areale di origine. Si tratta di ambienti nuovi per i patogeni importati, dove mancano i naturali antagonisti e la diffusione è semplificata. È poi da considerare che le grandi multinazionali, che operano nel campo della riproduzione vegetale, come le aziende sementiere, hanno insediato i propri stabilimenti nei Paesi in via di sviluppo, dove i costi di produzione, essenzialmente la manodopera e l'energia, sono ridotti, con scarsa attenzione alla condizioni ambientali di contorno, dove sono presenti microrganismi, insetti o virus che possono seguire i semi nel loro lungo viaggio verso i Paesi industrializzati. Gli scarsi o inefficaci controlli fitosanitari del materiale in partenza non permettono di limitare questo rischio alla fonte. Non potendo gestire il problema alla fonte, i Paesi importatori hanno stabilito delle regole per l'ingresso del materiale vegetale;
    in Europa questa attività viene svolta dall’European and Mediterranean plant protection organization. I suoi obiettivi riguardano la protezione delle piante, lo sviluppo di strategie contro l'introduzione e la diffusione di patogeni, la promozione della sicurezza e di efficaci metodi di controllo. All'atto dell'arrivo del materiale vegetale, imballaggi compresi, vengono effettuate delle ispezioni da parte degli ispettori fitosanitari alle dogane e, se tutte le condizioni previste sono state rispettate, viene rilasciato un apposito certificato fitosanitario. Tale certificato attesta l'idoneità del prodotto, in base alla legislazione vigente e nel rispetto degli accordi internazionali, grazie al quale le piante, che hanno rilevanza economica (alimentare, forestale, ornamentale), possono circolare liberamente. Nonostante i controlli, molti parassiti sono già entrati nel continente europeo, quali: la anoplophora chinensis, coleottero che attacca i fruttiferi e le alberate, il dryocosmus kuriphilus, il cinipide del castagno che sta arrecando ingenti danni in molte aree forestali del nostro Paese, la varroa e il coleottero dell’athina tumida che ha colpito le api, e la xylella fastidiosa negli ulivi pugliesi. Si sta cercando di evitare l'introduzione della phakopsora pachyrhizi, fungo agente della ruggine asiatica della soia, la cui diffusione negli ultimi 100 anni può servire da esempio per capire quanto difficile sia combattere una patologia. Rilevata per la prima volta in Asia nel 1902, dove fu causa di ingenti danni, si diffuse tramite spore trasportate da correnti d'aria in Africa e, a partire dal 2000, in America latina, da dove è poi sbarcata negli Stati Uniti;
    il land grabbing è un fenomeno che assume dimensioni sempre più planetarie, dove le vittime principali sono gli abitanti dei Paesi più poveri del mondo che vengono depauperati del loro sostentamento principale che è la terra. Il fenomeno socio-economico è drammaticamente in crescita esponenziale e si realizza grazie all'azione congiunta sia degli Stati che delle imprese, ma a prevalere nel percorso di accaparramento della terra è soprattutto il settore privato. L'asse portante consiste in investimenti a basso costo in terre del sud del mondo, dove si concentra circa il 40 per cento di tutte le fusioni e acquisizioni agricole. A «cedere» la loro terra sono, in generale, i Paesi più poveri, per la disponibilità e il basso costo della superficie coltivabile, per il clima favorevole e per la disponibilità di manodopera quasi a costo zero. Nella maggior parte dei casi, si tratta di Paesi che rientrano nella fascia con il più elevato rischio di fame e povertà al mondo;
    la contrattualistica si codifica in assenza di clausole vincolanti e precise che prevedano iniziative sociali e lavoristiche concrete da parte degli investitori a favore delle zone interessate dal fenomeno, oltre a riguardare il controllo e la verifica degli «impegni sottoscritti». La durata delle concessioni risulta essere molto lunga, 30, 40 e, in alcuni casi, anche 90 anni, con accordi che prevedono affitti risibili che vanno dai 2 ai 10 dollari per ettaro, come in Sudan o in Etiopia. Gli interessi sono consoni alle esigenze degli investitori, senza riferimenti alla sicurezza alimentare delle popolazioni locali, che si vedono destinata solo una minima parte dei raccolti. Per sicurezza alimentare si intende non solo il ridotto raccolto che spetta ai locali, certamente non sufficiente per i loro fabbisogni alimentari, ma si estende anche all'alimentazione e alla protezione degli animali, anch'essi appartenenti alla catena alimentare. La sicurezza alimentare riguarda il tema dell'assenza di controlli veterinari e, non ultimo, dell'igiene, la cui assenza produce innumerevoli infezioni agli animali e agli esseri umani stessi;
    da qualche tempo, gli accaparratori di terre hanno messo gli occhi anche sui suoli più fertili d'Europa e d'Italia, dove i fenomeni di land grabbing si situano nella zona della Costa Smeralda, di Porto Torres e della provincia di Cagliari;
    l'agricoltura italiana sta vivendo uno dei periodi più drammatici della sua storia. I costi di produzione hanno raggiunto livelli insostenibili, mentre i ricavi delle produzioni agricole sono fermi agli anni settanta e non sono affatto remunerativi a causa del dimezzamento dei redditi degli agricoltori. A questa drammatica situazione non si è riusciti, ad ora, a dare una risposta, nonostante i notevoli servizi di multifunzionalità che il mondo agricolo offre alla società sotto il profilo della salute pubblica, della tutela dell'ambiente, del presidio del territorio e della biodiversità. Accanto a una situazione di grave disagio economico e sociale del comparto agricolo, il livello di tassazione e di imposizione fiscale rischia di far chiudere un numero non calcolato di aziende agricole, con tutti i drammatici effetti collaterali che un evento del genere comporterebbe per molti territori che vivono solo di agricoltura. A questo si aggiunga l'eccessiva burocratizzazione che spesso penalizza e rallenta il percorso di molti imprenditori agricoli, soprattutto i piccoli imprenditori, lasciando il mercato nelle mani di pochi monopoli. La burocratizzazione impedisce, altresì, la cooperazione fra i vari Stati;
    la fase di emergenza dei mercati agricoli e la conseguente diffusa volatilità dei prezzi, derivante dall'assenza di una condivisa regolamentazione globale del mercato delle merci che ha caratterizzato il settore nell'ultimo decennio, continuano a manifestare i propri segnali negativi;
    il suolo è una risorsa non rinnovabile che svolge funzioni ecosistemiche per la società nel suo complesso olistico. I processi di antropizzazione che l'uomo pone in essere con le sue attività produttive occupano sempre più porzioni di territorio che viene trasformato in modo pressoché irreversibile. Il ritmo di questi processi è cresciuto parallelamente allo sviluppo delle economie: quello dell'aumento del consumo di suolo è un fenomeno globale, in cui, per la scarsità di suolo edificabile, l'avanzata dell'urbanizzazione contende il terreno all'agricoltura e spinge all'occupazione di aree non adatte all'insediamento, come quelle a rischio idrogeologico;
    il consumo di suolo agricolo, inoltre, è corresponsabile di fenomeni di alterazione climatica, come l'innalzamento della temperatura e la diminuzione delle risorse edibili per l'uomo, la cui miscela socio-ambientale produce delle drammatiche conseguenze socio-economiche in quei Paesi dove si «mastica la fame»;
    in agricoltura, le monocolture, ossia il sacrificare vaste zone di territorio per la coltura di un'unica specie vegetale in maniera intensiva e standardizzata, sono tra le principali cause della scomparsa di biodiversità. Convertire foreste rigogliose, ecosistemi ricchi e variegati e complessi in monocolture significa condannare a morte milioni di creature vegetali e animali. Questo processo tanto sbandierato come «sviluppo» e «progresso» dalle multinazionali, di fatto ha contribuito enormemente ad aumentare il tasso di povertà nel mondo. Le aree impiegate per questo tipo di coltivazione, ormai sempre più frequente viene gestito da grandi gruppi, i quali esercitano – in un mercato globalizzato tendente alla riduzione progressiva delle varietà colturali in modo da esser più facilmente controllato – nelle zone delle foreste pluviali operazioni massicce di disboscamento, come avviene da anni in Amazzonia e negli ultimi due lustri per la Mata atlantica (fenomeno questo conosciuto come «desmatamento»);
    le foreste pluviali tropicali sono gli ecosistemi terresti più ricchi. Esse coprono il 7 per cento della superficie mondiale e danno rifugio al 70 per cento di tutte le specie. Le monocolture, quindi, rendono sterili i terreni, impoveriscono i sottosuoli e pregiudicano le sorgenti genetiche dell'agricoltura, rendendo i raccolti più vulnerabili alle fitopatie. La conseguenza è la drammatica alterazione degli equilibri microcosmici e sistemici, oltre al fatto che viene messo in serio rischio la sicurezza e la sovranità alimentare. La distruzione della biodiversità favorisce le infezioni e le patologie, perché le piante si indeboliscono e sono più facilmente attaccabili dagli insetti che negli ultimi 40 anni hanno raddoppiato i danni alle colture, nonostante l'uso di pesticidi sia decuplicato;
    l'agricoltura intensiva è l'attività che richiede più utilizzo di acqua in Europa. Circa l'80 per cento della risorsa idrica è impiegata nell'irrigazione, spesso inefficiente per la cattiva manutenzione degli impianti e per il ricorso a tecnologie obsolete e poco attente al risparmio idrico. L'agricoltura industrializzata non si limita ad impiegare ingenti quantità di acqua, ma è causa anche di inquinamento. Infatti, i fertilizzanti chimici e i pesticidi penetrano nel terreno raggiungendo e inquinando le falde acquifere sotterranee oppure vengono dilavati dalle acque meteoriche (piogge) e di irrigazione e immessi direttamente nelle acque superficiali in quantità tali da comprometterne la capacità autodepurativa. Inoltre, lo sconsiderato utilizzo di acqua, ossia il divario esistente tra il rifornimento idrico e la domanda di acqua, sta aumentando in quelle aree che già oggi soffrono di carenza di idrica, aggravata dai crescenti e violenti fenomeni di siccità, e si rivelerà il maggior vincolo alla crescita e allo sviluppo agricolo sostenibile;
    in Europa, soprattutto nelle aree meridionali e centrali, la disponibilità di acqua diminuirà sempre di più a causa di una continua diminuzione delle precipitazioni estive e delle elevate esigenze idriche di alcune tipi di colture e metodi di coltivazione semi o totalmente industrializzati;
    nei Paesi del sud del mondo l'acqua utilizzata per l'irrigazione rappresenta ben il 91 per cento del consumo idrico (rispetto al 39 per cento dei Paesi ad alto reddito), ma la produzione agricola è pari ad un terzo di quella dei Paesi industrializzati, poiché metà dell'acqua destinata all'irrigazione evapora per le elevate temperature, oppure si perde a causa delle pessime reti idriche di distribuzione;
    il fenomeno della tratta degli esseri umani e dello sfruttamento dei migranti rimane una delle prime problematiche da affrontare e risolvere a livello globale. Un fenomeno che coinvolge un alto numero di migranti che finiscono in circuiti di marginalità sociale e illegalità, vittime di un sistema di sfruttamento sia a livello di manodopera che sessuale;
    la presenza di un gran numero di lavoratori vulnerabili e disponibili a salari bassi ha consentito a molte aziende di reggere alla crescente pressione sui prezzi dei prodotti agricoli operata da commercianti, industrie conserviere e catene della grande distribuzione organizzata, causata dalla competizione internazionale dovuta alla liberalizzazione dei mercati dei prodotti agricoli. I conflitti sociali avvenuti negli anni scorsi a El Ejido in Andalusia, a Manolada in Grecia e nelle Bouches-du-Rhône in Francia mostrano come i lavoratori migranti impiegati in agricoltura siano in condizioni difficili un po’ in tutta Europa, sebbene con modalità differenti. Per non parlare dell'agricoltura californiana, che alcuni economisti e sociologi hanno individuato come il modello – fatto di agricoltura intensiva e ipersfruttamento dei migranti – cui si sta conformando l'agricoltura europea, soprattutto mediterranea. Per continuare si può citare la disumana condizione degli operai agricoli palestinesi nella Valle del Giordano, i quali lavorano in condizioni disastrose, fino a 18 ore al giorno, privi di qualsivoglia sistema di sicurezza. Di conseguenza, gli incidenti sul lavoro sono ricorrenti e spesso mortali. La piaga dello sfruttamento dei braccianti agricoli è di matrice globale ed ha urgenza di essere affrontata in modo dirimente;
    i modelli economici perseguiti finora hanno portato alla dipendenza di quelle fonti energetiche che maggiormente si allineano con il metodo della continua ricerca del profitto. L'uso del petrolio, per il quale si stima che, agli odierni ritmi estrattivi, si esaurirà tra il 2040 e il 2070, sta spingendo le aziende a trovare alternative energetiche di approvvigionamento. Gli agrocombustibili, in quota parte, sono proposti sia come alternativa al petrolio, sia come mezzo per combattere il riscaldamento climatico globale e per questo le maggiori imprese internazionali si stanno lanciando in questo nuovo mercato, che risulta essere, però, contrario alle necessità alimentari dei popoli. Il rischio, tuttavia, è che, diffondendo la sostenibilità di questa fonte energetica, le multinazionali potranno liberamente sfruttare i beni agricoli per il mercato energetico. Il biocarburante esiste in virtù del biocombustibile, cioè un propellente ottenuto in modo indiretto dalle biomasse: grano, mais, bietola, canna da zucchero. E dunque i biocarburanti di prima, seconda e terza generazione riducono la disponibilità di derrate alimentari, aumentando la fame nel mondo. Peraltro, la coltivazione delle materie prime necessarie a produrli, in generale, è inquinante: la produzione di biodiesel, per esempio, è molto dispendiosa dal punto di vista idrico. Un calcolo calorico porta a dire che mantenere i veicoli col cibo umano è dispendioso. Questi sono solo alcuni dei problemi legati all'uso improprio dei biocarburanti. La teoria economica classica attesta che se la domanda supera l'offerta i prezzi crescono. Gli speculatori finanziari comprano dai contadini (principalmente del terzo mondo) il grano ad un prezzo molto basso e fanno in modo che questo prezzo aumenti nel tempo, sostenendo artificiosamente la domanda e contenendo l'offerta, realizzando così forti guadagni. È chiaro che, con questi meccanismi, i prezzi dei cibi di prima necessità subiscono aumenti molto elevati, tutto a scapito di milioni di persone che muoiono di fame. La speculazione finanziaria sui generi alimentari ha causato negli ultimi anni la sottoalimentazione di circa 850 milioni di persone. Questa situazione è stata stigmatizzata sia dalla Fao che dalla Banca mondiale: entrambe le istituzioni affermano che tra il 2007 e il 2008 si è registrato un aumento di circa l'88 per cento del prezzo dei cereali e, in generale, dell'80 per cento di tutte le granaglie. Gli agrocombustibili nuoceranno in maniera devastante anche sulle riserve d'acqua. Secondo l'Istituto internazionale per l'acqua, la produzione su larga scala di agrocombustibili provocherà nel 2050 il raddoppio dell'attuale fabbisogno idrico destinato all'agricoltura. Attualmente, circa l'80 per cento del totale di acqua dolce consumata dall'uomo è utilizzato in questo settore. Dal punto di vista sociale la produzione in massa di agrocombustibile diventerebbe più dannosa del problema dell'inquinamento che si pensa di risolvere. La paura è che in un'economia come questa, se gli agrocombustibili danno/daranno alle imprese maggiori profitti rispetto al mais, al grano e ad altro, difatti verrà privilegiata la coltura a scopo speculativo in luogo di quella a scopo alimentare;
    i semi rappresentano il dono della natura, elevata energia in uno spazio notevolmente piccolo, un micro universo in evoluzione a cui è legata la storia dell'umanità. È compito dell'uomo salvaguardarli, responsabilità dell'uomo tramandarli alle generazioni future. Facendoli rivivere ogni anno, ogni giorno, in ogni luogo e assecondando la loro più intima natura, si provvede ai bisogni di nutrimento dell'uomo;
    il sapere accumulato sulle proprietà curative delle piante, gli effetti sulla salute e come anche su certe particolari prassi di coltivazione e interazioni con il mondo animale e vegetale, con il suolo e con l'acqua, si è ampliato ed è stato tramandato nei secoli e nei millenni. L'accelerazione delle rivoluzioni tecnologiche in tutti i campi e la crescente concentrazione del potere economico nelle mani di un ristretto gruppo di persone e imprese hanno prodotto una sempre maggiore omogeneizzazione delle strategie produttive e delle culture umane. Si stanno distruggendo, con delle modalità e ad una velocità senza precedenti, la variabilità genetica della vegetazione spontanea e della fauna, come anche la diversità delle lingue e delle culture. La rapida estinzione delle coltivazioni diversificate e delle varietà colturali e lo sviluppo di sementi non rinnovabili (gli ibridi di «proprietà riservata» e i semi sterili prodotti con la cosiddetta tecnologia Terminator) minacciano il futuro della vita del seme e, con esso, il futuro dei coltivatori e della sicurezza alimentare. La libertà di gestire i semi e la libertà dei coltivatori sono minacciate dai nuovi diritti di proprietà e dalle nuove tecnologie che stanno trasformando i semi da bene comune condiviso del mondo contadino ad un bene di consumo sotto il controllo centralizzato dei monopoli corporativi. Il libero scambio dei semi è importante per la conservazione della diversità biologica e deve contestualmente riguardare la condivisione di conoscenze e lo scambio di idee, facilitando una crescita collettiva della comunità;
    gli allevamenti intensivi si espandono sul suolo terrestre e nei mari come immense, spietate chiazze tossiche, divorando salubrità e risorse di ogni sorta. All'interno di essi, cardine dell'industria globale del cibo, finisce la metà degli antibiotici fabbricati al mondo, mentre le monocolture di cereali e soia destinate al bestiame causano deforestazioni e impoveriscono per sempre gli habitat naturali. L'allevamento intensivo, noncurante del benessere animale, reca sofferenza agli animali e danno alle comunità locali, costrette a subirne inquinamento dovuto ai gas climalteranti prodotti dalle pratiche intensive degli allevamenti. Gli stessi operatori impiegati in simili strutture risentono di condizioni di lavoro estreme a causa degli elevati livelli di ammoniaca con cui entrano in contatto;
    il livello elevato di utilizzo degli antibiotici, che si usano per allontanare le malattie da ambienti così malsani, contribuisce alla proliferazione di «super batteri» antibiotico resistenti. Il grande numero di animali da allevamento che necessita di ingenti quantità di mangime (coltivato in vaste aree agricole, usando pesanti quantitativi di acqua, energia, fertilizzanti e pesticidi) produce una quantità enorme di rifiuti, causando un serio inquinamento e degrado ambientale. I liquami di origine animale e vegetale prodotti negli allevamenti hanno un potenziale inquinante molto più elevato di quello dei liquami domestici. L'eccesso di azoto proveniente dagli allevamenti può causare l'inquinamento delle falde acquifere, aumentando il livello di nitrati nell'acqua potabile, a cui si aggiunge l'eutrofizzazione (arricchimento di sostanze nutrienti) degli acquedotti, che può causare la proliferazione di alghe (diminuisce la quantità di ossigeno presente nell'acqua), con conseguenti morie di pesci ed altri organismi acquatici, tant’è che l'Agenzia europea per l'ambiente afferma che: «è diventato un gravissimo problema nell'Europa nordoccidentale». I fertilizzanti e i pesticidi diminuiscono la biodiversità; 20 specie britanniche di uccelli hanno subìto una riduzione di popolazione di oltre il 50 per cento negli ultimi 25 anni,

impegna il Governo:

   ad assumere il diritto al cibo come un diritto fondamentale, assumendo iniziative per il suo inserimento nella Carta costituzionale;
   ad adoperarsi affinché la Carta di Milano sancisca un «patto globale per il cibo» che sia una reale assunzione di responsabilità da parte degli Stati al fine di garantire il diritto a un cibo sano, sicuro, sufficiente e accessibile per tutti, prevedendo, in particolare, i seguenti impegni:
    a) adottare iniziative a favore dell'agricoltura familiare, riconoscendo, anche giuridicamente, al coltivatore il ruolo sociale e ambientale che svolge nel proprio territorio, in particolare nelle aree considerate marginali, montane e soggette a spopolamento;
    b) incentivare un modello di alimentazione che riduca gli sprechi alimentari ed inutili scarti, promuovendo informazione e responsabilizzazione nei consumi, sostenendo percorsi premiali affinché le mense scolastiche europee offrano cibo biologico e a chilometro zero agli studenti;
    c) ostacolare il fenomeno del land grabbing, le cui vittime principali sono gli abitanti dei Paesi più poveri del pianeta, depauperati delle loro terre native e delle risorse per il proprio sostentamento, attraverso concessioni governative imposte o cessioni unilaterali in favore di grandi investitori e Governi stranieri, a scapito della sicurezza e della sovranità alimentare delle popolazioni locali che si vedono destinate solo una minima parte dei raccolti;
    d) disincentivare, su scala globale, le agricolture industriali che basano la propria strategia produttiva sulle monoculture e sull'utilizzo massiccio di fitofarmaci che si sono rivelati nel tempo un modello di sviluppo insostenibile per il pianeta e per la tutela della biodiversità, delle foreste primarie e delle risorse idriche;
    e) impedire su scala globale quelle agroenergie che ricorrono alla produzione della monocoltura agricola, valorizzando le nuove tecnologie che utilizzano gli scarti di lavorazione del processo produttivo dei beni di prima necessità, che, se non opportunamente valorizzati, si traducono in esternalità negative per l'ambiente e la società;
    f) arginare il fenomeno del consumo di suolo, prevedendo che i suoli agricoli non possano cambiare la loro destinazione d'uso e/o essere impermeabilizzati, se non in casi eccezionali e d'interesse pubblico, mitigando il dissesto idrogeologico con l'implementazione di politiche occupazionali pubbliche per il ripristino dell'equilibrio ambientale e sistemico;
    g) rafforzare la sicurezza alimentare globale, mantenendo inalterato il principio di precauzione e gli standard qualitativi e di sicurezza sui prodotti agroalimentari del mercato europeo, promuovendo su scala globale questi principi e non sottoscrivendo alcun trattato internazionale che preveda accordi al ribasso per il sistema agricolo e alimentare europeo o che possa prevedere il sistema degli arbitrati internazionali, lesivo dell'autonomia dei Governi e della stessa democrazia sociale;
    h) promuovere l'adozione di un protocollo internazionale per la movimentazione delle merci agroalimentari e intensificare il sistema dei controlli riguardo la movimentazione di prodotti agroalimentari da altri continenti, al fine di impedire l'ulteriore contaminazione e l'introduzione di parassiti e malattie esotiche per le piante e gli animali autoctoni, in modo da salvaguardare le razze e le varietà vegetali locali;
    i) sostenere il principio del libero scambio delle sementi, contrastando la diffusione delle sementi geneticamente modificate e ostacolando la brevettabilità delle sementi, che troppo spesso si traduce nel monopolio di alcune varietà da parte di grandi multinazionali del biotech, le quali limitano l'indipendenza degli agricoltori, impedendo ad essi, di fatto, la riproduzione e la selezione delle varietà vegetali e delle razze animali;
    l) adottare a livello globale un modello di allevamento, per terra e per mare, che sia rispettoso dell'ambiente ecologico e del benessere animale, in cui la mangimistica sia tracciabile, certificata e non lesiva dell'ecologia planetaria, ovvero che non amplifichi o addirittura sia causa dei processi di deforestazione, come oggi invece avviene per le coltivazioni che producono soia, mais e olio di palma, in particolare nelle zone delle foreste tropicali;
    m) mettere in atto a livello globale ogni strategia di contrasto allo sfruttamento sessuale e della manodopera dei braccianti agricoli e ponendo attenzione alle condizioni di salute dei lavoratori nei luoghi di lavoro, con particolare sensibilità relativamente alle irrorazioni di fitofarmaci cui sono sottoposti senza le necessarie precauzioni, in un'ottica di cooperazione in grado di stilare una «Carta dei diritti universali dei braccianti» impegnati nel settore dell'agricoltura;
    n) snellire le pratiche burocratiche nel settore agricolo al fine di renderle più sostenibili per chi fa agricoltura e facilitare la cooperazione fra i vari Stati, regolamentando il mercato globale agricolo in senso cooperativistico e mutualistico, soprattutto nel settore dello scambio delle merci.
(1-00776)
«Zaccagnini, Scotto, Franco Bordo, Palazzotto, Pellegrino, Zaratti, Fratoianni, Pannarale, Airaudo, Costantino, Duranti, Daniele Farina, Ferrara, Giancarlo Giordano, Kronbichler, Marcon, Matarrelli, Melilla, Nicchi, Paglia, Piras, Placido, Quaranta, Ricciatti, Sannicandro».
(8 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    l'Esposizione universale Expo 2015, che avrà luogo a Milano tra il 1o maggio e il 31 ottobre 2015, ha scelto come tema «Nutrire il Pianeta, energia per la vita», puntando l'attenzione su tutto ciò che riguarda l'alimentazione mondiale: dal problema della mancanza di cibo in alcune zone del pianeta, all'educazione alimentare, fino alla conoscenza delle attività legate alla produzione dell'agroalimentare e alle innovazioni introdotte rispetto all'agricoltura tradizionale, quali gli organismi geneticamente modificati;
    oltre agli aspetti legati alle attività economiche, la principale eredità di Expo 2015 è di contenuto e riguarda il diritto ad un'alimentazione sana, sicura e soprattutto sufficiente per tutto il pianeta, principalmente attraverso una rivalutazione dell'importanza del territorio, della redistribuzione e della genuinità del cibo, nonché della preservazione ed individuazione dei migliori strumenti di controllo e di innovazione;
    la Carta di Milano, una sorta di protocollo sul cibo che nasce da un percorso di ricerca, confronto e proposta sui temi di Expo, non è solo un documento di intenti, ma contiene una serie di impegni per cittadini, società civile ed imprese per un'alimentazione sostenibile, per il diritto universale alla nutrizione, per il contrasto al consumo del suolo agricolo e all'uso scorretto delle risorse naturali in quanto beni comuni, ed è finalizzata a sollecitare un'assunzione di responsabilità in tale direzione da parte dei Governi e dei Parlamenti di tutto il mondo;
    sostenendo la Carta di Milano anche il Governo italiano assume gli impegni che in essa sono contenuti. Il settore agroalimentare è una delle eccellenze del nostro Paese, tanto da essere l'unico settore in crescita – sia in termini di occupazione che di export di prodotti – in un momento di grave crisi economica come quello attuale; esso comprende, oltre alle grandi produzioni, anche tutti i prodotti tradizionali e locali derivanti dall'attività della piccola agricoltura contadina;
    molte sono le associazioni di cosiddetti «agricoltori contadini» che in questi anni stanno portando avanti la battaglia per il riconoscimento a livello nazionale di un'agricoltura piccola ma foriera di grande valore per la riscoperta e conservazione di colture tradizionali lavorate con metodi naturali, sostenibili e biologici;
    la piccola agricoltura contadina sposa pienamente il tema dell'Expo 2015, poiché ha come obiettivi quello di valorizzare le colture locali e disincentivare il consumo di prodotti che non siano derivanti da una filiera corta; di contemplare metodi di lavorazione, coltivazione e allevamento sostenibili e che usino la biodiversità agroalimentare come mezzo per rispondere alle sfide che impone il cambiamento climatico;
    circa 9 su 10 delle 570 milioni di aziende agricole esistenti al mondo sono gestite da famiglie e costituiscono un fattore potenzialmente cruciale di cambiamento verso il raggiungimento della sicurezza alimentare e l'eliminazione della fame; come afferma l'ultimo rapporto dell'Onu e come scrive lo stesso direttore generale della Fao, José Graziano de Silva, nell'introduzione al nuovo rapporto Fao, «le aziende agricole a conduzione familiare producono circa l'80 per cento del cibo a livello mondiale. La loro significativa presenza e la loro produzione testimoniano che esse sono cruciali per la soluzione del problema della fame che affligge 800 milione di persone (....) e che sono una componente chiave dei sistemi alimentari sani di cui abbiamo bisogno per condurre delle vite più sane»;
    è evidente che la strada da intraprendere, che verrà indicata dalla Carta di Milano, è in netta antitesi con quella adottata dalle multinazionali che producono cibo globalizzato (a danno delle tradizioni alimentari locali) e che spesso distruggono le sementi millenarie di alto valore per la sopravvivenza dell'agricoltura sana e di qualità. Infatti, è con l'agricoltura intensiva che si preparano cibi artefatti, sempre meno naturali, organismi geneticamente modificati, ridotti a qualcosa di simile al carburante necessario ad alimentare la «macchina umana» e che sottostanno all'esigenza di produrre sempre di più per consumare di più, per fare solo sempre più profitto;
    il 2015 è stato indicato dall'Onu come l'anno internazionale del suolo; è noto che esiste una stretta correlazione tra estensione della superficie agricola e sicurezza alimentare, eppure, ad esempio, in Italia il ritmo con cui si continua a perdere suolo agricolo è di 11 ettari all'ora, ovvero circa 2.000 alla settimana, 8.000 al mese. In poco meno di 20 anni si sono perduti qualcosa come due milioni di ettari coltivati, ovvero l'incredibile percentuale del 16 per cento di tutte le campagne agricole del Paese;
    la crescente sottrazione di suolo per uso agricolo rischia di incidere pesantemente sul costo dell'approvvigionamento alimentare in Italia, dove attualmente è coperto solo il fabbisogno di cibo di tre cittadini su quattro e si rendono pertanto necessarie le importazioni per coprire il restante deficit produttivo. Quindi, da una parte cresce la domanda di cibo, dall'altra diminuiscono le terre coltivate. Questa contraddizione va fermata non solo in Italia, ma in tutto il pianeta, onde evitare l'incremento della dipendenza dall'estero nel campo agroalimentare, in un contesto globale in cui le stime di Fao e Ocse parlano, per i prossimi anni, di un rallentamento della crescita produttiva mondiale, a cui si affianca però la costante crescita demografica che porterà nel 2050 a superare la soglia dei 9 miliardi di abitanti nel pianeta;
    l'Expo delle idee è stato avviato l'8 dicembre; in quella sede 42 tavoli tematici hanno dato il via ad un'elaborazione collettiva che si concluderà con la cosiddetta Carta di Milano. Il focus, come si sa, è puntato sulla nuova frontiera del diritto: il cibo per tutti. Malgrado l'ambizione, i gruppi di lavoro non hanno individuato un panel da dedicare al consumo del suolo indebolendo così le strutture dell'intero impianto;
    il 31 marzo 2015, in sede di presentazione del SOER 2015, dossier di valutazione integrata dell'ambiente in Europa, Hans Bruyninckx, direttore esecutivo dell'Agenzia europea dell'ambiente, ha sottolineato come manchi tuttora un obiettivo europeo comune sulla tutela del suolo, per il quale si prevede un trend di deterioramento anche per i prossimi 20 anni;
    l'uso sempre più frequente di fitosanitari in agricoltura specialmente se usati in maniera massiccia, può comportare danni alla salute; secondo il recente rapporto di cancerogenicità redatto dalla Iarc, l'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro dell'Organizzazione mondiale della sanità, il glifosato, principale componente di molti erbicidi, è stato classificato come «probabilmente cancerogeno» assieme ai due insetticidi malatione e diazinone; mentre per gli insetticidi parathion e tetrachlorvinphos (Tcvp), già proibiti o di utilizzo ristretto in molti Paesi, la classificazione è stata quella di «possibili» agenti cancerogeni;
    tra i fitosanitari figurano anche i pesticidi, attualmente in discussione in quanto barriere non tariffarie al commercio, oggetto di accordi come il TTIP; nell'ottica di favorire il commercio, le grandi aziende di ogni settore, incluso quello agroalimentare, puntano in accordo con la Commissione europea e il Governo degli Usa a togliere ogni barriera normativa in merito ai pesticidi non autorizzati e ai loro limiti massimi residui, seguendo la logica del minimo comun denominatore;
    uno studio dell'università di Harvard ha recentemente verificato la possibile correlazione tra il consumo di cibi contaminati da pesticidi e i problemi di fertilità maschile. L'effetto negativo di queste sostanze sulla fertilità era stato documentato solo in soggetti esposti per motivi professionali; ora invece è stato provato anche in relazione al consumo di pesticidi direttamente ingeriti attraverso l'alimentazione;
    il consumo di alimenti di origine animale, legato al modello culturale ed economico dei Paesi industrializzati, è in continua crescita, con implicazioni sulla salute, sulla spesa sanitaria, sull'ambiente e sulla sicurezza alimentare, considerato che, secondo i dati Fao, nel 2050 la popolazione arriverà oltre i 9 miliardi di persone, con il conseguente problema di raddoppiare la produzione globale di cibo, mentre le risorse sostenibili sono limitate;
    dagli anni Sessanta, infatti, l'Italia ha visto quasi triplicare i propri consumi di carne, da 31 a 87 chili nel 2011, contrariamente alle raccomandazioni delle linee guida internazionali sulla salute e alle indicazioni dell'equilibrata dieta mediterranea. Secondo l'edizione 2010 delle Dietary Guidelines for Americans, una dieta di 3400 calorie giornaliere ammette, all'anno, per non essere dannosa, un consumo massimo complessivo di carne e uova pari a 50,12 chili e di 16,2 per il pesce. I dati Fao, invece, indicano che l'Italia ha un consumo medio, rispettivamente, di 103 e di 24,6 chili annui;
    la produzione di alimenti di origine animale, dovuta alla crescente richiesta dei consumi, ha un forte impatto ambientale. È la principale causa del consumo di risorse indispensabili come l'acqua e il fosforo, sta portando al consumo e al degrado del suolo – per produrre mangimi e per la deforestazione destinata al pascolo – con conseguente minaccia alla biodiversità e alla fertilità e contribuisce, in maniera importante, all'inquinamento dell'acqua e dell'aria;
    gli allevamenti, infatti, producono il 14,5 per cento delle emissioni globali di gas serra, con un'incidenza significativa sul cambiamento climatico. Per questo, secondo l’Intergovernmental panel on climate change Ipcc – solo diminuendo il consumo di cibo di origine animale a una media di 90 grammi al giorno, come raccomandato dalle linee guida mediche inglesi, si potrebbe raggiungere, dal 2030, una riduzione di 2,15 miliardi di tonnellate di anidride carbonica l'anno,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative, anche in sede di definizione dei contenuti della Carta di Milano, per:
    a) promuovere il contenimento del consumo del suolo e il riuso del suolo edificato al fine di ottenere il reale «consumo di suolo zero»;
    b) promuovere ogni possibile metodo alternativo all'utilizzo dei fitosanitari di sintesi, ivi inclusi quelli per il comune diserbo, anche costruendo una rete di coordinamento a livello mondiale;
    c) promuovere, in occasione di negoziati internazionali volti alla conclusione di accordi commerciali internazionali, il rispetto di elevati parametri di sicurezza umana e ambientale;
    d) promuovere la riduzione del consumo di alimenti di origine animale, come azione imprescindibile per migliorare la salute dei cittadini e l'impatto ambientale, che sta portando alla perdita irreversibile di risorse naturali critiche e all'aumento delle emissioni inquinanti, indirizzando la società verso scelte alimentari consapevoli e responsabili, che possano garantire la salvaguardia dell'ambiente e un sistema più equo della distribuzione delle risorse per la futura sicurezza alimentare;
    e) sostenere un cambiamento virtuoso dello stile di vita dei cittadini verso modelli culturali, economici e sociali più salubri e sostenibili, attraverso la promozione di attività di informazione e sensibilizzazione e mediante iniziative per l'introduzione, nei luoghi di ristorazione pubblici o convenzionati, di un'adeguata alternativa di menù privi di alimenti di origine animale;
   ad intraprendere ogni utile azione, specialmente in occasione di Expo 2015, volta a promuovere un'alimentazione sana e un'agricoltura biologica e priva di organismi geneticamente modificati;
   a riservare, nell'ambito dell'esposizione, distinti padiglioni all'agricoltura biologica e di qualità e alla promozione di colture «ogm free»;
   a promuovere, nell'ambito dell'esposizione, l'agricoltura familiare, anche garantendo alle aziende che hanno tali caratteristiche la possibilità di usufruire gratuitamente di stand, i cui costi andrebbero a carico delle multinazionali presenti;
   a promuovere in sede di Unione europea la ripresa dei lavori concernenti la direttiva in materia di protezione del suolo tramite tutti gli strumenti possibili, anche considerando quelli previsti dall'articolo 20, paragrafo 2, del Trattato sull'Unione europea, e dagli articoli 326-334 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea.
(1-00778)
«Benedetti, Massimiliano Bernini, Gagnarli, Gallinella, L'Abbate, Lupo, Parentela, Busto, De Rosa, Mannino, Terzoni».
(8 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    attraverso Expo 2015, Milano sta riprogettando la propria identità di città dinamica, pronta ad affrontare le sfide del futuro, ma anche a valorizzare la propria tradizione agricola, il che significa la terra, gli spazi verdi come il Parco Sud, le cascine, i fiumi e i canali, per mettersi a disposizione del sistema Italia e per aiutare i Paesi in via di sviluppo;
    ogni idea, ogni proposta legate ad Expo, fin dalla candidatura di Milano, sono state considerate strumento indispensabile per il successo dell'evento, a condizione di essere il frutto di un contributo corale, anzitutto dei cittadini, e poi naturalmente delle istituzioni: Governo, regione Lombardia, comune di Milano, ma anche regioni e comuni di tutta Italia e inoltre, Confindustria, camera di commercio, sindacati e, soprattutto, università e centri di ricerca;
    il vero simbolo di Expo Milano 2015, per come l'Esposizione è stata concepita dagli ideatori, non è un monumento o comunque una realizzazione che rappresenti la grandezza di Milano e dell'Italia, ma una visione di futuro che identifichi Expo come progetto in divenire per un mondo nuovo dove il cibo sia sufficiente e sicuro per tutti e dove la salute, insieme al cibo, sia un diritto inalienabile di ogni persona, soprattutto dei bambini e degli anziani;
    il tema del diritto al cibo viene fatto proprio anche dalla Chiesa ed è stato oggetto nei giorni scorsi anche di una lettera dal titolo «Cibo che nutre. Per una vita sana e santa», scritta in vista di Expo 2015 dal ministro generale dei frati minori conventuali, fra’ Marco Tasca, agli oltre 4.000 frati dell'ordine in 63 Paesi dei cinque continenti, dove si sostiene, tra l'altro, che «Parlare del cibo» significa «parlare dei grandi problemi che attanagliano e preoccupano l'umanità e spinge il nostro sguardo verso orizzonti più vasti e spesso trascurati. Quello dello spreco di cibo è uno degli scandali più drammatici del nostro tempo. Quello di non sprecare dovrebbe essere per noi francescani una sorta di comandamento, perché ogni spreco di cibo (acqua, energia, suolo) è spreco della creazione e rende la terra più povera e inospitale per le generazioni future»;
    Expo Milano 2015 è stato concepito e progettato con un'attenzione particolare all'eredità culturale, infrastrutturale, economica ed umana che sarà in grado di lasciare alle generazioni future. Tra queste priorità spicca una maggiore sensibilità collettiva alle tematiche inerenti al diritto ad un'alimentazione sana, sicura, sufficiente ed equilibrata, all'accesso all'acqua per tutti gli esseri umani del pianeta e alle relative best practice necessarie a consentire la costruzione di un contesto internazionale favorevole all'efficace risoluzione dei problemi inerenti all'alimentazione e al benessere;
    l'impatto sulle potenzialità turistiche di Milano, della Lombardia e del Paese sarà elevato sia nel breve periodo (ricettività dei visitatori), sia nel medio-lungo periodo, proprio grazie alla valorizzazione del patrimonio enogastronomico italiano, oltre che turistico per la visibilità e la promozione dei monumenti e dei paesaggi naturali;
    Milano e l'Italia rappresenteranno, in virtù di Expo, e in una sorta di continuità ideale con il tema prescelto, un polo di eccellenza per la food safety, la food security, nonché per le best practice della filiera agroalimentare;
    Expo può costituire realmente un'occasione preziosa per affrontare il vasto tema della nutrizione del pianeta e dei rapporti con i Paesi in via di sviluppo, rappresentando un momento di incontro tra Paesi, culture, addetti ai lavori dei sistemi agroalimentari, tecnici e scienziati di tutto il mondo;
    in occasione dell'Esposizione universale Expo Milano 2015 verrà siglato un patto sul cibo tra nazioni e cittadini, incentrato sulla prevenzione e sullo spreco di cibo e, in particolar modo, sull'educazione alimentare, con cui fronteggiare, da un lato, lo spreco e, dall'altro, impedire che diete non salutari distorcano le reali esigenze nutrizionali dell'organismo umano;
    tra gli obiettivi di Expo 2015 c’è, infatti, quello di mettere a punto la Carta di Milano che dovrà contenere i nuovi diritti e doveri dell'umanità sul cibo, affinché gli Stati ed i cittadini possano assumersi le proprie responsabilità per garantire il diritto ad un cibo sano, sicuro e sufficiente per tutti;
    la Carta di Milano può essere uno strumento in grado di offrire un'opportunità di riflessione sui temi dell'alimentazione e del cibo. Alla Carta di Milano hanno lavorato eminenti personalità del mondo della ricerca e dell'alimentazione e l'obiettivo deve essere quello di tradurre in concretezza il loro impegno, a livello del nostro Paese, ma anche nel quadro internazionale. Tutte le iniziative «di principio» hanno un significato indiscusso se vanno nella direzione auspicata del «patto per il cibo»: valorizzazione delle peculiarità dei territori, equa distribuzione delle risorse, risparmio per evitare lo spreco;
    anche l'industria agricola e agroalimentare, assieme ad una legittima propensione ad aumentare i consumi, deve basare la sua attività su un utilizzo razionale delle risorse. A questo scopo, i Paesi che aderiscono alla Carta di Milano devono impegnarsi alla definizione di un «protocollo» locale con le associazioni delle categorie interessate;
    Expo 2015 potrebbe, inoltre, essere un'importante occasione per sensibilizzare l'intero pianeta sull'impiego abominevole che alcune realtà locali fanno dei bambini nei Paesi caratterizzati da conflitti, approfittando spesso dello stato di indigenza nel quale vivono,

impegna il Governo:

   a promuovere il made in Italy, sia attraverso un modello innovativo di rete territoriale (dato che Expo è già oggi un metodo di lavoro fondato su progetti che mettono in dialogo le eccellenze italiane con i protagonisti della vita economica, sociale, culturale delle aree del mondo coinvolte), sia con un impegno forte e concreto, soprattutto in ambito europeo, per proteggere e valorizzare il made in attraverso norme chiare e adeguate, assumendo ogni iniziativa utile in tal senso anche in sede di definizione dei contenuti della Carta di Milano;
   a promuovere il modello Expo 2015 nella solidarietà e nella cooperazione internazionale, valorizzando i progetti di sviluppo avviati in tutti i continenti, con decine di accordi stretti con le maggiori organizzazioni internazionali, come Fao, ONU, Millennium campaign, World food programme;
   a promuovere, anche nell'ambito degli impegni che saranno previsti dalla Carta di Milano, migliori stili di vita con riferimento ai problemi dei Paesi sviluppati;
   ad adoperarsi, nell'ambito dei lavori concernenti l'elaborazione della Carta di Milano, affinché prosegua l'impegno nato con Expo Milano 2015 per il trasferimento tecnologico e di conoscenza ai Paesi in via di sviluppo con riferimento alle più recenti innovazioni, per garantire, a costi contenuti, un approvvigionamento più sicuro di cibo e acqua per la popolazione;
   a promuovere l'educazione alimentare, sollecitando educatori, famiglie e istituzioni a ricercare e mettere in pratica metodi didattici innovativi, e, soprattutto, a valorizzare le istituzioni scolastiche, quale luogo di formazione di base accessibile a tutti che promuova l'inserimento nell'offerta formativa di percorsi educativi sulla nutrizione, sulla sicurezza alimentare e sull'utilizzo delle risorse alimentari del pianeta, facendo sì che l'educazione sia la strada maestra per lo sviluppo e tenendo conto che le modalità concrete con le quali realizzare progetti educativi ai diversi livelli, anche dopo Expo, necessitano certamente di significative risorse umane e finanziarie, ma costituiscono un investimento fondamentale perché Expo 2015 lasci un'eredità tangibile non solo a Milano ma anche a tutto il mondo;
   a valorizzare Milano anche dopo Expo, con particolare riguardo al contributo della città al sistema agroalimentare italiano e a tutte le sue manifestazioni ed eccellenze, per garantire continuità al progetto e al tema di Expo e far emergere a livello internazionale una città aperta al mondo e nel mondo, in grado di vincere le sfide del futuro;
   a coinvolgere sempre più in tutti i progetti futuri le realtà produttive agricole, alimentari, distributive dell'intero territorio di una regione, la Lombardia, che è la prima in Italia e una delle maggiori in Europa come peso economico assoluto del sistema agroalimentare, che esprime livelli di produttività tra i più elevati in ambito internazionale, che è una delle culle della moderna industria alimentare e della moderna distribuzione, che rappresenta un esempio di complessa e corretta gestione delle acque per gli usi agricoli, civili ed industriali, che possiede un «capitale umano», università, centri di ricerca e imprese in grado di effettuare un efficace e corretto trasferimento tecnologico;
   in vista degli obiettivi della Carta di Milano, a promuovere una collaborazione con il mondo della ricerca, dell'industria agricola e agroalimentare per creare una precisa sensibilità sui temi del risparmio e dell'utilizzo razionale delle risorse alimentari, al fine di favorire non solo i cibi sani dei territori, ma anche la più accurata definizione dei format di vendita e l'utilizzo dei prodotti invenduti;
   a sostenere un impegno preciso all'interno delle Nazioni Unite e di tutte le organizzazioni internazionali affinché anche la Carta di Milano e i sei mesi di Expo diventino un'occasione planetaria per condannare lo sfruttamento che alcune realtà locali fanno dei minori in stato di indigenza.
(1-00779) «Gelmini, Palese, Occhiuto».
(8 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    l'Expo 2015 è un evento di eccezionale importanza in quanto mette in risalto l'alimentazione e il suo valore nonché una straordinaria occasione per il rilancio economico e turistico del nostro Paese. Il tema è «Nutrire il Pianeta, energia per la vita» interamente dedicato alle questioni relative alla qualità e alla sicurezza alimentare e alla distribuzione ottimale del cibo;
    questa Esposizione universale ha come obiettivo primario quello di stimolare il dibattito sull'alimentazione e sul cibo, una vera e propria sfida che coinvolge tutti i soggetti partecipanti, inclusi i visitatori che si interrogheranno sulle conseguenze delle proprie azioni per le prossime generazioni. Mette al centro la necessità di porre un freno allo spreco di cibo ed un uso più consapevole dello stesso, a partire dalle scuole, laddove si deve sviluppare il senso più profondo del valore legato alla nutrizione attraverso campagne di educazione;
    l'Expo 2015 dovrà essere un'utile occasione sia per il pubblico, perché li porterà a scoprire le diverse identità regionali esistenti svelando affinità e differenze, che per le aziende agricole per le quali l'esposizione sarà un'occasione unica di visibilità e darà la possibilità di far conoscere i loro prodotti di qualità;
    l'obiettivo principale di Expo 2015 è quello di mettere a punto una «Carta di Milano» che contenga i nuovi diritti e doveri dell'umanità sul cibo. Un documento condiviso da consegnare al Segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, ad ottobre 2015, alla fine dell'Esposizione. Il 7 febbraio 2015 a Milano si è tenuto un primo incontro di preparazione e la prima versione della Carta sugli impegni assunti sarà presentata il 28 aprile 2015;
    la Carta di Milano nasce sulla base del Protocollo di Milano, messo a punto dalla Fondazione Barilla Center for Food and Nutrition (Barilla CFN) con l'obiettivo di abbattere lo spreco alimentare nel mondo del 50 per cento entro il 2020. La Carta quale «eredità» di Expo 2015 sarà il documento sui cui i Paesi nelle loro diverse espressioni si impegneranno a promuovere la sostenibilità alimentare nel mondo;
    ma Expo 2015 deve essere soprattutto un evento in grado di rilanciare l'economia agricola italiana e promuovere l'immagine del made in Italy agroalimentare sui mercati internazionali;
    agli agricoltori che oggi soffrono della crisi, vessati da imposizioni fiscali pesantissime, come l'Imu sui terreni agricoli – imposizione modificata per coprire parte del bonus di 80 euro, riducendo l'esenzione previgente per un valore di circa 260 milioni di euro – e che fanno i conti con il latte a 35 centesimi al litro, con la vendita sottocosto dei suinetti, con listini del mais a 15 euro al quintale che li porta a non riuscire a pagare il gasolio per innaffiare – anche per l'aumento, operato dalla legge di stabilità 2015, dell'aliquota di riduzione dei consumi medi standardizzati di gasolio da ammettere all'impiego agevolato per uso agricolo – non si può rispondere solo con le attuali finalità della Carta di Milano, ovvero con un documento che ribadisce un concetto sacrosanto quanto ovvio cioè il valore universale dell'accesso al cibo; è necessario inserire in essa precisi impegni a tutela di quei prodotti che garantiscono qualità e sicurezza alimentare altrimenti questa, così come strutturata, rischia di risultare una risposta anacronistica e priva di significato;
    ogni anno nel mondo si sprecano 1,3 miliardi di tonnellate di cibo, una quantità capace di poter sfamare quasi un miliardo di persone che oggi soffrono la fame o sono malnutrite. Nell'ambito dello spreco alimentare va citato il fenomeno delle «eccedenze» ovvero di quei prodotti alimentari che non sono acquistati o consumati – esclusi gli scarti della lavorazione – che non vengono poi recuperati per il consumo umano in un'ottica sociale o ambientale; ad oggi solo una piccola parte dell'eccedenza viene destinata mediante la donazione a food bank o enti caritativi. Nella filiera agroalimentare la quantità delle eccedenze in Italia è pari a circa 6 milioni di tonnellate l'anno e rappresenta il 17,4 per cento dei consumi. Le cause sono differenti a seconda del soggetto della filiera; ad esempio, per le aziende di trasformazione la causa è da ricercarsi nel raggiungimento della data di scadenza interna degli alimenti;
    in un periodo in cui la crisi economica spinge molte famiglie a tagliare anche la spesa alimentare e in cui l'aumento a 9 miliardi della popolazione mondiale, previsto per il 2050, porterà ad aumentare del 70 per cento la produzione agricola, nel mondo vengono comunque gettati nella spazzatura più di un terzo degli alimenti;
    molti dei prodotti alimentari destinati alle mense scolastiche non sono ottenuti da materie prime originarie dei territori in cui sono consumati, né sono riferibili alle tradizioni alimentari dei territori medesimi. È necessario assicurare una dieta equilibrata e corretta che educhi i bambini a mangiare secondo la stagionalità e la territorialità dei prodotti e sostenere le filiere locali tenendo sempre presente però le necessità di salute, di religione o esigenze particolari;
    il consumo di prodotti alimentari di qualità (dop – denominazione di origina protetta e igp – indicazione geografica protetta, attestazioni di specificità e prodotti biologici) e, più, in genere, di prodotti tipici e di territorio è riconosciuto come funzionale al mantenimento di un buon stato di salute ed è, pertanto, particolarmente indicato per i bambini, ai fini, di una corretta educazione alimentare. Il nostro Paese in Europa è quello con più prodotti a denominazione di origine protetta, a indicazione geografica protetta e di specialità tradizionale garantita (stg) con 268 prodotti iscritti nel registro dell'Unione europea che rappresentano circa un quarto delle denominazioni riconosciute a livello comunitario;
    il consumo di prodotti tipici e di qualità concorre altresì al mantenimento di forme di agricoltura ancorate al territorio e, quindi, anche alla tutela e allo sviluppo dei valori economici, sociali e culturali che sono propri dei territori di cui gli stessi prodotti sono espressione;
    così si rilancerebbe la filiera corta di produzione creando una relazione diretta tra il produttore e il consumatore che significa prima di tutto prodotti sempre freschi, genuini e di maggiore qualità, con dei costi molto contenuti e con un'attenzione anche all'ambiente. Essendo prodotti provenienti dal territorio le merci compiono meno passaggi, non devono essere imballate più volte; inoltre, vengono ridotte al minimo le emissioni di anidride carbonica derivate dal trasporto e si incentiverebbe anche la conoscenza dei prodotti tipici locali all'interno delle scuole, prodotti apprezzati e invidiati in tutto il mondo;
    Expo 2015 sarà un'occasione per mettere al centro dell'attenzione internazionale il grande tema dell'agricoltura e dell'alimentazione e della tutela del cibo dalle sofisticazioni. Le frodi e le contraffazioni nel settore agricolo e agroalimentare rappresentano un fenomeno preoccupante e, nonostante l'intensificarsi dei controlli, continuano a svilupparsi in maniera crescente e fanno perdere risorse al nostro Paese, risorse che creano indispensabili rapporti commerciali che sono fondamentali per l'economia del territorio;
    la contraffazione alimentare in Italia vale un miliardo di euro che sale a 60 se si considera il fenomeno dell’italian sounding nel mondo. La frode alimentare è un crimine particolarmente odioso perché si fonda soprattutto sull'inganno nei confronti di quanti, per la ridotta capacità di spesa, sono stati costretti a tagliare la spesa alimentare e ad optare per alimenti economici con prezzi troppo bassi per essere prodotti autentici, con conseguenze economiche e sanitarie di rilievo per i consumatori e per i produttori;
    la contraffazione e la falsificazione dei prodotti alimentari italian sounding a livello internazionale costa all'Italia 300mila posti di lavoro che si potrebbero creare nel Paese con un'azione di contrasto a livello nazionale ed internazionale. All'estero il vero nemico sono le imitazioni low cost dei cibi nazionali che non hanno alcun legame con il sistema produttivo del Paese. Due prodotti alimentari di tipo italiano su tre in vendita sul mercato internazionale sono il risultato dell'agropirateria internazionale;
    in sede di Unione europea il quadro normativo sul riconoscimento delle denominazioni e per la loro tutela è stato istituito, e aggiornato, da molti anni quindi i prodotti a denominazione di origine protetta e a indicazione geografica protetta sono riconosciuti e tutelati, mentre in ambito internazionale si rilevano l'assenza di regole multilaterali per una loro tutela globale contro l'agropirateria e la mancanza di una disciplina uniforme nel sistema commerciale;
    la trattativa sull'accordo di libero scambio tra Unione Europea e Stati Uniti, Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) è un appuntamento determinante anche per tutelare le produzioni agro-alimentari italiane dalla contraffazione alimentare e dal cosiddetto fenomeno dell’italian sounding molto diffuso sul mercato statunitense;
    la direttiva (UE) 2015/412 del Parlamento europeo e del Consiglio dell'11 marzo 2015 lascia la possibilità per gli Stati membri di limitare o vietare la coltivazione di organismi geneticamente modificati sul proprio territorio. Quindi Paesi come il nostro, che hanno scelto di vietare gli organismi geneticamente modificati, possono continuare a farlo e lo chiedono anche quasi 8 cittadini su 10 (76 per cento) che si oppongono al biotech nei campi;
    il modello della coltivazione di organismi geneticamente modificati è del tutto contrario e controproducente per gli interessi del settore agroalimentare del nostro Paese, che si basa sulla tipicità e sulla qualità. Per l'Italia, gli organismi geneticamente modificati in agricoltura non pongono solo seri problemi di sicurezza ambientale, ma soprattutto perseguono un modello di sviluppo che è il grande alleato dell'omologazione e il grande nemico del made in Italy;
    il regolamento (UE) n. 1169/2011 – entrato in vigore il 13 dicembre 2014 – in tema di etichetta prevede che non sia più obbligatoria l'indicazione in etichetta dello stabilimento di produzione e confezionamento dei prodotti alimentari. La non obbligatorietà dell'indicazione dello stabilimento di produzione comporta un grave danno al made in Italy in quanto si rischia di lasciare la libertà al produttore di produrre in qualunque sede europea o extra europea danneggiando ulteriormente le migliori produzioni nazionali;
    l'agricoltura ha un ruolo fondamentale nella tutela dell'ambiente e nello sviluppo sostenibile del territorio. L'azienda agricola deve non solo offrire al consumatore la qualità e la sicurezza dei prodotti agroalimentari ma anche conservare il più possibile il livello qualitativo e quantitativo delle risorse naturali;
    Expo 2015 sarà un evento dove l'agricoltura, il cibo e l'alimentazione giocheranno un ruolo da protagonista. Con Expo si avrà la possibilità di incidere sulle politiche dell'agroalimentare e del territorio con una modalità mai vista prima e per il nostro Paese sarà un'occasione unica per affrontare i problemi legati alla filiera agricola e mettere in risalto le qualità e il valore delle produzioni enogastronomiche del territorio italiano;
    o si entra realmente nel merito dei problemi o si rischia di farsi sfuggire un'occasione importante come Expo 2015 senza riuscire a valorizzare davvero la qualità dei prodotti italiani. Non basta un impegno formale come la Carta di Milano ma devono mettersi in campo riforme strutturali di aiuto all'agricoltura,

impegna il Governo:

   ad approfittare di Expo 2015 affinché i consumatori siano sensibilizzati ed educati, per l'approvvigionamento dei generi alimentari, ad acquistare prodotti provenienti dal territorio dalla provincia, dalla regione e dall'Italia, da reperire, principalmente, attraverso modalità finalizzate a favorire l'avvicinamento tra la fase produttiva agricola e quella di consumo;
   a prevedere condizioni adeguate, data l'importanza che riveste Expo 2015, affinché i produttori italiani di filiera corta siano in grado di presentarsi nel modo migliore al pubblico internazionale e dare, quindi, l'occasione alle qualità italiane di arrivare sui mercati esteri;
   a far sì che la Carta di Milano non sia solo un documento pomposo e vuoto e, quindi, che non abbia come unico intendimento quello di educare le generazioni future ad una corretta cultura alimentare e di prevenire lo spreco di cibo ed offrire suggerimenti su come ridurlo, ma che contenga anche proposte concrete ai problemi dell'agricoltura, in quanto essa svolge una funzione fondamentale di tutela dell'ambiente e di sviluppo sostenibile del territorio;
   a mettere in evidenza nella Carta di Milano l'ingente danno causato all'economia italiana dai falsi prodotti, nonché le scelte che possano valorizzare davvero il made in Italy affinché Expo sia un'importante occasione per indicare impegni precisi da parte dei Paesi partecipanti atti a contrastare il dilagante fenomeno della contraffazione e delle sofisticazioni in campo agroalimentare;
   a prevedere iniziative per favorire lo sviluppo di accordi bilaterali tra Unione europea e altri Paesi partner per il mutuo riconoscimento delle norme sulle indicazioni di origine e sfruttare in ambito WTO la tutela delle indicazioni di origine contro ogni forma di usurpazione e imitazione, contrastando il cosiddetto italian sounding;
   a promuovere, in sede europea, norme che estendano, di fatto, a tutti i Paesi extra Unione europea le tutele del mercato interno comunitario affinché ai prodotti a denominazione di origine protetta e a indicazione geografica protetta, in particolare italiani, venga garantita la protezione che meritano al fine di proteggerli anche in ambito internazionale;
   ad intervenire nelle opportune sedi europee affinché le denominazioni di origine protetta e a indicazione geografica protetta, in particolare dei prodotti italiani di eccellenza, continuino ad essere una priorità della Commissione europea non solo nell'ambito del TTIP tra Usa e Unione europea;
   a considerare la possibilità di reintrodurre il vincolo per le aziende produttrici di scrivere sulle etichette lo stabilimento di produzione e di confezionamento dei prodotti alimentari allo scopo non solo di tutelare la salute e la sicurezza alimentare dei consumatori ma anche di permettere loro di scegliere un alimento rispetto a un altro, anche in base al Paese o alla regione dove questo è prodotto, per la tutela anche del made in Italy;
   ad assumere iniziative per prevedere il divieto dell'uso di organismi geneticamente modificati nelle produzioni agroalimentari e forestali in campo aperto, poiché il valore aggiunto delle produzioni italiane è dato dalla loro specificità ed una contaminazione di organismi geneticamente modificati porterebbe alla distruzione del sistema agroalimentare italiano così come lo si conosce oggi, con le sue eccellenze, le sue varietà e le sue tipicità.
(1-00780)
«Guidesi, Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Busin, Caparini, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Rondini, Saltamartini, Simonetti».
(8 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    Expo è un evento di eccezionale importanza ed una straordinaria occasione per il rilancio economico e turistico del nostro Paese. Il tema scelto per l'Expo 2015 è «Nutrire il pianeta, energia per la vita» e riguarda, tra l'altro, le risorse alimentari del pianeta e la loro distribuzione ottimale;
    l'Esposizione universale, quindi, ha come obiettivo primario quello di stimolare una riflessione ed un dibattito sull'alimentazione e sul cibo;
    in questo contesto sono numerosi e fondamentali gli argomenti che verranno dibattuti al fine di ricercare ed identificare le basi essenziali per un nuovo approccio mondiale al tema proposto dall'Expo;
    tra le questioni più importanti che verranno dibattute vanno poste in evidenza: la necessità di preservare e conservare i terreni di coltivazione, assicurando anche spazi spesso oggetto di accaparramento; la limitazione ed il superamento dell'uso di pesticidi e di fertilizzanti pericolosi per la salute dell'uomo; la difesa e la protezione del bene supremo essenziale per la vita umana: l'acqua; il sostegno e l'aiuto concreto a quanti intendono dedicarsi alle attività agricole nel momento in cui si avverte forte l'orientamento del ritorno alla terra che molti giovani, per scelta o per necessità, manifestano; la difesa delle biodiversità anche attraverso il ricorso a specifici studi e ricerche scientifiche; il sostegno forte e determinato alla ricerca nel campo del consumo del suolo, delle biotecnologie, della pesca sostenibile ed altro; l'impegno a tutto campo per combattere le frodi alimentari e le contraffazioni, l'agromafia, a difesa del bene supremo costituito dalla sicurezza alimentare;
    in questo quadro si iscrive un originale, significativo progetto dell'Expo, il «We-women for Expo», che propone la forza, la capacità, l'intelligenza, la volontà delle donne come elemento base e fulcro essenziale nel rapporto cibo-cultura e per la sostenibilità del pianeta;
    in occasione dell'Expo 2015, ci sarà un confronto tra ricercatori, docenti e istituzioni su alcuni punti cruciali della sfida alimentare globale: un dibattito che perverrà alla redazione della Carta di Milano, un documento dedicato alla grande questione alimentare globale che sarà consegnata al Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon il 16 ottobre 2015;
    sarà la prima volta nella storia delle Esposizioni universali che, ad evento concluso, un Expo lascerà in eredità un manifesto di impegni e priorità frutto di un percorso condiviso e partecipato. Infatti, da circa due anni un gruppo di docenti e ricercatori coordinati da Laboratorio Expo sta lavorando alla stesura di un documento;
    una prima versione ufficiale della Carta sarà presentata il 28 aprile 2015 in occasione del terzo colloquio internazionale di Laboratorio Expo; l'ambizione della Carta di Milano è, in effetti, quella di chiedere espressamente un'assunzione di responsabilità da parte di tutti nella battaglia per il diritto al cibo e contro le diseguaglianze alimentari;
    la Carta si propone l'obiettivo di unire cittadini ed istituzioni per trovare soluzioni concrete contro i paradossi dell'alimentazione. Promosso nel 2013, il protocollo di Milano si è avvalso del parere di 500 esperti internazionali, ha raccolto l'adesione di quasi 100 istituzioni e organizzazioni pubbliche e private ed ha l'obiettivo di trovare soluzioni concrete per:
     a) combattere lo spreco alimentare dal campo alla tavola;
     b) lottare contro la fame e l'obesità, promuovendo stili di vita sani a partire dalla giovane età;
     c) incoraggiare un'agricoltura più sostenibile;
    come evidenziato dal protocollo, il sistema alimentare mondiale è segnato da forti contraddizioni: a fronte di quasi un miliardo di soggetti privi di una qualsiasi fonte di alimentazione, circa un miliardo e mezzo di esseri umani dispone di un'eccessiva quantità di cibo responsabile, peraltro, dell'aumento del rischio di malattie. Infine, ogni anno, viene disperso un terzo della produzione alimentare globale, una quantità che sarebbe sufficiente a nutrire quasi un miliardo di persone che non dispongono di fonti alimentari o sono malnutrite;
    su quest'ultimo punto insiste la necessità di sostenere un principio essenziale: l'eliminazione degli sprechi ed il sostegno al consumo responsabile, incrementando e favorendo, in tale contesto, l'impegno meritorio delle associazioni che operano basandosi sul concetto di dono e condivisione, ormai diffuse e solidamente insediate in Europa e negli Stati Uniti; in particolare, nel nostro Paese, opera alacremente e costituisce un esempio significativo il Banco alimentare, che si occupa anche della raccolta delle eccedenze agroalimentari, effettuando la redistribuzione di tali beni ad enti, associazioni, centri – sovente collegati e creati da istituzioni – e favorendo specifiche iniziative di sensibilizzazione;
    nel protocollo di Milano sono elencate misure concrete per abbattere del 50 per cento entro il 2020 lo spreco alimentare nel mondo, lottare contro la fame e l'obesità, promuovere stili di vita sani a partire dalla giovane età, incoraggiare un'agricoltura più sostenibile, opponendosi alla speculazione finanziaria sulle materie prime alimentari;
    questo protocollo sull'alimentazione sarà, come detto, il primo passo verso quell'importante documento che nascerà dall'evento Expo, ovvero la Carta di Milano;
    la Carta di Milano, pertanto, costituirà una proposta di accordo mondiale per garantire cibo sano, sicuro, sufficiente per tutti e, al contempo, dovrà delineare l'agenda per uno sviluppo equo e sostenibile. Non costituirà, quindi, soltanto una generica dichiarazione di intenti, ma una reale assunzione di responsabilità e di impegni altrettanto concreti rivolti a cittadini, istituzioni, associazioni ed imprese;
    la Carta conterrà gli obiettivi che le Nazioni Unite dovranno perseguire come impegni prioritari: promuovendo, pertanto, la Carta di Milano, il Governo italiano vuole garantire azioni mirate dirette a combattere lo spreco di cibo, favorire l'agricoltura sostenibile e contrastare fame e obesità;
    la Carta affronterà anche alcune priorità, come quelle relative all'innovazione dei processi produttivi, agricoli e alimentari per renderli sempre più sostenibili, quelle relative alle grandi contraddizioni del nostro tempo ovvero il paradosso fame/obesità e quelle concernenti la lotta allo spreco alimentare: in un quadro, peraltro, di evidenti criticità e comprensibili dubbi che non riguardano tanto lo spirito dell'iniziativa, quanto, piuttosto, la possibilità stessa di pervenire a risultati concreti;
    il problema dello «spreco alimentare» riguarda, infatti, una fetta importante dell'intero pianeta. In Italia, ad esempio, esso ammonta, annualmente, a 6,5 milioni di tonnellate, pari a 108 chilogrammi pro capite: una cifra inferiore rispetto alla media europea, ma pur sempre rilevante. Lo spreco alimentare rappresenta lo 0,23 per cento del prodotto interno lordo italiano, per un valore complessivo di 3,5 milioni di euro e con un costo medio per ogni famiglia di 1.693 euro l'anno;
    la Carta avrà tre sezioni: la prima parte sarà un manifesto riassuntivo dei principi e degli obiettivi; la parte centrale sarà dedicata ai diritti ed agli impegni di tutti i soggetti coinvolti; l'ultima parte raccoglierà tutti i documenti elaborati sui temi della sostenibilità e dell'alimentazione;
    occorre, inoltre, sottolineare come oggi, stante la grave crisi economico-sociale che ha colpito il nostro Paese, molti giovani intraprendano le professioni agricole: fenomeno quest'ultimo che porta nuove competenze al mondo agricolo e che, pertanto, va seguito con attenzione per garantire un futuro ai giovani e per sviluppare un'agricoltura di qualità;
    in questo quadro sarebbe importante prevedere, anche attraverso un eventuale impegno straordinario, la possibilità di escludere dal regime previsto dalla normativa in materia di imu i terreni utilizzati per colture agricole;
    va, inoltre, considerato come il fenomeno dell'agrimafia, che va combattuto e contrastato con tutti i mezzi, risulti in evidente espansione (si pensa, infatti, che fatturi circa 14 miliardi di euro) ed offra alla criminalità organizzata la possibilità di riciclare i propri proventi;
    in tale contesto appare opportuno che, nel quadro di un impegno reale di ogni Paese sul tema, venga implementata e rafforzata la lotta alla contraffazione. Un fenomeno nel quale spicca, sopra tutti, quello che viene comunemente definito italian sounding: l'utilizzo, cioè, di immagini, marchi, denominazioni che illudono i consumatori sulla provenienza italiana di un prodotto, che, al contrario, non ha nulla a che fare con il nostro Paese. Ed è evidente che il fenomeno riguardi particolarmente l'Italia, che dispone di un patrimonio agroalimentare unico al mondo sia sotto il profilo della varietà che della qualità: un fenomeno che arreca al nostro Paese un danno che si aggira sui sessanta miliardi di euro; motivo per cui, insieme alla volontà di firmare insieme un documento, deve diventare operativa e concreta la volontà dei vari Paesi di tutelare il made in Italy in un rapporto di garanzie e di reciprocità sempre più forte e consapevole;
    inoltre, dovrà essere sviluppato il dibattito con proposte dirette a ridurre il consumo d'acqua potabile negli alimenti, proprio per la scarsità d'acqua che oggi colpisce circa 1,2 miliardi di persone in ogni continente: ridurre, pertanto, il consumo d'acqua per gli alimenti diventa un elemento strategico,

impegna il Governo:

   a contribuire, sul piano tecnico e scientifico, ad individuare interventi e buone pratiche da tradurre in politiche pubbliche, al fine di realizzare sistemi alimentari sostenibili, costituiti da un ambiente adeguato e dall'impegno delle persone e delle istituzioni, supportato dai processi attraverso i quali le derrate agricole vengono prodotte, trasformate e portate ai consumatori;
   a contrastare, anche in sede di definizione dei contenuti della Carta di Milano, lo spreco di prodotti alimentari nella filiera alimentare, coinvolgendo, in questo tipo di impegno, anche le scuole e mettendo in campo, attraverso dedicate campagne pubblicitarie, forti iniziative di sensibilizzazione che debbono vedere in prima linea il Governo;
   a coinvolgere i cittadini in una più consapevole attenzione ai modelli nutrizionali, adoperandosi affinché, anche alla luce degli obiettivi della Carta di Milano, possa essere sviluppata un'incisiva educazione nei confronti dei consumatori in modo che aumenti sensibilmente la coscienza individuale e collettiva in relazione al valore primario del cibo; a favorire l'orientamento a modelli nutrizionali più sani attraverso il potenziamento della ricerca scientifica e tecnologica e la predisposizione di una campagna di comunicazione e di informazione ai cittadini al fine di adottare stili di vita sani;
   a promuovere, come obiettivo principale di Expo 2015, quello di affermare il primato dell'agroalimentare e della sicurezza dei prodotti made in Italy nei confronti dell'Unione europea;
   a prevedere misure emergenziali per tutelare il settore lattiero, un'eccellenza ed un patrimonio del nostro Paese che va assolutamente difeso;
   a prevedere misure concrete ed efficaci per la tutela del settore ortofrutticolo, oggi gravemente penalizzato da problematiche interne ed internazionali, che ne limitano lo sviluppo e la diffusione e ne compromettono il futuro;
   ad assumere iniziative per introdurre, nel rispetto dei vincoli di bilancio, misure agevolative per i giovani agricoltori, che, come detto in premessa, costituiscono un punto di riferimento importante per la crescita del settore agricolo e del Paese;
   a contrastare con misure adeguate il fenomeno dell'agrimafia, un pericoloso fenomeno che si sta diffondendo sempre di più nel nostro Paese;
   ad intervenire concretamente contro il consumo del suolo quale bene comune e risorsa fondamentale, soprattutto in funzione della prevenzione e della mitigazione degli eventi di dissesto idrogeologico;
   nella piena consapevolezza che la Carta di Milano non può, da sola, risolvere le questioni più gravi ed urgenti del settore, a vigilare perché la medesima non risulti un significativo ma inutile manifesto, ma costituisca un approccio concreto e realistico alle questioni che intende affrontare.
(1-00782)
«De Girolamo, Dorina Bianchi, Vignali, Alli, Tancredi».
(8 aprile 2015)

MOZIONI CONCERNENTI LA REALIZZAZIONE DEL CORRIDOIO DI VIABILITÀ AUTOSTRADALE DORSALE CIVITAVECCHIA-ORTE-MESTRE

   La Camera,
   premesso che:
    nel corso della seduta dell'8 novembre 2013, il Comitato interministeriale per la programmazione economica – Cipe – ha approvato, con prescrizioni, il progetto preliminare del corridoio di viabilità autostradale dorsale Civitavecchia-Orte-Mestre, relativo alla tratta E45-E55 Orte-Mestre;
    tale opera è ricompresa nell'elenco delle infrastrutture strategiche di cui alla delibera Cipe del 21 dicembre 2001, n. 121, in conformità a quanto previsto dalla «legge obiettivo» (legge n. 443 del 2001), e automaticamente inserita nel piano generale dei trasporti e della logistica (PGTL) approvato con il decreto del Presidente della Repubblica 14 marzo del 2001;
    come noto, il soggetto promotore del progetto autostradale risulta essere, insieme ad Anas spa, una cordata di imprese e di banche, capeggiata dalla società Gefip Holding, di proprietà dell'ex europarlamentare Vito Bonsignore, e formata da Banca Carige spa, Efibanca spa, Egis Projects sa, Ili Autostrada spa MEC S.r.L., Scetaroute sa, Technip Italy spa e Transroute International sa;
    l'autostrada Orte-Mestre costituisce una delle opere più grandi e impattanti previste nella «legge obiettivo»: copre una tratta di circa 396 chilometri, attraverso cinque regioni (Lazio, Umbria, Toscana, Emilia Romagna e Veneto), 11 province e 48 comuni e necessita di 139 chilometri di ponti e viadotti, 64 chilometri di gallerie, 20 cavalcavia, 226 sottovia, 83 svincoli, 2 barriere di esazione e 15 aree di servizio;
    il progetto prevede la realizzazione ex novo di un'autostrada a quattro corsie nel tratto Ravenna-Mestre e l'adeguamento con varianti della superstrada E-45;
    l'investimento complessivo previsto per la realizzazione dell'opera è stimato in quasi 10 miliardi di euro, circa 2 miliardi e 600 milioni di euro in più di quelli inizialmente preventivati dal Cipe;
    tale infrastruttura, che presenta un prospetto finanziario a lunghissimo termine, sarà affidata in concessione per 50 anni e verrà realizzata integralmente in regime di project financing; la società che si aggiudicherà l'appalto e la concessione dell'opera potrà inoltre beneficiare dell'applicazione della normativa per la defiscalizzazione delle opere di project financing, ai sensi della legge n. 183 del 2011, con un credito di imposta, quantificabile in circa 2 miliardi di euro, riconosciuto su Ires, Irap e Iva e valido per 15-20 anni;
    i rimanenti 8 miliardi di euro necessari per realizzare l'opera dovrebbero essere anticipati dalla stessa società privata utilizzando il sistema di project financing e di project bond, fatto salvo il sostegno pubblico, qualora le condizioni pattuite in sede di convenzione sulla base del piano economico e finanziario dovessero venire meno (ad esempio, livelli di traffico insufficienti);
    la realizzazione dell'infrastruttura in regime di project financing comporterà inevitabilmente l'introduzione di un pedaggio dell'arteria, considerata la natura dell'investimento da parte dei privati e considerate le modalità scelte per il ritorno del sopradetto investimento;
    il tracciato della nuova autostrada interferisce con importanti zone di interesse storico, paesaggistico ed ambientale come, ad esempio, il parco delle foreste casentinesi, la valle del Tevere, il delta del Po, le valli del Mezzano, la laguna di Venezia, la zona archeologica nei dintorni di Lova e la riviera del Brenta;
    solo nel tratto emiliano-veneto il consumo del suolo sarebbe stimato in 3.300.000 metri quadrati di terreno, per la quasi totalità agricolo, ed il tracciato autostradale andrebbe ad interessare 11.000 ettari di siti di interesse comunitario (Sic), 5800 zone a protezione speciale (Zps) e 8300 ettari di parchi regionali;
    come confermato dalla Commissione europea, il corridoio autostradale Civitavecchia-Orte-Mestre non è ricompreso tra i corridoi infrastrutturali e intermodali considerati strategici per lo sviluppo delle vie di comunicazione in Europa ed è considerato solo come intervento secondario complementare allo sviluppo delle reti Ten-T;
    la strada statale 309 Romea, la cui gestione è in capo alla società ANAS spa, è stata classificata, come riportato dai rilevamenti statistici dell'Aci e dell'Istat, come una delle strade più pericolose d'Italia, secondo i parametri relativi al numero di incidenti stradali per chilometro e al numero di decessi per incidente;
    Governo, regione Veneto e ANAS spa demandano la risoluzione del problema legato all'insicurezza dell'arteria strada statale 309 alla realizzazione della nuova autostrada Orte-Mestre, parallela all'attuale Romea commerciale, ma il progetto preliminare approvato dal Cipe non contiene alcun provvedimento significativo diretto alla riqualificazione e messa in sicurezza della strada statale 309 Romea;
    inoltre, gli attuali flussi di traffico e le stime di quelli futuri che interesseranno la nuova autostrada Orte-Mestre non giustificano assolutamente la costruzione di una nuova tratta autostradale di questa portata: stando a quanto riportato da associazioni e comitati, i dati del traffico commerciale che interessa la Romea sarebbero infatti crollati dal 2008 del circa 30 per cento;
    la strada statale 309 Romea registrerebbe attualmente livelli di traffico bassissimi (circa 15-18 mila veicoli al giorno), inferiori a quelli della strada regionale 11 Brentana e quindi considerati tali da non poter giustificare la costruzione di un nuovo tracciato autostradale di circa 400 chilometri le cui previsioni dei flussi di traffico sarebbero, alla luce di questi dati, inattendibili e sovrastimati,

impegna il Governo:

   a fronte delle gravi ripercussioni che la realizzazione della nuova autostrada comporterebbe in termini di consumo di suolo, aumento dell'inquinamento atmosferico ed acustico, aumento del rischio idrogeologico, danni al settore agricolo e turistico, e dell'insussistenza di stime di traffico utili a giustificarla, ad assumere iniziative per il ritiro del progetto preliminare del corridoio di viabilità autostradale dorsale Civitavecchia-Orte-Mestre – Tratta E45-E55 (Orte-Mestre);
   ad assumere iniziative per avviare, in tempi rapidi, un programma di interventi urgente per la messa in sicurezza del tracciato dell'attuale strada statale 309 Romea e della superstrada E-45 finalizzato alla riqualificazione e al potenziamento delle infrastrutture esistenti, al fine di migliorare la viabilità e la sicurezza su queste arterie;
   ad aprire un tavolo di confronto, con le associazioni, i comitati, tutte le amministrazioni locali interessate dal tracciato e le associazioni di categoria, al fine di raccogliere debitamente le loro istanze ed individuare alternative più sostenibili dal punto di vista ambientale, economiche ed efficaci rispetto alla realizzazione della nuova autostrada, sia sul breve che sul medio-lungo periodo.
(1-00531)
(Nuova formulazione) «Spessotto, Vignaroli, Colonnese, Nesci, Cozzolino, Lorefice, Silvia Giordano, Dall'Osso, Dadone, Castelli, Dieni, Grande, Di Battista, Manlio Di Stefano, Sibilia, Di Benedetto, Brescia, Nicola Bianchi, Paolo Nicolò Romano, Liuzzi, Dell'Orco, Brugnerotto, Mannino, Terzoni, Segoni, Daga, Busto, De Rosa, Zolezzi, D'Uva, Artini, Frusone, Corda, Basilio, Alberti, Pesco, Cancelleri, Villarosa, D'Incà, Businarolo, D'Ambrosio, Colletti, Baldassarre, Chimienti, Cominardi, Bechis, Tripiedi, Ciprini, Rizzetto, Da Villa, Gallinella, Lupo, Benedetti, Mucci, Gagnarli».
(9 luglio 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    l'autostrada Orte-Mestre rappresenta una delle opere più grandi, impattanti e costose tra quelle inserite nell'elenco delle infrastrutture strategiche previste dalla delibera del Comitato interministeriale della programmazione economica (Cipe) 21 dicembre 2001, n. 121, in virtù di quanto previsto dalla «legge obiettivo» (legge n. 443 del 2001);
    il progetto preliminare dell'opera, approvato dal Cipe l'8 novembre 2013, prevede l'adeguamento della superstrada E-45 nel tratto Orte-Ravenna (allargamento della sede stradale e varianti) e la realizzazione di un tracciato ex novo nel tratto Ravenna-Mestre. La Orte-Mestre, quindi, integrata con il collegamento Civitavecchia-Orte e con il quadrilatero umbro (nodo di Perugia) andrebbe a costituire un corridoio autostradale tra Civitavecchia e Mestre di ben 396 chilometri complessivi, con 20 cavalcavia, 226 sottovie, 139 chilometri di ponti e viadotti, 64 chilometri di gallerie, 83 nuovi svincoli, 2 barriere di esazione (Lughetto, Orte) e 16 aree di servizio;
    si tratta, con tutta evidenza, di un'opera faraonica che coprirebbe con la sua tratta ben cinque regioni (e segnatamente il Lazio, la Toscana, l'Umbria, l'Emilia-Romagna e il Veneto), undici province e quarantotto comuni;
    il gruppo parlamentare Sinistra Ecologia Libertà, da sempre contrario alla realizzazione dell'opera, come pure numerose organizzazioni e associazioni di rilievo nazionale, quali Rete nazionale stop Orte-Mestre, Wwf, Legambiente, Italia nostra, Mountain wilderness e Pro natura, ha spesso evidenziato in sede parlamentare che la realizzazione dell'autostrada Orte-Mestre, oltre ad essere completamente inutile e priva di qualsiasi valenza strategica in quanto non ricompresa tra le priorità della rete europea Ten-T, produrrebbe un elevatissimo impatto ambientale in termini di: consumo di suolo diretto e indotto, interferenze con moltissimi siti di importanza comunitaria (sic), zone di protezione speciale (zps), important bird areas (iba), interferenze con importanti zone tutelate (Riviera del Brenta, Laguna di Venezia, delta del Po, Valli del Mezzano, Valle del Tevere, Parco delle foreste casentinesi), danni al paesaggio e al patrimonio storico-archeologico, inquinamento atmosferico e acustico e aumento del rischio idrogeologico;
    la nuova autostrada tra Orte-Mestre rappresenterebbe, peraltro, un doppione dell'autostrada A1 e della A14-A13, senza contare che il flusso di traffico totale attuale e di previsione si attesta su livelli molto modesti ed il progetto non prevede alcun intervento concreto per la messa in sicurezza della strada statale n. 309 Romea;
    il costo preventivato dell'opera è di circa 10 miliardi di euro, di cui attualmente 1,8 miliardi di euro di contributo pubblico indiretto in termini di sgravi fiscali; la rimanente quota dovrebbe essere a carico del proponente (che risulta essere, insieme ad Anas s.p.a., una cordata di imprese e banche, capeggiata dalla società Gefip holding, di proprietà dell'ex parlamentare europeo Vito Bonsignore, e formata da Banca Carige s.p.a., Efibanca s.p.a., Egis projects s.a., Ili autostrada s.p.a., Mec s.r.l., Scetaroute s.a., Technip Italy s.p.a. e Transroute international s.a.) attraverso gli strumenti del project financing e del project bond, a fronte di una concessione della durata di ben 49 anni. Essendo però il flusso di traffico stimato molto scarso, è prevedibile che il gettito dei pedaggi non sarà sufficiente a coprire il debito generato;
    i recenti scandali relativi al Mosa, Expo e alta velocità hanno messo chiaramente in evidenza come l'attuale sistema delle «grandi opere» sia particolarmente soggetto a fenomeni di malaffare e corruzione;
    con particolare riferimento all'autostrada Orte-Mestre, numerosissimi articoli di stampa nazionale e locale, con la pubblicazione di alcune intercettazioni agli atti della procura di Firenze, hanno rivelato come nell'ambito del decreto-legge cosiddetto «sblocca Italia» sarebbe stata volutamente introdotta una disposizione speciale (segnatamente il comma 4 dell'articolo 2 del decreto-legge n. 133 del 2014) per garantire – attraverso il meccanismo della defiscalizzazione – il finanziamento pubblico indiretto dell'infrastruttura per quasi due miliardi di euro, superando così i rilievi della deliberazione n. SCCLEG/16/2014/ PREV della Corte dei conti con cui erano stati ricusati il visto e la registrazione della delibera n. 73 dell'8 novembre 2013, avente ad oggetto l'approvazione del progetto preliminare del collegamento autostradale E45-E55 Orte-Mestre;
    secondo quanto riportato dalla stampa nazionale di questi ultimi giorni il Governo si appresterebbe ad escludere l'autostrada Orte-Mestre dalle opere prioritarie dell'allegato infrastrutture al documento di economia e finanza che sarà presentato nell'ambito del prossimo Consiglio dei ministri, ma questo non significa tecnicamente che l'opera non sarà mai finanziata e realizzata, stante la vigenza del citato comma 4 dell'articolo 2 decreto-legge n. 133 del 2014 che viene incontro proprio alle richieste della Corte dei conti contenute nella delibera dell'8 novembre 2013;
    con tale delibera, infatti, la magistratura contabile aveva eccepito l'assenza di una norma che escludesse l'opera dall'ambito di applicazione dell'articolo 19, comma 2, del decreto-legge n. 69 del 2013, ossia consentisse di estendere a tale opera le disposizioni introdotte dal comma 1 del citato articolo 19, considerato che l'opera in questione è stata dichiarata di pubblico interesse il 9 dicembre 2003 e, quindi, ben prima dell'entrata in vigore del decreto-legge n. 69 del 2013. In particolare, la mancanza della norma era stata considerata «presupposto imprescindibile ai fini della pubblicazione del bando di gara» e relativamente al collegamento Orte-Mestre, le misure di defiscalizzazione – secondo quanto si evince dalla deliberazione della Corte dei conti – ammonterebbero a circa 9.237 milioni, da intendere come limite massimo riconoscibile che non potrà essere superato durante l'intera concessione;
    successivamente all'entrata in vigore del decreto-legge n. 133 del 2014, proprio in virtù della disposizione contenuta nel comma 4 dell'articolo 2 prima citato, il Cipe, nella seduta del 10 novembre 2014, ha approvato nuovamente la delibera del 18 novembre 2013 sull'autostrada Orte-Mestre,

impegna il Governo:

   ad adottare, alla luce di quanto precede, ogni iniziativa normativa finalizzata a prevedere l'immediata abrogazione del comma 4 dell'articolo 2 del decreto legge n. 133 del 2014, cosiddetto «sblocca Italia», procedendo, altresì, al ritiro del progetto preliminare del corridoio di viabilità autostradale dorsale Civitavecchia-Orte-Mestre-tratta E45-E55 (Orte-Mestre);
   a prevedere interventi puntuali per la messa in sicurezza della strada E-45 e della strada statale 309 Romea, adottando ogni iniziativa di competenza finalizzata all'implementazione e all'integrazione del trasporto ferroviario con quello fluvio-marittimo, nonché allo sviluppo del corridoio ferroviario adriatico-baltico;
   ad adottare ogni iniziativa normativa finalizzata ad una revisione sostanziale della «legge obiettivo» (legge n. 443 del 2001) che, nel corso del tempo, è stata anche peggiorata, con la possibilità di realizzare lotti funzionali e lotti costruttivi, tradendo quindi completamente la logica dei «tempi certi e costi certi» per le infrastrutture, con tutti gli effetti distorsivi che ne conseguono sulla sterminata lista di opere che si vorrebbero realizzare a giudizio dei firmatari del presente atto di indirizzo di nessuna utilità collettiva, fino alle deroghe e proroghe che diventano la regola del sistema degli affidamenti;
   a valutare con particolare attenzione l'opportunità di assumere iniziative per modificare le norme contenute nel decreto-legge n. 133 del 2014, cosiddetto «sblocca Italia», che fanno riferimento ad opere che costituiscono oggetto di indagine agli atti della procura di Firenze (quali, oltre l'autostrada Orte Mestre, anche l'alta velocità Brescia-Verona e la Cispadana tra l'A-22 e l'A-13) e ad assumere iniziative consequenziali ai rilievi mossi dal presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione in relazione alla disposizione di proroga delle concessioni autostradali, valutando l'ipotesi di abrogarla per affrontare in modo serio e trasparente il tema della concessioni autostradali nell'ambito di un nuovo provvedimento normativo ad hoc.
(1-00777)
«Scotto, Paglia, Pellegrino, Zaratti, Airaudo, Placido, Piras, Ricciatti, Ferrara, Marcon, Duranti, Fratoianni, Melilla, Quaranta, Franco Bordo, Costantino, Daniele Farina, Giancarlo Giordano, Kronbichler, Matarrelli, Nicchi, Palazzotto, Pannarale, Sannicandro, Zaccagnini».
(8 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    l'autostrada Civitavecchia-Orte-Mestre è ricompresa nell'elenco delle infrastrutture strategiche di cui alla delibera Cipe del 21 dicembre 2001, n. 121, in conformità a quanto previsto dalla «legge obiettivo» (legge n. 443 del 2001), ed è inserita nel piano generale dei trasporti e della logistica, approvato con il decreto del Presidente della Repubblica del 14 marzo del 2001;
    il corridoio autostradale Civitavecchia-Orte-Mestre è considerato un intervento complementare allo sviluppo delle reti Ten-T, quali corridoi infrastrutturali e intermodali dichiarati strategici per lo sviluppo delle vie di comunicazione in Europa;
    il Cipe ha approvato, con prescrizioni, il progetto preliminare del corridoio di viabilità autostradale dorsale Civitavecchia-Orte-Mestre, relativo alla tratta E45-E55 Orte-Mestre, nella seduta dell'8 novembre 2013;
    il 10 novembre 2014 il Cipe ha riapprovato la delibera del 18 novembre 2013 sull'autostrada Orte-Mestre, a seguito delle norme previste dal decreto-legge n. 133 del 2014, cosiddetto «sblocca Italia», che permettono la realizzazione in project financing delle grandi opere anche «per stralci», nonché il raggiungimento dell'equilibrio economico-finanziario delle medesime grandi opere attraverso la defiscalizzazione anche per quanto riguarda quelle avviate prima del 2011;
    il soggetto promotore del progetto-autostradale risulta essere, insieme ad Anas spa, una cordata di imprese e di banche, capeggiata dalla società Gefip holding, formata da Banca Carige spa, Efibanca spa, Egis Projects sa, Ili Autostrada spa, Mec s.r.l., Scetaroute sa, Technip Italy spa e Transroute international sa;
    l'autostrada Orte-Mestre è un'opera importante per il Paese che copre una tratta di circa 396 chilometri, attraversa cinque regioni (Lazio, Umbria, Toscana, Emilia-Romagna e Veneto), 11 province e 48 comuni e comprende 139 chilometri di ponti e viadotti, 64 chilometri di gallerie, 20 cavalcavia, 226 sottovia, 83 svincoli, 2 barriere di esazione e 15 aree di servizio;
    il progetto prevede la realizzazione ex novo di un'autostrada a quattro corsie nel tratto Ravenna-Mestre e l'adeguamento con varianti della superstrada E-45;
    l'investimento complessivo previsto per la realizzazione dell'opera è stimato in 9,8 miliardi di euro, da realizzare integralmente in regime di project financing; la società che si aggiudicherà l'appalto e la concessione dell'opera potrà, inoltre, beneficiare dell'applicazione della normativa per la defiscalizzazione delle opere di project financing, ai sensi della legge n. 183 del 2011, con un credito di imposta, quantificabile in circa 1,87 miliardi di euro, riconosciuto su Ires, Irap e Iva e valido per 15-20 anni;
    i rimanenti 8 miliardi di euro necessari per realizzare l'opera dovrebbero essere anticipati dalla stessa società privata, utilizzando il sistema di project financing e di project bond, fatto salvo il sostegno pubblico, qualora le condizioni pattuite in sede di convenzione sulla base del piano economico e finanziario dovessero venire meno;
    il tracciato della nuova autostrada interessa importanti zone con rilevanze di interesse storico, paesaggistico ed ambientale, come, ad esempio, il Parco delle foreste casentinesi, la Valle del Tevere, il delta del Po, le Valli del Mezzano, la Laguna di Venezia, la zona archeologica nei dintorni di Lova e la Riviera del Brenta;
    in particolare, nel tratto emiliano-veneto l'asse viario interessa 330 ettari di terreno, per la quasi totalità agricolo, 11.000 ettari di siti di interesse comunitario (sic), 5.800 zone a protezione speciale (zps) e 8.300 ettari di parchi regionali;
    la strada statale 309 Romea, la cui gestione è in capo alla società Anas spa, è stata classificata, come riportato dai rilevamenti statistici dell'Aci e dell'Istat, come una delle strade più pericolose d'Italia, secondo i parametri relativi al numero di incidenti stradali per chilometro e al numero di decessi per incidente;
    Governo, regione Veneto e Anas spa demandano la risoluzione del problema legato all'insicurezza dell'arteria strada statale 309 alla realizzazione della nuova autostrada Orte-Mestre, parallela all'attuale, ma il progetto preliminare approvato dal Cipe non contiene alcun provvedimento significativo diretto alla riqualificazione e messa in sicurezza della strada statale 309 Romea;
    per il territorio romagnolo l'arteria autostradale rappresenta una grandissima opportunità, in quanto crea un collegamento diretto e veloce con l'Europa dell'Est, producendo significativi vantaggi per lo sviluppo economico e commerciale del porto di Ravenna;
    i rallentamenti di percorrenza, i continui cantieri di manutenzione straordinaria presenti a macchia di leopardo, la scarsa capacità della sede stradale, che spesso presenta una corsia per senso di marcia o l'assenza di una banchina transitabile, e le numerose tratte marcatamente urbanizzate ai margini rendono inadatta l'infrastruttura attuale a sostenere gli elevati flussi di traffico, che in tutti i mesi dell'anno vedono la sovrapposizione del traffico passeggeri con quello pesante delle merci di breve, media e lunga percorrenza e richiedono chiaramente la trasformazione dell'asse stradale in un'arteria a percorrenza veloce con caratteristiche di autostrada;
    negli ultimi tempi gli scandali connessi alla realizzazione di alcune grandi opere pubbliche hanno messo in evidenza una serie di lacune del sistema di gestione degli appalti che in più occasioni hanno permesso l'annidarsi di fenomeni di malaffare e corruzione;
    il diffondersi di tali notizie allarmanti rischia di far penetrare nell'opinione pubblica un principio generalista, secondo cui qualsiasi opera pubblica diventi necessariamente occasione di truffe e azioni illecite;
    occorre sostenere e incoraggiare le stazioni appaltanti che operano sulla base di rigorosi principi di moralità e buona amministrazione; recentemente il presidente della regione Veneto, Luca Zaia, ha candidato sui media la regione Veneto ad una certificazione da parte dell'Anac per la buona gestione degli appalti, invitando formalmente il presidente dell'Autorità a certificare appalti e opere pubbliche venete;
    la revisione del quadro normativo sugli appalti pubblici e concessioni di attuazione delle direttive comunitarie, in corso di esame al Senato della Repubblica, rappresenta uno strumento legislativo fondamentale per correggere e riordinare il settore, verso la semplificazione, la trasparenza e la lotta alla corruzione,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative per avviare, in tempi rapidi, un programma di interventi urgenti per la messa in sicurezza del tracciato dell'attuale strada statale 309 Romea e della superstrada E-45 finalizzato alla riqualificazione e al potenziamento delle infrastrutture esistenti, al fine di migliorare la viabilità e la sicurezza su queste arterie;
   a promuovere un confronto, con le associazioni, i comitati, tutte le amministrazioni locali interessate dal tracciato e le associazioni di categoria, al fine di raccogliere debitamente le loro istanze in merito alla realizzazione del nuovo corridoio autostradale Civitavecchia-Orte-Mestre;
   a trasformare nel più breve tempo possibile l'attuale asse viario del territorio romagnolo in un'arteria a percorrenza veloce con caratteristiche di autostrada, anche rivedendo ed accorciando il tracciato nella parte appenninica con l'attraversamento dell'alta Val Marecchia, a livelli altimetrici più bassi e con la realizzazione di gallerie, sfruttando la possibilità di ottenere economie derivanti dal riutilizzo del materiale di scavo delle gallerie;
   ad assumere iniziative di carattere normativo per prevedere particolari qualificazioni e certificazioni per le stazioni appaltanti che gestiscono gli appalti pubblici con capacità tecnico-organizzativa e requisiti di moralità, competenza e professionalità, anche tenendo conto di esempi di buona amministrazione e trasparenza come quello della gestione degli appalti da parte della regione Veneto.
(1-00786)
«Busin, Gianluca Pini, Grimoldi, Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Caparini, Giancarlo Giorgetti, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Rondini, Saltamartini, Simonetti».
(9 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    il faraonico progetto dell'autostrada Civitavecchia-Orte-Mestre, tratta E45-E55 Orte-Mestre, è stato approvato, con prescrizioni, dal Cipe, con delibera n. 73 dell'8 novembre 2013 (l'infrastruttura autostradale, partendo dal porto di Civitavecchia, si dirigerebbe verso Viterbo ed Orte, giungendo a Perugia, Cesena, Ravenna, fino ad arrivare all'altezza di Mestre; il progetto, sinteticamente indicato come «E45-E55», prevede la realizzazione ex novo di un'autostrada a quattro corsie nel tratto Ravenna-Mestre e l'adeguamento con varianti della superstrada E-45; nel complesso il progetto si sviluppa per circa 396 chilometri, attraversa cinque regioni: Lazio, Umbria, Toscana, Emilia Romagna e Veneto, 11 province e 48 comuni e necessita di 139 chilometri di ponti e viadotti, 64 chilometri di gallerie, 20 cavalcavia, 226 sottovia, 83 svincoli, 2 barriere di esazione e 15 aree di servizio) e risulta essere una delle opere più costose, importanti ed impattanti tra quelle previste nella «legge obiettivo» n. 443 del 2001 (la nuova autostrada andrebbe ad impattare su numerosi siti sic-zps e zone di pregio ambientale, come la Valle del Tevere, il Parco delle foreste casentinesi, le Valli del Mezzano, il delta del Po, la Laguna di Venezia, la Riviera del Brenta, con gravissimi danni sull'ambiente e sulla salute in termini di inquinamento atmosferico e acustico, consumo di suolo, rischio idrogeologico, perdita di paesaggio e di biodiversità, oltre che sulle economie locali);
    la concessione è lunghissima (di ben 50 anni) e l'investimento complessivo previsto per la realizzazione dell'intero progetto è di circa 10 miliardi di euro, di cui 1,8 miliardi a carico dello Stato mediante il ricorso alle cosiddette defiscalizzazioni e circa 8,2 miliardi a carico del proponente, ricorrendo agli strumenti del project financing e project bond. Date queste premesse è presumibile che non sarà possibile la realizzazione dell'opera a causa degli elevati costi necessari al compimento dell'opera, se non gravando ulteriormente sulle tasche dei contribuenti;
    la Corte dei conti, con l'atto n. SCCLEG/16/2014/PREV del 17 luglio 2014, ha ricusato il visto alla delibera Cipe n. 73/2013 relativa all'opera, in quanto – come si desume dalla massima, nell'ipotesi di intervento la cui copertura finanziaria venga assicurata dalle misure in materia di compensazione fiscale introdotte dall'articolo 18 della legge 12 novembre 2011, n. 183 (legge di stabilità per il 2012), tenuto conto del contributo pubblico a fondo perduto, trattandosi, altresì, di opera con procedura di finanza di progetto dichiarata di pubblico interesse il 9 dicembre 2003 – la mancata adozione della norma che escluda la stessa dall'ambito di applicazione dell'articolo 19 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, inficia la legittimità del provvedimento;
    tuttavia, in seguito all'introduzione del comma 4 dell'articolo 2 del decreto-legge n. 133 del 2014, denominato giornalisticamente «sblocca Italia», il Governo ha superato i rilievi negativi sopra detti della Corte dei conti particolarmente centrati sulla mancata copertura finanziaria dell'opera qui in discussione;
    l'autostrada Orte-Mestre è oggetto di inchieste relative ai casi «Sistema» e «Mose» in seguito alle quali, nei giorni scorsi, vi è stato l'arresto dello storico ex-dirigente del Ministero dei lavori pubblici Ercole Incalza, nonché all'inclusione tra i 51 indagati di Vito Bonsignore, ex parlamentare europeo, già condannato a due anni nella prima «tangentopoli», proprietario dalla società Gefip holding, capofila insieme ad una cordata di imprese e di banche (Banca Carige s.p.a., Efibanca s.p.a., Egis projects s.a., Ili autostrada s.p.a., Mec s.r.l., Scetaroute s.a., Technip Italy s.p.a. e Transroute international s.a.), che, con Anas s.p.a. costituiscono i soggetti promotori della dorsale Civitavecchia-Orte-Mestre. Inoltre, l'amministratore delegato della società Ilia s.p.a. è Gioacchino Albanese, già affiliato alla loggia massonica P2, mentre la banca che dovrebbe finanziare l'opera è la Carige di Genova, che nel 2013 venne coinvolta nello scandalo che ha poi portato all'arresto per truffa del suo ex presidente Giovanni Berneschi;
    l'inchiesta «Sistema» è stata la causa delle dimissioni dell'ex Ministro Maurizio Lupi, fatto noto perché pubblicamente dichiarato dal diretto interessato, facendo temere ai firmatari del presente atto di indirizzo, per l'ennesima volta, il riemergere del cronico ed endemico legame tra la realizzazione delle «grandi opere», la distorsione o violazione delle regole e il conseguente malaffare generato da tali comportamenti;
    dal 9o rapporto sullo stato di attuazione della «legge obiettivo», elaborato dal Servizio studi Camera, Cresme ed Autorità anticorruzione si apprende che dal 2001 al 2014 le «grandi opere strategiche» sono diventate 419 ed il costo presunto pari a 383 miliardi di euro (di queste quelle inserite nell'allegato infrastrutture 2014 del Governo valgono 285 miliardi di euro, ma quelle che effettivamente hanno un progetto preliminare o definitivo approvato al Cipe hanno un valore pari a 153 miliardi di euro);
    dalla documentazione a cura del Servizio studi della Camera dei deputati, relativa alla ricerca sullo «Stato di attuazione della legge obiettivo», si può sapere che: «Le opere ultimate, considerando le opere con data di ultimazione effettiva o presunta al 31 dicembre 2014, risultano essere 40 e il loro costo è pari a oltre 6,6 miliardi di euro. Le previsioni dell'8o rapporto, considerando le opere del perimetro Cipe presenti nella tabella 0 del 12o allegato infrastrutture alla nota di aggiornamento del documento di economia e finanze 2014, indicavano la conclusione di 54 opere entro la fine del 2014 e il loro costo complessivo ammontava a circa 12 miliardi di euro, ma in base al 9o rapporto l'ultimazione entro tale data è stata confermata per sole 39 opere dal costo complessivo di 6,5 miliardi di euro. Risulta, quindi, posticipata di almeno un anno l'ultimazione dei lavori di 15 opere dal costo complessivo di circa 5,5 miliardi di euro»;
    ciò corrisponde al 4,3 per cento del totale (se si considerano i singoli lotti ultimati questa percentuale sale all'8,4 per cento del totale) e che, per quanto riguarda la tipologia di opere, il 95 per cento del totale riguarda infrastrutture nei trasporti (di queste ben il 52 per cento sono strade ed autostrade, il 35 per cento ferrovie e poco più del 6 per cento linee metropolitane);
    lo stesso Ministro Delrio, prima ancora del suo giuramento in qualità di Ministro delle infrastrutture e dei trasporti al Quirinale, ha pubblicamente affermato: «Non esistono infrastrutture né grandi né piccole, ma infrastrutture che sono utili quando sono utili alla comunità. Non bisogna pensare che le infrastrutture siano importanti quando sono grandi o quando collegano grandi poli, ci sono infrastrutture che sono necessarie alla vita della comunità (...), ci sono infrastrutture che magari fanno piccoli collegamenti ma hanno grande efficacia nella vita delle persone»;
    la componente parlamentare Alternativa Libera, insieme a moltissime altre associazioni di rilevanza nazionale, come Wwf, Legambiente, Italia Nostra, Forum salviamo il paesaggio, Mountain wilderness, Rete nazionale stop Orte-Mestre, e insieme al volere di moltissimi cittadini che in questi giorni stanno inviando numerose e-mail al fine di sensibilizzare l'attività dei parlamentari, si oppone con forza all'ennesimo inganno che si cela dietro questa maestosa quanto inutile grande opera pubblica (infatti, l'autostrada, oltre a non essere un'opera strategica, non risolve i problemi dei territori, considerando che, da rilevamenti ufficiali di diversi enti pubblici, il flusso di traffico lungo le due arterie esistenti risulta assai modesto e non giustifica una nuova autostrada, che diventerebbe solo un doppione di A1-A14-A13, e che il problema prioritario che appare come inderogabile è la messa in sicurezza della superstrada E-45 e della strada statale 309 Romea);
    innumerevoli ed oggettive sono le criticità riguardanti l'opera in oggetto, tenendo conto anche delle autorevoli indicazioni provenienti da autorevoli istituzioni pubbliche, come quelle della Corte dei conti, dell'Autorità anticorruzione, della procura di Firenze e delle moltissime associazioni di valenza nazionale, e in considerazione di quanto pubblicamente dichiarato dal Ministro Delrio,

impegna il Governo:

   ad adottare le iniziative ritenute opportune che possano determinare concreti miglioramenti per la mobilità infrastrutturale, incidendo in maniera minimale sul consumo di suolo attraverso l'elaborazione di un programma puntuale e in stretta connessione con le regioni e le istituzioni locali coinvolte, ovvero la messa in sicurezza della superstrada E-45 e della strada statale 309 Romea e l'opportuna ultimazione della superstrada che, passando per Cinelli-Monte Romano, colleghi al meglio i territori di Civitavecchia e Tarquinia con Viterbo;
   ad assumere in tempi rapidi un'apposita iniziativa normativa volta alla sostanziale modifica delle norme contenute nel decreto-legge n. 133 del 2014 (cosiddetto «sblocca Italia») e nella legge di stabilità per il 2015, che, nel solco della «legge obiettivo», ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo aprono la strada a un'ondata di opere, le quali, oltre ad essere di dubbia utilità pubblica, in molti casi sono oggetto di indagine della procura della Repubblica;
   a farsi promotore di un «dibattito pubblico» che consenta una valutazione ponderata e partecipata del cittadino, elettore, contribuente, per consentire la migliore comparazione dei costi e i benefici derivanti dalla realizzazione di ulteriori infrastrutture, al fine di supportare le decisioni delle istituzioni competenti per scegliere quali tra esse siano maggiormente utili e necessarie al territorio, alle città, alla comunità.
(1-00789)
«Segoni, Artini, Baldassarre, Barbanti, Bechis, Mucci, Prodani, Rizzetto, Rostellato, Turco».
(13 aprile 2015)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE IN MERITO ALLA SITUAZIONE OCCUPAZIONALE E PRODUTTIVA DEL COMPARTO AEREO-AEROPORTUALE

   La Camera
   premesso che:
    numerose fonti istituzionali, politiche e di informazione rappresentano il trasporto aereo italiano come un settore in cui i licenziamenti, la mobilità, la cassa integrazione, i contratti di solidarietà, i tagli salariali, il peggioramento delle condizioni di lavoro, il deterioramento delle condizioni di salute e di sicurezza in cui operano gli addetti e il dilagare della precarietà nella categoria sono il frutto di una crisi economica generale che strangola il comparto, determinando ineluttabili conseguenze sui lavoratori;
    purtuttavia si deve rilevare che la situazione complessiva del trasporto aereo italiano non può in alcun modo essere descritta semplicemente in questi termini, perché sotto il profilo meramente commerciale il comparto aereo-aeroportuale ed il relativo indotto sembrerebbero essere tutt'altro che in crisi;
    dal 2008 al 2013 in Italia, ovvero negli anni in cui la crisi ha attanagliato maggiormente l'industria del nostro Paese, il traffico passeggeri negli scali aeroportuali è aumentato del 10,3 per cento ed il traffico merci del 16,6 per cento;
    nonostante la lieve contrazione del traffico merci e passeggeri registrata nel 2012 sul 2011 e nel 2013 sul 2012 (complessivamente di poco meno del 3 per cento), la crescita, di fatto, è stata copiosa, anche a fronte della decrescita generalizzata del sistema industriale italiano;
    nel 2014 sul 2013 i dati di crescita in Italia del trasporto aereo e del traffico merci sono esaltanti, ad esempio e rispettivamente +4,5 per cento e +5,1 per cento e tutto questo certo non può dipendere unicamente neanche dallo sviluppo impetuoso del traffico aeroportuale low cost;
    infatti, importanti e qualificati studi di settore elaborati da Assoaeroporti segnalano la crescita esponenziale di passeggeri sulle tratte intercontinentali ed a lungo raggio, ovvero in un segmento di mercato ove, per il momento, la concorrenza delle compagnie low cost è meno preponderante che sul medio-corto raggio;
    nell'ambito di tale contesto di crescita, particolarmente significativo è lo sviluppo dell'intero sistema aeroportuale romano (segnatamente gli aeroporti di Fiumicino e Ciampino) per ciò che riguarda il traffico passeggeri;
    da dati significativi per l'Aeroporto Leonardo da Vinci può risultare utile evidenziare che agli inizi del mese di ottobre 2014 Aeroporti di Roma ha festeggiato il transito dell'un milionesimo passeggero in più rispetto all'anno 2013 e che solo nel mese di ottobre 2014 su ottobre 2013 la crescita del traffico passeggeri nell'aeroporto di Fiumicino ha registrato un inequivocabile +10 per cento;
    un'estate positiva per il traffico merci si è pure registrata per altri numerosi aeroporti del sud e del nord dell'Italia: Napoli, Bergamo, Venezia, Firenze e altro;
    purtuttavia, a questa inequivocabile situazione di crescita dei dati sin qui esposti fa da contraltare una situazione eccezionalmente drammatica per il lavoro e per l'intera categoria del personale da sempre operante nel comparto aereo-aeroportuale;
    circa 15.000 lavoratori del sopradetto comparto, infatti, sono stati toccati a vario titolo ed «intensità» da cassa integrazione, mobilità e contratti di solidarietà;
    il che significa che il 25 per cento della forza lavoro del comparto aereo-aeroportuale è stato interessato dall'attivazione di ammortizzatori sociali e da altri strumenti di sostegno come il fondo speciale del trasporto aereo istituito nel 2005;
    altrettanto pesanti sono state, inoltre, le ricadute sull'indotto del settore, peraltro sprovvisto di un adeguato censimento, in grado di rendere evidente «giustizia» alla «mattanza» che i lavoratori di tale ambito produttivo (pulizie, esercizi commerciali e altro) stanno subendo dal punto di vista occupazionale, dei salari, dei diritti e delle garanzie di tutela della salute, nonché di aumento della precarietà;
    a tale proposito basti ricordare che, secondo stime della regione Lazio effettuate nel 2008, all'epoca della privatizzazione di Alitalia che costò il taglio di 10.000 posti di lavoro diretti, per ogni dipendente Az licenziato si sarebbe dovuta scontare anche la perdita occupazionale sull'indotto di circa 4,5 unità: una stima successivamente corretta al ribasso per 2,1 unità in conseguenza di un singolo licenziamento in Alitalia;
    d'altra parte le cronache giornalistiche anche più recenti evidenziano situazioni in cui i licenziamenti ed i tagli del personale rappresentano il denominatore comune di tutte le ristrutturazioni effettuate nelle aziende del comparto che hanno avuto come effetto, se non addirittura scopo, quello della compressione del costo del lavoro;
    l'elenco di tutte le vertenze che interessano il comparto aereo-aeroportuale sarebbe lunghissimo ed includerebbe moltissime situazioni ancora in via di definizione oppure conclusesi tragicamente per centinaia di famiglie di lavoratori;
    tra le molte ci si limita a ricordare, senza voler sottovalutare la miriade di ulteriori micro-vertenze, quanto accaduto alla Argol che ha licenziato 76 lavoratori dopo 20 anni di attività di contratti di appalto della compagnia Alitalia: contratti che la compagnia aeroportuale ha deciso di non rinnovare, con tutti gli effetti che si possono immaginare per i lavoratori addetti alla movimentazione del materiale aeronautico negli hangar di Fiumicino che nel 2012 furono sostituiti con personale più precario e più a basso costo;
    altrettante sono le vertenze ancora in essere, molte delle quali insistono sugli aeroporti romani (in totale 41.000 dipendenti) e su quelli milanesi che, rispettivamente, rappresentano i principali poli dell'industria aeroportuale dell'Italia centro- meridionale e quello dell'Italia settentrionale;
    i casi più eclatanti sono quello della compagnia Meridiana, dove su 1634 lavoratori minacciati fino a pochi giorni fa da un licenziamento di massa, non si è ancora trovata alcuna soluzione soddisfacente, visto che dal 1o 2015 gennaio il vettore in questione si ritroverà con un organico sensibilmente ridotto, visto che 275 persone hanno scelto o si sono viste comunque costrette a licenziarsi volontariamente. Una situazione in cui non c’è nulla di cui esultare, visto che già a partire da gennaio 2015 si pone il problema di affrontare altri esuberi che corrispondono a circa 1200 posti di lavoro. Eppure, solo dall'inizio della XVII legislatura, l'intero arco parlamentare è intervenuto sulla drammatica vicenda di Meridiana con ben 27 atti di indirizzo e di controllo – di cui numerosissimi peraltro presentati dal gruppo parlamentare Sinistra Ecologia e Libertà – rispetto ai quali il Governo si è impegnato ripetutamente ad intervenire con ogni iniziativa per fronteggiare la situazione garantendo la continuità territoriale ai collegamenti da e per la Sardegna ed il rilancio della compagnia aerea Meridiana attraverso l'impiego, la tutela occupazionale e la protezione sociale dei suoi lavoratori;
    e ancora il caso di Groundcare. Come riportato dalla stampa nazionale e locale, poco prima della notte di Capodanno 2015, Groundcare, la principale società di handling aeroportuale di Fiumicino, ha avviato le procedure di licenziamento per ben 450 persone, inclusi circa un centinaio di dipendenti della Groundcare Milano, già fallita ad agosto 2013 ed in «affitto» alla stessa Groundcare. Quest'ultima vicenda da sola meriterebbe un approfondimento, anche a fronte della diffida effettuata dal curatore fallimentare della Groundcare Milano nei confronti del curatore fallimentare della Groundcare in merito alla gestione dei lavoratori e dei beni in affitto. Peraltro, nonostante le rassicurazioni profuse solo il 10 dicembre 2014 dal Ministro delle infrastrutture e dei trasporti in occasione dello svolgimento dell'interrogazione a risposta immediata presentata dai deputati Sinistra Ecologia e Libertà n. 3-01214 sulla vertenza Groundcare sull'obiettivo di favorirne la tutela occupazionale, l'evoluzione della situazione per i suoi lavoratori, la questione ha avuto, purtroppo, un epilogo agghiacciante. Nelle giornate tra il 30 e il 31 dicembre 2014, infatti, sono stati chiamati in massa a firmare la propria lettera di licenziamento circa 450 lavoratori su poco più di 850 complessivi in forza presso la società. Questi lavoratori si sono recati in una sala della Palazzina Epua di Fiumicino per ritirare la lettera di licenziamento, ma oltre alla firma di quella lettera è stata pure richiesta, per quanto risulta, anche la sottoscrizione di una liberatoria al fine di rinunciare sia al pagamento del mancato preavviso, sia all'esperimento di qualsiasi azione legale rispetto alla mancata selezione del personale da espellere. Inoltre, la firma sulla liberatoria sembrerebbe stata sollecitata con l'esplicito riferimento in forza del quale, in caso di rifiuto della sottoscrizione, oltre al mancato inserimento nel bacino di ricollocazione, il licenziamento sarebbe stato recapitato successivamente al 1o gennaio 2015, in modo da penalizzare il lavoratore nell'accesso alla mobilità che, come noto, dal 1o gennaio 2015 ha subito una drastica riduzione per effetto dell'entrata in vigore della cosiddetta «legge Fornero». Per quanto risulta ai firmatari del presente atto di indirizzo, fortunatamente, qualcuno ha anche chiamato la polizia e la liberatoria a quel punto è diventata facoltativa mentre prima veniva associata, di fatto, al rilascio della lettera di licenziamento;
    in data 8 gennaio 2015 sono oltre 200 i lavoratori della Groundcare che dalla mattina protestano all'aeroporto di Fiumicino per colpa dei licenziamenti loro notificati. La manifestazione organizzata dal Cub Trasporti è iniziata alle ore 10.00 con un presidio davanti all'ingresso del terminal T3 partenze. I lavoratori Groundcare, Alitalia e Argol dietro agli striscioni si sono mossi, avanzando lungo il perimetro dello scalo e sono arrivati al terminal T1 e sul posto si trovavano polizia e carabinieri. Le parole del consigliere comunale Erica Antonelli, membro della commissione lavoro del comune di Fiumicino, in merito al licenziamento dei lavoratori Groundcare, sono state le seguenti: «In un aeroporto internazionale come quello di Fiumicino non è il lavoro ad essere carente ma piuttosto la gestione dello stesso, incapace di fornire adeguati servizi ai passeggeri e mantenere un livello occupazione nei vari segmenti capaci di rappresentare al meglio la principale porta d'ingresso in Italia. Come già richiesto dal Sindaco Montino serve un tavolo interistituzionale sul lavoro aeroportuale, ma non solo visto anche il recente fallimento della Romana recapiti. Chiederò al Presidente della Commissione Attività Produttive e Lavoro del Comune di Fiumicino una audizione, anche con le parti sociali, per approfondire quanto appena accaduto in aeroporto»;
    in Alitalia, come noto, sono stati 2251 gli esuberi derivanti dal fallimento della privatizzazione del 2008 della compagnia: una gabella ingiustificabile, pagata sull'altare del passaggio di Cai dalle mani della cordata di «prenditori» italiani agli arabi-anglosassoni di Etihad, senza contare l'ulteriore taglio salariale destinato ad abbattersi su chi è rimasto in servizio; tutto ciò è inaccettabile se si considera che solo nel mese di maggio 2014, mentre Etihad entrava in Alitalia e venivano annunciati imminenti sacrifici, ivi compresi gli esuberi, in nome dell'interesse generale, in Alitalia erano presenti in servizio oltre 1600 lavoratori precari, concentrati nei settori di terra operativi (scalo, carico-scarico bagagli, rampa e altro), necessari per far fronte all'atavico sottorganico esistente nella ex-compagnia di bandiera italiana. Ma non solo: mentre si consegnavano le lettere di licenziamento ad oltre 1600 dipendenti, in una stanza attigua, alcuni rappresentanti della dirigenza si accingevano ad assumere 200 lavoratori a tempo determinato. Ma la desertificazione delle attività di terra della ex-compagnia di bandiera prosegue nei giorni successivi con le esternalizzazioni delle attività;
    l'attività informatica dell'Alitalia viene spezzata in due grandi tronconi (attività applicative ed attività operative) pur di favorirne la dismissione. Da subito Alitalia procede con la cessione ad Ibm di circa 70 lavoratori inseriti nelle liste degli esuberi e minacciati da un licenziamento che tutti sanno che non potrà concretizzarsi senza un grave pregiudizio dell'attività dei sistemi della compagnia, ma brandito pur di evitare che cresca l'opposizione dei lavoratori a cui lo spettro della disoccupazione farà «digerire» il passaggio delle attività. L'altro grande spezzone dell'informatica Alitalia di circa 200 dipendenti, sarà invece al momento mantenuto nella compagnia per essere poi ceduto in un secondo momento. Pesantissimo è anche il disegno che incombe su quanto resta delle attività di manutenzione degli aeromobili della compagnia, al momento concentrate nella divisione tecnica di Alitalia (ormai meno di 2000 dipendenti contro gli oltre 5000 degli inizi degli anni 2000) e in AMS (Alitalia Maintenance Systems), una società partecipata Az che si occupa della revisione dei motori, creata nel 2008 ed ormai in liquidazione. L'annuncio della reinternalizzazione delle attività di manutenzione pesante degli aeromobili, ceduta dai patrioti di Cai alla israeliana Bedec, dovrebbe essere gestita da Atitech che in parte, secondo gli annunci, utilizzerebbe parte dei 200 operai delle manutenzioni licenziati a novembre 2014;
    attualmente, tuttavia, della realizzazione del progetto Atitech non si sa nulla. In realtà le manutenzioni Alitalia continuano a subire nel silenzio generale quel pesante ridimensionamento, avviato con la privatizzazione del 2009 di Alitalia, che ha prodotto, di fatto, lo smantellamento del polo della meccanica che nell'ambito dell'aviazione costituiva una delle più importanti eccellenze esistenti su Fiumicino;
    sono rilevanti, ovviamente, le responsabilità delle istituzioni che si sono avvicendate nelle ultime legislature sia in termini generali per ciò che sta accadendo nel settore, sia in termini più specifici per ciò che, solo per fare alcuni esempi, succede per i due ambiti citati (informatica e manutenzioni): con un minimo di lungimiranza industriale le suddette incontestabili eccellenze avrebbero potuto costituire la base della costruzione di segmenti di riferimento nell'ambito della più generale industria dei trasporti, consentendo l'aggregazione di segmenti produttivi che avrebbero consentito la concentrazione e la gestione di strategiche attività, oggi frammentate in mille rivoli, con costi esorbitanti di esercizio e spesso con scadenti risultati in termini di qualità del servizio offerto;
    si segnala, inoltre, che con riferimento alla situazione di Alitalia, più recentemente, una quarantina di operai licenziati sono stati ricollocati solo a dicembre 2014, con contratti da 25 giorni e segnatamente dal 4 al 28 dicembre 2014, per le manutenzioni dei velivoli Air Berlin. E ciò appare quanto mai deprecabile, se non addirittura allucinante, considerato che la precarizzazione dei licenziati rappresenta una vera e propria beffa dei diritti dei lavoratori e la chiara dimostrazione che il lavoro in Alitalia c'era;
    infine, si segnala come 500 lavoratori di Sea Handling siano stati agevolati all'uscita dalla società di gestione degli aeroporti milanesi (Linate e Malpensa) e, di fatto, sostituiti da lavoratori interinali e precari, nel passaggio delle attività dalla citata azienda ad Airport Handling, la neonata impresa, sorta a fronte del fallimento pilotato della prima in seguito alle sanzioni dell'Unione europea, inflitte per il presunto passaggio di denaro dalla Sea alla stessa Sea Handling;
    moltissime altre sarebbero le vertenze da raccontare per descrivere il soffocamento occupazionale che caratterizza il comparto aereo-aeroportuale;
    tutte, però, evidenziano l'enorme contraddizione esistente tra lo sviluppo del mercato del trasporto aereo e le ricadute che sul piano della tutela e della protezione sociale si stanno riflettendo sul mondo del lavoro;
    emblematico a tale proposito il comportamento di una consistente pletora di aziende del comparto aereo-aeroportuale che, nel passaggio delle attività da un'impresa all'altra nel liberalizzato mercato del settore in questione, si rifiutano di applicare la clausola sociale, ovvero l'unico istituto contrattuale di tutela occupazionale che prevede la «riprotezione» dei dipendenti e che, qualora fosse rispettata, eviterebbe l'espulsione di centinaia e centinaia di lavoratori; nella vertenza Groundcare, ad esempio, come anche è stato evidenziato dallo stesso curatore fallimentare, se fosse stata applicata la clausola sociale, decine e decine di lavoratori non sarebbero stati inclusi nei 450 licenziamenti effettuati recentemente, in quanto sarebbero restati in servizio, alle dipendenze delle società che hanno rilevato, anche negli ultimi tempi, le attività dalla stessa Groundcare, peraltro contribuendo ad affossarla e ad accelerare il definitivo fallimento;
    paradossale appare pure che in tale contesto la spesa pubblica sia concentrata al solo fine di assicurare un sistema di ammortizzatori sociali al personale espulso dalla produzione: un investimento pubblico a perdere, sperperato anche per finanziare la ristrutturazione delle imprese del comparto che espellono forza lavoro precedentemente più garantita al fine di sostituirla con personale precario e a basso costo, quasi a voler investire denaro pubblico per evitare l'esplosione di un dissenso sociale la cui deflagrazione, senza i dovuti interventi, potrà essere solo rinviata;
    si evidenzia, infine, come più volte siano stati invocati dagli stessi addetti operanti presso il comparto aereo-aeroportuale interventi della magistratura e degli organismi ispettivi del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, nonché delle strutture sanitarie atte a rilevare le condizioni di igiene e sicurezza dei lavoratori. Alcuni lavoratori hanno segnalato altresì l'opportunità che venga aperta al più presto un'inchiesta da parte della Commissione antimafia sull'assegnazione degli appalti nel settore e negli aeroporti italiani, perché le irregolarità, se non addirittura le infiltrazioni della malavita organizzata, sembrerebbero essere piuttosto evidenti sia negli aeroporti romani sia in quelli milanesi, come in altri aeroporti italiani. A Fiumicino, ormai, l'evidenza è stata per altro messa in luce e anche certificata dalla cronaca giudiziaria, con gli arresti di responsabili della Meridional, azienda che ha gestito fino al 2014 un appalto delle pulizie all'aeroporto di Fiumicino. Ma è evidente che questa potrebbe rappresentare solo la punta di un iceberg enorme che dovrebbe essere preso in esame dalle autorità competenti,

impegna il Governo:

   a porre in essere ogni iniziativa, anche normativa, tesa ad affrontare in modo efficace la gravissima crisi occupazionale che sta interessando l'intero comparto aereo-aeroportuale di cui i casi Alitalia, Meridiana, Groundcare, Sea Handling e Argol rappresentano solo alcuni di quelli più eclatanti, anche considerata l'enorme contraddizione esistente con lo sviluppo del mercato del trasporto aereo italiano;
   a porre in essere ogni iniziativa, anche normativa, finalizzata a consentire una moratoria dell'esercizio provvisorio e della licenza di Groundcare in attesa della definizione del sistema aeroportuale romano;
   ad adoperarsi affinché la vertenza Meridiana si risolva con la possibile garanzia del mantenimento dei livelli occupazionali ad oggi esistenti, al fine di impedire che si disperdano forze lavoro qualificate come quelle operanti nella sopradetta compagnia, nel quadro della necessità di avviare urgentemente un tavolo di confronto con il Governo sulla questione sarda basilare per la messa in campo di un necessario e quanto mai urgente piano per la rinascita economica e sociale della Sardegna che, secondo gli ultimi dati diffusi dall'Inps, conta circa 350.000 persone al di sotto della soglia di povertà relativa e 138.588 pensionati in situazione di povertà assoluta, considerato pure che, secondo i dati Istat, in Sardegna ci sono 119.000 disoccupati e 130.000 sfiduciati e ammonterebbe a circa 16.000 il numero dei lavoratori in mobilità;
   ad avviare un'indagine conoscitiva sulla situazione produttiva e occupazionale del comparto aeroportuale italiano, con specifico riferimento ai temi dell'emergenza e della condizione di precarietà che caratterizza il personale operante in tale settore, al fine di approfondire, in particolare, i fattori che incidono sulla capacità del sistema aeroportuale di garantire e incentivare il lavoro, valorizzando altresì l'occupazione delle giovani generazioni;
   a farsi promotore di ogni iniziativa di competenza tesa all'accertamento della presenza di eventuali irregolarità sotto il profilo della sicurezza e della tutela igienico-sanitaria dei lavoratori operanti nel comparto aereo-aeroportuale, nonché a svolgere le verifiche di competenza sugli appalti con specifico riguardo a quanto esposto in premessa;
   a salvaguardare e rilanciare il patrimonio industriale del trasporto aereo italiano in considerazione delle grandi potenzialità e delle prospettive che l'intero settore del trasporto e del turismo offrono al nostro Paese, promuovendo con sollecitudine un piano di sviluppo nazionale per il reimpiego e la valorizzazione dei lavoratori del comparto in possesso di know how e di risorse estromesse dal ciclo produttivo sin dal 2008;
   a porre in essere ogni atto di competenza finalizzato a chiarire i tempi e le modalità attraverso le quali il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti e l'Enac intendano definire i criteri di selezione del bacino costituito dal personale licenziato da cui dovranno attingere le aziende per le future assunzioni e per l'attivazione dei contratti di ricollocazione, così come definiti dalla legislazione vigente e avviati in forma sperimentale nel comparto del trasporto aereo.
(1-00694)
(Nuova formulazione) «Scotto, Airaudo, Placido, Zaratti, Piras, Ricciatti, Ferrara, Marcon, Duranti, Fratoianni, Melilla, Quaranta, Franco Bordo, Costantino, Daniele Farina, Giancarlo Giordano, Kronbichler, Matarrelli, Nicchi, Paglia, Palazzotto, Pannarale, Pellegrino, Sannicandro, Zaccagnini».
(9 gennaio 2015)

   La Camera
   premesso che:
    il processo di liberalizzazione totale del mercato del trasporto aereo ha prodotto una situazione di forte competizione e di estremo squilibrio in tutta Europa;
    la conseguente difesa dei mercati e delle aziende dei Paesi europei più forti, a discapito di quelli meno ricchi e meno strutturati nel settore, ha accentuato in modo esorbitante il divario tra di essi in tutte le attività economiche e produttive inerenti il settore in parola;
    il suddetto processo di deregulation, l'avvento delle compagnie low cost e dell'alta velocità, le stringenti normative europee hanno, di fatto, accentuato, nel corso degli ultimi anni, le criticità insite nel sistema aeroportuale italiano, determinando una serie di aspre conflittualità, che inevitabilmente si sono riverberate sui lavoratori del comparto;
    le scarse misure di controllo, di verifica e, soprattutto, di programmazione delle politiche economiche del settore in Italia (che, nel corso di una decina d'anni, ha visto il susseguirsi di ben quatto piani nazionali, di cui l'ultimo ancora in corso di approvazione) hanno ampliato l'instabilità del sistema, alimentando in modo esponenziale la ricerca della sopravvivenza economica delle aziende attraverso un sistema industriale non più sano e una rincorsa spasmodica alla riduzione dei costi, determinando ripercussioni disastrose sull'occupazione;
    gli eventi di carattere internazionale, dalla guerra agli attentati terroristici, hanno sicuramente influito negativamente su una situazione già grave, ma possono essere indicati esclusivamente come fattori contingenti e non fondamentali;
    paradossalmente, nonostante i dati rappresentino una realtà in contrazione, il traffico aereo passeggeri degli aeroporti italiani ha avuto dal 2008 ad oggi uno sviluppo consistente, costituendo di conseguenza uno dei settori economici e di servizi che incamera profitti;
    tutte le aziende del settore, ed Alitalia in primo luogo, sono sempre state legate intimamente al mondo politico ed istituzionale, che, anziché produrre un processo virtuoso di mantenimento del «pubblico» e dello Stato in un settore strategico per il nostro Paese, ha istituito un sistema instabile;
    alcune responsabilità, oltre che al management, sono anche da addebitare al mondo sindacale, che sottoscrivendo il piano industriale di turno, accetta le situazioni tampone proposte dal sistema politico;
    le vicende che hanno portato la vecchia compagnia di bandiera ad un mutamento dell'assetto societario e le conseguenti procedure di riassetto e di riorganizzazione di Alitalia-Cai suggeriscono una riflessione urgente, anche alla luce della nuova crisi che ha investito il gruppo Meridiana;
    da diversi anni, la seconda società di bandiera, il gruppo Meridiana, vettore infrastrutturale strategico per garantire la viabilità aerea da e per la Sardegna, è interessato da una profonda crisi aziendale, che ha indotto i vertici societari a ricorrere all'istituto della cassa integrazione per migliaia di dipendenti di Meridiana fly, Air Italy e Meridiana maintenance;
    il gruppo Meridiana, di proprietà del fondo Akfed, è stato ciclicamente salvato da continue iniezioni di capitale;
    il nuovo assetto societario avrebbe dovuto rendere maggiormente competitiva ed efficiente la compagnia, creando al tempo stesso i presupposti per il risanamento aziendale;
    le suddette acquisizioni si sono rivelate fallimentari, dando vita, nel 2006, a una flessione negativa patrimoniale di 200 milioni di euro; il gruppo, a partire dal 2007, ha inoltre registrato margini lordi negativi, con una contrazione debitoria di 300 milioni di euro fino ad oggi;
    sulla base dei dati negativi esposti, Meridiana, Governo e sindacati, nel 2011, hanno concluso un accordo per concedere la cassa integrazione guadagni straordinaria, a zero ore, su base volontaria. Nel 2013 il numero medio dei dipendenti del gruppo Meridiana era pari a 1.694 addetti, di cui 1.011 personale di terra e 683 personale di volo, con una riduzione complessiva di 403 unità rispetto al 2012 mediante utilizzo della procedura di cassa integrazione guadagni straordinaria. Nel corso del 2014 la situazione di crisi di Meridiana spa si è ulteriormente aggravata, spingendo i vertici della società ad annunciare un piano di ristrutturazione che prevede la messa in mobilità di 1.634 dipendenti, «in esubero strutturale», di cui 1.478 dipendenti del settore del trasporto aereo (262 piloti, 896 assistenti di volo e 320 dipendenti personale di terra) e 156 dipendenti di Meridiana maintenance, che cura i servizi di manutenzione; nel contempo, è stata avviata la sostituzione della flotta che prevede l'acquisto di 20 aerei Boeing entro la fine del 2015;
    di fatto, i numeri del piano di ristrutturazione prefigurano un sostanziale ridimensionamento della seconda compagnia di trasporto aereo nazionale, il cui futuro si prospetta del tutto incerto e senza obiettivi industriali credibili;
    quella che doveva essere un'operazione di salvataggio dell'azienda si configura, invece, a giudizio dei firmatari del presente atto di indirizzo, come una vera e propria operazione di dumping;
    il costo del lavoro è sicuramente una componente rilevante del deficit di bilancio, ma ci sono anche dei punti deboli non superati della compagnia aerea. Tra i nodi in questione, un organico sovradimensionato che deve mantenere una flotta considerevole e, in parte, obsoleta. La compagnia utilizzerebbe aeromobili acquistati negli anni ’80, che la maggior parte delle compagnie moderne non utilizza o sta dismettendo. Al contempo, gli aeromobili più moderni, tra cui gli Airbus 320, i Boeing 737 e 767 sono in affitto, per cui hanno un costo anche se restano fermi;
    l'eccesso di personale è in parte legato ad una serie di contenziosi legali che hanno comportato assunzioni obbligatorie, imposte dall'autorità giudiziaria. Infatti, alcuni dipendenti sono stati assunti con i contratti delle aziende di provenienza, risalenti ai primi anni duemila. Si tratta di contratti a tempo determinato e in massima parte di carattere stagionale, soprattutto per il personale proveniente da Eurofly. Oltre 500 lavoratori, assunti inizialmente per 2 o 3 stagioni, hanno impugnato il contratto originario e preteso, in alcuni casi, il reintegro e, in altri, un risarcimento pecuniario, determinando, per la società, un eccesso di personale e l'obbligo di risarcimento delle controparti;
    il licenziamento di 450 lavoratori della società GroundCare, la principale società di handling aeroportuale di Fiumicino, è davvero emblematico. Secondo quanto diffuso dai media, tra il 30 e il 31 dicembre 2014, sarebbero stati chiamati in massa a firmare le «liberatorie», per la rinuncia al mancato preavviso e per non presentare ricorso opponendosi al licenziamento stesso, circa 450 lavoratori su poco più di 850 complessivi in forza presso la società. Detto licenziamento sarebbe stato recapitato successivamente al 1o gennaio 2015, in modo da penalizzare il lavoratore nell'accesso alla mobilità che, come noto, dal 1o gennaio 2015 ha subito una drastica riduzione per effetto dell'entrata in vigore della cosiddetta legge Fornero;
    tra le molte vertenze si segnala quanto accaduto alla Argol che ha licenziato 76 lavoratori dopo 20 anni di attività di contratti di appalto della compagnia Alitalia: contratti che la compagnia aeroportuale ha deciso di non rinnovare, con tutti gli effetti che si possono immaginare per i lavoratori addetti alla movimentazione del materiale aeronautico negli hangar di Fiumicino che nel 2012 sono stati sostituiti con personale più precario e più basso costo;
    altrettanto sconcertante appare la vicenda di 500 lavoratori di Sea handling, agevolati all'uscita dalla società di gestione degli aeroporti milanesi (Linate e Malpensa) e, di fatto, sostituiti da lavoratori interinali e precari, nel passaggio delle attività dalla citata azienda ad Airport handling, la neonata impresa, sorta a fronte del fallimento pilotato della prima in seguito alle sanzioni dell'Unione europea, inflitte per il presunto passaggio di denaro dalla Sea alla stessa Sea handling, che la controlla. La Sea, a sua volta, è posseduta al 54 per cento dal comune di Milano e al 44 per cento da una serie di altri azionisti minori, sia pubblici che privati;
    per quanto riguarda la società Alitalia la prevista ristrutturazione determinerà esuberi strutturali pari a 2.250 unità;
    tale ristrutturazione, prevista all'interno di un organico piano industriale, ha richiesto un investimento di Etihad pari a 1,25 miliardi di euro da qui al 2018, sacrificando, in nome dell'interesse generale, oltre 1.600 lavoratori precari, concentrati nei settori di terra operativi (scalo, carico-scarico bagagli, rampa e altro), purtuttavia procedendo all'assunzione di 200 lavoratori a tempo determinato. Tali licenziamenti continuano ad avere ripercussioni negative sulle attività di terra della ex-compagnia nazionale, costretta a esternalizzare dette attività;
    l'attività informatica dell’Alitalia viene spezzata in due grandi tronconi (attività applicative ed attività operative) pur di favorirne la dismissione. La cessione ad Ibm determina il licenziamento di circa 70 lavoratori inseriti nelle liste degli esuberi. L'altro grande spezzone dell'informatica di circa 200 dipendenti sarà, invece, mantenuto integro, nelle more di una successiva cessione. Relativamente alle restanti attività di manutenzione degli aeromobili della compagnia, al momento concentrate nella divisione tecnica di Alitalia (ormai meno di 2.000 dipendenti contro gli oltre 5.000 degli inizi degli anni 2000) e in Ams (Alitalia maintenance systems), una società partecipata da Alitalia che si occupa della revisione dei motori, creata nel 2008 ed ormai in liquidazione, si profila la reinternalizzazione dei 200 operai delle manutenzioni licenziati a novembre 2014, da impiegare nelle attività di manutenzione pesante degli aeromobili, ceduta da Cai all'israeliana Bedec e gestita da Atitech,

impegna il Governo:

   ad avviare un'indagine amministrativa sulla situazione produttiva e occupazionale del comparto aeroportuale, in modo tale da farsi garante di una soluzione che tenga conto della salvaguardia dei posti di lavoro e della dignità dei lavoratori coinvolti e delle rispettive famiglie, di cui i casi Alitalia, Meridiana, Groundcare, Sea handling e Argol rappresentano solo alcuni di quelli più eclatanti;
   a fornire ogni utile elemento sullo stato della vertenza Meridiana, con particolare riguardo al piano di ristrutturazione e riorganizzazione aziendale ed al futuro occupazionale dei dipendenti interessati;
   ad adottare tutte le possibili iniziative, nell'ambito delle proprie competenze, a livello nazionale ed europeo, affinché forme di deregulation come quella attuata dalla compagnia di proprietà dell'Aga Khan (che ha acquistato la Air Italy trasferendovi tutta la forza lavoro di Meridiana ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo al solo scopo di risparmiare) siano vietate;
   ad adottare iniziative volte ad impedire il ripetersi di operazioni quali quella verificatasi tra Meridiana fly e Air Italy, al fine di evitare che i lavoratori si trovino costretti ad accettare contrattazioni al ribasso per non essere licenziati;
   a porre in essere, per quanto di competenza, ogni iniziativa di vigilanza e ispezione da parte delle autorità competenti, per verificare la presenza di eventuali irregolarità sotto il profilo della sicurezza e della tutela igienico-sanitaria dei lavoratori operanti nel comparto aero-aeroportuale, nonché a svolgere le verifiche di competenza sugli appalti, con specifico riferimento a quanto espresso in premessa;
   a porre in essere iniziative che consentano di verificare eventuali abusi di personale tecnico del comparto aereo, che, pur usufruendo dell'istituto dell'ammortizzatore sociale, offre la prestazione professionale a compagnie che hanno sede all'estero;
   ad approvare al più presto un piano nazionale aeroporti in grado di rispondere alle reali esigenze di mobilità, tale da favorire la definizione dei piani industriali necessari al rilancio delle società di gestione aeroportuali e una rapida approvazione dei contratti di programma da parte dell'Enac, mettendo in atto le condizioni per la ripresa dell'intero settore e facendosi promotore di una soluzione che salvaguardi gli attuali livelli occupazionali;
   a valutare i benefici contrattuali ed occupazionali del settore del trasporto aereo che scaturiscono dall'approvazione del contratto di settore da parte delle associazioni datoriali di categoria e dei sindacati confederali, considerando che tale contratto di settore ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo procede in direzione opposta alla politica governativa, che, invece, punta ad una definizione di contratti aziendali più flessibili e variabili a seconda delle diverse esigenze aziendali;
   a porre in essere ogni iniziativa di competenza finalizzata a chiarire i tempi e le modalità attraverso le quali il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti e l'Enac intendano definire i criteri di selezione della platea dei lavoratori licenziati da cui dovranno attingere le aziende per le future assunzioni e per l'attivazione dei contratti di ricollocazione, così come definiti dalla legislazione vigente e avviati in forma sperimentale nel comparto del trasporto aereo;
   alla luce della comunicazione della Commissione europea sugli aiuti di Stato agli aeroporti e alle compagnie aeree (2014/C 99/03), a valutare l'opportunità di impiegare le risorse del fondo speciale trasporto aereo per garantire il mantenimento del livello occupazionale, lo sviluppo e la ripresa del sistema aeroportuale, anziché destinarle al mero sostegno al reddito, anche considerati i risultati finora conseguiti;
   in conseguenza di quanto sopra detto, a valutare quale sia l'effettivo utilizzo delle somme di cui agli articoli 4, comma 75, e 2, comma 47, della legge n. 92 del 2012 nell'ottica di alimentare il fondo speciale per il sostegno del reddito e dell'occupazione e della riconversione e riqualificazione del personale del trasporto aereo.
(1-00774)
«Cominardi, Paolo Nicolò Romano, Tripiedi, Lombardi, Ciprini, Chimienti, Dall'Osso, Liuzzi, Dell'Orco, De Lorenzis, Carinelli, Spessotto, Nicola Bianchi».
(8 aprile 2015)

   La Camera
   premesso che:
    il trasporto aereo costituisce un fattore fondamentale per la crescita del sistema economico-sociale del nostro Paese. Esso ha assunto da tempo in Italia una rilevanza strategica nell'ambito dell'intero sistema dei trasporti interni e di collegamento internazionale: rilevanza destinata a crescere ulteriormente in relazione alle rotte ed al numero dei vettori impiegati;
    un recentissimo studio di Aci Europe evidenzia, altresì, come gli aeroporti in Europa contribuiscano alla crescita economica del continente, generando nel complesso 675 miliardi di euro all'anno, pari al 4,1 per cento del prodotto interno lordo europeo;
    per il trasporto aereo la Commissione europea prevede che, nonostante la grave crisi economica che ha colpito i Paesi europei, vi sia un trend di sviluppo positivo entro il 2030, con un raddoppio del traffico aereo globale a livello mondiale;
    è da sottolineare, in particolare, come in Italia, le previsioni dell'evoluzione del traffico aereo nel medio e lungo periodo, secondo quanto riportato dall'indagine conoscitiva svolta nella XVI legislatura dalla Commissione trasporti, poste e telecomunicazioni della Camera dei deputati, prospettino un rilevantissimo incremento. Infatti, sono state elaborate proiezioni secondo le quali nel nostro Paese si passerà dai 133 milioni di passeggeri nel 2008 a circa 230 milioni nel 2020;
    nel 2014, secondo le stime di Assoaeroporti, il traffico aereo italiano è tornato a crescere dopo due anni di contrazione. Il sistema aeroportuale italiano ha, infatti, registrato, rispetto all'anno 2013, un incremento del traffico passeggeri pari al 4,5 per cento e un aumento dei volumi di merce trasportata pari al 5 per cento. In particolare, i passeggeri transitati nei 35 scali monitorati da Assoaeroporti sono stati, nel corso del 2014, 150.505.471, corrispondenti a 6,4 milioni di passeggeri in più rispetto al 2013. Gli scali di Roma Fiumicino, Milano Malpensa, Milano Linate, Bergamo e Venezia si confermano i primi cinque aeroporti italiani di passeggeri transitati. In particolare, sul risultato complessivo ha inciso positivamente sia la ripresa del traffico nazionale, che registra un incremento del 2,5 per cento rispetto al 2013, sia la netta crescita del traffico internazionale, con un 5,9 per cento in più, sia quella del traffico dell'Unione europea, che registra un più 7,5 per cento rispetto al 2013. La valenza della crescita del trasporto aereo nel 2014 è resa ancora più significativa dal fatto di essere superiore di 1,7 milioni di passeggeri rispetto ai volumi di traffico del 2011, ultimo anno di crescita del traffico aereo in Italia;
    nonostante i dati registrati nel 2014 (che denotano un trend di crescita positivo per il trasporto aereo), occorre evidenziare come vi sia una situazione grave per quanto riguarda l'occupazione del personale che opera nel comparto aeroportuale;
    la grave crisi economica che ha colpito così profondamente il nostro Paese ha, infatti, determinato un contraccolpo negativo nei vari settori produttivi, colpendo anche il comparto aeroportuale: di fronte alla condizione di evidente difficoltà le varie imprese hanno cercato di porre rimedio ricorrendo a piani di razionalizzazione, sia dei voli stessi che del personale. Ed in altri casi (come quello di Alitalia) a fusioni con altri operatori;
    tra i casi di crisi aziendali che riguardano l'intero settore aeroportuale suscitano particolare preoccupazione quelle riguardanti Alitalia, Meridiana, Groundcare, Sea handling e Argol;
    tale crisi ha messo in grave difficoltà le prospettive di lavoro di famiglie e la dignità di moltissimi operatori presenti nell'indotto;
    il rapporto annuale dell'Enac ha messo in evidenza le principali cause di difficoltà che i vettori italiani hanno dovuto affrontare nel corso del 2013: esse sono legate ad elementi congiunturali amplificati dalla perdurante crisi economica, dalla frammentazione della quota di mercato, dalla competizione delle compagnie low cost e dei charter. Le compagnie, pertanto, hanno dovuto attuare processi di ristrutturazione aziendale al fine di recuperare competitività, migliorare la produttività e ridurre i costi. Secondo il rapporto Enac, inoltre, hanno inciso sull'andamento delle compagnie aeree nel 2013: l'aumento del costo del carburante (con il petrolio oltre i 100 dollari al barile), l'incremento delle tariffe aeroportuali e di navigazione aerea ed il calo della domanda dovuto ad una diminuzione della propensione al consumo;
    è da sottolineare, altresì, come due fattori, tra loro fortemente interrelati, hanno reso possibile una sostanziale modifica delle condizioni di produzione e di fruizione del servizio aereo: il processo comunitario di liberalizzazione del trasporto aereo (che ha avuto piena attuazione a partire dal 1997) e la successiva intensificazione delle dinamiche competitive hanno favorito la crescita del numero dei concorrenti, un aumento dell'offerta proposta su numerose rotte ed una conseguente riduzione delle tariffe. Questo processo è divenuto irreversibile ed ha comunque prodotto, sostanzialmente, condizioni più favorevoli per l'intero sistema;
    la liberalizzazione del trasporto aereo in Europa ha, pertanto, prodotto regole completamente nuove: infatti, da un mercato fortemente rigido si è passati ad un ambito liberalizzato che ha creato i presupposti per un cospicuo incremento dell'offerta ed il conseguente soddisfacimento di una domanda più ampia. Ciò ha consentito l'ingresso di nuovi operatori, connotati da diverse dimensioni ed ambiti di operatività, che si è tradotto indubbiamente in un vantaggio per l'utenza. Le dinamiche tariffarie conseguenti alla liberalizzazione hanno, quindi, inciso profondamente sull'assetto competitivo e sugli equilibri finanziari delle imprese;
    sicché dove si è intensificata la dinamica concorrenziale, per molti vettori si sono determinati anche gravi problemi di sostenibilità economica che hanno messo e mettono, quindi, in discussione il numero degli attori presenti;
    in tale contesto si dovrebbero valutare operazioni di concentrazione o diverse forme di cooperazione tra i vettori in modo da garantire agli stessi di mantenere la competitività sul mercato, assicurando, al contempo, una maggiore efficienza del sistema. Solo in questo caso si avrà un quadro competitivo del trasporto aereo nazionale adeguato ed efficiente, in modo da offrire all'utente condizioni favorevoli e sicure. Da non trascurare, altresì, è la circostanza che un assetto dinamico del trasporto aereo può fornire, senza dubbio, un considerevole contributo di efficienza e competitività internazionale ad altri settori produttivi che, in vario modo, partecipano alla crescita complessiva del nostro Paese;
    non va trascurato, infine, come lo sviluppo della concorrenza, che rappresenta, nel suo complesso, un elemento positivo, sia un processo difficile e costoso che incide su fattori della produzione delicati, come quello relativo all'occupazione che va tutelata e salvaguardata;
    il Governo si è subito attivato per affrontare una crisi grave che rischia di colpire un settore strategico per il nostro Paese: l'intervento del Governo, infatti, nei limiti di quelle che sono le sue competenze e possibilità, ha permesso che venissero attivate le giuste sedi di confronto sindacali ed aziendali. L'Esecutivo ha svolto un ruolo fondamentale ed attivo nella gestione delle vertenze che hanno riguardato le compagnie aeroportuali,

impegna il Governo:

   a promuovere un tavolo di confronto nazionale sul trasporto aereo che coinvolga i Ministri interessati, le regioni e le parti sociali, al fine di adottare soluzioni condivise che possano superare la grave crisi occupazionale che sta attraversando il comparto aeroportuale;
   a promuovere misure dirette a facilitare l'aggregazione delle società del comparto aeroportuale, in modo da garantire alle stesse di mantenere competitività sul mercato ed avere maggiore efficienza;
   ad assumere iniziative per introdurre misure dirette a rilanciare il settore economico dell'indotto, nonché per consentire il rilancio industriale del comparto aeroportuale.
(1-00775)
«Garofalo, Dorina Bianchi, Piso».
(8 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    per handling si intende l'insieme dei servizi svolti in aeroporto finalizzati a fornire assistenza a terra a terzi, vettori, utenti di aeroporto o in autoproduzione (self handling);
    si tratta di un'attività particolarmente intensiva di lavoro: a livello europeo si può stimare che i costi del fattore lavoro raggiungano il 65 per cento -80 per cento dei costi totali;
    per svolgere l'attività di handling è necessario acquisire la relativa certificazione da parte dell'Enac, che vi provvede in conformità con la verifica del rispetto dei requisiti di cui all'articolo 13 del decreto legislativo n. 18 del 1999;
    con tale ultimo decreto legislativo il legislatore ha recepito la direttiva comunitaria n. 67 del 15 ottobre 1996, che introduce la libera concorrenza dei servizi di assistenza a terra, contiene un elenco dettagliato dei servizi da garantire negli aeroporti comunitari, sia in air side che in land side, ed ammette la possibilità per le compagnie aeree di prestare il servizio in autoproduzione (self handling);
    fra le cause dell'attuale crisi del servizio di handling possono individuarsi, secondo il professore Oliviero Baccelli dell'Università Bocconi, il calo dei volumi movimentati e il fatto che «l'uscita delle società di gestione degli aeroporti da questo settore ne ha determinato una frammentazione, con tante aziende di assistenza a terra che tendono a seguire poche compagnie aeree»;
    la pluralità delle imprese di handling (14 nei soli due scali romani) non è di per sé un fatto negativo ed anzi evidenzia un positivo sviluppo della concorrenza e del mercato dei relativi servizi, purché si garantisca che tutte le imprese presenti sul mercato siano in grado di lavorare in condizioni di efficienza e sicurezza;
    la Commissione europea, a seguito degli studi dalla stessa svolti in preparazione alla riforma della normativa europea sui servizi di assistenza a terra, ha accertato che il livello di qualità del servizio di handling si riverbera su tutti i portatori di interesse del sistema aeroportuale ed è quindi suscettibile di danneggiarlo nel suo insieme;
    sempre la Commissione europea ha sottolineato la forza del legame intercorrente tra il livello di formazione del personale e il livello di qualità e di sicurezza dei servizi di handling;
    è, inoltre, necessario evidenziare la contrapposizione tra un sistema aero-aereoportuale ed il relativo indotto, caratterizzato da una significativa crescita, e la drammatica situazione occupazionale che ha portato negli ultimi anni l'intera categoria del personale operante in detto comparto a dover far ricorso a strumenti straordinari di sostegno del reddito, quali cassa integrazione, mobilità e contratti di solidarietà;
    si è assistito, dunque, all'evidente paradosso della crescita esponenziale, evidenziata dai dati di Assoaeroporti, del traffico merci e passeggeri sulle tratte intercontinentali e a lungo raggio, a cui non solo non ha fatto seguito la crescita di produttività legata al comparto aereo-aeroportuale, ma è seguita una ricaduta negativa sull'indotto del settore;
    sono numerose le società di handling di tutta Italia, in evidente stato di difficoltà, a causa anche di un'eccessiva frammentazione in una situazione non caratterizzata da adeguate condizioni di efficienza, sicurezza ed equità nei contratti di lavoro che ha portato, nel passaggio delle attività da un'azienda ad un'altra, alla mancata applicazione delle clausole sociali in grado di garantire le adeguate tutele occupazionali per i dipendenti,

impegna il Governo:

   a dialogare con le parti sociali, al fine di facilitare l'individuazione di forme contrattuali idonee a garantire condizioni di lavoro eque e omogenee, atte a garantire la tutela dei livelli occupazionali e della concorrenza nel settore aereo-aeroportuale;
   ad intervenire, sia in sede europea che in sede nazionale, anche tramite i propri poteri di iniziativa, al fine di introdurre specifiche regole per il subappalto dei servizi di handling, tali da garantire la sicurezza e l'efficienza non solo del servizio di ground handling, ma dell'intero sistema aeroportuale;
   ad assumere iniziative al fine di vietare, nell'ambito dei servizi di handling, la possibilità di ricorrere al subappalto «a cascata», ossia l'affidamento di lavorazioni di competenza del subappaltatore ad altra impresa in sub-affidamento;
   ad assumere iniziative per prevedere requisiti più stringenti, finalizzati a garantire una maggiore qualità e sicurezza del servizio, per la concessione da parte dell'Enac della certificazione necessaria allo svolgimento di attività di handling;
   ad assumere iniziative per assicurare dei periodi obbligatori di addestramento dei lavoratori da parte delle imprese di handling;
   a sostenere gli sforzi della Commissione europea finalizzati all'emanazione di una normativa uniforme del settore, sotto forma di regolamento direttamente applicabile nei Paesi membri;
   a garantire misure a sostegno delle eccellenze del settore del trasporto e del turismo nazionale, attraverso il reimpiego e la valorizzazione dei dipendenti già impiegati nel comparto aereo-aeroportuale;
   a porre in essere ogni iniziativa atta a garantire adeguata regolamentazione ed omogeneità di applicazione dei regolamenti per ogni singolo aeroporto.
(1-00781)
«Catalano, Oliaro, Mazziotti Di Celso, Antimo Cesaro».
(8 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    il trasporto aereo acquista sempre maggiore rilevanza nell'ambito dell'intero sistema dei trasporti interni e nella rete di collegamento internazionale e tale importanza è destinata a crescere ulteriormente in relazione alle rotte e al numero dei vettori impiegati;
    nell'ambito dell'evoluzione del sistema di trasporto aereo è impellente la necessità di una riflessione urgente e di intraprendere le conseguenti iniziative di pianificazione del settore di medio e lungo termine a fronte delle preoccupanti crisi aziendali di Alitalia-Cai e Meridiana, attualmente oggetto di procedure di riorganizzazione e ristrutturazione, che nel caso di Alitalia comportano anche un mutamento dell'assetto societario;
    il quadro generale di una crisi così diffusa nel settore aeroportuale ha determinato e continua a provocare conseguenze particolarmente negative anche sui diritti alla continuità territoriale aerea dei cittadini e delle imprese, con grave danno all'intera economia territoriale;
    viene lamentata con sempre maggior frequenza da parte delle organizzazioni sindacali nazionali e regionali, confederali e autonome, la crescente difficoltà nelle trattative per l'individuazione dei percorsi di soluzione che rilancino le compagnie aeree in crisi, garantendo livelli di sicurezza sempre più alti e che riducano al minimo gli effetti negativi dei processi di ricostruzione e ristrutturazione;
    è evidente l'insistenza dei sindacati sulla mancanza nel trasporto aereo di regole certe, a fronte di sistemi aeroportuali confusi che avrebbero prodotto effetti negativi anche sulla questione Meridiana, che sarebbe aggravata anche dal continuo cambiamento di amministratori delegati e piani industriali, in un quadro di atipica presenza di compagnie aeree low cost, che, secondo quanto denunciato dalle rappresentanze dei lavoratori, in Sardegna e in Italia avrebbero una forte penetrazione, agevolata da finanziamenti pubblici elargiti a vario titolo dai diversi gestori aeroportuali;
    le compagnie aeree in crisi, fornendo una quantificazione precisa di un numero di esuberi strutturali importanti pari a circa 1.200-1.350 unità in questa fase della vertenza, particolarmente difficile, ha destato attrito e preoccupazione sia tra i lavoratori che nelle organizzazioni sindacali, comportando un orientamento delle compagnie a rinunciare all'attività di lungo raggio;
    quest'anno nel trasporto aereo nazionale si rischia di arrivare a 14.000 persone in regime di ammortizzatori sociali e, in particolare, per Meridiana i cassintegrati sarebbero stati determinati anche dalla mancata partecipazione della compagnia alla gara sulla continuità territoriale su Cagliari;
    la situazione della compagnia aerea Alitalia è anche più farraginosa: il fallimento della privatizzazione del 2008 dell’Alitalia e il passaggio agli arabi-anglosassoni di Etihad hanno provocato 2.251 esuberi, oltre agli annunciati imminenti sacrifici, promossi in nome dell'interesse generale, comprensivi dell'impiego in Alitalia di oltre 1.600 lavoratori precari necessari per far fronte all'emergenza della ex-compagnia di bandiera italiana;
    tale farraginosità è dovuta al fatto che è stata prevista una ristrutturazione particolarmente pesante per le conseguenze occupazionali per la realizzazione di un piano industriale finalizzato allo sviluppo della compagnia tricolore, che dovrebbe tornare all'utile precedente nel 2017 con più rotte e destinazioni soprattutto di lungo raggio internazionale (con un incremento del 40 per cento in 4 anni), con la finalità di diventare in 5 anni uno dei principali vettori in ambito globale;
    gli orientamenti sul futuro di Alitalia, la cui gestione Cai avrebbe registrato 1,5 miliardi di perdite in 5 anni, e la pesante ristrutturazione di Meridiana giustificano le preoccupazioni espresse e la richiesta di un impegno del Governo finalizzato ad assicurare un'efficiente e adeguata gestione, tale da garantire il pieno rispetto dei principi di uguaglianza e pari trattamento riservato a tutti i cittadini italiani, nel pieno rispetto anche delle vigenti normative in materia di libera circolazione di persone e merci in ambito europeo;
    per quanto riguarda, infine, la compagnia Meridiana con 29 aeromobili e con un trasporto di circa 4 milioni di passeggeri, gli attuali 2.500 dipendenti sono considerati in eccesso dal proprio stesso management, non solo in funzione di uno sviluppo della compagnia, ma anche per la sua sopravvivenza sul mercato, tale da proporre una ristrutturazione aggressiva con il 50 per cento di esuberi;
    il diritto alla mobilità è il principio base della continuità territoriale, che, se non garantita dall'accessibilità al necessario numero di voli e alla diversificazione delle rotte, con costi sostenibili, determinerebbe conseguenze pesanti nella vita delle persone e della comunità sarda dal punto di vista sociale ed economico,

impegna il Governo:

   a fornire un quadro dello stato della riorganizzazione e ristrutturazione delle compagnie aeree in crisi di cui Alitalia-Cai, Meridiana, Groundcare, Sea-handling e Argol rappresentano solo i casi più importanti;
   ad adoperarsi affinché le situazioni economico-finanziarie ed occupazionali di Meridiana e di Alitalia prevedano la possibilità di garantire il mantenimento dei livelli occupazionali ad oggi esistenti, avviando urgentemente un tavolo di confronto riguardante sia la questione sarda che l'ex compagnia di bandiera, per realizzare una rinascita economica e sociale del settore aeroportuale;
   a definire una strategia di relazione con tali compagnie, che consenta, nell'ambito della definizione delle politiche di trasporto in continuità territoriale, anche di sostenere, compatibilmente con i necessari piani industriali di salvataggio delle compagnie, i più elevati livelli occupazionali;
   a proporre anche a livello europeo un programma di aiuti che assicurino l'applicazione di regimi tariffari per un adeguato numero di collegamenti aerei atti ad assicurare la libera circolazione di persone e merci.
(1-00787)
«Artini, Baldassarre, Barbanti, Bechis, Mucci, Prodani, Rizzetto, Rostellato, Segoni, Turco».
(9 aprile 2015)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE IN MATERIA DI ESENZIONE DALL'IMU PER I TERRENI AGRICOLI

   La Camera,
   premesso che:
    la complessa vicenda relativa alla revisione del regime IMU sui terreni agricoli montani evidenzia l'ulteriore confusione che coinvolge la disciplina relativa alla fiscalità locale, anche e soprattutto per le evidenti responsabilità del Governo e dell'amministrazione tributaria, che hanno gestito ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo con evidente superficialità il contesto normativo legato al pagamento dell'imposta sui terreni agricoli, ricadenti in particolari aree, soprattutto con riferimento ai criteri di individuazione altimetrici dei comuni esenti;
    l'ingorgo burocratico-amministrativo connesso alla classificazione dei parametri predisposta dall'Istat, inizialmente suddivisa in tre fasce sulla base dell’«altitudine al centro», ovvero nel punto in cui si trova il municipio, la retroattività della norma che imponeva il pagamento del tributo per l'anno 2014, i provvedimenti cautelari adottati dalla magistratura amministrativa rappresentano soltanto alcuni dei numerosi elementi critici e distorsivi che hanno caratterizzato, nel corso dei mesi precedenti, il pagamento di tale tributo, che permane secondo i firmatari del presente atto di indirizzo iniquo e costituzionalmente illegittimo;
    anche la nuova revisione dei meccanismi di calcolo delle esenzioni (contenuta all'interno del decreto-legge n. 4 del 2015), che persiste in forma complicata in larga parte irrazionale, induce ad un profondo ripensamento della classificazione Istat sui criteri di montanità risalenti peraltro al 1952 e non più aggiornati;
    l'irrazionalità con cui sono stati fissati i termini relativi alla scadenza del pagamento (rinviati peraltro tre volte) e molto ravvicinati, che non hanno consentito tempi adeguati e congrui per i soggetti interessati, al fine di verificare quale sia il regime applicabile (mutato, tra l'altro, diverse volte nel corso dei mesi scorsi), il calcolo dell'imposta e l'adempimento finale del pagamento (considerando, peraltro, che i comuni non hanno avuto alcun obbligo di invio ai contribuenti dei bollettini precompilati) delineano un quadro generale sconfortante e intricato del sistema tributario italiano, che si dimostra essere palesemente in antitesi con qualsiasi ipotesi di collaborazione e buona fede tra l'amministrazione fiscale e il cittadino-contribuente;
    il sopra esposto decreto-legge, approvato in via definitiva il 19 marzo 2015, resosi necessario alla luce delle precedenti e ripetute difficoltà applicative (relative al discusso criterio dell'altitudine «al centro»), nonché a seguito delle pesanti censure del tribunale amministrativo regionale del Lazio, che ha invitato il Governo a rivedere l'impianto dei criteri (a cui si è unita la confusione generata dall'accavallarsi di regole e ricorsi), non solo continua a destare dubbi e incertezze interpretative, ma introduce ex novo l'imposta anche per i terreni «parzialmente montani», contraddicendo nella forma e nella sostanza quanto invece previsto dal decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89;
    se, all'interno del decreto interministeriale del 28 novembre 2014, di attuazione dell'articolo 22 del decreto-legge n. 66 del 2014, erano emersi notevoli dubbi sui criteri di attribuzione dell'imposta (in quanto la classificazione in base all'altimetria delle sede comunale rappresentava un'impostazione irrazionale e aleatoria), i successivi interventi normativi rilevano anch'essi evidenti profili discriminatori, che generano distinzioni eccessive, non soltanto tra i comuni limitrofi, ma anche tra appezzamenti di terreno contigui e su comuni differenti;
    i nuovi parametri stabiliti dall'Istat, infatti, che definiscono un comune «totalmente montano» (esente dal pagamento dell'IMU), «parzialmente montano» (che esonera soltanto i coltivatori diretti e gli imprenditori agricoli, i proprietari o affittuari del terreno) e «non montano» (che prevede il pagamento per tutti i proprietari senza eccezioni), determinano una discrepanza nei criteri altimetrici, generando inspiegabili asimmetrie impositive, in particolare in regioni collinari, in cui si registrano comunità locali considerate non montane e altre più pianeggianti, valutate invece parzialmente montane;
    alle sopra esposte e articolate criticità, come la decisione di intervenire attraverso il pagamento di un tributo che graverà in maniera pesante sull'assetto economico del comparto agricolo nazionale (anche a seguito delle disfunzioni applicative nella corresponsione dell'imposta medesima), si affiancano ulteriori aspetti problematici connessi alla scarsa valutazione dei delicati profili di equità fiscale, che avrebbero dovuto essere affrontati in un'ottica di adeguamento dell'imposta alla capacità contributiva del comparto agricolo;
    le modifiche normative apportate dal recente provvedimento d'urgenza, a decorrere dal 2014 (peraltro in forma retroattiva, violando per l'ennesima volta il principio sancito nello statuto del contribuente), sebbene risultino meno penalizzanti per i territori montani, evidenziano numerosi problemi legati alla disparità di trattamento, difficilmente giustificabili, tra territori contigui e affini per caratteristiche morfologiche ed economiche;
    gli attuali criteri di esenzione confermano, in generale, numerosi elementi di irragionevolezza ed iniquità dell'imposizione tributaria (già contenuti all'interno del decreto interministeriale del 28 novembre 2014) connessi alla mancata considerazione di aspetti legati alla redditività delle colture tipiche, al rischio idrogeologico, alla dimensione delle aziende agricole e ad altri aspetti tipici delle diverse realtà rurali territoriali;
    con riferimento alla riduzione del taglio operato sul fondo di solidarietà comunale, a fronte del maggior gettito stimato per i comuni derivante dalle nuove imponibilità dei terreni agricoli, pari a circa 230 milioni di euro per il 2014 e a quasi 269 milioni di euro per il 2015, occorrono iniziative nei confronti dei sindaci, affinché le aliquote applicate per la revisione del regime fiscale legato all'IMU sui terreni agricoli possano essere riconsiderate, evitando un impatto sui bilanci delle imprese agricole, vessate da tale imposta;
    ulteriori rilievi altamente critici e profili discriminatori, nei confronti del settore agricolo, si rinvengono nelle disposizioni concernenti la copertura finanziaria previste dall'articolo 2, comma 1, del decreto-legge n. 4 del 2015;
    l'abrogazione della deduzione ai fini IRAP per i lavoratori nel medesimo comparto determinerà effetti penalizzanti, anche in termini di rilancio del mercato del lavoro agricolo;
    occorre evidenziare, inoltre, che la decisione di armonizzare la geografia delle aree esentate (che ha aggiornato la mappa dei territori agricoli, risalente alla circolare 14 giugno 1993, n. 9, del Ministero delle finanze), all'interno del decreto-legge 22 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89, è stata ispirata dall'esigenza di rimediare al difetto originario della «riforma» dell'IMU, che è partita dalla coda, ovvero dalla necessità di reperire il gettito complessivo pari a circa 359 milioni di euro, già iscritti all'interno del medesimo decreto, essendo già stati utilizzati nel 2014;
    l'esigenza di procedere ad una ridefinizione coerente ed organica di esenzione dall'IMU per i terreni agricoli (nell'ottica di un superamento di una serie di criticità, la cui metamorfosi normativa nel corso degli ultimi mesi, ha generato notevoli complicazioni ed incertezze) appare, pertanto, urgente e necessaria, al fine di una risoluzione complessiva in grado di prevedere l'esonero definitivo del pagamento del tributo medesimo, per tutte le fasce di terreni classificati dall'ISTAT;
    i forti limiti degli interventi adottati dal legislatore e dalle decisioni politiche del Governo, sia nel merito che nel metodo utilizzato (per la revisione devi criteri di esenzione), richiedono, a tal fine, un'inversione di tendenza delle scelte da adottare, anche attraverso un ampio coinvolgimento delle associazioni agricole e degli enti locali, in un'ottica di condivisione comune, affinché si possa comprendere in maniera risolutiva come il comparto agricolo non sia considerato dal Governo come un settore su cui evidentemente si intende «fare cassa»,

impegna il Governo:

   a prevedere in tempi rapidi iniziative volte all'esenzione definitiva dell'imposta municipale propria (IMU), prevista dalla lettera h) del comma 1 dell'articolo 7 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, relativa all'anno 2015, per i soggetti individuati sulla base delle disposizioni previste dal decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, adottato di concerto con il Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali e con il Ministro dell'interno, del 28 novembre 2014, pubblicato nella Gazzetta ufficiale del 6 dicembre 2014, nonché dei successivi interventi normativi introdotti;
   ad assumere iniziative per prevedere la restituzione nei confronti dei proprietari terrieri che hanno già effettuato il pagamento dell'IMU sui terreni parzialmente montani e non montani, il 10 febbraio 2015 e nei periodi precedenti, attraverso il rimborso fiscale in sede di dichiarazione dei redditi per il 2016 con la procedura della compensazione fiscale;
   ad assumere iniziative per introdurre interventi compensativi volti ad attribuire ai comuni interessati il minor gettito complessivo derivante dall'entrata tributaria pari a 219,8 milioni di euro per l'anno 2015 e in 91 milioni di euro annui a decorrere dal 2016, attraverso l'immediata introduzione di misure per la revisione della spesa pubblica (cosiddetta spending review) contenute nel piano predisposto dall'ex commissario straordinario Carlo Cottarelli, per le quali il Governo ha costantemente rinviato l'attuazione, abrogando, di conseguenza, l'articolo 22, comma 2, del decreto-legge n. 66 del 2014;
   a prevedere, infine, in caso contrario, adeguate misure di compensazione di natura finanziaria o fiscale, a vantaggio delle imprese agricole, interessate dal pagamento dell'IMU sui terreni considerati dall'Istat parzialmente montani e non montani, posto che gli effetti tributari di un'iniqua penalizzazione del settore agricolo ad avviso dei firmatari del presente atto di utilizzo sono stati soltanto volti ad ottenere un immediato risultato finanziario da parte del Governo Renzi.
(1-00784)
«Faenzi, Catanoso, Fabrizio Di Stefano, Riccardo Gallo, Russo, Sandra Savino, Laffranco, Francesco Saverio Romano, Alberto Giorgetti, Palmizio, Occhiuto, Ciracì, Distaso, Marti, Palese, Fucci, Prestigiacomo, Castiello, Carfagna, Latronico, Gelmini, Polidori, Brunetta».
(9 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    l'intera vicenda relativa alla revisione della disciplina dell'esenzione dall'IMU per i terreni agricoli montani, avviata al fine di armonizzare ed aggiornare la mappa dei «territori svantaggiati» ereditata dal previgente regime dell'ICI e che ha dato origine nei mesi scorsi all'esigenza di un intervento d'urgenza sfociato nel decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2015, n. 34, si è invece concretizzata in un intervento di pura semplificazione normativa che ha disvelato il reale intento del Governo di soddisfare esigenze di mero incremento del gettito fiscale, piuttosto che di conseguire una revisione organica e, auspicabilmente, concertata dell'intera disciplina riferibile ai terreni agricoli montani;
    invero, le modifiche normative apportate, a decorrere dal 2014, dal suddetto decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 4, pur risultando nel complesso meno penalizzanti per i territori montani, sotto il profilo dei minori tagli operati ai comuni, lasciano intatti sul tappeto numerosi problemi. Infatti, i nuovi criteri di esenzione, per quanto preferibili rispetto al mero criterio dell'altimetria del centro comunale di cui al decreto ministeriale del 28 novembre 2014, e che ha determinato il noto casus belli, presentano non pochi elementi di criticità e producono, con riferimento all'esenzione dall'imposta, disparità di trattamento difficilmente giustificabili tra territori contigui ed affini per caratteristiche morfologiche ed economiche;
    in generale, per quanto attiene i criteri di esenzione, si confermano tutte quelle criticità derivanti da un'imposizione iniqua ed irrazionale, già rilevate con riferimento alla successiva ed a tratti convulsa produzione normativa successiva al decreto-legge n. 66 del 2014 (che, avendo affidato al sovragettito dell'IMU agricola il compito di finanziare l'operazione «bonus 80 euro», aveva disposto una limitazione del perimetro delle esenzioni) e legate, soprattutto, alla mancata considerazione di aspetti connessi alla redditività delle colture tipiche, al rischio idrogeologico, alla dimensione delle aziende agricole e ad altri aspetti tipici delle diverse realtà rurali territoriali;
    così come ancora dubbie appaiono le modalità di aggiornamento periodico e di manutenzione della classificazione dei comuni a tale scopo adottata, dal momento che, come è noto, la triplice qualifica di montanità adottata dall'Istat (comune «totalmente montano», «parzialmente montano», «non montano»), cui la citata legge rinvia, è stata determinata sulla base del vetusto articolo 1 della legge n. 991 del 1952, successivamente abrogato dall'articolo 29 della legge n. 142 del 1990;
    inoltre, date le caratteristiche dei terreni oggetto d'imposizione ed il loro limitato valore, è ragionevole ritenere che i comuni non saranno nell'oggettiva condizione di recuperare una parte significativa del gettito stimato, anche a causa della sua frammentazione in importi singolarmente inferiori ai minimi di legge e, pertanto, non dovuti dai contribuenti. Tra gli altri elementi che concorreranno al verificarsi di prevedibili impatti negativi sui bilanci degli enti locali, occorre tenere presente il problema dei rimborsi per quei comuni che, interamente imponibili in virtù della normativa precedente, sono divenuti esenti o parzialmente esenti per effetto delle nuove disposizioni recate dal citato decreto-legge n. 4 del 2015, e pertanto dovranno corrispondere il rimborso a tutti quei contribuenti che hanno correttamente ritenuto di pagare l'IMU relativa al 2014 nei termini fissati dalla normativa previgente, situazione che, peraltro, rischia di imporre ulteriori costi amministrativi per i comuni, nonché maggiori aggravi per i contribuenti, i quali, oltre ad avere sostenuto i costi per la predisposizione dei conteggi dell'IMU pagata, dovranno procedere alla presentazione delle istanze di rimborso;
    riguardo, poi, all'entità del relativo taglio operato sul fondo di solidarietà dei comuni, il decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2015, n. 34, affida al Ministero dell'economia e delle finanze il compito di procedere, entro il 30 settembre 2015 e sulla base di una metodologia condivisa con l'Anci, la verifica del gettito IMU per l'anno 2014, al fine di assicurare la più precisa ripartizione tra i comuni dei tagli a valere sul fondo di solidarietà. È, pertanto, auspicabile che nell'ambito di tale verifica, il Governo provveda allo stanziamento di maggiori risorse da destinare per far fronte all'eventuale scostamento tra le stime ministeriali di gettito atteso e quello effettivamente riscosso;
    nonostante alcuni significativi correttivi introdotti nel corso dell'esame parlamentare del decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 4, l'intera vicenda ha rappresentato un nuovo grave segnale di disattenzione del Governo nei confronti di un comparto già pesantemente vessato e penalizzato dalla progressione di un'imposizione tributaria che ha visto quasi triplicare il carico fiscale, dalla riduzione delle aliquote agevolative in materia di accise sul gasolio, dal taglio dei fondi per il piano irriguo nazionale e dalla soppressione e dal ridimensionamento di enti di ricerca agricoli: tutti interventi che hanno determinato gravi ripercussioni sia sul versante produttivo che su quello occupazionale dell'intera filiera agricola;
    il futuro del nostro Paese è, invece, indissolubilmente legato allo sviluppo del territorio ed al rafforzamento dell'agricoltura: il comparto agricolo, ancora importante in termini di prodotto interno lordo, è capace di dare risposte economiche e sociali sia in termini occupazionali che di qualità della vita: valorizzare il territorio e potenziare le aree rurali diventa, pertanto, strategico per promuovere lo sviluppo dell'intero Paese, ma sta alla politica riconoscerle il giusto valore;
    il Governo, che con l'Expo 2015 sta facendo dell'agroalimentare il suo punto di forza politico, da una parte continua a sbandierare slogan a favore del ritorno dei giovani in agricoltura, considerata uno dei volani in grado di fare uscire il Paese dalla crisi, e dall'altro vessa gli agricoltori mantenendo la tassazione sul terreno, cioè lo strumento per produrre, a prescindere da quanto lo stesso abbia reso in termini economici o se sia stato vittima di calamità ed eventi atmosferici, come grandinate e alluvioni, o altri eventi incontrollabili, come la diffusione sulle piantagioni di gravi patologie, tutte condizioni per le quali, peraltro, non realizzandosi alcun reddito, non sussisterebbe neanche il presupposto per la tassazione;
    le aziende agricole italiane, che nel solo 2013 hanno visto crollare i loro redditi dell'11 per cento (contro l'1,7 per cento della media dell'Unione europea), saranno chiamate, soprattutto quando si spegneranno i riflettori su Expo 2015, a misurarsi con le sfide del mercato e ad affermarsi sia su quello locale che internazionale. Occorre, pertanto, adottare tutte le misure economiche e fiscali, che tengano conto della specificità del comparto agricolo a partire dall'abrogazione di quelle che lo penalizzano, dando così un forte impulso alle imprese che vi operano e mettendole in grado di realizzare il loro progetto imprenditoriale;
    oggi l'unica definitiva soluzione per salvare il mondo dell'agricoltura, già particolarmente provato, oltre che da una tassazione insostenibile, anche dalla minaccia sul mercato di forti competitor stranieri, capaci di imporre sempre più i propri prodotti sui banchi della distribuzione italiana ed europea, è rappresentata dall'esentare dal pagamento dell'IMU tutti i terreni agricoli, coltivati e non, compresi quelli destinati a pascolo, bosco e selvicoltura, prato permanente, ad aree di interesse ecologico e tutti quelli danneggiati da calamità naturali, limitatamente all'anno successivo a quello in cui si verifica l'evento calamitoso;
    da tempo è, inoltre, atteso un provvedimento che, riconoscendo l'importanza della ricomposizione fondiaria, aggiorni gli estimi catastali che rappresentano la base essenziale di una valutazione per poter superare le disparità oggi presenti tra terreni simili e contigui, ma soggetti a tassazione differenziata,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative normative che rappresentino un forte e tangibile segnale di attenzione verso il comparto primario, a partire dalla totale abolizione di una tassazione patrimoniale sui terreni agricoli e sui fabbricati che siano utilizzati come beni strumentali imprescindibili dall'attività agricola e ad essa connessi e necessari;
   a superare gli attuali criteri di esenzione dall'IMU agricola improntati ad avviso dei firmatari del presente atto unicamente al conseguimento di maggiore gettito erariale, promuovendo una revisione organica dei criteri dell'imponibilità dei terreni agricoli, attraverso un percorso di ampia concertazione con le associazioni agricole e con gli enti locali che conduca all'istituzione di un «tavolo della fiscalità per l'agricoltura», che sappia rivolgere la giusta attenzione alle caratteristiche territoriali e orografiche delle diverse aree montane, alcune delle quali fortemente esposte a fenomeni di dissesto idrogeologico e di spopolamento, e che tenga conto del diverso indice di redditività dei terreni agricoli, anche al fine di assicurare la coerenza della misura dell'imposta con la capacità contributiva dei medesimi;
   ad assumere iniziative per esentare dal pagamento dell'IMU, relativa agli anni 2015 e 2016, tutti i terreni agricoli che abbiano subito grave pregiudizio alla redditività a causa dalla diffusione della fitopatologia denominata xylella fastidiosa di cui al decreto del Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali del 26 settembre 2014, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale 14 ottobre 2014, n. 239, ed a prevedere, per il futuro, l'automatica sospensione della tassazione IMU per tutti quei terreni agricoli affetti da fitopatie diffuse, per l'intero anno d'imposta nel quale si verifica la patologia;
   a provvedere, nell'ambito della procedura di verifica del gettito IMU per l'anno 2014, allo stanziamento di maggiori risorse da destinare per far fronte all'eventuale scostamento tra le stime ministeriali di gettito atteso e quello effettivamente riscosso dai comuni in relazione al nuovo regime di imponibilità dei terreni montani.
(1-00790)
«Franco Bordo, Zaccagnini, Paglia, Scotto».
(13 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    il decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89 ha reintrodotto l'obbligo di pagamento dell'Imposta municipale propria (IMU) per i terreni agricoli al fine di reperire le risorse necessarie per finanziare alcune agevolazioni previste dallo stesso decreto;
    la reintroduzione della suddetta imposta può essere interpretata come una vera e propria patrimoniale sulla terra, suscettibile, tra l'altro, di favorire l'abbandono delle terre da parte degli agricoltori, in assoluta contraddizione con le normative nazionali e soprattutto comunitarie che invece sostengono il ricambio generazionale in agricoltura proprio al fine di limitare i fenomeni di dismissione delle aziende agricole con le conseguenti pericolose speculazioni sui relativi terreni;
    l'applicazione dell'IMU ai terreni agricoli rappresenta un aggravio di imposizione proprio mentre il carico fiscale per il settore agricolo sta assumendo livelli insostenibili. È da tempo che il comparto primario attende una revisione complessiva della fiscalità patrimoniale, una revisione che tenga conto delle difficoltà legate alla conduzione dei terreni e che consideri le specificità del comparto agricolo nazionale, una delle eccellenze più significative del made in Italy;
    coloro che risultano maggiormente colpiti da questa imposta, infatti, non sono i grandi imprenditori agricoli, bensì i piccoli agricoltori o anche i piccoli possessori di terreno, che spesso lo coltivano esclusivamente per ragioni di autoconsumo o semplicemente operano su di esso una costante, ma preziosa, manutenzione;
    imporre una tassa sulla terra significa tassare un bene strumentale senza il quale non si potrebbero ottenere i beni primari, come le derrate agricole necessarie al sostentamento della popolazione, oltre che i numerosi prodotti di qualità che sono venduti anche all'estero con il secondo brand più famoso al mondo ovvero: made in Italy; significa rendere l'agricoltura italiana sempre meno competitiva nei confronti degli altri mercati europei ed extraeuropei, facendola concorrere con prodotti sempre più vantaggiosi dal punto di vista del prezzo finale, inoltre potrebbe significare perdere l'unico presidio ancora reale del territorio italiano, l'agricoltore, obbligandolo al pagamento di un'imposta sullo strumento della produzione a prescindere se un terreno abbia reso o meno in termini economici o se sia stato vittima di calamità atmosferiche, fitopatie o altri eventi non prevedibili;
    i cambiamenti climatici degli ultimi anni hanno provocato un inasprimento ed una maggior frequenza degli eventi climatici avversi, con conseguente ricaduta sulle produzioni e sui beni strumentali delle aziende agricole italiane, specie quelle che fanno agricoltura in pieno campo e nel 2014 si contano ben 31 calamità naturali ufficialmente riconosciute tramite apposito decreto del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali;
    come noto, negli ultimi anni il fondo di solidarietà nazionale, che eroga i contributi compensativi per le aziende agricole situate nei comuni inseriti nei decreti di declaratoria dello stato di calamità naturale, non viene sufficientemente rimpinguato, anche a causa di una diversa politica di gestione del rischio che ha spostato la maggior parte delle risorse finanziarie sulla prevenzione dei rischi agricoli ex ante, anziché sul risarcimento dei danni ex post e la procedura che porta dal verificarsi del danno all'ottenimento del contributo compensativo è oltremodo lunga e farraginosa e può durare anni, al termine dei quali alle aziende agricole viene riconosciuto quasi sempre un contributo sensibilmente minore rispetto allo spettante, accertato e giustificato dalle aziende stesse tramite perizie agronomiche con oneri a loro carico;
    l'IMU sui terreni agricoli potrebbe, inoltre, soffocare i segnali positivi di ripresa che provengono proprio dal settore agricolo, in termini di occupazione e di prodotto interno lordo, e che sono invece il volano di una possibile ripresa economica del nostro Paese;
    la normativa in materia di revisione dei meccanismi di calcolo delle esenzioni è cambiata più volte fino all'approvazione del decreto legge n. 4 del 2015, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 34 del 2015, che ha sostanzialmente confermato il riferimento ai parametri stabiliti dall'Istat al fine di individuare i comuni i cui terreni agricoli risultano esenti dall'imposta, ovvero i comuni classificati come totalmente montani, e quelli i cui terreni agricoli sono esonerati dal versamento solo se posseduti e condotti da coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali, cioè i comuni parzialmente montani;
    è evidente per i firmatari del presente atto di indirizzo che i criteri con i quali viene imposta l'IMU sui terreni agricoli, e quelli sui quali viene calcolata l'esenzione, che fanno riferimento alla cosiddetta «montagna legale dell'ISTAT del 1952», trascurano, anche a causa della loro vetustà, ogni criterio di equità, determinando di fatto delle vere e proprie ingiustizie sociali e andando a colpire la terra e non la redditività dell'agricoltore, senza contare che, attualmente, le rendite catastali non corrispondono più alla reale redditività dei terreni a causa del mancato aggiornamento, da decenni, del catasto agricolo,

impegna il Governo:

   a procedere con urgenza ad una revisione complessiva delle norme in materia di fiscalità rurale e, in particolare, ad esentare i terreni agricoli dall'applicazione dell'imposta municipale propria a decorre dall'anno 2015;
   ad assumere iniziative per rimborsare i proprietari dei terreni agricoli che, in base a quanto previsto dal decreto-legge n. 4 del 2015, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 34 del 2015, abbiano proceduto al pagamento dell'IMU entro il termine del 31 marzo 2015 e ad assumere iniziative per compensare i comuni interessati dal minor gettito derivante dalla mancata entrata tributaria, anche attraverso la riduzione degli sgravi da interessi passivi di banche ed assicurazioni di cui all'articolo 96 del testo unico delle imposte sui redditi approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917;
   ad assumere iniziative per esentare comunque dal pagamento dell'IMU i terreni agricoli posseduti e condotti dai coltivatori diretti e dagli imprenditori agricoli professionali che dichiarino, a decorrere dall'anno 2015, un volume d'affari da attività agricola non superiore a 15 mila euro annui e a quelli ubicati in comuni vittime di calamità naturali verificatesi a partire dall'anno 2014, così come individuati dai relativi decreti del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali;
   a procedere con urgenza all'aggiornamento del catasto agricolo nonché della classificazione dell'Istat dei comuni italiani, tenendo conto dell'evoluzione e della trasformazione del territorio e del settore primario degli ultimi decenni.
(1-00793)
«Massimiliano Bernini, Benedetti, Gagnarli, Gallinella, L'Abbate, Parentela, Lupo, Pesco, Villarosa, Cancelleri, Ruocco, Alberti».
(13 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    il settore agricolo italiano sta vivendo una situazione di disagio economico causato dalla crisi in atto. Nel corso del 2015, a peggiore la situazione economico finanziaria complessiva del settore, hanno contribuito una serie di ulteriori aggravi di ordine fiscale pari nel complesso ad oltre 760 milioni di euro. La parte più cospicua di essi è imputabile all'imposta municipale unica (IMU) sui terreni agricoli, che ha garantito un gettito pari a circa 350 milioni di euro mentre il pagamento dell'IMU e della Tasi sui fabbricati rurali ha garantito un gettito pari a circa 150 milioni di euro;
    attualmente in Italia vi sono settori economici come quello agricolo, rilevanti sotto molteplici aspetti. Sono 2 milioni le imprese agricole complessive del Paese, le quali producono il 9 per cento del prodotto interno lordo italiano che aumenta sino al 14 per cento, considerando anche l'indotto, dando lavoro a 3,2 milioni di lavoratori nella filiera. Il contributo complessivo garantito all'erario è valutato in più di 25 miliardi di euro. Anche a causa di ciò, si sono poste le condizioni per il potenziale abbandono di molti imprenditori agricoli, fatto che avrebbe conseguenze nefaste per l'intera economia. Sono infatti molte le aziende agricole che già vivono tale situazione insostenibile fatta di ricavi che non coprono più l'insieme dei costi produttivi e degli oneri tributari cui devono far fronte poiché la redditività degli imprese agricole è ferma ai livelli del 2005;
    l'assoggettamento dei terreni agricoli all'IMU ha provocato e provoca una crisi delle imprese agricole superiore a quello rilevabile in altri settori, ad esempio in quello edilizio, con una conseguente diminuzione delle imprese operanti e, per quelle operanti, una riduzione della redditività che è causa di licenziamenti ed impoverimento degli addetti nel settore;
    si stima che il reddito derivante dalla vendita delle produzioni agricole non sarebbe sufficiente a far fronte al pagamento dell'imposta, determinando la conseguente cessazione dell'attività ed una elevata svalutazione del valore del bene fondiario;
    ad oggi, la classificazione dei comuni per grado di montanità è ancora quella elaborata dalla «Commissione censuaria» istituita presso il Ministero dell'economia e delle finanze sulla base dell'articolo 1 della legge n. 991 del 1952, recante «Provvedimenti in favore dei territori montani». Quella classificazione ha definito quali fossero i comuni ricadenti in ciascuna delle tre classi (comuni totalmente montani, parzialmente montani e non montani);
    nel corso dell'audizione svoltasi al Senato della Repubblica, la rappresentante dell'Istat ha testualmente affermato che: «La legge n. 142 del 1990, con l'abrogazione degli articoli 1 e 14 della legge n. 991 del 1952, ha di fatto soppresso lo strumento giuridico (Commissione censuaria) che consentiva il periodico aggiornamento della classificazione dei comuni per grado di montanità». In particolare, si ricorda che l'articolo 1 della legge n. 991 del 1952, abrogato dalla citata legge n. 142 del 1990, a sua volta abrogata dal decreto legislativo n. 267 del 2000 (TUEL), disponeva che «la Commissione censuaria centrale compila e tiene aggiornato un elenco nel quale d'ufficio o su richiesta dei Comuni interessati, sono inclusi i terreni montani. La Commissione censuaria centrale notifica al Comune interessato e al Ministero dell'agricoltura e delle foreste l'avvenuta inclusione nell'elenco». Tali funzioni della Commissione censuaria sono state appunto abrogate dalla legge n. 142 del 1990;
    la Commissione censuaria, che era incaricata del periodico aggiornamento della classificazione dei comuni, ha trasmesso periodicamente all'Istat tali dati sino al 2009. Dell'incombenza è stata successivamente incaricata l'Unione nazionale comuni, comunità, enti montani (Uncem);
    sebbene la classificazione, da allora, sia rimasta invariata, nei casi in cui si sono verificate variazioni amministrative, i dati sono stati aggiornati sulla base del criterio di prevalenza territoriale. Di conseguenza, i dati utilizzati per quantificare l'IMU non corrispondono esattamente alla realtà dei territori;
    si ricorda che ai fini dell'ottenimento dell'esenzione dall'imposta si devono indicare dei parametri desumibili da quanto reso pubblico dall'Istat. Come detto, però, gli stessi dirigenti dell'istituto auditi pubblicamente affermano che essi non sono aggiornati e, quindi, non adeguati a valutare l'effettivo valore imponibile desumibile dalla natura e dalla posizione del terreno in base ai quali si determina concretamente il quantum dell'imposizione;
    la normativa attualmente vigente, inoltre, non ha previsto casi di esenzione per quei terreni agricoli colpiti da calamità naturali e per i quali sia stato dichiarato lo stato di calamità naturale e che quindi si troverebbero a dover affrontare difficoltà produttive tali da rendere particolarmente onerosa la corresponsione dell'imposta e le difficoltà conseguenti agli eventi di cui sopra possono protrarsi per diverse stagioni compromettendo le culture per più di un anno;
    non risultano poi esentati dal pagamento dell'imposta i proprietari di terreni agricoli non coltivatori diretti o imprenditori agricoli professionali che intendono affittare i terreni, quindi coloro che non hanno la qualifica professionale. Da ciò discende il fatto che non consentire alcuna esenzione ai proprietari non professionisti che affittano i propri terreni e ciò rischia di far ricadere il costo dell'imposta sul canone di affitto. Si segnala in modo particolare il danno potenziale causato ai giovani che vogliano avviare un'attività produttiva agricola sottoscrivendo un contratto di affitto di un terreno. In questi casi il proprietario potrebbe essere indotto dalla normativa ad aumentare il canone di locazione per compensare indirettamente la maggiore imposizione fiscale a cui sono sottoposti, traslandola sull'imprenditore agricolo;
    la disciplina, inoltre, non prevede l'esenzione per quei terreni agricoli che abbiano subito grave pregiudizio alla redditività aziendale, come effettivamente è accaduto, ad esempio, in seguito alla diffusione del batterio della xylella fastidiosa sulle piante di olivo in Puglia, della «tristezza degli agrumi», del cinipide del castagno, della diabrotica, della mosca del ciliegio e della mosca dell'ulivo, e che tali eventi hanno compromesso seriamente la redditività dell'attività di impresa, per cui risulta onerosa la corresponsione dell'imposta;
    maggiori disponibilità derivanti dall'abrogazione delle disposizioni fiscali a favore del lavoro in agricoltura, recentemente approvate possono consentire ai produttori agricoli di essere destinatari di alcune deduzioni dalla base imponibile del medesimo tributo con riferimento alle assunzioni dei lavoratori agricoli dipendenti sia a tempo indeterminato che a tempo determinato;
    si sottolinea che tali abolizioni sono del tutto controproducenti per il settore agricolo dal momento che vengono ad essere così sottratte ulteriori risorse all'agricoltura,

impegna il Governo:

   a valutare la possibilità di andare via via riducendo fino ad arrivare a una totale abolizione dell'IMU sui terreni agricoli nei casi in cui il terreno e/o i fabbricati siano utilizzati come beni strumentali imprescindibili dall'attività agricola, poiché il terreno agricolo, per chi svolge attività di imprenditore agricolo professionale e di coltivatore diretto, rappresenta un bene strumentale in relazione alla propria attività;
   ad assumere iniziative entro e non oltre il 31 dicembre 2015 affinché il Ministero dell'economia e delle finanze di concerto con il Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali avvii una revisione organica e complessiva delle tariffe d'estimo stabilite, per ciascuna qualità e classe di terreno, sia per il reddito agrario che dominicale, su tutto il territorio, con un'armonizzazione tra colture e tra territori, che tenga conto dell'intervenuta modificazione delle relazioni economiche e competitive sui territori stessi e tra le filiere settoriali, anche attraverso l'attivazione di tavoli di confronto con le organizzazioni agricole e con le rappresentanze degli enti locali;
   ad assumere iniziative per prevedere l'inserimento tra i soggetti esentati dall'IMU anche coloro che, essendo proprietari di terreni agricoli e non rivestendo la qualifica di coltivatori diretti o imprenditori agricoli professionali, affittino i propri terreni a coltivatori diretti o imprenditori agricoli professionali al fine della coltivazione;
   ad effettuare un riesame complessivo della disciplina giuridica afferente l'imposizione fiscale sui terreni agricoli nel territorio nazionale, prevedendo forme più eque e che siano in grado di differenziare effettivamente e nel migliore dei modi i contesti geografici e le zone montane o semi montane in cui si riscontrano effettive difficoltà produttive e una minore redditività;
   a verificare i modi effettivi e le relative conseguenze dell'applicazione delle esenzioni introdotte per i terreni svantaggiati, al fine di prevedere, con una successiva iniziativa normativa, una revisione dei criteri di esenzione dall'IMU che si adatti alla reale situazione dei terreni agricoli, in modo da aver riguardo alle reali condizioni socio-economiche ed agrarie e alle caratteristiche orografiche del suolo, nonché tenendo conto del rischio idrogeologico dei territori e della loro redditività, in modo da assicurare la coerenza della misura dell'imposta con la capacità contributiva dei medesimi terreni;
   a valutare l'opportunità di assumere iniziative per l'applicazione delle esenzioni introdotte anche per quei comuni con un territorio non uniforme, per i quali occorre differenziare anche nel medesimo comune tra zone svantaggiate e non, delimitando le diverse aree e valutando la possibilità di considerare tra le aree oggetto di esenzione o di significativa franchigia anche i siti di interesse comunitario e le aree protette;
   ad assumere iniziative normative per assicurare il rimborso a favore dei contribuenti che hanno effettuato versamenti dell'IMU relativamente ai terreni che risultano imponibili.
(1-00795)
«Rostellato, Artini, Baldassarre, Barbanti, Bechis, Mucci, Prodani, Rizzetto, Segoni, Turco».
(13 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    la vicenda dell'IMU agricola è stata oggetto di diversi interventi legislativi nel corso del 2014 e dell'inizio del 2015. Tali interventi hanno ingenerato sconcerto sia nel mondo agricolo, sia nelle amministrazioni comunali, a causa del sovrapporsi di norme, ciascuna modificativa della precedente, e di modalità applicative non in linea con i principi dello statuto del contribuente, sia per quel che riguarda la non retroattività delle norme fiscali, sia per il fatto che il requisito della montanità, necessario per l'esenzione dal pagamento della nuova imposta, non sembra essere stato applicato in modo da assicurare parità di trattamento fiscale a situazioni territoriali del tutto similari;
    dall'originaria previsione, contenuta nell'articolo 22 del decreto-legge n. 66 del 2014 e nel relativo decreto applicativo (decreto ministeriale del 28 novembre 2014), emanato ad appena due settimane dalla prima scadenza di pagamento, si è passati all'adozione del decreto-legge di mera proroga della scadenza di pagamento (decreto-legge 16 dicembre 2014, n. 185), poi confluito nei commi 692 e successivi dell'articolo 1 della legge di stabilità per il 2015, sino al decreto-legge n. 4 del 2015, nel quale sono stati adottati significativi miglioramenti all'originaria previsione, ma si sono anche gettate le basi per una complessiva rivisitazione dell'imposizione fiscale locale sui terreni agricoli;
    nel decreto legge n. 4 del 2015 , per quanto riguarda i comuni considerati totalmente montani, in cui i terreni agricoli sono completamente esenti, si passa da 1.498 a 3.546 unità; per quanto riguarda i comuni parzialmente esenti il numero ammonta a 655 unità; rispetto alla precedente classificazione, oltre 4.000 comuni vedono ora favorevolmente modificata la tassazione IMU dei rispettivi terreni agricoli; l'applicazione dei nuovi criteri di esenzione comporta, a regime dal 2015, un minor gettito, rispetto al precedente provvedimento, di circa 91 milioni di euro (268,7 milioni rispetto ai previsti 350);
    sono stati introdotti due ulteriori contemperamenti, consistenti nell'ampliamento dell'esenzione a favore dei comuni situati nelle isole minori che tiene conto del concetto di marginalità economica, nonché nella previsione di una riduzione dell'imposta di 200 euro dal 2015, in favore di quei terreni posseduti e condotti dai coltivatori diretti e dagli imprenditori agricoli professionali iscritti nella previdenza agricola collocati in aree definite «collina svantaggiata» e ubicati in quei comuni che erano in precedenza esenti e che, nella nuova classificazione Istat, non risultano essere né montani, né parzialmente montani;
    l'IMU, nelle sue varie componenti, trova origine negli articoli 8 e 9 del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23, applicativo della legge n. 42 del 2009 sul federalismo fiscale, a sua volta attuativa dell'articolo 119 della Costituzione, che concerne l'autonomia di entrata e di spesa di comuni, province, città metropolitane e regioni. In tale ambito il gettito, le aliquote (salva l'eventuale determinazione dei minimi e dei massimi) e le esenzioni dovrebbero essere esclusiva competenza dei comuni. È legittimo affermare che l'imposizione dei comuni sui propri terreni (agricoli, urbani, destinati ad attività produttive) costituisce l'archetipo delle imposte che dovrebbero essere integralmente devolute agli enti locali;
    peraltro, le materie dell'agricoltura e della gestione del territorio risultano, sia nell'attuale ordinamento che in quello che si prefigura nella riforma costituzionale in corso di esame, di competenza regionale; l'IMU agricola, così come impostata sia dall'articolo 22 del decreto-legge n. 66 del 2014, che dal decreto-legge n. 4 del 2015, si configura, invece, come una sorta di tassa patrimoniale basata su un reddito presunto derivato da valori catastali, in contrasto con i principi di territorialità, sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza che sono contemplati nella legge n. 42 del 2009;
    già l'articolo 29 della legge n. 142 del 1990 sulle autonomie locali demandava alle regioni la definizione di aree montane, consentendo di modulare l'imposizione fiscale sulla base delle specificità dei diversi territori, della redditività delle colture, dell'isolamento e del ritardo di sviluppo di talune aree del Paese; viceversa, i criteri adottati su indicazione Istat nel decreto-legge n. 4 del 2015, per stabilire il regime di esenzione, evidenziano una stortura di fondo, consistente nel fatto che il regime di esenzione non tiene conto della realtà economica e sociale, delle specificità dei diversi territori, della redditività delle colture, dell'isolamento e del ritardo di sviluppo di talune aree del Paese, ma si conforma a criteri meramente statistici;
    l'agricoltura italiana è uno dei comparti più dinamici dell'economia nazionale e la sua vitalità sta avendo effetti estremamente positivi sulla bilancia commerciale e sull'occupazione. Nell'attuale fase economica depressiva il comparto agricolo nazionale sta, quindi, svolgendo una funzione essenziale in termini produttivi e di rilancio economico-sociale; non è, pertanto, opportuno gravarlo con un'imposta che non tenga conto delle diverse realtà socio-economiche;
    nel corso del dibattito sul decreto-legge n. 4 del 2015 sono stati accolti dal Governo diversi ordini del giorno volti a riportare l'applicazione dell'IMU agricola nel suo ambito proprio di imposta devoluta agli enti territoriali nel se, nel come e nel quantum, nonché a sopprimere il taglio dei trasferimenti ai comuni individuando forme di copertura alternative: gli ordini del giorno nn. 9/1749/9 e 9/1749/5 sulle misure correttive volte superare la disparità di trattamento tra terreni agricoli ubicati in territori contigui e affini per caratteristiche morfologiche ed economiche, n. 9/2915/59 per l'adozione di criteri applicativi che tengano conto dell'indice di spopolamento del basso reddito pro capite di talune aree e n. 9/2679-bis-B/185 per l'introduzione di criteri premiali per i terreni in attualità di coltura e sanzionatori per i terreni lasciati incolti ovunque situati, da adottare a discrezione dei comuni,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative normative per abrogare, a decorrere dal 2015, la previsione dell'articolo 22, comma 2, del decreto-legge n. 66 del 2014, così come modificata dal decreto-legge n. 4 del 2015, concernente l'applicazione dell'imposta municipale propria (IMU) sui terreni agricoli, individuando, nell'ambito dei risparmi di bilancio o mediante nuove diverse entrate, le necessarie misure di compensazione;
   ad assumere iniziative normative dirette a devolvere agli enti territoriali la possibilità di valutare se introdurre o meno l'imposta municipale propria sui terreni agricoli, come componente della local tax;
   a modificare, in concorso con le regioni, le modalità applicative del requisito di montanità, secondo criteri che tengano conto della marginalità e della produttività delle aree, del reddito pro capite, della necessità di applicare la parità di trattamento tra terreni agricoli ubicati in territori contigui e affini per caratteristiche morfologiche ed economiche;
   ad assumere iniziative normative generali, relative alla tassazione dei terreni agricoli, nelle quali sia prevista la possibilità per gli enti locali di modificare in termini premiali o sanzionatori le aliquote dell'IMU, introducendo o incrementando l'imposta a carico dei terreni agricoli lasciati incolti, fatti salvi i riposi colturali e le aree destinate a bosco e a pascolo, o a carico dei terreni abbandonati, anche sotto il profilo della mancata esecuzione delle opere di tutela della pubblica incolumità o di sicurezza idrogeologica posti dalla legge a carico dei proprietari, o viceversa introducendo nuove o ulteriori riduzioni in favore dei terreni in attualità di coltura o dei terreni non coltivati, ma la cui corretta conduzione costituisca presidio contro il dissesto idrogeologico.
(1-00797)
«De Girolamo, Pagano, Cera, Dorina Bianchi, Bosco, Tancredi, Minardo».
(13 aprile 2015)

MOZIONI IN MATERIA DI POLITICHE A FAVORE DELLA NATALITÀ

   La Camera,
   premesso che:
    il fenomeno della scarsa natalità in Italia ha assunto, come noto, dimensioni molto preoccupanti;
    i dati ufficiali sulle nascite dimostrano un costante calo delle stesse dal 2010 al 2013, anno in cui è stato segnato un nuovo minimo storico, essendo stati rilevati solo 510.924 nati;
    contestualmente, si assiste al progressivo inasprimento di un fenomeno connesso a quello della denatalità: il processo di invecchiamento generale della popolazione. Nell'ultimo rapporto Istat del 2014, si stima che dal 2011 al 2041 la proporzione di ultrasessantacinquenni per 100 giovani con meno di 15 anni risulterà più che raddoppiata, passando da 123 a 278 unità;
    dati particolarmente allarmanti, diffusi recentemente da notizie di stampa, dimostrano che da tale trend non è escluso, ormai, neanche il Sud Italia, ove il problema sembra assumere contorni particolarmente critici, tanto da aver fatto parlare di un vero e proprio processo di «desertificazione»;
    non vi è dubbio che i fenomeni in esame, ove trovassero conferma nei prossimi anni, rischiano di mettere in crisi la sostenibilità stessa del sistema Paese e, in particolare, del sistema di welfare, comprensivo sia del settore previdenziale e sociale che del settore sanitario;
    a causare i citati fenomeni concorrono sia fattori sociali che economici;
    per le suddette ragioni, vanno considerate con grande favore tutte le iniziative che il Governo ha già adottato e vorrà adottare per contrastare il richiamato trend della natalità, in quanto un Paese senza nascite è un Paese senza futuro;
    in particolare, tra le richiamate iniziative, assumono significativo rilievo le seguenti:
     a) previsione, nell'ambito del disegno di legge di stabilità per il 2015, della concessione di un assegno mensile di 960 euro annui per ogni nuovo nato o adottato nel periodo compreso tra il 2015 e il 2017, per le famiglie in possesso di determinati requisiti di reddito, secondo modalità attuative da individuarsi mediante decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro della salute. Tale misura si inserisce nell'ambito più generale delle iniziative a favore della famiglia, cui, peraltro, il medesimo disegno di legge di stabilità riserva uno stanziamento aggiuntivo di 298 milioni di euro per il 2015;
     b) istituzione, presso il Ministero della salute, di un tavolo consultivo in materia di tutela e conoscenza della fertilità e prevenzione delle cause di infertilità, al fine di fornire, allo stesso Ministero, un qualificato supporto per approfondire le tematiche in questione e per proporre adeguate soluzioni, anche normative;
     c) la costante attenzione manifestata nei confronti della complessa problematica riguardante la procreazione medicalmente assistita, anche con riferimento, nell'ultimo anno, a quella di tipo eterologo, in conseguenza della nota sentenza della Corte Costituzionale che ne ha annullato il divieto,

impegna il Governo:

   a proseguire nel percorso già intrapreso di promozione e adozione di misure a sostegno della natalità e della famiglia;
   ad avviare sin da subito le iniziative affinché sia adottato il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri recante le misure attuative della norma sull'assegno per i nuovi nati o adottati;
   a valutare ogni possibile ulteriore iniziativa affinché la predetta misura dell'assegno per i nuovi nati o adottati non rimanga una iniziativa una tantum, ma si configuri, invece, come intervento permanente a favore delle famiglie e dei nuovi nati.
(1-00659)
«De Girolamo, Dorina Bianchi, Pizzolante, Tancredi, Saltamartini, Misuraca, Cicchitto, Pagano, Calabrò, Roccella, Piso, Scopelliti, Bernardo, Sammarco, Vignali, Bosco, Minardo, Garofalo, Piccone».
(11 novembre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    l'ultima indagine Istat del 2014 sulla situazione delle famiglie italiane registra un sistema di welfare costretto a fronteggiare numerosi elementi di criticità, anche in conseguenza della crisi economica che ha attraversato il nostro Paese. In un contesto di riduzione dei fondi destinati alle politiche sociali, da un lato, e di crescenti condizioni di disagio economico delle famiglie, dall'altro, si dipanano gli effetti delle trasformazioni demografiche e sociali, caratterizzate dall'accelerazione del processo di invecchiamento della popolazione e da mutamenti della struttura delle famiglie;
    in particolare, l'indagine Istat conferma quanto sia bassa la propensione ad avere figli. Mentre cresce la speranza di vita alla nascita, giunta a 79,6 anni per gli uomini e a 84,4 anni per le donne (rispettivamente superiore di 2,1 anni e 1,3 anni alla media dell'Unione europea del 2012), allo stesso tempo il nostro Paese è caratterizzato dal persistere di livelli molto bassi di fecondità, in media 1,42 figli per donna nel 2012 (media dell'Unione europea 1,58);
    sono, quindi, in calo le nascite, per la prima volta anche fra le madri straniere, che finora hanno tenuto alto il livello demografico del nostro Paese. Cinquemila neonati in meno nel 2014 rispetto al 2013. Si legge nel rapporto che il tasso di natalità è «insufficiente a garantire il necessario ricambio generazionale». La popolazione residente ha raggiunto i 60 milioni 808 mila residenti (compresi 5 milioni 73 mila stranieri) al 1o gennaio 2015, mentre i cittadini italiani continuano a scendere – come ormai da dieci anni – e hanno raggiunto i 55,7 milioni (-125 mila rispetto al 2013);
    la vita media in continuo aumento, da un lato, e il regime di persistente bassa fecondità, dall'altro, hanno fatto conquistare a più riprese all'Italia il primato di Paese con il più alto indice di vecchiaia del mondo: al 1o gennaio 2013 nella popolazione residente si contano 151,4 persone di 65 anni e oltre ogni 100 giovani con meno di 15 anni;
    questa misura rappresenta il «debito demografico» contratto da un Paese nei confronti delle generazioni future, soprattutto in termini di previdenza, spesa sanitaria e assistenza. Trent'anni di tale evoluzione demografica consegnano un Paese profondamente trasformato nella sua struttura e nelle sue dinamiche sociali e demografiche;
    forse il dato più allarmante registrato dall'indagine Istat 2014 è il seguente: l'Italia occupa la penultima posizione tra i Paesi europei per le risorse dedicate alle famiglie, per le quali lo stanziamento ammonta al 4,8 per cento della spesa totale erogata dallo Stato. Senza voler arrivare ai dati dei Paesi del Nord Europa, è chiaro a tutti che la coincidenza tra politiche per la famiglia e politiche a favore della natalità è un nodo fondamentale che non viene affrontato da troppo tempo dal Governo italiano;
    eppure molti sarebbero i fronti sui quali agire per favorire natalità e famiglia: parole come servizi per l'infanzia, esclusione sociale, povertà minorile, abbandono scolastico, disoccupazione, non solo stanno attraversando negli ultimi anni un periodo buio senza risposte, ma di fatto scoraggiano le giovani coppie italiane a creare una famiglia;
    infatti il Governo attuale non può pensare di continuare a «vivere» di rendita su quanto fatto dai Governi precedenti per le politiche familiari. Riconoscendo che nella legge di stabilità per il 2015, all'articolo 1, comma 131, si istituisce nello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze un fondo per interventi a favore della famiglia di 112 milioni di euro per il 2015, è chiaro che la carenza non risiede solo nei fondi, ma sul loro impegno e sul feedback ricevuto nell'impiego di spesa;
    anche se negli ultimi anni il sistema si era potenziato grazie al piano straordinario di sviluppo dei servizi socio-educativi per la prima infanzia, varato nel 2007 e sostenuto con 446 milioni di euro, di cui il 42 per cento destinato alle regioni meridionali a scopo perequativo, secondo diversi osservatori, tuttavia, la spinta propulsiva di tale piano si sarebbe ormai sostanzialmente esaurita;
    manca in Italia – a oltre 40 anni dalla legge istitutiva dei nidi d'infanzia, la n. 1044 del 1971 – un quadro di riforma organica dei servizi 0-6 anni, che ne identifichi i requisiti fondamentali, mettendo al centro i diritti dei bambini alla cura e all'educazione. Come scritto dal Gruppo nazionale nidi e infanzia del 2012, «la crisi ha già colpito e rischia di colpire ulteriormente la qualità di molti servizi e anche le eccellenze rischiano seriamente di non reggere di fronte alla prospettiva di una indiscriminata caduta di attenzione politica». Mettere in crisi il sistema dei servizi per l'infanzia vuol dire mettere in crisi la donna che lavora e che, fino all'ingresso dei figli alla scuola primaria, dovrà barcamenarsi per mantenere un lavoro o, come le statistiche dicono, sarà costretta a rinunciarvi;
    gli obiettivi fissati a Lisbona prevedono che il 33 per cento dei minori al di sotto dei 3 anni di età possa usufruire del servizio di asilo nido. Dai dati risulta che in media nel nostro Paese solo il 18,7 per cento dei bambini di 0-2 anni frequenta un asilo nido pubblico o privato;
    l'offerta di asili nido e di servizi integrativi per la prima infanzia mostra ampi divari territoriali: infatti, i dati evidenziano differenze estremamente rilevanti. Tra le regioni che vedono una situazione sfavorevole in termini di percentuale di comuni coperti la Calabria spicca con il valore più basso (13 per cento). I bambini che usufruiscono di asili nido comunali o finanziati dai comuni variano dal 3,5 per cento al Sud al 17,1 per cento al Nord-Est, mentre la percentuale dei comuni che garantiscono la presenza del servizio varia dal 24,3 per cento al Sud all'82,6 per cento al Nord-Est. Le regioni del Sud in cui si osservano le percentuali più basse di bambini che usufruiscono dei servizi all'infanzia sono la Campania (1,9 per cento) e la Calabria (2,4 per cento). Spiccano, invece, i valori di questo indicatore relativo alla presa in incarico degli utenti, per l'Emilia-Romagna (24,4 per cento), la provincia autonoma di Trento (19,5 per cento) e l'Umbria (19,1). Le regioni che registrano valori più alti per l'indice di copertura del servizio sono il Friuli Venezia Giulia, l'Emilia-Romagna e la Valle d'Aosta;
    i comuni svolgono un ruolo centrale nella gestione della rete di interventi e servizi sociali sul territorio che vengono destinati al sostegno alle famiglie per i bisogni connessi alla crescita dei figli, all'assistenza agli anziani e alle persone con disabilità, o al contrasto del disagio legato alla povertà e all'emarginazione. Le capacità di spesa dei comuni, del resto, sono fortemente condizionate dai vincoli posti dal patto di stabilità interno, dalla crisi economica e dalle riduzioni dei trasferimenti statali destinati a finanziare le politiche sociali: tutti fattori ancora senza risposta;
    non solo: come evidenziato in altri atti d'indirizzo parlamentare, in Italia il sistema fiscale si ostina ad operare come se la capacità contributiva delle famiglie non fosse influenzata dalla presenza di figli e dall'eventuale scelta di uno dei due coniugi di dedicare parte del proprio tempo a curare, crescere ed educare i figli. Investire nelle politiche familiari significa, pertanto, investire sulla qualità della struttura sociale e, di conseguenza, sul futuro stesso della società;
    accade poi che quanto di buono era stato fatto è, invece, smantellato dalle ultime posizioni governative. Basti pensare al seguente esempio: il decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 185, pubblicato nella Gazzetta ufficiale 6 luglio 2000, n. 156, in attuazione dell'articolo 45, comma 1, della legge 17 maggio 1999, n. 144, prevedeva incentivi per l'autoimprenditorialità e l'autoimpiego, al fine di favorire l'ampliamento della base produttiva e occupazionale, nonché lo sviluppo di una nuova imprenditorialità nelle aree economicamente svantaggiate del Paese. La misura è stata il principale strumento di sostegno alla realizzazione e all'avvio di piccole attività imprenditoriali da parte di disoccupati o persone in cerca di prima occupazione, per lo più giovani e donne. In attuazione del citato decreto legislativo sono stati erogati nell'arco temporale 2000-2012 incentivi per complessivi circa 4 miliardi di euro, che hanno consentito l'avvio di nuove iniziative imprenditoriali, con conseguente creazione di un significativo numero di posti di lavoro per un totale di circa 180 mila nuovi occupati, oltre all'occupazione aggiuntiva creata dall'indotto di tali attività. In particolare, una percentuale significativa degli aspiranti beneficiari sono stati donne e giovani (rispettivamente il 44 per cento e il 51 per cento del totale) e non c’è un solo comune del Sud Italia da cui non risulti pervenuta almeno una domanda, con effetti enormi sull'occupazione, senza contare gli enormi benefici nell'indotto. Eppure, il Governo ha deciso di non rifinanziare la misura di autoimpiego, togliendo la possibilità a molti giovani lavoratori di aprire un'attività a sostegno della propria famiglia;
    questo sembra ancor più paradossale se si pensa che in Italia giacciono inutilizzati, dal 2007, circa 20 miliardi di euro di fondi europei destinati allo sviluppo dell'occupazione giovanile,

impegna il Governo:

   a promuovere l'implementazione delle risorse destinate al fondo nazionale delle politiche sociali, verificandone l'equa ripartizione, ponendo attenzione alla reale ricaduta che tali risorse hanno sulle famiglie, assicurando che in tutti i comuni italiani vi sia la medesima accessibilità ai servizi e realizzando una rete di monitoraggio su quanto erogato e quanto investito relativamente a ciascun ente locale;
   a realizzare un'indagine ministeriale che quantifichi puntualmente l'effettiva domanda di servizi di asili nido, in modo tale da predisporre una programmazione di nuovi posti, in funzione della richiesta effettiva e non soltanto in base al numero complessivo dei bambini;
   ad intervenire con un sistema organico di politiche economiche, al fine di escludere dal patto di stabilità gli interventi pubblici relativi al funzionamento dei servizi per la famiglia e istituire meccanismi stabili di finanziamento pubblico, che prevedano la compartecipazione dei diversi livelli di governo alla spesa per i servizi per l'infanzia e per le scuole dell'infanzia.
(1-00791)
«Carfagna, Centemero, Palese, Prestigiacomo, Milanato, Calabria, Polverini».
(13 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    secondo l'ultimo rapporto del Censis, l'Italia ha un tasso di natalità tra i più bassi d'Europa, pari a 9,0 per mille abitanti;
    nell'anno 2013 il tasso di natalità è difatti sceso all'8,5 per cento, registrando il minimo storico: 514.308;
    la scarsa natalità e il relativo declino demografico che ne consegue sono il nemico occulto, ancora troppo sottovalutato, della sostenibilità del welfare futuro;
    dal 1995 fino al 2008 la crescita della natalità si è per gran parte realizzata grazie ai flussi migratori (aumento del numero di donne fertili e propensione culturale favorevole alla famiglia con figli);
    dopo il 2008, anche l'apporto derivante dalle migrazioni si è attualmente attenuato, poiché l'età media delle donne migranti in età fertile si è spostata nella fascia di età 30-40 anni, contro quella di 20-30 degli anni scorsi;
    sono diversi i fattori che hanno determinato la denatalità, in particolare la diminuzione delle donne fertili italiane dopo la progressiva uscita dalla fase riproduttiva delle baby-boomer, che hanno rinviato la maternità ad un'età più matura;
    la sfavorevole congiuntura economica evidenzia come rispetto a vent'anni fa la donna oggi lavori per necessità, e l'impossibilità di sostenere la propria famiglia, basandosi su un solo reddito, rimanda di fatto il più possibile il momento di una gravidanza, anche per allontanare il rischio di perdere il posto di lavoro;
    la crisi economica ha fissato la tendenza dei giovani di spostare in avanti la maternità, dovuta a una procrastinazione generale dei momenti di passaggio alla vita adulta: uscita dalla casa dei genitori, indipendenza, ingresso nel mondo del lavoro, autonomia economica e decisione di costruire una propria famiglia;
    come sostenuto da diversi economisti e studiosi, la famiglia costituisce «il primo generatore di esternalità sociali positive», configurandosi, in tale visione, come ammortizzatore sociale, generatore di capitale umano e soggetto economico;
    la famiglia è un «ammortizzatore sociale», perché da una parte «riequilibra» la distribuzione del reddito dal livello individuale a livello familiare dei proprio membri, coinvolgendo la catena generazionale e garantendo quel livello minimo di coesione sociale al proprio interno; dall'altra, funge da sistema di protezione per i soggetti più deboli, quali i minori, i disabili, i malati e i non-autosufficienti, in quanto in Italia è la famiglia stessa che tutela, durante tutte le fasi del ciclo di vita, i propri componenti e svolge, integrandosi con i sistemi di welfare, molte delle funzioni di assistenza e cura;
    nella sua qualità di «generatore di capitale umano», la famiglia rappresenta una fonte di reddito ed elemento necessario per il ricambio generazionale, poiché essa è promotrice, insieme al sistema educativo e formativo e al contesto sociale, del trasferimento di conoscenza ed esperienza per le nuove generazioni, costituendo un nodo fondamentale per il passaggio alla vita adulta, l'inserimento nel modo del lavoro e l'integrazione nella comunità;
    la famiglia è un «soggetto economico» dotato di una propria autonomia, il cui nucleo influenza decisioni di consumo, acquisto ed investimento;
    conseguentemente, in tale contesto, le politiche di sostegno alle famiglie devono essere sviluppate non in maniera unicamente assistenziale, ma in seno alla collettività;
    le suddette considerazioni mostrano come sia opportuno offrire misure di sostegno della maternità e della famiglia da parte dello Stato, che contribuiscano a rendere più facile la nascita di un figlio, creando altresì pari opportunità attraverso la promozione dei diritti delle donne in ambito lavorativo, familiare e sociale;
    la legge di stabilità per il 2015 (legge 23 dicembre 2014, n. 190), all'articolo 1, commi 125 e 129, ha introdotto un «bonus di 80 euro mensili, a favore dei genitori di bambini nati o adottati tra il 1o gennaio 2015 e il 31 dicembre 2017»;
    il suddetto «bonus bebé» tiene conto del reddito del nucleo familiare di appartenenza del genitore che richiede l'assegno, determinato utilizzando l'indicatore della situazione economica equivalente (ISEE), secondo quanto stabilito dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 159 del 2013. Di conseguenza, la spesa messa a preventivo è valutata in 202 milioni di euro per il 2015, 607 milioni di euro per il 2016, 1,012 miliardi di euro per l'anno 2017, 1,012 miliardi per il 2018, 607 milioni di euro per il 2019 e 202 milioni di euro per il 2020;
    ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo sarebbe più opportuno prevedere da parte del Governo investimenti concreti e permanenti, volti a sostenere appropriatamente la formazione di nuove famiglie e lo sviluppo di servizi per la prima infanzia, in armonia con i Consigli europei di Lisbona e di Barcellona che hanno indicato, tra gli obiettivi generali, la rimozione dei disincentivi alla presenza femminile nel mondo del lavoro, soprattutto attraverso lo sviluppo della rete dei servizi per la prima infanzia;
    in particolare, il dipartimento per le politiche della famiglia ed il dipartimento per le pari opportunità potrebbero avviare un progetto pilota per l'apertura o l'incentivazione di «nidi aziendali»;
    secondo il rapporto annuale dell'Istat, infatti, la distribuzione disomogenea sul territorio dei più importanti servizi alle famiglie, come gli asili nido, appare ancora evidente, nonostante gli interventi volti al riequilibrio delle disparità territoriali, finanziati nell'ambito delle politiche di coesione,

impegna il Governo:

   ad adottare tutti gli strumenti per aumentare il sostegno finanziario a favore delle famiglie a basso reddito, al fine di promuovere la natalità;
   a porre in essere tutte le iniziative, anche di carattere normativo, per istituire un «fondo statale» di garanzia sui prestiti concessi alle neo-mamme in condizioni di disagio, con reddito Isee del nucleo familiare medio-basso;
   ad adoperarsi, presso le competenti sedi europee, allo scopo di prevedere la sostanziale riduzione al 4 per cento o anche fino all'azzeramento dell'IVA sui prodotti destinati alla prima infanzia;
   ad assumere iniziative per lo stanziamento, nell'ambito del prossimo disegno di legge di stabilità, di risorse adeguate, atte a cofinanziare gli investimenti promossi dalle amministrazioni territoriali per la costruzione ovvero la riqualificazione di strutture destinate ad asili nido, da individuare con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali da adottare, previa intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano;
   sulla scorta di un eventuale progetto pilota, ad avviare un «piano programmatico a regime», volto a definire modalità, obiettivi, tempi e risorse per garantire:
    a) la continuità e la diffusione degli obiettivi di servizio relativi all'infanzia;
    b) l'istituzione di nuovi nidi aziendali, sia presso le sedi centrali e periferiche delle pubbliche amministrazioni nazionali, singole o tra loro consorziate, sia nei comuni, sia nel settore privato (attraverso convenzioni e relativi incentivi finanziari alle aziende) anche al fine di conseguire l'obiettivo comune europeo della copertura territoriale di almeno il 33 per cento per la fornitura di servizi per l'infanzia (bambini al di sotto dei tre anni), come fissato dall'Agenda di Lisbona;
    c) l'incentivazione su tutto il territorio di servizi integrativi e innovativi, quale «il nido di famiglia», gestito dalla «tagesmutter o mamma di giorno», che accudisce ed educa presso la propria abitazione bambini da 0 a 6 anni;
    d) la definizione, di concerto con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, delle modalità e dei criteri per percorsi professionali volti all'istituzione della nuova figura professionale «tagesmutter» o «assistente materna», al fine di valorizzare il contributo delle donne alla vita economica e sociale del Paese, incentivando l'autoimprenditorialità e favorendo al contempo il sostegno alla maternità e alla conciliazione familiare;
   ad adoperarsi per attuare progetti articolati per consentire alla lavoratrice madre o al lavoratore padre, anche autonomi, di usufruire di particolari forme di flessibilità degli orari e dell'organizzazione del lavoro, tra cui lavoro a tempo parziale reversibile, telelavoro e lavoro a domicilio, orario flessibile in entrata o in uscita, banca delle ore, flessibilità sui turni, orario concentrato, con priorità per i genitori che abbiano bambini fino ad otto anni di età o fino a dodici anni, in caso di affidamento o di adozione;
   a porre in essere iniziative normative volte ad estendere alle lavoratrici e ai lavoratori di cui all'articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, che non risultino iscritti ad altre gestioni di previdenza obbligatoria, nonché alle lavoratrici iscritte ad una delle gestioni Inps previste per i lavoratori autonomi, le tutele in materia di maternità e paternità previste dal testo unico di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151.
(1-00794)
«Lombardi, Cominardi, Ciprini, Dall'Osso, Chimienti, Tripiedi, Grillo, Silvia Giordano, Mantero, Baroni, Lorefice, Di Vita».
(13 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    il 12 febbraio 2015 l'Istat ha pubblicato il report sugli indicatori demografici, che evidenzia come i nuovi nati siano in costante diminuzione. Nel 2014 le nascite stimate risultano pari a 509 mila unità, circa cinquemila in meno rispetto al 2013, il livello minimo dall'Unità d'Italia. Il tasso di natalità scende dall'8,5 per mille nel 2013 all'8,4 per mille nel 2014. In media ogni donna ha 1,39 figli. La decisione di mettere al mondo dei figli viene sempre più posticipata, come documenta l'aumento dell'età media delle madri al parto, che si porta da 31 anni nel 2007 a 31,5 nel 2014;
    il Ministro della salute, Beatrice Lorenzin, ha da tempo avviato un lavoro con il supporto di un apposito gruppo di studio, per definire un ambiguo «piano nazionale sulla fertilità». Un piano accompagnato da affermazioni ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo fin troppo paternalistiche ed ideologiche. Come affermato dalla stessa Ministra Lorenzin, «i bambini devono tornare a nascere e serve educare alla maternità», dato che «il crollo demografico è un crollo non solo economico, ma anche sociale». «La decadenza» va «frenata con politiche di comunicazione, di educazione e di scelte sanitarie» e «bisogna dire con chiarezza che avere un figlio a trentacinque anni può essere un problema»;
    è di questi giorni la pubblicazione della seconda indagine del Censis sulla fertilità, nella quale si sottolinea come alla base della scarsa propensione ad avere figli vi siano motivazioni principalmente economiche (75,3 per cento). Ma le motivazioni sono anche culturali e politiche. L'ingresso delle donne nel mercato del lavoro non è stato, infatti, accompagnato da misure adeguate per la maternità. Le coppie sempre più tendono a pensare ai figli dopo i 35 anni, vale a dire proprio nel periodo in cui la fertilità di uomini e donne si riduce drasticamente, e a incidere su questo spostamento in avanti è, soprattutto, il mercato del lavoro precario;
    come ha sottolineato Concetta Maria Vaccaro, curatrice del suddetto rapporto del Censis, «non è un caso che nei Paesi del Nord Europa le donne facciano più figli, perché sono più tutelate dal welfare rispetto alla loro presenza nel mercato del lavoro. Il tasso di natalità in Italia è così basso anche perché fare figli è diventata una questione privata»;
    se il sistema del welfare si riduce sempre di più, e con esso i servizi socio-educativi, se il ruolo di cura è delegato alle madri, se non si affronta seriamente la questione dei congedi parentali, se mancano le opportunità di lavoro, è inevitabile che diventi marginale parlare di un piano nazionale della fertilità per sostenere le nascite nel nostro Paese;
    è, infatti, del tutto evidente che i principali motivi della denatalità risiedono nell'assenza di politiche organiche e attive di sostegno al lavoro femminile e a un nuovo rapporto tra lavoro e responsabilità di cura, nella carenza di opportunità e di servizi, nella carenza di strutture per l'infanzia, nonché in un quadro avvilente in fatto di welfare, con alti costi e forti disparità nell'offerta tra le diverse aree del Paese;
    il lavoro di cura grava ancora in modo preponderante sulle donne – con margini di tempo per loro stesse estremamente ristretti e con evidenti minori possibilità di occupazione e crescita professionale – spesso costrette a lasciare il proprio lavoro dopo la nascita dei figli, e in particolare con la nascita del secondo;
    le donne vogliono poter decidere di diventare madri e lavorare, malgrado i tanti ostacoli: precarietà, insufficienza dei servizi di welfare, quali strumenti di sostegno nella gestione del lavoro di cura e della vita professionale; dimissioni in bianco; mancato riconoscimento sociale della maternità e dei congedi di paternità, carenza di strutture per l'infanzia; un welfare con alti costi e forti disparità nell'offerta tra le diverse aree del Paese; assenza di politiche organiche e attive di sostegno al lavoro femminile;
    per quanto riguarda le politiche per l'infanzia – che incidono pesantemente sulla denatalità del nostro Paese – uno dei problemi strutturali dell'Italia è l'evidente carenza di strutture per l'infanzia e l'offerta comunale di asili nido e altri servizi socio-educativi. Gli asili nido comunali sembrano spesso più strutture a pagamento che statali, con costi medi che si aggirano intorno ai 300 euro mensili e tariffe in crescita rispetto agli anni passati. La distribuzione sul territorio nazionale di nidi comunali o finanziati dal comune è, peraltro, fortemente squilibrata;
    i pesanti tagli agli enti locali attuati in questi ultimi anni non hanno fatto che peggiorare la situazione dal punto di vista sia della qualità del servizio che dei costi. Il dato di fondo resta sempre l'enorme scarto esistente tra le esigenze delle famiglie e la reale possibilità di soddisfare tali esigenze;
    il dossier di «Cittadinanzattiva» 2012 ha confermato in pieno le difficoltà in questo ambito: le strutture comunali su cui possono contare le famiglie superano di poco quota 3.600 e sono in grado di soddisfare circa 147 mila richieste di iscrizione. I genitori di un bambino su quattro (23,5 per cento) restano in lista d'attesa e sono costretti a rivolgersi altrove;
    di fronte a questi dati non stupisce il fatto che molte giovani donne siano spinte a rinunciare o a rinviare sine die una maternità comunque desiderata. Fa riflettere la tendenza sempre più accentuata di richiesta delle donne di congelare gli ovociti per conservare la loro fertilità nel tempo;
    riguardo alla questione delle risorse destinate alla scuola, la stessa Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza ha sottolineato come debba «essere dato effettivo impulso a investimenti adeguati, da destinarsi alle strutture scolastiche, necessari per garantire condizioni di sicurezza e di vivibilità agli studenti, nonché servizi scolastici che siano in linea con gli standard dei principali Paesi europei», ricordando come «l'offerta pubblica di servizi socio-educativi per la prima infanzia si caratterizza per amplissime differenze territoriali, sia in termini di spesa che di utenti. Si conferma la carenza di strutture nelle regioni del Mezzogiorno»;
    è importante sottolineare che per la copertura dei nidi il target europeo è il 33 per cento. L'Agenda di Lisbona aveva, infatti, fissato l'obiettivo dell'Unione europea del 33 per cento della copertura territoriale per la fornitura di servizi per l'infanzia entro il 2010, mentre in Italia (al di là dell'Emilia-Romagna, che risulta la prima regione, con il 28 per cento), la media nazionale si attesta intorno al 17 per cento. L'Italia è, quindi, a circa la metà dell'obiettivo stabilito dall'Agenda di Lisbona;
    il 16 dicembre 2014 la Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza ha approvato il documento conclusivo dell'indagine conoscitiva sulla povertà e il disagio minorile. Nel documento si legge, tra l'altro, come tra il 2011 e il 2013 siano raddoppiati i bambini poveri e «ciò si deve al fatto che nel nostro Paese non solo si investono meno risorse rispetto ad altri Paesi, ma la capacità di ridurre la povertà con le risorse destinate risulta assolutamente deficitaria». Tra le chiavi di lettura del fenomeno viene sottolineata la circostanza che i trasferimenti monetari non accompagnati da servizi adeguati sono scarsamente efficaci;
    riguardo alle politiche di sostegno al reddito e al welfare – aspetti centrali per interpretare la progressiva riduzione della natalità – è evidente come il progressivo aumento della povertà nel nostro Paese abbia inciso pesantemente sulle condizioni di vita dei cittadini. A ciò si aggiungano le scelte politiche che hanno visto in questi anni ridurre sensibilmente gli stanziamenti a favore del welfare e dei servizi destinati alle famiglie;
    la Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza, nel suddetto documento conclusivo, ha ricordato come, nell'ambito della spesa per le politiche sociali, gli stanziamenti statali per combattere l'impoverimento in età adolescenziale risultano sensibilmente ridotti negli ultimi anni. Se nel 2008 i fondi nazionali per il contrasto della povertà ammontavano complessivamente a 2 miliardi e mezzo di euro, nel 2013 gli stanziamenti erano scesi a 766 milioni di euro, scontando nel complesso un taglio di un miliardo e 536 milioni di euro dall'inizio della crisi;
    un intervento di sostegno al reddito e ai nuovi nati e nate è il cosidetto «bonus bebé», introdotto dal Governo, e comunque migliorato durante l'esame parlamentare, nella legge di stabilità per il 2015, che ha previsto che per ogni figlio nato o adottato dal 1o gennaio 2015 fino al 2017 sia riconosciuto un assegno di 960 euro annui, purché la condizione del nucleo familiare di appartenenza del genitore richiedente sia in condizione economica corrispondente a un valore isee non superiore a 25 mila euro annui. Una misura che costerà complessivamente 3,642 miliardi di euro complessivi (fino al 2020);
    si è di fronte a un trasferimento monetario alle famiglie meno abbienti che decideranno nei prossimi tre anni di metter al mondo dei figli. Sotto questo aspetto si è scelto per un sostegno monetario (che costerà, come visto, oltre 3 miliardi e mezzo di euro nei prossimi cinque anni) diretto, piuttosto che in un rafforzamento dei servizi socio-educativi per la prima infanzia. Cosa che avrebbe consentito (al contrario del bonus) di investire nel futuro del Paese, rispondere meglio alle esigenze reali dei genitori meno abbienti e dare nuove opportunità di occupazione;
    l'esperienza di molti Paesi europei dimostra, infatti, come la politica di trasferimenti monetari diretti per favorire la natalità può avere effetti anche controproducenti rispetto alla partecipazione al lavoro, mentre effetti positivi di sostegno alla genitorialità si sono avuti grazie a un insieme di interventi coordinati – sviluppo dei servizi socio-educativi per l'infanzia (cui la legge di stabilità per il 2015 destina solo 100 milioni di euro per il 2015), sgravi fiscali, congedi genitoriali ed altro – che hanno dimostrato di far crescere sia occupazione sia fecondità;
    riguardo alle politiche del lavoro, anch'esse condizionano fortemente le scelte di genitorialità;
    nelle economie dove vi sono sistemi di welfare più sviluppati e di impianto universalistico e con buone politiche del lavoro l'integrazione delle donne nel mercato del lavoro è più elevata e maggiore è la crescita demografica;
    in un suo recente articolo su la Repubblica, Chiara Saraceno ha ricordato come, riguardo all'occupazione femminile, è aumentato molto il part time involontario, ossia non quello scelto come temporanea strategia di conciliazione tra partecipazione al mercato del lavoro e responsabilità famigliari, ma il part time imposto dalle aziende, specie nel terziario. Il basso tasso di occupazione femminile è una delle cause dell'alta incidenza di povertà nelle famiglie in Italia, per contrastare la quale occorrono politiche sia imprenditoriali sia pubbliche intelligenti e non di corto respiro. Il dato della perdita di occupazione femminile è il segnale della persistenza delle difficoltà a entrare e rimanere nel mercato del lavoro;
    l'Italia si conferma uno dei Paesi europei a più bassa occupazione femminile. E qui, la crisi mostra il suo volto nell'impoverimento dei redditi e delle opportunità e, infine, nella sempre maggiore difficoltà di determinare il proprio progetto di vita;
    è necessario adottare efficaci misure per sostenere il reddito delle famiglie con figli (comprese le famiglie di origine straniera). A tal fine, è ineludibile incentivare sempre più la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, nonché favorire modalità di lavoro più flessibili per i genitori;
    è, inoltre, necessario intervenire per aumentare gli sgravi fiscali, in particolare per le micro e piccole imprese, sulle quali incidono in misura proporzionalmente maggiore i costi delle misure a favore della maternità delle lavoratrici;
    per favorire le madri lavoratrici occorre intervenire con incentivi a favore della destandardizzazione degli orari, sotto forma di orari flessibili e riduzioni volontarie temporanee o durature dell'impegno lavorativo;
    in considerazione del costo che la maternità ha in termini di salute e di dedizione totale del proprio tempo a favore dei figli, andrebbe riconosciuta a tutte le donne madri la contribuzione figurativa di almeno un anno per ogni figlio, indipendentemente dallo svolgimento di attività lavorativa al momento della gestazione, e un'ulteriore integrazione contributiva per i periodi di lavoro part time legati alla maternità;
    è attualmente all'esame della Commissione lavoro pubblico e privato della Camera dei deputati lo schema di decreto legislativo attuativo della legge delega sul mercato del lavoro (cosiddetto Jobs act) in materia di revisione delle misure volte a tutelare la maternità e a favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, allo scopo di garantire adeguato sostegno alle cure parentali;
    nonostante alcuni passi avanti, le misure contenute nello schema di decreto sono ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo ancora troppo modeste anche perché legate alla scelta del Governo di introdurre solo misure a costo zero (o quasi), scelta che non può che penalizzare una strategia di sostegno alla genitorialità che ancora una volta nel nostro Paese non riesce a decollare e che mantiene ancora distante la costruzione di quel sistema integrato di welfare per la cura che allarghi le possibilità di scelta delle madri e dei padri nelle strategie di cura tra servizi pubblici, servizi di mercato e cura diretta, evitando loro di scegliere di rinunciare all'occupazione;
    un contributo a una genitorialità libera e consapevole deve, inoltre, essere garantito dalla piena attuazione delle tecniche di fecondazione eterologa e di procreazione medicalmente assistita, le cui norme sono state modificate da diverse sentenze della Corte costituzionale, e da ultimo dalla sentenza n. 162 del 9 aprile 2014;
    attualmente si assiste a una situazione di discriminazione delle coppie a seconda della regione di appartenenza;
    la modalità di erogazione delle prestazioni dal punto di vista economico è caratterizzato da poca trasparenza, opacità della condotta di molte regioni e spreco di denaro pubblico. Le maggiori criticità riguardano la mancata trasparenza del sistema e l'inappropriatezza nell'erogazione delle prestazioni sia sul piano nazionale che su quello regionale e, in particolare, nel sistema della mobilità sanitaria tra regioni;
    è, quindi, assolutamente indispensabile che l'ormai – si spera – imminente aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, previsto nel Patto per la salute 2014/2016, e che sarebbe dovuto avvenire entro la fine del 2014, preveda – come dovrebbe essere – l'introduzione, tra le nuove prestazioni, anche delle tecniche di fecondazione,

impegna il Governo:

   a implementare, di concerto con le regioni, le politiche a favore dei servizi socio-educativi per la prima infanzia, con particolare riguardo alla riduzione delle attuali forti disomogeneità territoriali nell'offerta di detti servizi, anche attraverso il rifinanziamento del piano straordinario di interventi per lo sviluppo del sistema territoriale dei servizi socio-educativi previsto dalla legge n. 296 del 2006;
   ad assumere iniziative per incrementare le risorse assegnate al fondo per le politiche sociali e al fondo nazionale per l'infanzia e l'adolescenza;
   nell'impiego di risorse a sostegno delle politiche volte a sostenere la natalità, con particolare riguardo ai nuclei familiari più deboli, a privilegiare il finanziamento di interventi per incrementare l'offerta di strutture e servizi socio-educativi per l'infanzia, garantendone l'attuazione e l'uniformità su tutto il territorio nazionale, rispetto a una politica di meri sussidi e trasferimenti monetari diretti;
   a prevedere un piano straordinario per il lavoro femminile, che preveda, tra l'altro:
    a) di stabilizzare e incrementare il bonus introdotto dalla legge n. 92 del 2012 per l'acquisto di servizi di baby-sitting ovvero per far fronte agli oneri della rete pubblica dei servizi per l'infanzia o dei servizi privati accreditati in alternativa al congedo parentale;
    b) di sostenere politiche attive e misure efficaci di sostegno alla conciliazione dei tempi di lavoro e di cura, al fine di favorire la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, con particolare riguardo a chi ha redditi bassi e discontinui;
    c) di considerare le fasi della vita dedicate alla cura, come crediti ai fini pensionistici con il riconoscimento di: contributi figurativi legati al numero dei figli o ad eventuali altri impegni di cura; integrazioni contributive per i periodi di lavoro part time per ragioni di cura; possibilità di anticipo della pensione per necessità di accudimento di persone non autosufficienti, nel quadro di una revisione del sistema pensionistico che contempli flessibilità e libertà di scelta;
    d) nell'ambito delle misure di incentivazione al ricorso da parte dei padri ai congedi parentali, opportune risorse volte ad assicurare un aumento (almeno al 60 per cento) della relativa quota indennizzata;
    e) lo stanziamento di adeguate risorse finanziarie volte ad aumentare gli sgravi fiscali relativi alle misure a favore della maternità delle donne lavoratrici che sono a carico dei datori di lavoro, con particolare riguardo alle piccole e micro imprese, sulle quali i costi incidono in misura proporzionalmente maggiore;
    f) l'introduzione di incentivi per agevolare la destandardizzazione degli orari, sotto forma di orari flessibili e riduzioni volontarie temporanee o durature dell'impegno lavorativo, per favorire le madri lavoratrici;
   a prevedere più efficaci politiche tese a rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono alle donne di autodeterminarsi secondo il loro desiderio e di regolare liberamente la loro fecondità, nonché politiche che mettano al centro maggiormente il benessere della persona rispetto alla famiglia;
   a prevedere studi specifici di genere, anche riguardo agli effetti sulla fertilità e sulle malattie neo-natali prodotti dall'inquinamento e dalla contaminazione delle matrici ambientali;
   a provvedere, anche in conseguenza della sentenza della Corte costituzionale n. 162 del 9 aprile 2014, all'aggiornamento delle linee guida di cui al decreto del Ministero della salute dell'11 aprile 2008 secondo le indicazioni della medesima sentenza;
   a emanare quanto prima l'aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, previsto nel Patto per la salute 2014/2016, con l'inclusione, tra le nuove prestazioni, anche delle tecniche di fecondazione, anche al fine di garantire dette prestazioni in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale;
   ad assumere iniziative per estendere l'accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita a tutte le donne che hanno compiuto la maggiore età e in età potenzialmente fertile.
(1-00798)
«Nicchi, Pannarale, Airaudo, Scotto, Costantino, Duranti, Pellegrino, Ricciatti, Placido, Franco Bordo, Daniele Farina, Ferrara, Fratoianni, Giancarlo Giordano, Kronbichler, Marcon, Matarrelli, Melilla, Paglia, Palazzotto, Piras, Quaranta, Sannicandro, Zaccagnini, Zaratti».
(13 aprile 2015)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE IN MERITO ALL'EMERGENZA UMANITARIA RELATIVA AL CAMPO PROFUGHI DI YARMOUK, IN SIRIA, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALLA SITUAZIONE DEI MINORI

   La Camera,
   premesso che:
    secondo le informazioni che giungono dai media locali e internazionali, nonché dalle organizzazioni umanitarie, come l'Unicef, la situazione già disumana del campo profughi di Yarmouk, a circa otto chilometri a sud di Damasco, in Siria, sta assumendo un carattere di emergenza umanitaria;
    il campo profughi su citato, abitato da circa 18 mila palestinesi, è stato occupato dal 1o aprile 2015 dallo Stato islamico (Is), che attualmente presidia gli accessi al medesimo campo;
    all'interno del campo di Yarmouk si trovano circa 3.500 bambini, ostaggi del terrorismo, senza acqua, cibo e medicinali, costantemente a rischio di morte, abusi e violenze;
    l'8 aprile 2015, il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, Paolo Gentiloni, ha previsto di mettere in campo un intervento urgente in favore dell'Unicef e dell'Unrwa (Agenzia dell'Onu per i rifugiati palestinesi), pari a 1,5 milioni di euro, contribuendo così all'attività di Unicef di protezione umanitaria e assistenza psicologica ai bambini palestinesi, che sono tuttora nel campo, oltre che alle famiglie che sono riuscite a evadere dalla spaventosa trappola di guerra, fame e deprivazioni;
    il Ministro Gentiloni ha, altresì, evidenziato la necessità di intervenire rapidamente e fare il possibile per creare corridoi umanitari, con l'obiettivo di limitare i danni di una situazione già drammatica;
    è necessario agire prontamente non solo con gli aiuti economici, ma con azioni finalizzate ad allontanare i bambini del campo profughi di Yarmouk dalle zone di guerra e da condizioni precarie al limite della sopravvivenza, favorendo programmi solidaristici di accoglienza e affidamenti temporanei;
    i citati programmi solidaristici possono essere realizzati dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, congiuntamente al Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, tramite l'accoglienza temporanea in Italia di minorenni non aventi cittadinanza italiana o di altri Stati dell'Unione europea, attraverso l'attività di promozione operata da enti, associazioni o famiglie, seguiti da uno o più adulti con funzioni di sostegno, guida e accompagnamento;
    la realizzazione di tali programmi potrà avvenire sulla base della normativa prevista dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 9 dicembre 1999, n. 535, che ha definito i compiti del «Comitato minori stranieri», affinché venga garantita la tutela dei minorenni accolti in Italia nell'ambito di programmi solidaristici, in linea con quanto dichiarato dalla Convenzione Onu sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza del 20 novembre 1989;
    la permanenza in Italia di breve durata potrà avvalersi dell'esperienza positiva, realizzata dal 1993, tramite l'accoglienza dei bambini vittime delle conseguenze della nube tossica di Chernobyl e residenti nelle zone contaminate della Bielorussia,

impegna il Governo:

   a mettere in atto a livello internazionale, nel più breve tempo possibile, tutte le azioni necessarie per arginare questa tragedia che coinvolge tanti bambini e adolescenti, prendendo immediati contatti con enti e associazioni che già operano sul territorio;
   ad attivare corridoi umanitari e programmi di accoglienza destinati ai bambini di Yarmouk e alle centinaia di minori che sono profughi in Libano, ostaggi del terrorismo;
   a promuovere permanenze temporanee in Italia dei bambini profughi da Yarmouk, assumendo come riferimento le modalità degli affidamenti temporanei, già sperimentati con successo in occasione dell'accoglienza dei bambini di Chernobyl da parte delle famiglie italiane.
(1-00785)
«Iori, Sberna, Daniele Farina, Locatelli, Pinna, Tidei, Antezza, Carra, Cimbro, Fossati, Gadda, Gasparini, Giacobbe, Gribaudo, Iacono, Incerti, Laforgia, Maestri, Malisani, Martelli, Romanini, Villecco Calipari, Zampa, Giovanna Sanna, Bazoli, Lodolini, Roberta Agostini, Senaldi, La Marca, Piccione, Patriarca, Rotta, Scuvera, Bergonzi, Piccoli Nardelli, Miotto, Zanin, Franco Bordo».
(9 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    il campo profughi palestinese di Yarmouk, che dista qualche chilometro dal centro di Damasco, è diventato dal 1o aprile 2015 teatro di battaglia tra i jihadisti del sedicente Stato Islamico (Is) e del gruppo radicale al-Nusra; secondo fonti locali i terroristi controllerebbero ormai il 90 per cento del campo; risulta che i ribelli entrati nella parte sud del campo, aiutati da gruppi ribelli all'interno dello stesso, abbiano sposato la causa di Daesh (l'acronimo arabo per lo Stato islamico dell'Iraq e del Levante noto come Is), riuscendo in questo modo a compattare i diversi piccoli gruppi di ribelli;
    il campo è stato costruito dopo la guerra tra arabi e israeliani, con la cacciata di decine di migliaia di palestinesi dalle proprie terre e case, nel 1948; prima dell'inizio della guerra civile in Siria, a Yarmouk vivevano circa 150.000 palestinesi ed era una vera e propria città con le sue moschee, le sue scuole e i suoi edifici pubblici. Il numero dei residenti, poi, è calato quando la vita a Yarmouk è peggiorata a causa della recrudescenza e della crudeltà della guerra in Siria, in particolare da quando nel 2012 l'esercito e i ribelli hanno iniziato a contendersi la zona;
    da varie fonti di stampa, risulta che nel campo profughi siano attualmente tenuti in ostaggio almeno 3.500 bambini e oltre 10.000 adulti e molti di loro soffrono di disabilità, senza cibo né acqua o medicine; tra l'altro, si rincorrono voci circa la possibilità che vi siano state anche esecuzioni sommarie e non si hanno ancora notizie certe del numero di morti per combattimento;
    tale drammatica situazione è stata paventata dall'Unicef come una nuova Srebrenica, città tristemente nota poiché, nella zona protetta che si trovava in quel momento sotto la tutela delle Nazioni Unite, migliaia di musulmani bosniaci furono uccisi l'11 luglio 1995 da parte delle truppe serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladic, con l'appoggio dei gruppi paramilitari guidati da Zeljko Raznatovic;
    il Consiglio di sicurezza dell'Onu ha già chiesto che sia consentito l'accesso alle varie agenzie umanitarie per assicurare la protezione dei civili, l'assistenza umanitaria e salvare vite umane, come ha spiegato l'ambasciatrice giordana, Dina Kawar, il cui Paese ha la presidenza di turno;
    è, dunque, in corso una tragedia umana, oltre i confini di Israele, che pure dovrebbe fare la propria parte in questo sforzo internazionale, ad esempio concedendo all'Anp di accogliere una parte dei profughi di Yarmouk, visto che quasi venti mila profughi palestinesi sono intrappolati all'interno di un Paese dilaniato da 5 anni di guerra civile, assediati dalla ferocia di cellule estremiste;
    aerei dell'aviazione siriana hanno già bombardato l'accampamento di profughi palestinesi e siriani un paio di anni fa all'inizio del conflitto; gravi sono le responsabilità del regime di Al Assad nell'aver fatto deteriorare la situazione umanitaria a Yarmouk, costringendo decine di migliaia di persone a abbandonarla;
    il Commissario generale dell'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione per i rifugiati palestinesi (Unrwa), Pierre Krahenbuhl, ha dichiarato che i civili intrappolati nel campo profughi sono «più disperati che mai, la situazione si è capovolta (...) al di là del disumano. In questo momento è semplicemente troppo pericoloso entrare a Yarmouk»;
    i rifugiati palestinesi provenienti dalla Siria non godono degli stessi diritti dei rifugiati siriani, in quanto non sono formalmente riconosciuti come cittadini di un altro Stato, ma alla stregua dei palestinesi già presenti storicamente in Paesi come il Libano e la Giordania;
    dal 1948 i rifugiati palestinesi sono «assistiti» dall'Unrwa (che, tuttavia, per insufficienza dei fondi, non è in grado di fare molto) e si pone il problema di superare quella che appare ormai una vetusta organizzazione e dare, invece, pari dignità con gli altri rifugiati all'interno del sistema dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati,

impegna il Governo:

   a farsi promotore, di concerto con la comunità internazionale, di una forte iniziativa tesa alla protezione dei rifugiati palestinesi e alla loro eventuale evacuazione dal campo di Yarmouk, anche attraverso l'attivazione di corridoi umanitari sotto l'egida della Croce rossa internazionale;
   ad agire su tutti gli attori regionali in campo, compresi i Paesi confinanti, per giungere a un cessate-il-fuoco tra le parti in modo da rendere praticabile l'aiuto umanitario;
   a sostenere ogni iniziativa volta all'ospitalità di bambini palestinesi nelle strutture in Italia, alla stregua di quanto già fatto positivamente in passato, in altre occasioni drammatiche, nonché a predisporre l'eventuale cura dei feriti provenienti dai campi presso gli ospedali italiani;
   a chiedere il pieno riconoscimento delle pari dignità dei rifugiati palestinesi con gli altri rifugiati dentro il sistema di protezione previsto dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati in funzione del superamento dell'ormai obsoleta Unrwa;
   a valorizzare la rinnovata attenzione della comunità internazionale sul dramma che si sta consumando in Siria per stimolare la stessa e tutti gli attori interessati al fine di rendere finalmente concreto e credibile il non più rinviabile processo di pace in quella regione.
(1-00792)
«Manlio Di Stefano, Grande, Spadoni, Scagliusi, Sibilia, Del Grosso, Di Battista».
(13 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    la situazione nel campo profughi di Yarmouk, in Siria, è drammatica e si è di fronte a un'emergenza umanitaria che sta assumendo i contorni di una tragedia annunciata: 3.500 bambini sono senza acqua, cibo e medicinali;
    l'Unicef parla di una nuova Srebrenica e afferma che il campo profughi di Yarmouk è un vero e proprio inferno nell'inferno del conflitto siriano, alle porte di Damasco, sotto il controllo violento dello Stato islamico e del fronte al-Nusra, che, secondo fonti locali, controllano ormai l'80 per cento del campo. Da sei giorni si combatte casa per casa;
    l'Unicef, l'agenzia dell'Onu che si occupa dell'infanzia, ricorda che nel 1995 i serbo-bosniaci trucidarono circa 8.000 musulmani e parla delle atrocità compiute dai jihadisti, come di qualcosa che va «oltre il disumano»: esecuzioni sommarie, decapitazioni, rapimenti;
    il Segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, il 10 aprile 2015 ha detto alla stampa che: «Nell'orrore che è la Siria, il campo profughi di Yarmouk è il cerchio più profondo dell'inferno. È un campo profughi che comincia a sembrare un campo di sterminio (...) Non possiamo semplicemente stare in attesa e vedere un massacro che si realizza». Ban Ki-moon ha aggiunto che il livello di brutalità dell'Isis è «indescrivibile e che i residenti di Yarmouk, inclusi i bambini, vengono usati come scudi umani»;
    Dina Kawar, ambasciatrice giordana negli Stati Uniti e attuale presidente del Consiglio di sicurezza dell'Onu, chiede che i civili vengano protetti e venga garantito l'accesso umanitario alla zona, per fornire assistenza, salvare vite e assicurare che i civili vengano fatti uscire dal campo in sicurezza. La preoccupazione dell'Onu è stata espressa dopo la presentazione da parte di Pierre Krahenbuhl dell'Unrwa – l'agenzia delle Nazioni Unite che si occupa solo di rifugiati palestinesi – di un rapporto sulle condizioni di vita a Yarmouk, che sono «più disperate che mai». Christopher Gunness, un altro operatore dell'Unrwa, ha raccontato che i convogli dell'agenzia non riescono a entrare nel campo a causa dei combattimenti tra i gruppi palestinesi e i ribelli siriani che dal 1o aprile 2015 cercano di fermare l'avanzata dell'Isis: a Yarmouk non c’è cibo, non c’è acqua, ci sono pochissime medicine;
    l'8 aprile 2015 il Governo italiano, prendendo atto che i bambini sono a rischio di morte, abusi e violenze, ha annunciato di aver stanziato 1,5 milioni di euro per sostenere le attività dell'Unicef e dell'Unwra. Il Ministro Paolo Gentiloni, dopo un vertice trilaterale con i Ministri di Egitto, Sameh Shoukry, e Algeria, Abdelkader Messahel, ha detto: «L'emergenza umanitaria nel campo profughi di Yarmouk è drammatica. La Farnesina ha deciso di stanziare 1,5 milioni di euro destinato ai 3.000 bambini del campo profughi di Yarmouk attraverso l'Unicef e l'Unwra». Il Ministro ha anche ribadito che occorre intervenire rapidamente e fare il possibile per creare corridoi umanitari che consentano di limitare i danni,

impegna il Governo:

   a mettere tempestivamente in atto tutte le politiche internazionali necessarie per arginare questa tragedia che coinvolge oltre 3.500 tra bambini e adolescenti, facilitando i contatti con gli enti e le associazioni che già operano sul territorio, per far giungere loro le risorse necessarie a far fronte a questa emergenza;
   ad attivare corridoi umanitari e programmi di accoglienza destinati ai bambini di Yarmouk e alle centinaia di minori profughi in Libano, attualmente ostaggi del terrorismo, individuando residenze, luoghi di accoglienza, altri campi in altri Paesi, in cui accogliere questi bambini in attesa di soluzioni che abbiano un carattere di maggiore stabilità per la loro vita e per il loro futuro;
   a facilitare il ricongiungimento di questi bambini con le loro famiglie attraverso specifici interventi delle associazioni presenti sul territorio, orientando gli aiuti ai nuclei familiari ricomposti;
   a promuovere permanenze temporanee in Italia dei bambini profughi da Yarmouk, in analogia con quanto fatto a suo tempo dalle famiglie italiane per l'accoglienza dei bambini di Chernobyl.
(1-00796)
«Binetti, Dorina Bianchi, Buttiglione, De Mita, Cera».
(13 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    il 1o aprile 2015 la televisione libanese Al Mayadin ha informato il mondo intero del fatto che miliziani del sedicente Stato islamico avevano raggiunto il campo profughi palestinese di Yarmouk, inaugurato nel lontano 1948 e situato alle porte di Damasco, dove risiedono circa 15 mila persone;
    si ricorda come la protezione dei rifugiati palestinesi fosse un elemento importante della posizione internazionale adottata dal regime siriano degli Assad, sempre attento a presentarsi ufficialmente come un campione della cosiddetta «resistenza» (all'occupazione israeliana), intrattenendo rapporti privilegiati prima con l'Olp e poi anche con l'organizzazione rivale denominata Hamas, costola della Fratellanza musulmana a Gaza ed alleata dell'Iran;
    all'attacco condotto dai miliziani dello Stato islamico contro il campo profughi di Yarmouk hanno fatto seguito decapitazioni e violenze di varia natura, nonché lo scoppio di una gravissima crisi umanitaria, le cui prime vittime sono i circa 3.500 bambini rimasti nella struttura occupata dai miliziani dello Stato islamico, oltre alle centinaia di civili che avrebbero già perso la vita, mille secondo il deputato arabo-israeliano Ahmed Tibi;
    si esprimono perplessità sui reali obiettivi dell'attacco sferrato dal sedicente califfato contro il campo profughi di Yarmouk, potendo teoricamente esserne bersagli tanto i simpatizzanti di Hamas, significativamente numerosi nella struttura, quanto quelli dell'Olp e lo stesso regime di Damasco, per ragioni naturalmente differenti;
    si stigmatizza la circostanza che, una volta di più, ad infliggere sofferenze ingiustificate al popolo palestinese siano proprio le forze ed i movimenti che alla sua condizione fanno riferimento per reclutare giovani da mandare al macello contro l'Occidente ed i suoi alleati in Medio Oriente;
    si rileva, altresì, la dichiarata e sospetta indisponibilità dell'Olp a tentare la riconquista manu militari del campo profughi di Yarmouk, espressa con una nota pubblicata il 10 aprile 2015, appena 24 ore dopo un annuncio del tutto differente reso dall'inviato del Presidente palestinese Abu Mazen nell'area, Ahmad Majdalani, che aveva parlato di 14 fazioni pronte all'azione contro lo Stato islamico;
    si richiamano le notizie di origine saudita, secondo le quali Ayman al-Zawahiri avrebbe recentemente autorizzato i membri di al-Qaeda a collaborare con il sedicente Stato islamico, cosa che in Siria comporterebbe la ripresa della cooperazione organica tra al-Nusra e gli adepti del califfato, proprio mentre in chiave anti-sciita ed anti-iraniana si osserva in Yemen una significativa convergenza tra l'Arabia Saudita, il Qatar e la Turchia;
    le sopra menzionate potenze regionali del Medio Oriente sono, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, in grado di esercitare efficaci pressioni sul sedicente Stato islamico ed i suoi partner ed alleati, inducendolo a ritirarsi invece di dare battaglia,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative affinché i Governi di Arabia Saudita, Qatar e Turchia condannino senza riserve quanto sta accadendo a Yarmouk, esercitando, altresì, sui vertici del sedicente Stato islamico ed i suoi partner ed alleati tutta la pressione indispensabile ad ottenerne un cambio di atteggiamento;
   a riconsiderare anche i termini ufficiali della posizione del Paese nei confronti delle parti belligeranti in Siria;
   a confermare l'offerta di sostegni umanitari alla popolazione del campo di Yarmouk, una volta che sarà possibile assicurarne in sicurezza il trasporto e la consegna agli interessati, evitando nel frattempo di concorrere con truppe italiane all'eventuale apertura di corridoi umanitari che potrebbero essere presto interrotti senza preavviso da forze preponderanti.
(1-00799)
«Gianluca Pini, Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Busin, Caparini, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Rondini, Saltamartini, Simonetti».
(13 aprile 2015)