TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 405 di Giovedì 9 aprile 2015

 
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MOZIONI CONCERNENTI INTERVENTI A FAVORE DEL MEZZOGIORNO

   La Camera,
   premesso che:
    il quadro già grave e complesso evidenziato dalla Svimez (Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno), nell'anticipazione del rapporto 2014 sull'economia del Mezzogiorno, presentato a fine luglio 2014, si è ulteriormente aggravato in sede di presentazione del rapporto Svimez 2014 e delle proiezioni elaborate dal medesimo istituto per l'anno 2015, al punto che apertamente si parla di un «Sud a rischio desertificazione umana e industriale»;
    la riduzione del prodotto interno lordo nel 2014, quantificata dal Governo in -0,4 per cento, è la risultante tra la stazionarietà del Centro-Nord (0 per cento) e la flessione del Sud (-1,5 per cento); il quadro risulta ancora più divergente nel 2015: il prodotto interno lordo nazionale secondo le stime Svimez è previsto a +0,8 per cento, quale risultato tra il positivo +1,3 per cento del Centro-Nord e il negativo -0,7 per cento del Sud;
    a livello regionale, nel 2013, il calo del prodotto interno lordo è compreso tra il -1,8 per cento dell'Abruzzo e il -6,1 per cento della Basilicata, fanalino di coda nazionale, che ha così registrato un segno negativo per la crisi dell`industria meccanica e dei mezzi di trasporto. In posizione intermedia la Campania (-2,1 per cento), la Sicilia (- 2,7 per cento), il Molise (-3,2 per cento). Giù anche Sardegna (-4,4 per cento), Calabria (-5 per cento) e Puglia (-5,6 per cento). Tra il 2008 e il 2013 difficoltà, soprattutto in Basilicata e Molise, che segnano cali cumulati superiori al 16 per cento, accanto alla Puglia (-14,3 per cento), la Sicilia (-14,6 per cento) e la Calabria (-13,3 per cento). Ha perso oltre il 13 per cento di prodotto anche la Sardegna, mentre cali superiori al 12 per cento si registrano in Campania, Marche e Umbria;
    dal 2008 al 2013 il settore manifatturiero al Sud ha perso il 27 per cento del proprio prodotto e ha più che dimezzato gli investimenti (-53 per cento). Nello stesso periodo al Centro-Nord il manifatturiero ha perso circa il 16 per cento del proprio prodotto e oltre il 24 per cento degli investimenti;
    i consumi delle famiglie meridionali sono ancora scesi, arrivando a ridursi nel 2013 del 2,4 per cento, a fronte del -2 per cento delle regioni del Centro-Nord. Dal 2008 al 2013 la caduta cumulata dei consumi delle famiglie ha sfiorato nel Sud i 13 punti percentuali (-12,7 per cento), risultando di oltre due volte maggiore di quella registrata nel resto del Paese (-5,7 per cento);
    tra il 2008 ed il 2013 delle 985 mila persone che in Italia hanno perso il posto di lavoro, ben 583 mila sono residenti nel Mezzogiorno. Nel Sud, pur essendo presente appena il 26 per cento degli occupati italiani si concentra il 60 per cento delle perdite determinate dalla crisi. Nel solo 2013 in Italia sono andati persi 478 mila posti di lavoro, di cui 282 mila al Sud. La nuova flessione riporta il numero degli occupati del Sud per la prima volta nella storia a 5,8 milioni, sotto la soglia psicologica dei 6 milioni, il livello più basso dal 1977, anno da cui è possibile disporre della serie storica dei dati;
    tra il 2008 ed il 2013 si registra al Sud una caduta dell'occupazione del 9 per cento, a fronte del -2,4 per cento del Centro-Nord. Negli anni Settanta il tasso di occupazione al Sud era del 49 per cento; nel 2013 è sceso al 42 per cento; al Centro-Nord invece si è passati dal 56 per cento degli anni Settanta al 63 per cento del 2013; Sud e Centro-Nord sono lontani dal target del 75 per cento di Europa 2020, ma per il Meridione l'obiettivo si allontana e continua ad allontanarsi. In calo soprattutto l'occupazione giovanile: al Sud nel 2013 fra gli under 34 flette del 12 per cento, contro il -6,9 per cento del Centro-Nord;
    al Sud appena il 21,6 per cento (1 su cinque) delle donne sotto i 34 anni ha un lavoro contro il 43 per cento del Centro-Nord ed una media nazionale del 34,7 per cento; il confronto con la media dell'Unione europea è impietoso: nell'Europa a 27 le donne sotto i 34 anni che lavorano sono il 50,9 per cento. Considerando tutte le classi di età, l'occupazione femminile meridionale si ferma al 33 per cento; al Centro-Nord la percentuale di donne che lavorano non è lontana dalla media europea (59,2 per cento rispetto al 62,6 per cento dell'Unione europea). Anche la nuova occupazione che si crea per le donne perde di qualità: dal 2008 al 2013 le professioni qualificate femminili sono scese dell`11,7 per cento, mentre sono aumentati del 15 per cento i posti di lavoro nelle professioni poco qualificate. Indicativo anche il dato sul part-time: le donne che lo scelgono, circa il 30 per cento del totale in Italia, non lo fa per scelta: al Sud addirittura il 75 per cento dei part-time femminili è involontario;
    i consumi delle famiglie meridionali sono ancora scesi, arrivando a ridursi nel 2013 del 2,4 per cento, a fronte del -2 per cento delle regioni del Centro-Nord. Dal 2008 al 2013 la caduta cumulata dei consumi delle famiglie ha sfiorato nel Sud i 13 punti percentuali (-12,7 per cento), risultando di oltre due volte maggiore di quella registrata nel resto del Paese (-5,7 per cento);
    al di là delle aride cifre riferite a prodotto interno lordo, produzione e occupazione, la questione che riveste assoluta gravità è quella sociale: nel 2007 la povertà assoluta interessava il 4,1 per cento delle famiglie italiane (3,3 per cento al Centro-Nord e 5,8 per cento al Sud), mentre a fine 2013 si è arrivati al 7,9 per cento a livello nazionale, con il 5,8 per cento di nuclei familiari in povertà assoluta al Centro-Nord e il 12,6 per cento al Sud; in termini assoluti, nel periodo 2007-2013 al Sud le famiglie assolutamente povere sono cresciute oltre due volte e mezzo, da 443 mila a 1 milione 14 mila, con un incremento del 40 per cento solo nell'ultimo anno della serie. Nel 2012 il 9,5 per cento delle famiglie meridionali guadagna meno di mille euro al mese, mentre per il Centro-Nord tale dato si attesta al 3,8 per cento; si tratta, in particolare, del 9,2 per cento delle famiglie lucane, del 9,3 per cento delle calabresi, del 10,9 per cento delle molisane e del 14,1 per cento di quelle siciliane;
    secondo stime Svimez, anche nel 2013, come nel 2012, nel Meridione i decessi hanno superato le nascite: un risultato negativo che si era verificato solo nel 1867 e nel 1918. Proseguendo questo trend, il Sud avrebbe una perdita di 4,2 milioni di abitanti nei prossimi 50 anni, arrivando così ad una consistenza del 27 per cento sul totale nazionale a fronte dell'attuale 34,3 per cento; la situazione è aggravata dall'emigrazione: negli ultimi venti anni sono emigrati dal Sud al Centro-Nord circa 2,3 milioni di persone. Nel 2013 secondo Svimez si sono trasferiti dal Mezzogiorno al Centro-Nord circa 116 mila abitanti; altro elemento da valutare è che anche gli stranieri rifuggono dal Sud: a dicembre 2013 i residenti stranieri nel nostro Paese sono circa 5 milioni, di cui solo 717 mila al Sud e 4 milioni e 200 mila nel Centro-Nord;
    i giovani meridionali si trovano di fronte ad una drammatica realtà sociale e culturale: secondo una recente ricerca l'80 per cento dei giovani meridionali maschi sotto i 30 anni vive ancora in casa con i propri genitori, mentre oltre tre quinti delle giovani del Sud intravedono per sé un futuro di casalinga: una situazione simile a quella dei primi anni del dopo guerra. Le abitazioni non mancano: mancano le risorse per potersi stabilire;
    annualmente Il Sole 24 ore pubblica un'indagine sulla qualità della vita condotta nelle 107 città italiane capoluogo di provincia. L'indagine è piuttosto approfondita e complessa e si basa su 36 parametri, raggruppati in sei macro-aree (tenore di vita, affari e lavoro, servizi ambiente e salute, popolazione, ordine pubblico e tempo libero), fino alla compilazione di una classifica generale. Anche per il 2014 il Sud continua a essere fanalino di coda della classifica e Napoli in particolare si conferma la città dove si vive peggio, mentre Palermo è la penultima; a salire si trovano: Reggio Calabria; Taranto; Caserta; Vibo Valentia; Catania; Caltanissetta, Foggia, Trapani, Bari, Agrigento e Cosenza; la prima città non meridionale è Frosinone all'87esimo posto;
    in termini di ricchezza prodotta la città che ne produce di meno è Crotone (12.930 euro; Milano 37.642 euro), seguita da Agrigento, Enna e Caserta; la prima città non meridionale è Isernia al 78esimo posto;
    in termini di propensione al risparmio la provincia peggiore è Carbonia-Iglesias (7.903 euro, Trieste 43.228 euro), seguita da Crotone, Trapani e Siracusa; la prima città non meridionale è Rieti all'82esimo posto;
    in termini di assegno pensionistico medio la città in cui la media è più bassa è Catanzaro (485 euro, Milano 1.100 euro), seguita da Agrigento, Campobasso, Benevento ed Enna;
    in termini di ambiente favorevole agli affari e al lavoro, la città meno attraente è Reggio Calabria, seguita da Caltanissetta, Caserta, Napoli e Cosenza;
    in termini di servizi, ambiente e salute, la città nelle peggiori condizioni è Crotone, seguita da Vibo Valentia, Foggia, Caltanissetta e Agrigento;
    le risorse inizialmente programmate nel quadro strategico nazionale 2007-2013 ammontavano originariamente a oltre 60 miliardi di euro, di cui circa 28,8 miliardi di euro di fondi strutturali provenienti dall'Unione europea e circa 31,6 miliardi di euro di risorse di cofinanziamento nazionale (iscritti sul fondo di rotazione per l'attuazione delle politiche comunitarie previsto dalla legge n. 183 del 1987); la gran parte di tali risorse, 43,6 miliardi di euro (all'incirca il 75 per cento del totale), risultava destinata all'obiettivo «convergenza», che interessa le regioni Calabria, Campania, Puglia, Sicilia e Basilicata;
    a seguito del Piano di azione per la coesione, l'ammontare complessivo delle risorse destinate ai programmi operativi (quota comunitaria più cofinanziamento nazionale) si è ridotto da 60,1 miliardi di euro (28,5 miliardi di euro di fondi comunitari e 31,6 miliardi di euro di cofinanziamento) a circa 48,5 miliardi di euro. Sulla base delle informazioni disponibili (fornite dalla Ragioneria generale dello Stato), alla data del 30 giugno 2014 le risorse ancora da spendere entro il 31 dicembre 2015 (termine ultimo per effettuare pagamenti) ammontano a circa 20 miliardi di euro, la maggior parte dei quali (15 miliardi di euro) nell'area dell'obiettivo «convergenza»;
    secondo le indicazioni offerte dal Governo nei primi giorni del mese di ottobre 2014, la programmazione 2014-2020 potrà contare su 32 miliardi di euro di fondi strutturali europei, cui ne andrebbero aggiunti altrettanti di cofinanziamenti nazionali (24 miliardi di euro a carico dello Stato, il resto a carico delle regioni). È stata avanzata anche la proposta di ridurre, nelle regioni «convergenza», la quota di cofinanziamento regionale e sono state indicate tre priorità per questo nuovo programma: competitività delle imprese, occupazione e istruzione/formazione. Nel decreto-legge «sblocca Italia» (n. 133 del 2014) si affidano nuove funzioni al Presidente del Consiglio dei ministri al fine di accelerare l'impiego delle risorse comunitarie nelle regioni «convergenza»; il Presidente del Consiglio dei ministri avrà la facoltà di proporre al Cipe il definanziamento e la riprogrammazione delle risorse non impegnate;
    ma, a seguito della presentazione della legge di stabilità 2015, è intervenuto un richiamo comunitario che ha richiesto un ulteriore aggiustamento di bilancio; il Governo ha pertanto provveduto riducendo, tra l'altro, di 500 milioni di euro la quota delle risorse nazionali dai fondi di cofinanziamento di coesione dell'Unione europea; inoltre l'articolo 12 della legge di stabilità per finanziare gli sgravi contributivi per assunzioni a tempo indeterminato ha ridotto di un miliardo di euro per ciascuno degli anni 2015, 2016 e 2017 e a 500 milioni di euro per l'anno 2018 le risorse del fondo di rotazione di cui all'articolo 5 della legge 16 aprile 1987, n. 183, già destinate agli interventi del Piano di azione per la coesione;
    se è vero che i dati di per sé risultano aridi e che, comunque, vanno integrati, si può convenire che dagli elementi presentati emerge una realtà drammatica e fortemente preoccupante per l'intero Mezzogiorno d'Italia;
    una parte fondamentale del Paese ha nella storia, nella cultura, nell'economia un bacino di potenzialità a sua disposizione e gli strumenti per crescere svilupparsi, integrare e sostenere con vigore lo sforzo dell'esecutivo per risanare e rilanciare il Paese;
    il quadro macroeconomico che emerge dalle considerazioni effettuate suscita timori sotto diversi profili. Ma ciò che risalta soprattutto è l'allarmante crisi sociale che impedisce il formarsi di nuove famiglie, la crescita delle famiglie esistenti e la stessa natalità. Una preoccupazione forte che ha sollecitato il Ministro della salute a dar vita al piano nazionale per la fertilità, nel quale sono coinvolti esperti di natalità, pediatri, sociologi, esperti di economia sanitaria ed altri. Un'operazione questa che, se risulta indubbiamente utile al Paese intero, lo è ancor di più per il Sud che, nelle condizioni attuali, non è di sicuro sostenuto e assecondato sul piano della crescita demografica: una questione, quest'ultima, che è strettamente collegata ora e di più lo sarà nel futuro al tema della sostenibilità del sistema sanitario e previdenziale,

impegna il Governo:

   ad adottare ogni iniziativa, anche attraverso ulteriori interventi normativi, volta ad attribuire adeguate quote di cofinanziamento e comunque adeguate risorse comunitarie e nazionali alle regioni meridionali ed individuando la sede idonea in cui Governo, regioni ed i competenti organi parlamentari, a seguito di un naturale, approfondito confronto, siano in grado di definire un insieme coordinato di opere strategiche di importanza prioritaria, la cui realizzazione favorisca la crescita economica complessiva delle regioni meridionali;
   ad assicurare, attraverso una specifica programmazione infrastrutturale, forti politiche di investimento da parte dello Stato a favore delle regioni meridionali ed impegnandosi, altresì, a riconsiderare le regole del patto di stabilità per gli enti territoriali;
   a perseguire con decisione, in sede di Unione europea e quale obiettivo del semestre di Presidenza italiana, l'obiettivo della riduzione delle quote di partecipazione nazionale ed in particolare regionale, con specifico riferimento alle regioni meridionali, da erogare a titolo di concorso al cofinanziamento del Fondo europeo per lo sviluppo regionale e del Fondo sociale europeo;
   con riferimento alla programmazione 2014-2020, a prevedere l'utilizzo di parte significativa delle risorse del Fondo sociale europeo per realizzare politiche attive di lavoro e inserimento professionale nei confronti dei giovani disoccupati meridionali;
   ad avviare politiche a sostegno della natalità e della genitorialità, con particolare riferimento alle zone socialmente ed economicamente più disagiate;
   ad assicurare tempestiva e rigida applicazione dei poteri sostitutivi del Governo in materia di utilizzo delle risorse comunitarie, previsti dall'articolo 9 del decreto-legge n. 69 del 2013, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 98 del 2013, e dall'articolo 12 del decreto-legge n. 133 del 2014 in caso di ritardo delle regioni nelle assegnazioni ed erogazioni;
   ad adoperarsi al fine di consentire all'Agenzia per la coesione territoriale di operare da subito e con poteri rafforzati negli ambiti di sua competenza.
(1-00653) «De Girolamo, Pagano, Garofalo, Calabrò, Dorina Bianchi, Pizzolante, Bosco, Minardo, Misuraca, Scopelliti, Cicchitto, Alli, Bernardo, Piccone, Piso, Roccella, Saltamartini, Sammarco, Tancredi, Vignali».
(31 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    la Svimez con il suo recentissimo rapporto sull'economia del Mezzogiorno ha ricordato che questa fase del Mezzogiorno è la peggiore dal dopoguerra in poi. Le previsioni lasciano intravedere ancora altri due anni di recessione (si arriverà così ad 8 anni consecutivi). Eppure questa situazione così drammatica non viene affatto percepita come tale dal mondo politico ed imprenditoriale;
    non si può sottovalutare il fenomeno dell'impoverimento industriale e fisico del Mezzogiorno che, in assenza di contromisure, condurrà le regioni meridionali, oggi le più ricche di giovani, a un drammatico invecchiamento se i giovani laureati e competenti continueranno ad abbandonare le città del Sud al ritmo di più di centomila all'anno;
    tutti i dati – da quelli di Banca d'Italia a quelli di Unioncamere, di Svimez e Istat – concordano nell'analisi di una realtà non ferma, ma in profonda regressione dal punto di vista sociale, dal punto di vista economico, dal punto di vista culturale e civile. I dati su occupazione, procedure fallimentari, liquidazione e scioglimenti di società di persone e di capitale convergono tutti nella direzione di descrivere una condizione che, negli anni, ha visto crisi sovrapporsi a crisi, fino ad incrociare la crisi perfetta che si sta vivendo in questi tempi;
    l'Esecutivo ha confermato la sua politica di totale disimpegno nei confronti di un'area del Paese, il Mezzogiorno, che con la sua produzione contribuisce ad un quarto del prodotto interno nazionale, dimostrando in tal modo di sottovalutare la dimensione nazionale e le ricadute della questione meridionale e l'impossibilità per una nazione di mantenere la propria unità, se parti di essa procedono a velocità diverse, accentuando fra loro il disequilibrio;
    sarebbe auspicabile che il Governo facesse un'inversione di rotta e ricomprendesse nella sua agenda politica le istanze e le energie delle tante forze vive presenti nel tessuto sociale ed imprenditoriale del Mezzogiorno, al fine di farle emergere ed esprimersi nei contesti internazionali e sui mercati con maggiore facilità, senza rimanere penalizzate, come troppo spesso oggi accade, da fattori di contesto;
    d'altra parte, nel corso degli anni le politiche per il Mezzogiorno hanno oscillato tra due paradigmi, quello assistenziale e quello compensativo, in funzione della diminuzione più o meno graduale del gap con il Centro-Nord, e che si sono rivelati fallimentari e non premianti;
    il Mezzogiorno ha subito più del Centro-Nord le conseguenze della crisi economica, con una caduta maggiore del prodotto interno lordo e una riduzione ancora più pesante dell'occupazione nel biennio di recessione 2008-2009, mentre la debole ripresa del successivo biennio 2010-2011 è stata nell'area troppo incerta e insufficiente;
    tra il 2007 e il 2011 il prodotto interno lordo meridionale ha subito una riduzione in termini reali del 6,1 per cento, a fronte di una riduzione del 4,1 per cento nel Centro-Nord;
    il Mezzogiorno è a rischio desertificazione umana e industriale, si continua a emigrare (116 mila abitanti nel solo 2013) e a non fare figli, infatti nel 2013 continuano a esserci più morti che nati. Nel Sud la popolazione continua a impoverirsi, con un aumento del 40 per cento di famiglie povere nell'ultimo anno. Sono alcuni dati che emergono dal rapporto Svimez sull'economia del Mezzogiorno 2014 presentato il 28 ottobre a Roma;
    nel 2013 al Sud i decessi hanno superato le nascite, confermando il trend già in atto dall'anno precedente. Un fenomeno così grave si era verificato solo nel 1867 e nel 1918, cioè alla fine di due guerre, la terza guerra d'indipendenza e la prima Guerra mondiale: «Nel 2013 il numero dei nati ha toccato il suo minimo storico, 177 mila, il valore più basso mai registrato dal 1861». «Il Sud – sottolinea la Svimez – sarà interessato nei prossimi anni da un stravolgimento demografico, uno tsunami dalle conseguenze imprevedibili, destinato a perdere 4,2 milioni di abitanti nei prossimi 50 anni, arrivando così a pesare per il 27 per cento sul totale nazionale a fronte dell'attuale 34,3 per cento»;
    la Svimez sottolinea come gli investimenti produttivi nel Sud sono crollati del 53 per cento;
    la Calabria, come si evince dalla drammaticità e dalla crudezza del dato statistico, confermato da altri autorevoli centri di ricerca istituzionali, evidenzia sul piano socio-economico una drammatica specificità negativa, continuando inesorabilmente a declinare in un lento processo di separazione anche rispetto alle altre regioni del Mezzogiorno: i dati dei centri di ricerca evidenziano, sul piano socio-economico, una forte specificità negativa, anche rispetto alle altre regioni del Mezzogiorno;
    la Calabria si conferma, infatti, la regione più povera d'Italia con un prodotto interno lordo pro capite che nel 2013 si è fermato a 15.989 euro, meno della metà delle regioni più ricche come Valle d'Aosta, Trentino Alto Adige e Lombardia. Nel Mezzogiorno la regione con il prodotto interno lordo pro capite più elevato è stata l'Abruzzo (21.845 euro). Seguono il Molise (19.374 euro), la Sardegna (18.620), la Basilicata (17.006 euro), la Puglia (16.512 euro), la Campania (16.291 euro), la Sicilia (16.152 euro) e la Calabria (15.989 euro). In generale, in termini di prodotto interno lordo pro capite, il Mezzogiorno nel 2013 è sceso al 56,6 per cento del valore del Centro-Nord, tornando ai livelli del 2003, con un prodotto interno lordo pro capite pari a 16.888 euro. In valori assoluti, a livello nazionale, il prodotto interno lordo è stato di 25.457 euro, risultante dalla media tra i 29.837 euro del Centro-Nord e i 16.888 euro del Mezzogiorno;
    nel Sud appena il 21,6 per cento delle donne sotto i 34 anni è occupata contro il 43,0 per cento del Centro-Nord e una media nazionale del 34,7 per cento. Il confronto con la media dell'Unione europea evidenzia il divario. Nell'Europa a 27 Stati le donne sotto i 34 anni che lavorano sono il 50,9 per cento. Le donne che rientrano, o entrano per la prima volta, nel mercato del lavoro, vanno a ricoprire posizioni poco qualificate. Dal 2008 al 2013 le professioni qualificate femminili sono scese dell'11,7 per cento, mentre sono aumentati del 15 per cento i posti di lavoro nelle professioni poco qualificate;
    il prodotto interno lordo si attesterà a -0,4 per cento nel 2014, come «risultato tra la stazionarietà del Centro-Nord (0 per cento) e la flessione del Sud (-1,5 per cento)». Per il Sud è il settimo anno di recessione. Forbice ancora divaricata nel 2015: il prodotto interno lordo nazionale, secondo le stime Svimez, è previsto a +0,8 per cento, quale risultato tra il +1,3 per cento del Centro-Nord e il -0,7 per cento del Sud;
    nel 2013 il prodotto interno lordo è crollato nel Mezzogiorno del 3,5 per cento, peggiorando la flessione dell'anno precedente (-3,2 per cento), con un calo superiore di quasi due punti percentuali rispetto al Centro-Nord (-1,4 per cento). Il peggior andamento del prodotto interno lordo meridionale nel 2013 è dovuto soprattutto a una più sfavorevole dinamica della domanda interna con i consumi in calo del 2,4 per cento e gli investimenti crollati del 5,2 per cento. Da segnalare l'ulteriore perdita di posti di lavoro scesi sempre nel Mezzogiorno del 3,8 per cento. In un panorama fortemente negativo, le esportazioni nel 2013 hanno segnato -0,6 per cento al Sud. Tra il 2008 e il 2013 i redditi al Sud sono crollati del 15 per cento e i posti di lavoro sono diminuiti di circa 800 mila persone;
    al Sud le famiglie assolutamente povere sono cresciute oltre due volte e mezzo, da 443 mila (il 5,8 per cento del totale) a 1 milione 14 mila (il 12,5 per cento del totale), cioè il 40 per cento in più solo nell'ultimo anno. È quanto emerge dal rapporto Svimez sull'economia del Mezzogiorno 2014. Secondo il rapporto, in Italia, dal 2008 al 2012, sono aumentate del 7 per cento le famiglie in stato di «deprivazione materiale severa», cioè che non riescono, ad esempio, a pagare l'affitto o il mutuo, fare una vacanza di una settimana una volta l'anno fuori casa, pagare il riscaldamento, fronteggiare spese inaspettate, e che magari non hanno l'automobile, la lavatrice, il telefono, la TV, e fanno fatica a fare un pasto di carne o pesce ogni due giorni. In Italia oltre due milioni di famiglie si trovavano nel 2013 al di sotto della soglia di povertà assoluta, equamente divise tra Centro-Nord e Sud (1 milione e 14 mila famiglie per ripartizione), con un aumento di 1 milione e 150 mila famiglie rispetto al 2007;
    tra il 2008 e il 2013 delle 985 mila persone che in Italia hanno perso il posto di lavoro, ben 583 mila sono residenti nel Mezzogiorno. Nel Sud, pur essendo presente appena il 26 per cento degli occupati italiani si concentra il 60 per cento delle perdite determinate dalla crisi. Nel solo 2013 sono andati persi 478 mila posti di lavoro in Italia, di cui 282 mila al Sud. La nuova flessione riporta il numero degli occupati del Sud per la prima volta nella storia a 5,8 milioni, sotto la soglia psicologica dei 6 milioni; il livello più basso almeno dal 1977, anno da cui sono disponibili le serie storiche basi di dati. Nel primo trimestre 2014 il Sud ha perso 170 mila posti di lavoro rispetto all'anno precedente, contro -41 mila nel Centro-Nord. A fronte di una quota di occupati pari a circa un quarto dell'occupazione complessiva, tra il primo trimestre del 2013 e il primo trimestre del 2014 l'80 per cento delle perdite di posti di lavoro in Italia si è concentrata al Sud;
    l'ultimo rilevamento dell'Istat del 28 novembre 2014 certifica una volta di più che il tasso disoccupazione nel Mezzogiorno nel mese di ottobre 2014 supera il 20 per cento (rispetto ad un dato nazionale, pur preoccupante, del 13,3 per cento);
    in questo scenario, rischiano di apparire come semplice palliativo anche strumenti e programmi, che avevano rappresentato almeno una speranza per i territori del Sud, come «Garanzia giovani»: quelle risorse rischiano di essere utili più a chi fa dell'intermediazione del lavoro o dell'intermediazione finanziaria la propria attività, piuttosto che per creare lavoro e reddito in quelle aree;
    il tessuto sociale si presenta sempre più lacerato e le manifestazioni di insofferenza e di conflitto, che si allargano giorno dopo giorno, sono i sintomi di una malattia che potrebbe rendere instabile sia la coesione sociale che la forza stessa delle istituzioni;
    di fronte a questa drammatica realtà tutto il dibattito sul Sud sembra appuntarsi sui fondi comunitari, come se questi fossero da soli in grado di portare il Mezzogiorno fuori dalle sue difficoltà attuali. Molti studiosi, viceversa, concordano sul fatto che lo sviluppo del Sud non può essere delegato interamente alle politiche di coesione dell'Europa;
    basti riflettere che per il quadro strategico 2007-2013 restano da spendere da qui al 31 dicembre 2015 quasi 15 miliardi di euro tra Ministeri, regioni e privati. Per centrare l'obiettivo bisognerebbe spendere un miliardo al mese. Ma tale spesa è in larga misura inibita dal patto di stabilità interno. Secondo uno studio di Confindustria, nel 2015 per cinque regioni (Campania, Puglia, Calabria, Basilicata e Molise) il cofinanziamento nazionale e il fondo di coesione supereranno il 60 per cento della spesa massima consentita dal loro patto di stabilità, rendendo nei fatti impossibile il completo utilizzo delle risorse europee;
    il Governo continua ad indicare la spesa dei fondi come unica via per uscire dalla crisi, ma esso sa bene che nel patto di stabilità non ci sono le condizioni finanziarie sufficienti ad effettuare i pagamenti. Quel poco che c'era (500 milioni di euro) nella legge di stabilità per il 2015 di esclusione dal patto di stabilità interno per il cofinanziamento delle regioni è stato, in seguito ai richiami della Commissione europea, addirittura soppresso;
    inoltre, l'articolo 12 della legge di stabilità per finanziare gli sgravi contributivi per assunzioni a tempo indeterminato ha ridotto di un miliardo di euro per ciascuno degli anni 2015, 2016 e 2017 e a 500 milioni di euro per l'anno 2018 le risorse del fondo di rotazione di cui all'articolo 5 della legge 16 aprile 1987, n. 183, già destinate agli interventi del Piano di azione per la coesione che, dal sistema di monitoraggio del dipartimento della Ragioneria generale dello Stato, risultano non ancora impegnate alla data del 30 settembre 2014;
    in pratica, si tratta di risorse tolte al Mezzogiorno per finanziare gli sgravi contributivi per supposte nuove assunzioni, sgravi che saranno attribuiti prevalentemente al Centro-Nord;
    infine, non è ancora entrata in funzione l'Agenzia per la coesione a cui in tanti guardavano come una possibilità di aiuto per le regioni e i Ministeri, in questa ultima e difficile fase di completamento del programma comunitario 2007/2013;
    l'incremento della dotazione infrastrutturale diventa pertanto assolutamente prioritario ed indilazionabile per rendere il Mezzogiorno area capace di creare e di attrarre investimenti e a farsi partecipe del nuovo ruolo di cerniera negli scambi commerciali tra Europa, Africa, Medio Oriente ed Asia, e che, sfruttando la sua collocazione geografica, è chiamato ad assumere nello scacchiere euromediterraneo, anche raccogliendo le nuove opportunità del contesto competitivo internazionale che torneranno a presentarsi dopo la tregua di tutti i conflitti del Nord Africa;
    la sopradetta collocazione geopolitica del Meridione, crocevia geografico naturale e storico degli interessi e degli scambi economici e culturali tra Europa e Nord Africa e punto di approdo più vicino ai rivolgimenti in atto in quella regione, lo trova però costretto a fare i conti con quella che oramai è considerata una grande emergenza umanitaria e cioè l'esplosione del fenomeno immigratorio;
    l'immigrazione non può essere arrestata, perché è parte della storia dell'umanità, ma va gestita nell'interesse dei Paesi di origine e di quelli di destinazione dei flussi migratori, anche e soprattutto per impedire il rischio di una deriva razzista, rischio che impone una rinnovata tensione ed un'azione pedagogica che si fondino su valori quali il rispetto della dignità umana, la solidarietà e la condivisione tra i popoli, tutti presupposti sui quali costruire una nuova politica dell'accoglienza di un territorio che, nonostante la sua grande vocazione solidale, è costretto a mettere a disposizione risorse logistiche, umane ed economiche necessarie per evitare il collasso del suo territorio, e che in questo sforzo ha dovuto e potuto contare solo sulle proprie forze che a volte sono risultate deboli e inadeguate per affrontare l'emergenza;
    il Mezzogiorno, più che soldi, chiede più politica e più intelligenza. Il Mezzogiorno ha bisogno di un bacino produttivo autocentrato, esteso dal napoletano alla Sicilia;
    sul versante della formazione i sistemi scolastico ed universitario del Meridione esprimono professionalità con buoni livelli di qualifica che il tessuto produttivo locale non riesce però ad assorbire e valorizzare adeguatamente, relegando molti giovani nella condizione di dover scegliere fra l'emigrazione o l'inattività. Infatti, il mancato superamento dei vincoli costituiti da un apparato produttivo debole e da un sistema sociale bloccato, nonostante i progressi raggiunti nella formazione scolastica ed universitaria, condanna il Mezzogiorno al ruolo di fornitore di risorse umane qualificate al resto del Paese, ed i suoi migliori giovani a cercare altrove le modalità per mettere a frutto le proprie competenze e realizzare i propri sogni;
    occorre affrontare il declino italiano partendo dalla debolezza dell'economia meridionale: un deficit commerciale – quasi tutto in prodotti industriali – che è quasi il 20 per cento del suo prodotto interno lordo. Le numerose aree di eccellenza di cui è costellato il Mezzogiorno confermano che, al di là della retorica, quel territorio può costituire una risorsa per l'Italia, purché riesca a valorizzare ed esprimere pienamente le sue potenzialità, a partire da quelle umane e naturali,

impegna il Governo:

   a prevedere a favore delle regioni ad obiettivo convergenza:
     a) la messa a regime di forme di credito d'imposta automatico sugli investimenti in ricerca, innovazione e formazione, a favore delle imprese disposte ad investire nel Mezzogiorno;
    b) lo sfruttamento del potenziale che ha il Sud per la produzione di energie tramite fonti rinnovabili attraverso il riconoscimento di significative tariffe incentivanti, come attualmente previsto dal V conto energia, ma limitato ai parchi solari su terreni delle pubbliche amministrazioni e sui tetti e le serre fotovoltaiche, per evitare ulteriori speculazioni sui terreni agricoli;
    c) l'avvio di un'innovativa programmazione del fondi strutturali europei, non solo per accelerare la capacità di spesa, ma anche per migliorarne la qualità e l'efficacia, attraverso la concentrazione degli stessi su alcuni obiettivi, come scuola, formazione, ferrovie, agenda digitale, occupazione, servizi di cura per bambini e anziani, anche attraverso una maggiore responsabilizzazione delle strutture politico-amministrative centrali, con un orientamento ai risultati tramite obiettivi misurabili, e con la concentrazione su alcuni obiettivi prioritari senza comunque prescindere dall'ammodernamento dell'intera rete infrastrutturale del Sud, presupposto determinante per sfruttarne le potenzialità di piattaforma logistica e di collocamento geo-strategico che ne fanno il crocevia naturale degli scambi internazionali lungo le direttrici nord-sud e est-ovest;
   a rilanciare gli investimenti in infrastrutture, la riqualificazione del territorio, la rigenerazione delle città, con uno specifico programma di risanamento urbano per le città capitali del Sud a partire dalla città di Napoli, e l'ammodernamento della rete dei trasporti e tutti gli interventi in grado di aumentare la competitività delle aree meridionali: gli assi viari, i collegamenti ferroviari tra le città del Mezzogiorno, le opere di consolidamento idrogeologico, di adeguamento statico e di efficientamento energetico degli edifici e di risanamento dell'edilizia pubblica e scolastica e il risanamento dei centri storici e delle periferie;
   a mettere in essere una politica industriale articolata per la promozione delle energie rinnovabili, dell’hi-tech e delle infrastrutture immateriali;
   a sostenere con politiche specifiche l'industria della cultura ed il turismo sostenibile e promuovere i territori e i diffusi «know how» locali;
   a realizzare la linea ferroviaria di alta capacità Napoli-Reggio Calabria, facendo sì che la nuova linea – proprio perché è alta capacità e non alta velocità – sia spina dorsale di tutto il territorio meridionale, in grado di assicurare quasi dovunque frequentazioni giornaliere, con un tracciato che attraversi i territori interni, in cui sono storicamente situati gli insediamenti più rilevanti, e non – come il Governo sembra preferire – la costa tirrenica o, peggio, la costa ionica, tenendo conto che Potenza, in particolare, appare un nodo ferroviario irrinunciabile;
   a realizzare la linea Alta velocità/Alta capacità Napoli-Bari ed a prevedere un raccordo ferroviario con Matera, città europea della cultura per il 2019;
   ad assumere iniziative, per quanto di competenza, nell'ottica della creazione di tre nuove città policentriche, per un adeguato servizio ferroviario regionale che, in sinergia con l'alta capacità, leghi in relazioni urbane (60 minuti) due gruppi di comuni, uno in Basilicata e Puglia (Potenza, Tricarico, Ferrandina, Matera, Altamura, Gravina, Genzano) e l'altro in Calabria (Cosenza, Rogliano, Serrastretta, Catanzaro, più gli insediamenti limitrofi);
   ad assumere le iniziative di competenza per realizzare la terza città policentrica con baricentro nel bipolo Reggio Calabria-Messina, nonché il tracciato anulare della città policentrica apulolucana (peraltro, in parte già realizzato ma mai completato), mentre il tracciato lineare della città calabrese sarebbe a costo zero (coincidendo con quello dell'alta capacità), considerato che il nuovo assetto territoriale aprirebbe una prospettiva industriale oggi impensabile;
   a costruire, grazie alla potenza delle economie di agglomerazione messe in gioco e le filiere produttive (prime fra tutte quelle distrettuali del made in Italy) che potrebbero agevolmente superare la loro frammentazione, configurando articolate relazioni intersettoriali ed integrando vecchie e nuove attività, un bacino produttivo aperto ai Paesi rivieraschi del Mediterraneo, in grado di offrire tutto ciò che occorra ad un loro appropriato sviluppo;
   ad intraprendere le opportune iniziative per fare diventare i porti di Taranto, Gioia Tauro e Crotone – in coordinamento con Genova e Trieste – il nodo esclusivo dei flussi commerciali tra Oriente e Occidente e, quindi, sedi di nuove rilevanti attività manifatturiere, in modo che si possano trasformare, grazie al gigantismo navale e alle crescenti economie di scala con cui stanno facendo i conti le grandi compagnie di navigazione, i porti che diverrebbero luoghi appetibili non solo per le attività indotte dalla movimentazione container (assemblaggio, imballaggio ed altro), ma anche per altre attività cui sia strategico l'accesso al mare, potendosi creare nei retro-porti un polo specializzato della meccanica strumentale pesante;
   a confermare la percentuale di riparto del Fondo per lo sviluppo e la coesione assegnando l'85 per cento delle risorse al Sud e il 15 per cento al Centro-Nord;
   a dare rapida attuazione agli interventi a favore dei lavoratori in mobilità, dei licenziati, dei giovani e delle donne disoccupati, degli inattivi e di coloro che né lavorano, né svolgono un'inattività di studio o formazione (neet) del Mezzogiorno, nonché ad aumentare gli sforzi per creare un contesto favorevole allo sviluppo economico ed alla crescita dell'occupazione, utilizzando parte significativa delle risorse derivanti dalla terza e ultima riprogrammazione dei fondi comunitari;
   a finanziare misure di agevolazione fiscale de minimis per le micro e le piccole imprese, con particolare attenzione alle imprese a conduzione o a prevalente partecipazione giovanile e femminile, operative nelle città con aree a più elevata criticità economico-sociale del Meridione;
   a promuovere, coerentemente con quanto recita l'articolo 119, quinto comma, della Carta costituzionale, «la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona», con un forte presidio nazionale degli interventi finanziati con il Piano di azione coesione, con particolare riferimento ai servizi di cura per la prima infanzia e gli anziani, verificando, in tale contesto di promozione dei diritti di cittadinanza, la possibilità di concentrare le risorse del Fondo per lo sviluppo e la coesione per gli obiettivi di servizio sugli interventi volti ad aumentare i servizi socio-assistenziali per bambini ed anziani nei comuni, nonché l'opportunità di estendere la sperimentazione della nuova social card familiare a tutti i comuni del Sud o, in alternativa, ai soli comuni capoluogo e valutando ogni altro adempimento, di competenza del Governo, necessario a migliorare l'efficienza delle strutture ospedaliere;
   a promuovere l'internazionalizzazione delle imprese meridionali, in particolare attraverso interventi mirati a sostegno della capacità di penetrazione nei mercati esteri dei settori di specializzazione e l'attivazione di forme di tutoraggio a vantaggio delle piccole e medie imprese dei settori ad elevato potenziale;
   a promuovere, attraverso un tavolo permanente Cipe-regioni del Mezzogiorno e Trenitalia o altri concessionari, un efficace monitoraggio della qualità del servizio di trasporto passeggeri di media e lunga percorrenza, anche con riferimento al contratto di servizio con Rete ferroviaria italiana, nel più ampio tema della mobilità nel Mezzogiorno e dal Sud verso il Centro-Nord e viceversa, che interessi anche la razionalizzazione e il rafforzamento del sistema portuale e aeroportuale calabrese, anche attraverso un progetto che preveda l'utilizzo in modo integrato e intermodale dell'attuale assetto del trasporto (treni, aliscafi, bus e aerei), per rendere più efficiente ed economica la gestione del sistema stesso, in sinergia con il sistema dei trasporti della Sicilia;
   a sostenere per le regioni obiettivo convergenza, nell'ambito dei negoziati per la riforma della politica agricola comune, una riforma non penalizzante dei pagamenti diretti, favorendo l'inserimento nel greening anche dell'olivicoltura e dell'agrumicoltura, nonché una riforma che preveda un aiuto specifico in favore delle coltivazioni tipiche di tali aree, anche sotto forma di maggiorazione degli aiuti diretti della politica agricola comune;
   a sollecitare la realizzazione di interventi per lo sviluppo dei principali siti archeologici ed un programma specifico per i siti Unesco del Mezzogiorno, anche per accrescere l'offerta turistica, rendendola adeguata e competitiva, attraverso, in particolare, il potenziamento dei servizi di accoglienza delle aree archeologiche, nel quadro dell'ampia riprogrammazione dell'intervento per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale delle regioni del Sud, finanziato attraverso le risorse dei fondi strutturali comunitari;
   a riprogrammare le risorse disponibili mantenendole integralmente al Mezzogiorno, ivi incluse quelle derivanti dalla riduzione del cofinanziamento nazionale;
   ad indirizzare interventi adeguati nelle agglomerazioni produttive vitali, industriali e agricole, del Mezzogiorno allo scopo di rafforzare soprattutto il contesto territoriale nelle aree capaci di esportare e di cogliere così i benefici della domanda mondiale;
   a compensare i maggiori costi unitari delle imprese del Mezzogiorno e le loro difficoltà nell'accesso al credito, sia rilanciando lo strumento del fondo di garanzia, sia sbloccando i contratti di sviluppo, sia rifinanziando gli strumenti volti al sostegno dell'imprenditoria giovanile, sia infine, ricorrendo, previa intesa con la Commissione europea, ai crediti d'imposta per l'occupazione e gli investimenti destinando una quota significativa di risorse;
   ad assumere iniziative, per quanto di competenza, per rafforzare i servizi per la cura dell'infanzia e degli anziani non autosufficienti, ambito nel quale gli interventi possono migliorare significativamente la condizione dei cittadini specie in una fase di forte compressione del reddito disponibile dalle famiglie del Mezzogiorno;
   ad assumere iniziative per reintegrare, nell'ambito del riparto e della programmazione 2014-2020 delle risorse comunitarie e del Fondo per lo sviluppo e la coesione, le risorse che il Mezzogiorno ha perduto negli ultimi anni.
(1-00680) (Nuova formulazione) «Scotto, Costantino, Sannicandro, Palazzotto, Duranti, Piras, Giancarlo Giordano, Ferrara, Placido, Matarrelli, Pannarale».
(2 dicembre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    come riporta la Svimez nel suo Rapporto sull'economia del Mezzogiorno per l'anno 2014 ci si trova di fronte ad un Sud dove si continua a: emigrare (116 mila abitanti nel solo 2013); non fare figli (continuano nel 2013 a esserci più decessi che nascite); impoverirsi (+40 per cento di famiglie povere nell'ultimo anno i consumi delle famiglie crollano di quasi il 13 per cento in cinque anni) perché manca il lavoro;
    dall'inizio della crisi (fine 2008) il prodotto interno lordo meridionale è caduto di quasi 14 punti percentuali, contro poco più di 5 nel resto del Paese (attualmente il prodotto interno lordo pro capite meridionale è pari ad appena il 56 per cento di quello del Centro-Nord, come negli anni Cinquanta). Gli investimenti fissi lordi meridionali sono caduti, sempre da inizio crisi, di oltre trenta punti percentuali, con punte di quasi il 50 per cento nel settore industriale. Nel Sud, dove vive circa il 30 per cento dell'intera popolazione italiana, vi è più del 50 per cento dell'intero stock di disoccupati italiani (e il tasso di disoccupazione è doppio rispetto a quello italiano);
    fino ad oggi, come richiamato anche dalla stessa Commissione europea, la dispersione e la parcellizzazione delle risorse in un numero eccessivo di progetti, la mancanza delle condizionalità ex ante, che mirano a garantire efficacia ed efficienza, la scarsa capacità amministrativa e l'assenza di piani specifici settoriali sono state le criticità che hanno caratterizzato la gestione dei fondi europei nel nostro Paese;
    in conseguenza degli effetti del patto di stabilità interno e delle limitazioni della finanza pubblica, tra i principali strumenti per il finanziamento di tali interventi, un ruolo cruciale è svolto dalle risorse destinate agli interventi del Piano di azione per la coesione che, come noto, ha l'obiettivo di colmare i ritardi ancora rilevanti nell'attuazione e, al contempo, rafforzare l'efficacia degli interventi, in attuazione degli impegni assunti con la lettera del Presidente del Consiglio dei ministri pro tempore al presidente della Commissione europea e al presidente del Consiglio europeo del 26 ottobre 2011 e in conformità alle conclusioni del vertice dei «Paesi euro» dello stesso 26 ottobre 2011, impegnando quindi le amministrazioni centrali e locali a rilanciare i programmi in grave ritardo, garantendo una forte concentrazione delle risorse su alcune priorità;
    sul tema del rilancio economico e sociale del Mezzogiorno, nella seduta dell'11 novembre 2014, la Camera dei deputati ha approvato la mozione n. 1-00612 che prevedeva l'impegno del Governo a:
   a) velocizzare l’iter per rendere pienamente operativa l'Agenzia per la coesione territoriale con adeguata dotazione di personale, al fine di migliorare la capacità di impiego dei fondi strutturali sia per quanto riguarda la parte rimanente della programmazione 2010-2013, sia in relazione alla prossima programmazione;
   b) proporre al Cipe, entro 30 giorni dall'approvazione della presente mozione, l'adozione di un'apposita delibera per la formalizzazione delle questioni legate al cofinanziamento, assicurando che tutte le risorse nazionali destinate al cofinanziamento rimangano comunque a disposizione delle regioni a cui erano originariamente destinate;
   c) relazionare al Parlamento semestralmente circa l'impiego delle citate risorse;
   d) attivare una procedura concertativa con le regioni volta ad individuare i meccanismi correttivi e perequativi che consentano al Mezzogiorno di superare le criticità della «spesa storica» in materia di welfare;
   e) procedere rapidamente ad un censimento delle risorse ancora disponibili e non ancora utilizzate nell'ambito degli strumenti della programmazione negoziata, finalizzato alla predisposizione di un piano di rilancio industriale, improntato sulle specificità e le eccellenze produttive presenti nel Mezzogiorno, avviando una nuova stagione di utilizzo degli strumenti della programmazione negoziata, ivi compresi i contratti d'area, i patti territoriali, i contratti di programma e i contratti di localizzazione, sulla base delle migliori pratiche e delle esperienze di successo del passato;
   f) rafforzare, ulteriormente, i progetti in materia di sicurezza e legalità per contrastare la presenza dei fenomeni criminali, prima vera condizione per il rilancio delle politiche di sviluppo;
   g) creare un apposito osservatorio sulle infrastrutture del Mezzogiorno con l'obiettivo di velocizzare gli investimenti in atto e individuare le priorità per la connessione del Sud ai principali corridoi di comunicazione europei;
   h) potenziare i progetti concernenti il contrasto alla povertà come previsto dall'Obiettivo tematico n. 9, mettendoli in relazione agli strumenti per la realizzazione di politiche attive di lavoro ed inserimento professionale per la creazione di un nuovo welfare;
   i) concentrare la dovuta attenzione, nell'ambito della prossima programmazione, nei confronti di progetti legati alla messa in sicurezza del territorio e al contrasto dei fenomeni di dissesto idrogeologico che caratterizzano il Mezzogiorno;
   l) valorizzare il patrimonio culturale e paesaggistico del Sud, riservando parte della dotazione disponibile a partire dal residuo della programmazione 2007-2013 per le politiche di recupero e promozione, mettendo in rete i grandi poli di attrazione e i siti Unesco;
   m) riservare alle regioni del Sud parte della dotazione disponibile per quanto riguarda la programmazione 2014-2020 per le politiche ambientali nonché per il prosieguo dei processi di bonifica e messa in sicurezza dei siti di interesse nazionale e dei siti caratterizzati da particolari lavorazioni;
    si è trattato di impegni che rappresentano un punto di svolta dopo anni in cui il Mezzogiorno è stato, di fatto, derubricato dalle priorità politiche e di governo;
    in questi mesi l'attività dell'Esecutivo Renzi ha consentito al Sud di rientrare nell'agenda del Governo e lo stesso Presidente del Consiglio dei ministri non ha mancato di manifestare la sua attenzione, monitorando l'andamento dell'utilizzo dei fondi strutturali da parte delle regioni meridionali e visitando personalmente, insieme al Sottosegretario di Stato Delrio diverse realtà complesse e, allo stesso tempo, ricche di opportunità del Sud, come Pompei, Bagnoli, Termini Imerese, Mola di Bari, Catania, Reggio Calabria, Morra De Sanctis solo per citarne alcune;
    è evidente l'urgenza di una policy specifica per attirare gli investimenti nel Mezzogiorno e consolidare le realtà produttive già presenti; è opportuno, a tal proposito, tenere presente due importanti elementi: a) nel Sud, nonostante la crisi che l'ha colpito, sono tuttora rinvenibili agglomerati industriali significativi. Basti pensare all'elettronica nell'area di L'Aquila e Avezzano; l'aerospaziale in Campania e in Puglia; le aziende attive nelle tecnologie dell'informazione e della comunicazione a Cagliari; la meccatronica a Bari e l'elettronica a Catania. In questi poli, nel complesso, trovano occupazione più di 40 mila addetti; il fatturato totale (2011) supera gli 8,5 miliardi di euro, di cui circa un terzo destinato all'esportazione; relativamente ampio è il ricorso a ricercatori e personale qualificato; b) sono in corso fenomeni di reshoring, ovvero ritorno in Italia (ed anche nei Paesi di più antica industrializzazione) di produzioni precedentemente delocalizzate, anche in produzioni cosiddette «tradizionali». Il Sud potrebbe intercettare parte di questo movimento;
    appare ragionevole e condivisibile scongiurare il rischio che vadano inutilizzate le risorse europee non ancora impegnate, ed è non solo auspicabile, ma assolutamente necessario, dare corso a tutte le misure volte a superare i ritardi e le inefficienze sin qui registrate nell'utilizzo delle risorse dei fondi strutturali e, in ogni caso, individuare i meccanismi, anche di carattere sostitutivo da parte dello Stato, finalizzati ad assicurare per il futuro la realizzazione nei territori del Mezzogiorno di quegli interventi indispensabili per il suo riscatto;
    è essenziale, quindi, assumere provvedimenti anche urgenti al fine di assicurare interventi concreti in favore dei territori del Mezzogiorno, nella convinzione che, se non ripartirà l'economia del Mezzogiorno, è l'intero Paese che rimarrà più povero e più fragile sul piano della concorrenza internazionale, oltre che più ingiusto,

impegna il Governo:

   a promuovere interventi aventi per obiettivo quello di potenziare le strutture nel Mezzogiorno finalizzate a facilitare l'incontro tra domanda e offerta di lavoro, in particolare per i giovani;
   a promuovere lo sviluppo di un sistema creditizio e finanziario in grado di sostenere e supportare le imprese, con particolare attenzione ai settori ad alta capacità di innovazione, nonché a procedere ad un riordino complessivo, e ad un loro effettivo coordinamento, di enti e strutture, a partire dalla Banca del Mezzogiorno, che operano nel settore;
   a favorire, d'intesa con le regioni interessate, piani di formazione permanente a beneficio dei lavoratori ultracinquantenni al fine di promuovere politiche attive di reinserimento lavorativo;
   a rendere pienamente operativi e a rafforzare gli strumenti di contrasto del disagio sociale presente in ampie fasce della società meridionale;
   ad attivare politiche generali e di promozione locale finalizzate ad una nuova residenzialità nei territori caratterizzati, in questi ultimi anni, da un forte calo demografico, prevedendo politiche sperimentali in favore dei piccoli comuni, situati nelle zone svantaggiate e nelle aree interne;
   ad individuare, nel quadro di un ampio confronto con le regioni e le amministrazioni del Mezzogiorno, le opportune soluzioni, anche di carattere normativo, volte ad assicurare il tempestivo utilizzo delle risorse dei fondi strutturali della Politica agricola comune per interventi e progetti da realizzarsi esclusivamente nelle regioni obiettivo-convergenza del Sud, facendo ricorso, ove necessario, all'esercizio del potere sostitutivo nei confronti delle amministrazioni che si dovessero rivelare inadempienti;
   ad indire, entro il mese di marzo 2015, una conferenza nazionale di governo sul Mezzogiorno con la quale coinvolgere tutti i soggetti istituzionali e sociali del Sud nella redazione di misure finalizzate al rilancio economico e sociale del meridione.
(1-00685) «Famiglietti, Covello, Mura, Valiante, Mariano, Ventricelli, Tino Iannuzzi, Sgambato, Greco, Oliverio, Grassi, Capone, Venittelli, Iacono, Tartaglione, Schirò, Moscatt, Magorno, Migliore, Censore, Vico, Amoddio, Zappulla, Capodicasa».
(3 dicembre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    il persistere della crisi economica, trasformatasi in recessione con fenomeni di stagnazione, sta compromettendo in modo irreversibile il sistema economico e produttivo italiano e, in particolare, ha reso insostenibili i livelli di disoccupazione e di deindustrializzazione e mancato sviluppo nel Mezzogiorno d'Italia;
    a maggior ragione è più sentita l'esigenza di una prioritaria attenzione per risollevare l'economia meridionale, caratterizzata da anni da un gap infrastrutturale, in termini di trasporti, logistica, ricerca e innovazione, rispetto al resto del Paese;
    le conseguenze della persistenza delle associazioni mafiose nel Mezzogiorno si intrecciano in modo complesso con l'economia del Sud, stravolgendo le regole del «fare impresa» e scoraggiando gli investimenti stranieri, oltre che creando un grave e indiscusso disagio sociale;
    ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, l'attuale politica governativa non sta assumendo misure per sostenere la debole economia del Sud, in un grave contesto economico e sociale di disagio e disoccupazione diffusa;
    a fronte di questa situazione disastrosa, l'impegno del Governo per il Mezzogiorno sembrerebbe consistere solo in una migliore e più razionale utilizzo dei fondi strutturali, misura indispensabile e dovuta, ma non sufficiente;
    nonostante l'enorme ammontare di risorse, che negli anni sono state destinate al Mezzogiorno, il Sud permane arretrato e caratterizzato da un'evidente carenza di infrastrutture, mai realizzate, ancorché grazie alla posizione geografica ed alla dotazione di porti e aeroporti, potrebbe svolgere un ruolo di cerniera negli scambi commerciali tra Europa, Mediterraneo e Paesi del far east e raccogliere le nuove opportunità del contesto competitivo internazionale;
    oltre che dall'inefficienza e dallo spreco, ovvero dal mancato utilizzo delle risorse europee per le regioni del Sud, lo sviluppo dell'economia locale è da sempre ostacolato dalla presenza delle associazioni mafiose nel Mezzogiorno, che stravolgono le regole del «fare impresa» e scoraggiano gli investimenti stranieri, che le politiche del Governo Renzi vorrebbero attrarre con le misure adottate soprattutto in materia di diritto del lavoro, il cosiddetto Jobs act, e che rischiano di non approdare mai nelle regioni meridionali per la diffusa criminalità;
    è fondamentale che lo Stato rafforzi la propria presenza in tali territori, consolidando i tribunali, presidio di legalità e freno alla criminalità, che permane uno dei principali fattori di ostacolo e disincentivo all'esercizio della libera imprenditorialità;
    indispensabile, inoltre, sarebbe un maggior impegno da parte del Governo a porre in essere misure più incisive per sconfiggere la criminalità organizzata e tutti quei fenomeni di illegalità da essa generati, che rallentano e ostacolano la crescita e lo sviluppo, come il già citato racket, nonché tutte le condotte tipiche della microcriminalità ed il fenomeno illegale diffuso del lavoro sommerso;
    occorre un intervento capace di promuovere sviluppo ed occupazione nel Mezzogiorno, al fine di favorire la ripresa dell'economia meridionale, come base per la crescita e lo sviluppo dell'intero Paese, anche favorendo, sin dall'età scolare, percorsi educativi volti a stimolare un cambio culturale che determini, già in età giovanile, l'educazione all'impresa;
    la gravità della crisi economica induce molte imprese a chiudere, in quanto non rientrano nei parametri degli studi di settore, e il complesso scenario economico italiano, aggravato dalle conseguenze della crisi finanziaria, pone ancora una volta in primo piano la questione di un Paese con due differenti velocità di sviluppo; infatti, nel Mezzogiorno si produce solo un quarto del prodotto interno e si genera soltanto un decimo delle esportazioni italiane;
    oltre alla già citata distorsione delle risorse destinate al Sud, si aggiungono i critici tagli operati sulla dotazione del fondo per aree sottoutilizzate, per finanziare interventi di diversa natura o fatti oggetto di corruttela o non sempre corrispondenti a finalità di sviluppo e quasi sempre non localizzati nel Mezzogiorno;
    la politica statale si dovrebbe coordinare con le politiche delle regioni meridionali con il precipuo obiettivo di dare impulso e proseguire lo sviluppo del sistema industriale meridionale, ancora in larga misura sottodimensionato: lo Stato dovrebbe farsi promotore di una politica attiva di sviluppo e di investimento nell'ambito di un disegno in cui lo Stato divenga responsabile di una politica di sostegno all'industria come elemento catalizzatore della crescita, consolidando e adeguando l'attuale sistema produttivo e riqualificandone il modello di specializzazione, abbracciando settori che possano creare nuove opportunità di lavoro e fette di mercato anche per le piccole e medie imprese;
    per quanto riguarda le problematiche connesse alla formazione delle nuove generazioni, si consideri che oltre un terzo dei laureati del Mezzogiorno under 34 è inattivo e la differenza con le regioni settentrionali diventa enorme, se si considera il tasso di inattività dei diplomati under 34; i tassi di scolarizzazione in Italia presentano divari sfavorevoli al Meridione e sono accompagnati da un parallelo aumento del tasso di abbandono, dovuto alle condizioni di degrado sociale e familiare. Negative sono anche le evidenze in termini di «qualità» della formazione, dal momento che gli studenti meridionali, che terminano la loro carriera accademica, hanno maggiori difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro. Si genera così un ampio fenomeno migratorio dei «cervelli» che lasciano le regioni del Sud, provocando un depauperamento del capitale umano disponibile, fenomeno che, non solo interessa l'area del Sud Italia, bensì tutto il territorio nazionale e incide fortemente e in modo negativo sul livello della qualità della ricerca effettuata nel nostro Paese, fattore necessario per la ripresa economica. Basti pensare alla ricerca nel know how e all'impiego dello stesso nelle imprese;
    il settore della ricerca e dell'innovazione risulta in questi ultimi anni incisivamente compromesso da interventi sulla spesa pubblica con tagli lineari che hanno agito sul sistema universitario nazionale e, quindi, sulla ricerca. Il sistema nazionale universitario è stato oggetto di recente riforma con la legge n. 240 del 2010 e, seppur presenti dei punti di forza, quali il buon posizionamento della ricerca italiana a livello internazionale e la crescita della percentuale dei laureati tra i giovani, registra significative carenze strutturali e di organico nei confronti dei Paesi europei, come:
   a) il forte e crescente sottodimensionamento del personale universitario e, in particolare, del corpo docente, che aggrava il già basso numero di ricercatori rispetto agli altri Paesi europei e il rapporto ancora molto basso tra docenti e studenti;
   b) un'eccezionale lunghezza del percorso pre-ruolo, con conseguente innalzamento dell'età di ingresso di ruolo;
   c) un livello insufficiente dei finanziamenti pubblici e privati dell'università;
   d) un diritto allo studio privo di adeguate garanzie;
   e) un disallineamento tra formazione universitaria e lavoro;
    in base al comma 13-bis dell'articolo 66 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, le università statali possono procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato e di ricercatori a tempo determinato nel limite di un contingente corrispondente ad una spesa pari al 50 per cento di quella relativa al corrispondente personale complessivamente cessato dal servizio nell'anno precedente e la predetta facoltà è fissata nella misura del 50 per cento per gli anni 2014 e 2015, del 60 per cento per l'anno 2016, dell'80 per cento per l'anno 2017 e del 100 per cento a decorrere dall'anno 2018;
    auspicabile, quindi, sarebbe mettere al centro dell'agenda politica l'istruzione e la ricerca, potenziando il sistema universitario in termini di risorse umane, finanziamenti e di infrastrutture, agendo sul fondo per il finanziamento ordinario delle università;
    per quanto riguarda le opportunità di sviluppo, il Sud avrebbe modo di risollevare le sorti occupazionali già solo attraverso l'industria del turismo; tuttavia, i dati relativi al turismo nel Meridione sono paradossali: su 100 stranieri che visitano l'Italia, meno di 1 va in Calabria (0,9 per cento per chi ama l'esattezza), ancora meno in Molise. In Basilicata si raggiunge lo 0,1 per cento e in Abruzzo lo 0,6 per cento. Sommando le otto regioni meridionali, includendo Sicilia e Sardegna, si arriva al 13,2 per cento. Fa di più il solo Trentino-Alto Adige, con il 14,2 per cento. Le politiche del turismo sono, pertanto, fallimentari;
    vari studi hanno tentato di quantificare, in termini di ritorno economico e occupazionale, lo sviluppo turistico del Sud anche per sollecitare un cambiamento culturale in tal senso, ma senza rilevanti risultati, e la causa non è la mancanza di fondi (le recenti difficoltà del programma operativo interregionale «Attrattori culturali, naturali e turismo» confermano che le criticità sono spesso politiche): i contributi europei arrivati al Sud non hanno generato virtuose sinergie tra destinazioni, operatori e investitori esterni, né hanno dato vita a poli di eccellenza che potessero «contaminare» positivamente i territori;
    è necessario promuovere lo sviluppo sostenibile del territorio, con particolare attenzione alle opportunità che offre la richiesta turistica per le località meridionali, che richiedono una implementazione di prodotti, servizi e infrastrutture in grado di far fronte alla domanda. Opportuno sarebbe selezionare le strutture, i siti, i beni di più grande interesse siti nel Meridione e abbandonati per valorizzarli, nonché rafforzare a livello regionale la convergenza della governance territoriale in materia di politiche culturali e turistiche, la conoscenza dell'eredità storica e archivistica degli interventi per lo sviluppo del territorio, la partecipazione alle scelte amministrative in materia di gestione e fruizione dei beni culturali e la capacità di tutela e valorizzazione del patrimonio archeologico;
    in materia ambientale, da oltre un decennio permane insoluto il problema di un'efficiente gestione delle acque nel distretto idrografico dell'Appennino meridionale, con particolare riguardo al sistema di depurazione delle acque, che nella regione Puglia rappresenta una vera emergenza nel settore della tutela delle acque superficiali e sotterranee e dei cicli di depurazione;
    l'emergenza ambientale che ne consegue, oltre ad essere incompatibile con la normativa europea in materia ambientale, di cui alla direttiva comunitaria 2000/60, ripresa ed integrata nel decreto legislativo n. 152 del 2006, nel decreto legislativo n. 30 del 2009, nella legge n. 13 del 2009 e nel decreto legislativo n. 194 del 2009, rende improcrastinabili investimenti urgenti per la risoluzione definitiva della gestione e depurazione delle acque, interventi che contribuirebbero sia all'incremento occupazionale, sia al sostegno di piani di sviluppo delle attività agricole nei territori meridionali interessati;
    peraltro, l'efficiente gestione del sistema di depurazione è un importante obiettivo per garantire la massima tutela dell'ambiente e per la tutela della salute dei cittadini, sia per questione etiche sia come contributo per lo sviluppo delle attività turistiche, compromesse dai casi di inquinamento dei tratti di mare, interessati dallo sversamento di liquidi non sufficientemente depurati e ricchi di sostanze prodotte da impianti industriali;
    il rilancio dell'economia del Mezzogiorno non può prescindere da interventi di sostegno al settore agricolo, finalizzati a migliorare la commercializzazione, adeguare la produzione alla domanda, ottimizzare i costi di produzione e stabilizzare i prezzi alla produzione, incentivare l'utilizzo di strumenti di gestione del rischio e contribuire al rafforzamento della posizione dei produttori, nonché di facilitare il dialogo tra i soggetti della filiera; è indispensabile promuovere forme di organizzazioni di produttori ed organizzazioni interprofessionali,

impegna il Governo:

   ad utilizzare le risorse finanziarie dell'Unione europea, anche mediante il cofinanziamento nazionale, per interventi di adeguamento e messa a norma, nonché di incremento dei depuratori in tutte le regioni del Meridione, con particolare priorità per la regione Puglia, assolutamente insufficienti ed inadeguati;
   ad adottare provvedimenti necessari ad aumentare il reclutamento dei ricercatori e garantire la stabilizzazione del personale di ricerca nel sistema universitario, con particolare riguardo alle regioni del Mezzogiorno, anche al fine di valorizzare la ricerca propedeutica allo sviluppo di nuove tecnologie e progetti industriali innovativi per lo sviluppo dell'economia meridionale, nonché a valutare l'opportunità di un intervento volto ad aumentare le capacità assunzionali fortemente limitate dall'articolo 66, comma 13-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, della legge 6 agosto 2008, n. 133;
   nell'ambito della riorganizzazione e razionalizzazione dei corpi di polizia e dei corpi armati, a garantire un maggior presidio delle medesime nelle zone del Mezzogiorno maggiormente interessate da fenomeni di criminalità organizzata, al fine di eliminare gli ostacoli e i disincentivi alle attività imprenditoriali;
   nel settore agricolo, a promuovere forme di organizzazioni di produttori ed organizzazioni interprofessionali nel Mezzogiorno come disposto dal regolamento (UE) n. 1308/2013 recante organizzazione comune dei mercati dei prodotti agricoli.
(1-00688) «Cariello, Baldassarre, Currò, Rostellato, Barbanti, Tripiedi, Bechis, Chimienti, Ciprini, Cominardi, Rizzetto».
(12 dicembre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    i dati trimestrali diffusi nel mese di novembre 2014 dall'Istituto nazionale di statistica – Istat, relativi al terzo trimestre sull'andamento dell'economia italiana, confermano una situazione di estrema debolezza, in particolare con riferimento al tasso di disoccupazione pari all'11,8 per cento (in crescita di 0,5 punti percentuali su base annua), i cui livelli da record restano i più alti dall'inizio delle serie storiche introdotte dal 1977;
    nel Mezzogiorno l'incremento rilevato, a fronte della media nazionale del 39,3 per cento, risulta essere al 19,6 per cento e raggiunge nel complesso valori estremamente preoccuparti sul piano sociale ed economico fra le fasce giovanili, pari 51,3 per cento, intensificando pertanto i divari territoriali tra le aree del Nord (con l'indicatore pari al 7,8 per cento) con quelle meridionali (il cui differenziale risulta essere pari al 19,6 per cento);
    la ripartizione regionale pubblicata dal citato istituto, evidenzia, inoltre, che la regione Sicilia risulta, secondo l'ultimo trimestre, quella con il numero più elevato di disoccupati a livello nazionale, con il tasso di disoccupazione salito al 21,2 per cento e (+1,5 per cento rispetto allo stesso periodo del 2013) un differenziale di 10 punti percentuali in più rispetto alla media nazionale (11,8 per cento), ovvero il più alto della media del Mezzogiorno (19,6 per cento);
    alle citate rilevazioni statistiche, si affiancano ulteriori analisi più approfondite e significative, provenienti dall'Associazione per lo sviluppo dell'industria e il Mezzogiorno – Svimez, connesse alle condizioni di profonda sofferenza e disagio, sociale ed economica che persiste nel sesto anno di crisi italiana per l'economia meridionale, che evidenzia come il fenomeno si stia radicalizzando nelle aree sottoutilizzate ad alta densità di disoccupati, in cui ad un'emergenza economica, contrassegnata da forti rischi di desertificazione industriale, s'intreccia, in modo sempre più stringente, l'esigenza di una mancata crescita e un potenziale sviluppo produttivo;
    alla persistente crescita tendenziale del numero dei disoccupati nelle regioni del Mezzogiorno (pari a oltre 3,5 milioni di individui, con quella giovanile giunta al 43,3 per cento e sempre più fuori controllo), si collegano i dati sulla mancata capacità competitiva delle imprese localizzate nelle aree territoriali del Sud Italia, che risentono della maggiore fragilità strutturale di «fare sistema», rispetto alle altre del Paese, ed il cui valore aggiunto in termini di produttività si attesta soltanto al 16,9 per cento, a differenza delle regioni del Nord Italia, che contribuiscono, invece, per il 61,7 per cento, e quelle del Centro, che si attestano al 21,4 per cento;
    l'evidente assenza di significativi interventi da parte del Governo Renzi, diretti al superamento dei divari di crescita esistenti tra il Centro-Nord ed il Mezzogiorno, volti alla promozione dello sviluppo territoriale nelle aree sottoutilizzate, manifestatisi sin dall'inizio del suo insediamento, hanno accresciuto le dinamiche negative delle regioni meridionali e, in particolare, riferite al sistema imprenditoriale, che per dimensione, caratteristiche settoriali e capacità competitiva è meno attrezzato a resistere ad una dinamica negativa di un ciclo recessivo così lungo e pervasivo;
    la debolezza delle aree sottosviluppate emerge in maniera rilevante anche dal confronto con altre realtà territoriali europee, caratterizzate da un livello di sviluppo economico simile, a causa dell'inefficienza (emersa in particolare nell'ultimo anno) nell'accelerazione dei programmi di spesa, in ragione dei consistenti ritardi europei, già destinati agli interventi del piano di azione e coesione e, in particolare, dal fondo di rotazione per l'attuazione delle politiche comunitarie;
    il dimezzamento delle risorse nazionali previsto da recenti interventi del Governo nell'ambito della politica di coesione relativo al periodo 2014-2020, per la definizione del nuovo quadro strategico nazionale, nei confronti della Campania, la Calabria e la Sicilia, a cui si aggiunge il concreto rischio di aggiungere 30 miliardi di euro relativi ai fondi strutturali relativi al periodo 2007-2013, che stanno per essere persi definitivamente, non riconosciuti dall'Unione europea, o perfino restituiti dalle regioni ritardatarie (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia), confermano a tal fine come lo svolgimento delle competenze attribuite all'Agenzia per la coesione territoriale (istituita ai sensi dell'articolo 10 del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125), finalizzate ad imprimere una svolta decisiva nella capacità di spesa dei fondi europei e sostenere pertanto lo sviluppo produttivo del Mezzogiorno, risulta essere inadeguato rispetto alle finalità per le quali l'Agenzia era stata istituita;
    a tal fine, il quadro previsionale decisamente sconfortante che rileva la Svimez, per il biennio 2014-2015, nell'ambito delle politiche di coesione a fronte della crisi economica e sociale del Mezzogiorno, evidenzia che nel periodo 2007-2013, a conclusione del ciclo di programmazione dei fondi (nel caso si fosse raggiunto l'obiettivo di spesa delle regioni rientranti all'interno del piano convergenza), si sarebbero potute attivare importanti leve per gli interventi di riequilibrio territoriale;
    la manifesta lentezza della nuova governance della citata agenzia, le cui evidenti difficoltà nell'imprimere una svolta decisiva nella capacità di spesa dei fondi europei hanno contribuito a determinare il ridimensionamento della quota di cofinanziamento dei fondi strutturali comunitari, (con evidenti ripercussioni sullo sviluppo territoriale nelle aree sottoutilizzate del Mezzogiorno), rende realmente incompatibili i tempi di operatività e gli obiettivi predeterminati a livello comunitario, concordati nell'ambito della strategia Europa 2020;
    la mancanza di significative misure di rilievo adottate dal Governo Renzi, in favore del Mezzogiorno, che conferma, secondo i firmatari del presente atto di indirizzo, un'azione di disimpegno generale per le aree sottoutilizzate e di scarsa attenzione relativa alla questione meridionale, accresce, inoltre, e soprattutto in prospettiva, i ritardi delle regioni meridionali, in particolare nei termini di fragilità del sistema produttivo e industriale (in particolare il comparto manifatturiero già poco presente nell'economia del Sud), provocando il crollo dei consumi delle famiglie meridionali e di debolezza in senso strutturale, che si riflette nella maggiore difficoltà di accesso al credito e un più elevato costo dei finanziamenti;
    di fronte al sopra esposto quadro macroeconomico, che configura una condizione di costante e progressiva divaricazione del sentiero di sviluppo dell'industria del Mezzogiorno, in termini di produttività e competitività con il resto del Paese, necessitano interventi decisionali in tempi rapidi, anche a livello europeo, in netta controtendenza rispetto alla cornice normativa attualmente prevista, in grado di mettere in campo una strategia di sviluppo nazionale, che ponga al centro dell'azione del Governo il rilancio del Mezzogiorno, attraverso la riduzione degli squilibri economico e sociali intensificati nell'attuale periodo di crisi;
    l'emergenza sociale determinata dal crollo occupazionale e quella produttiva esige, a tal fine, una strategia di sviluppo nazionale centrata sul Mezzogiorno con una «logica di sistema» e un'azione strutturale di medio-lungo periodo fondata su quattro driver di sviluppo tra loro strettamente connessi in un piano di «primo intervento»: rigenerazione urbana, rilancio delle aree interne, creazione di una rete logistica in un'ottica mediterranea e valorizzazione del patrimonio culturale;
    i ritardi nell'utilizzo delle risorse della politica di coesione, in particolare nelle regioni dell'obiettivo convergenza, anche dovuti alle difficoltà organizzative e operative dell'Agenzia per la coesione territoriale, impongono a tal proposito una decisa rivisitazione delle politiche del Governo a sostegno della crescita meridionale;
    il rispetto del vincolo di territorialità necessita, a tal fine, di essere adeguatamente rafforzato, in coerenza, peraltro, con quanto disposto dal Ministro per gli affari regionali e la coesione territoriale, pro tempore Raffaele Fitto e proseguito dal Ministro pro tempore Fabrizio Barca, all'interno del quale sono state indicate le priorità d'intervento che ha rappresentato una linea di continuazione indispensabile per l'impatto che l'utilizzo che i fondi strutturali avranno sull'economia del Mezzogiorno e che il Governo Renzi, invece, intende erroneamente rivedere;
    il semestre di presidenza italiana del Consiglio dell'Unione europea, a tal fine, ha confermato una scarsa efficacia del Governo Renzi, in ambito comunitario, anche sull'azione di intraprendere misure favorevoli per il nostro Paese, in grado di migliorare l'utilizzo dei fondi strutturali e rendere immediatamente cantierabili un insieme di progetti, per esplicare da subito i loro effetti sull'economia e il lavoro nelle regioni del Mezzogiorno;
    la dimensione macroeconomica dell'area, dove risiede un terzo della popolazione in cui si produce circa un quarto del prodotto interno, richiede, pertanto, in considerazione degli articolati rilievi in precedenza indicati, politiche di correzione e di riequilibrio per le aree meridionali, la cui crescita dell'economia italiana appare indissolubilmente legata al miglioramento dell'utilizzo delle risorse produttive del Sud,

impegna il Governo:

   a prevedere iniziative, in tempi rapidi, volte a potenziare l'attività istituzionale dell'Agenzia per la coesione territoriale, le cui evidenti incapacità, nell'imprimere una svolta decisiva nella capacità di spesa dei fondi europei, hanno contribuito a determinare il ridimensionamento della quota di cofinanziamento dei fondi strutturali comunitari (con evidenti ripercussioni sullo sviluppo territoriale nelle aree sottoutilizzate del Mezzogiorno), nonché l'introduzione di misure penalizzanti come quelle recentemente previste, cosa che potrebbe determinare ulteriori effetti depressivi sullo sviluppo dell'economia del Mezzogiorno nel 2015;
   a prevedere, altresì, attraverso iniziative normative ad hoc, interventi in favore dello sviluppo economico in aree svantaggiate, destinati a sostenere le zone franche urbane, in particolare delle regioni meridionali, per le quali le misure di carattere finanziario recentemente stabilite hanno previsto per il prossimo triennio 2015-2017 una rilevante riduzione o addirittura un azzeramento dei rifinanziamenti;
   ad intervenire in sede europea, attraverso un'azione politica più convincente, in grado di consentire nei confronti delle regioni del Mezzogiorno, in ritardo nella nuova programmazione dei fondi strutturali europei 2014-2020, i cui programmi operativi non saranno approvati entro fine 2014 o l'inizio del 2015, interventi in deroga, connessi al nuovo regolamento comunitario, che prevede una sospensione dell'approvazione dei programmi finché non sarà approvato il bilancio dell'Unione europea e il suo assestamento;
   a intervenire per compensare il ridimensionato delle quote di cofinanziamento dei fondi strutturali nell'ambito dei programmi operativi regionali del Mezzogiorno e a prevedere adeguate risorse comunitarie e nazionali in favore delle aree territoriali che rientrano nel «piano di convergenza», al fine di sostenere l'economia meridionale in considerazione dei dati statistici e della analisi socioeconomiche riportate in premessa, che evidenziano una condizione complessiva per dimensione macroeconomica dell'area di estrema gravità;
   a confermare, infine, l'osservanza dei principi stabiliti nell'accordo tra il Governo e le regioni del Mezzogiorno siglato il 3 novembre 2011, secondo i quali le risorse destinate al piano di azione e coesione siano vincolate al principio di territorialità.
(1-00689) «Palese, Russo, Occhiuto».
(12 dicembre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    l'eredità che lasciano sei anni di recessione fotografa un Paese ancora più diviso e diseguale, con una flessione ancora più estesa e profonda nel Mezzogiorno;
    secondo i dati del rapporto Svimez relativo al 2014, si evidenzia, ancora una volta, la questione di un Paese con due differenti velocità di sviluppo, dove al Sud il persistere della crisi si sta sempre più radicalizzando e dove all'emergenza economica si sta sempre di più intrecciando un'emergenza sociale e civile;
    nel Mezzogiorno, dove risiede un terzo della popolazione, il prodotto interno lordo, nel 2013, è calato del 3,5 per cento, approfondendo la flessione già registrata nel 2012, in cui la flessione è stata registrata al -3,2 per cento: quasi il doppio della flessione registrata al Centro-Nord. In tale contesto le regioni del Sud hanno risentito non solo dello stimolo relativamente inferiore al resto del Paese della domanda estera, ma anche della riduzione della domanda interna e questo, come evidenziato nel rapporto Svimez, è dovuto essenzialmente alla mancanza di mercato del lavoro dell'area e alla mancata spesa per investimenti che si è ulteriormente ridotta rispetto al resto del Paese;
    secondo le stime effettuate dalla Svimez non si ipotizzano per il prossimo biennio segnali di un'inversione di tendenza; infatti, si prevede per il 2015, in un quadro di recessione, un ulteriore ampliamento del divario tra Nord e Sud, con un differenziale negativo di circa mezzo punto al Sud rispetto alla media nazionale, che dovrebbe far segnare una flessione del prodotto interno lordo, tra il 2014 ed il 2015, di oltre l'1 per cento;
    anche le misure economiche degli ultimi anni, miranti al necessario aggiustamento dei conti pubblici, non hanno tenuto conto delle diversità territoriali, determinando effetti maggiormente negativi nel Mezzogiorno;
    negli ultimi anni si è avvertita l'assenza, nei programmi di Governo, di un respiro strategico, volto a ridurre il gap economico, infrastrutturale e sociale del Sud;
    il Mezzogiorno è ancora privo di quella rete di infrastrutture essenziale per lo sviluppo, anzi questi territori soffrono maggiormente della politica infrastrutturale del nostro Paese, la cui profonda crisi, registratasi nel 2013, ha visto un così basso livello di investimenti mai registrato dal 1970. La profonda caduta degli investimenti in opere pubbliche, conseguenza della crisi finanziaria, ha visto dimezzarsi anche quei valori di «sopravvivenza infrastrutturale», come li definisce il rapporto Svimez, che determineranno la compromissione da parte del Mezzogiorno di quel ruolo chiave di snodo dei traffici tra l'Europa, l'Oriente e i Paesi del bacino del Mediterraneo;
    in uno Stato dove tutte le regioni dovrebbero essere dotate degli stessi strumenti e delle stesse infrastrutture si assiste invece ad una continua rivisitazione di quello che dovrebbe essere il documento per eccellenza, la cosiddetta legge obiettivo. La riprogrammazione risulta del tutto chiara: nel Mezzogiorno si ridimensionano gli interventi e si reimpiegano risorse già ad esso destinate in altri ambiti programmatici; in parte le risorse si trasferiscono al Centro-Nord;
    ciò appare evidente da una lettura dei due ultimi rapporti della Camera dei deputati, dai quali si evince come nel Centro-Nord la programmazione si sia concentrata soprattutto su nuovi collegamenti autostradali in ppt, sul completamento della rete ferroviaria alta velocità/alta capacità nazionale e la connessione con quella europea, sulle metropolitane delle principali città e sugli interventi riguardanti l'Expo 2015. Nel Mezzogiorno, invece, si continua con l'estenuante completamento della Salerno-Reggio Calabria, della strada statale 106 jonica, delle autostrade siciliane e della rete metropolitana campana;
    nel Mezzogiorno, dunque, l'attività infrastrutturale si è limitata ad interventi di modesta dimensione, che, per loro natura, non sono in grado di infittire la rete infrastrutturale e consolidare i nodi logistici in modo da garantire una dimensione sistemica all'apparato meridionale. Il pericolo reale, a questo punto, è che il divario tra Nord e Sud da incolmato divenga incolmabile;
    la crisi finanziaria ha colpito il Sud e le politiche congiunturali anche in altri versanti, in quanto, davanti alle stringenti necessità della finanza pubblica, risorse assegnate allo sviluppo del Mezzogiorno, come il fondo per le aree sottoutilizzate, sono state distratte per altre finalità;
    per lungo tempo si è assistito, a giudizio dei firmatari del presente atto di indirizzo, a dissennati tagli operati sulla dotazione del fondo per le aree sottoutilizzate per finanziare interventi di diversa natura, non sempre corrispondenti a finalità di sviluppo e quasi sempre non localizzati nel Mezzogiorno;
    i dati sull'andamento dell'occupazione hanno evidenziato come proprio nelle regioni del Sud si siano concentrate le riduzioni più significative di posti di lavoro, legate, soprattutto, al fenomeno della desertificazione industriale. Nel Mezzogiorno una persona su due è fuori dal mercato del lavoro regolare: in valori assoluti, sette milioni di uomini e donne che convivono con lavori in nero o precari. Inoltre, è al Sud che vive un esercito di oltre due milioni di giovani e delle giovani, i cosiddetti neet (acronimo che sta per «not in education, employment or training», ovvero che non lavorano, non studiano e non seguono corsi di formazione), che sono praticamente invisibili poiché vivono in una zona grigia fatta di lavoro irregolare, occupazione estemporanea e lavori saltuari e che rappresentano la faccia più impietosa della crisi economica;
    la quota dei neet sul totale della popolazione è arrivata nel 2013 al 27 per cento e il 55 per cento è al Sud. Con la crisi, la condizione dei neet si è estesa anche ai giovani e alle giovani con titoli di studio più elevati: tra gli inattivi al Sud i diplomati e le diplomate sono il 37,5 per cento e i laureati e le laureate il 32,4 per cento;
    per quanto riguarda le donne, il rapporto Svimez rileva impietosamente che, a fronte di un tasso di occupazione che in Europa raggiunge nel 2013 mediamente il 66 per cento, nelle regioni del Sud si attesta a malapena al 38 per cento in Puglia, al 37 per cento in Calabria e Campania, per poi scendere al 35 per cento in Sicilia;
    la disoccupazione ufficiale al Sud è quasi 2,5 volte quella del Nord: l'insieme di persone in cerca di occupazione e forza lavoro potenziali nel primo trimestre del 2014 si avvicina ai 7 milioni, di cui 3,7 milioni solo nel Mezzogiorno;
    con riferimento alle imprese del Mezzogiorno, il sistema produttivo è legato a fattori strutturali di debolezza che riguardano le dimensioni piccole o piccolissime delle imprese di quest'area, spesso a gestione familiare, operanti prevalentemente in settori a basso valore aggiunto e con una conseguente scarsa propensione a investire nell'innovazione e in ricerca e sviluppo. Tra le condizioni di contesto capaci di favorire, nel medio periodo, la crescita del sistema economico meridionale c’è senza dubbio anche la crescita degli investimenti in ricerca ed innovazione, unica risposta lungimirante rispetto alla perdita di competitività delle produzioni e dei servizi rispetto a quelle dei Paesi emergenti e a quelle dei Paesi tecnologicamente più avanzati; occorre, pertanto, mettere a regime forme di credito d'imposta automatico sugli investimenti in ricerca, innovazione e formazione, nell'ambito di un più vasto sistema di fisco premiale per le imprese disposte ad investire nel Mezzogiorno;
    la mancata soluzione al problema della sicurezza complica ogni ipotesi di sviluppo per le regioni meridionali. Permane, infatti, una forte presenza della criminalità organizzata, che tenta di infiltrarsi nei grandi appalti per opere pubbliche e tenta di condizionare l'attività d'impresa, e della microcriminalità, che peggiora la qualità della vita nei centri urbani, aumentando il disagio sociale. Questa situazione richiede un impegno forte da parte dello Stato per assicurare condizioni di legalità e di sicurezza alle imprese e alle cittadine e ai cittadini; occorre salvaguardare e rilanciare il patrimonio produttivo meridionale, scongiurando la fuga dell'industria manifatturiera e l'ampliarsi dei fenomeni di delocalizzazione e intervenendo sulla promozione d'impresa, sostenendo con servizi innovativi i settori d'eccellenza, quali il turismo sostenibile, l'agroalimentare tipico, le attività ad alto contenuto tecnologico; la capacità di realizzare politiche di sviluppo mirate, in particolare ottimizzando l'utilizzo dei fondi europei, è divenuta il principale motore della crescita di molti Paesi europei, simili al Mezzogiorno per storia, tradizioni, condizioni economiche e collocazione geografica;
    il dualismo del sistema economico italiano continua ad essere una costante, che ha, però, assunto negli ultimi anni valenze differenti, in considerazione dei vincoli e delle opportunità connessi ai processi di integrazione europea e di globalizzazione; tutti gli indicatori economici lasciano presagire che nel prossimo biennio le regioni centro-settentrionali saranno caratterizzate da un forte impulso produttivo, che permetterà loro di raggiungere le performance europee, mentre il Mezzogiorno resterà penalizzato, dati i ritardi strutturali che da sempre ne condizionano lo sviluppo economico;
    si rende necessario individuare formule di intervento verso il Mezzogiorno efficaci e, soprattutto, capaci di supportare la ripresa di uno sviluppo durevole e non assistenzialistico, così, grazie alla posizione geografica ed alla dotazione di porti e aeroporti, il Sud potrebbe svolgere un ruolo di cerniera negli scambi commerciali tra Europa, Mediterraneo e Paesi del far east e raccogliere le nuove opportunità del contesto competitivo internazionale. Per il Sud italiano, così come per altri Sud europei, potrebbe aprirsi una prospettiva inedita, rappresentata dai crescenti flussi commerciali e finanziari provenienti dall'Asia e dall'Africa, da Medio Oriente, Cina, India, Giappone, Oceania e che potrebbero trasformarlo in uno dei principali poli dello sviluppo mondiale di questo nuovo secolo,

impegna il Governo:

   a promuovere una politica di sviluppo che, sulla base della rilevata inefficacia degli interventi effettuati per il Mezzogiorno nell'ultimo decennio, tenda a privilegiare interventi infrastrutturali in una logica di concentrazione settoriale delle risorse;
   ad attuare un piano di recupero di efficienza e competitività territoriale delle regioni del Mezzogiorno, attraverso la realizzazione ed il completamento definitivo di opere infrastrutturali di indubitabile importanza sotto il profilo della riduzione dei costi logistici totali di mobilità di merci e persone, integrate con le reti infrastrutturali di regioni e Paesi del Mediterraneo, grazie alle quali il Mezzogiorno potrebbe realmente rappresentare un'area strategica di operatività logistica a servizio non solo del sistema endogeno meridionale ed italiano, ma principalmente quale territorio di concentrazione e smistamento di traffico lungo le direttrici Asia-Europa e Asia-Medio Oriente-Nord-Africa;
   ad assumere iniziative per riformare i programmi regionali del fondo per le aree sottoutilizzate, modificando, al contempo, la governance dell'utilizzo dei fondi e introducendo lo strumento del contratto istituzionale di sviluppo che definisce tempi, modalità e responsabilità per l'attivazione degli investimenti finanziati con i fondi europei e nazionali destinati alle politiche di sviluppo e coesione territoriale, così come delineato nei documenti della Commissione europea relativi all'approvanda riforma della politica regionale dell'Unione europea;
   a valutare l'opportunità di assumere iniziative volte a promuovere, all'interno delle regole del patto di stabilità interno, meccanismi premiali finanziati con le risorse del fondo europeo per lo sviluppo regionale a favore delle regioni meridionali che si impegnano a ridurre la spesa corrente a favore di quella in conto capitale;
   ad assumere un impegno straordinario per sconfiggere la criminalità organizzata e tutti quei fenomeni di illegalità, dal lavoro sommerso alla microcriminalità, che determinano un ambiente sfavorevole agli investimenti ed allo sviluppo;
   a favorire lo sviluppo nelle regioni meridionali di un sistema creditizio e finanziario che sia in grado di accompagnare e promuovere la crescita dimensionale delle imprese, l'innovazione e l'internazionalizzazione;
   a qualificare e semplificare, per quanto di competenza, la pubblica amministrazione, specie nelle aree meridionali, in maniera tale che diventi fornitrice di servizi efficienti alle imprese e alle cittadine e ai cittadini;
   a valutare l'opportunità di definire progetti finalizzati al rientro nelle regioni di provenienza delle giovani e dei giovani ad alta ed altissima qualificazione universitaria e post-universitaria, contribuendo in tal modo ad invertire i consistenti flussi di emigrazione che coinvolgono in modo preoccupante le migliori energie intellettuali del Mezzogiorno.
(1-00764) «Di Lello, Catalano, Fava, Di Gioia, Locatelli, Pastorelli, Currò, Furnari, Pinna, Tacconi».
(24 marzo 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    il periodo attuale di crisi economica, la peggiore dal dopoguerra ad oggi, sta determinando in tutto il Paese e soprattutto al Sud Italia una forte emergenza sociale dovuta al crollo dei livelli occupazionali e produttivi, che evidenziano il reale rischio di una desertificazione industriale causata dal crescente numero di imprese che chiudono la loro attività;
    l'analisi del periodo 2007-2014, preso a riferimento dalle recenti ricerche portate a termine da diversi istituti, evidenzia un quadro di insieme fortemente negativo del Sud Italia segnato da una crisi strutturale consolidata che accentua le proprie differenze in termini economici, sociali e di sicurezza rispetto al Centro-Nord, che invece sta registrando timidi segnali di ripresa;
    la situazione economica del Mezzogiorno a fine 2014 si è ulteriormente aggravata rispetto al resto del Paese e le prospettive per il 2015 sono in netto peggioramento, come si evince dalle stime elaborate da Istat, Svimez e da ultimo da Confindustria. Quella del Mezzogiorno è una crisi economica e sociale che nel suo evolversi negli anni ha sempre sofferto la mancanza di una programmazione a medio-lungo termine di interventi efficaci e di provvedimenti strutturali da parte dello Stato. I ritardi consolidatisi al Sud hanno generato, in questo grave momento di crisi, un clima di sfiducia nel sistema delle imprese, che si traduce in mancanza di investimenti, rilevante calo occupazionale, elevata emigrazione di giovani che non trovano lavoro e che smettono di cercarlo, con il contestuale paradosso di risorse dello Stato e dell'Unione europea che colpevolmente non vengono utilizzate o lo sono con gravi ritardi;
    l'indice sintetico della situazione del Mezzogiorno, riportato nell'analisi elaborata da Confindustria e da Srm-Studi e ricerche per il Mezzogiorno (centro studi del gruppo Intesa Sanpaolo), è nettamente inferiore al dato di partenza del 2007 ed in calo ulteriore rispetto al minimo già registrato nel 2013. A deprimere l'indice sono gli investimenti pubblici e privati, stimati in calo di quasi 29 miliardi di euro tra il 2007 ed il 2014, il prodotto interno lordo ridottosi di oltre 51 miliardi di euro, l'occupazione, ben al di sotto della soglia psicologica dei 6 milioni, ed un tasso di disoccupazione che ha superato il tetto del 20 per cento;
    Confindustria segnala che nel Mezzogiorno imprese e lavoratori sono, ovviamente, i soggetti che per primi e in modo più diretto risentono degli effetti della crisi che si conferma «crisi di domanda interna», caratterizzata, cioè, da minori consumi e minori investimenti. Nel 2013 hanno cessato la propria attività (cancellandosi dal registro delle imprese) 121 mila imprese e nei primi nove mesi del 2014 altre 88 mila imprese hanno chiuso ad un ritmo di 326 cessazioni al giorno. Nel complesso, tra il 2007 e il 2013 il numero di imprese attive nel Mezzogiorno è calato di circa 31 mila unità: secondo le stime, nel 2014 si prevede la chiusura di ulteriori 10 mila aziende;
    se, da un lato, molte aziende chiudono ed escono dal mercato, dall'altro, quelle che stanno «sopravvivendo» alla crisi registrano un progressivo peggioramento nei propri conti economici e finanziari. In media, infatti, le imprese manifatturiere meridionali hanno perso l'1,2 per cento del fatturato nel 2012 rispetto al 2011 e, successivamente, l'1,8 per cento nel 2013 (-0,1 per cento per il Centro-Nord). Il ridotto «giro d'affari» ha, altresì, determinato un calo nella redditività delle imprese: il return on investment medio delle imprese manifatturiere meridionali, pari al 4,9 per cento nel 2007, si è ridotto all'1,6 per cento nel 2013, ben più del Centro-Nord. Flussi di cassa sempre più esigui determinano anche un maggior ricorso all'indebitamento (finanziario e commerciale) da parte delle imprese: tra il 2007 e il 2013 i valori iscritti a debito nelle imprese meridionali sono aumentati complessivamente del 13,8 per cento;
    il rapporto di Confindustria evidenzia un Mezzogiorno stretto in una morsa costituita da una domanda interna in calo e da una pressione fiscale giunta a livelli insostenibili. Al Sud, infatti, ancor più che nel Centro-Nord, il calo della domanda interna sta influendo in modo negativo sulle capacità economiche e finanziarie delle imprese, al pari dell'imposizione fiscale: le imprese in perdita nel Mezzogiorno sono circa un terzo del totale ed il 5,5 per cento è in perdita dopo il pagamento delle imposte. Tutto questo è causa di margini sempre più esigui ed evidenzia una pressione fiscale, soprattutto locale, significativa e sempre più insostenibile in questo stato di crisi: come certifica la Banca d'Italia, nel 2011-12 le entrate fiscali sono aumentare dell'1,7 per cento all'anno nel Mezzogiorno, dove ormai il rapporto tra gettito fiscale e prodotto interno lordo è ormai prossimo a quello del Centro-Nord, nonostante gli obiettivi di riequilibrio territoriale. La crescita delle sofferenze bancarie, ben oltre quota 36 miliardi di euro, certifica questo stato di difficoltà delle imprese;
    la ridotta attività economica del Mezzogiorno sta, altresì, disperdendo il «capitale umano» delle regioni meridionali. Tra il 2007 e il 2013 è stata registrata una perdita di oltre 600 mila posti di lavoro, con una variazione di -9,5 per cento. In base agli ultimi dati disponibili (II trimestre 2014) il numero di occupati è ulteriormente calato nel 2014 (-1,5 per cento rispetto al II trimestre 2013). Il tasso di disoccupazione nel Mezzogiorno è così salito al 19,7 per cento nel 2013 (era pari all'11 per cento nel 2007) e risulta superiore sia al valore medio italiano (12,2 per cento) sia a quello dell'Unione europea a 28 (10,8 per cento). In base agli ultimi dati disponibili (II trimestre 2014) il tasso di disoccupazione nel Mezzogiorno ha addirittura superato la soglia del 20 per cento. Dal 2008 al 2013 in Italia hanno perso il lavoro 985 mila persone, delle quali 583 mila sono al Sud dove, nel solo 2013, si sono persi 282 mila posti di lavoro, pari ad oltre il 50 per cento del totale nel suddetto periodo. Il numero degli occupati al Sud per la prima volta dal 1977 è sotto i 6 milioni, attestandosi nel 2103 a 5,8 milioni;
    il calo dell'occupazione, la riduzione del reddito medio disponibile, un welfare non in grado di supportare pienamente le persone in strutturale o temporanea difficoltà economica hanno comportato nel corso degli ultimi anni un acuirsi del livello di «povertà»; il numero di persone che vivono in condizioni di povertà assoluta nel Mezzogiorno è più che raddoppiato tra il 2007 e il 2013, passando da 1,2 a 3 milioni di individui: il 50 per cento del totale delle persone in povertà assoluta in Italia è nel Mezzogiorno;
    secondo la ricerca e le stime elaborate da Svimez, l'andamento produttivo dell'Italia nel 2013 rimane stagnante ed anche gli indicatori congiunturali del 2014 non mostrano segni di miglioramento. Il Sud Italia è da considerarsi in recessione, non solo per il 2014 ma anche per il 2015. Le previsioni porterebbero a otto gli anni consecutivi nei quali il prodotto interno lordo meridionale è stato negativo, con un crollo dei redditi al Sud del 15 per cento tra il 2008 e il 2013;
    in particolare, nel Mezzogiorno, tra il 2008 e il 2013, il forte calo occupazionale, mediamente di quattro volte superiore a quella del Centro-Nord, ha generato un crollo dei consumi delle famiglie di quasi 13 punti percentuali (-12,7 per cento), di oltre due volte maggiore di quello registrato nel resto del Paese (-5,7 per cento). Tutti i settori dell'economia meridionale sono in crisi, assumendo, in particolare, dimensioni «epocali» nell'industria in senso stretto, crollata al Sud nel 2008-2013 addirittura del 53,4 per cento, più che doppia rispetto a quella, assai grave, del Centro-Nord (-24,6 per cento). Un così massiccio fenomeno di riduzione drastica di investimenti ha ulteriormente aggravato la già scarsa competitività dell'area e ha comportato un forte ridimensionamento dell'estensione e delle dimensioni dell'apparato produttivo, favorendo nella sostanza un processo di downsizing e al tempo stesso di desertificazione dei territori meridionali;
    Svimez ha analizzato a fondo il processo di riduzione del valore aggiunto, che ha toccato il picco nel settore delle costruzioni, che nella media cumulata del 2008-2013 ha ridotto il prodotto del 35,3 per cento contro il 23,8 per cento del Centro-Nord. In particolare, nel 2013, l'edilizia ha accusato un calo del 9,6 per cento nel Mezzogiorno, esattamente il doppio di quello del Centro-Nord (-4,8 per cento). Nel comparto terziario la perdita è stata nel 2014 del 2,3 per cento nel Sud, a fronte di una sola leggera flessione (-0.4 per cento) al Centro-Nord. Ancora in calo risulta nel 2013 l'agricoltura meridionale, che perde lo 0,2 per cento rispetto a un incremento dello 0,6 per cento nel Centro-Nord. Il settore industriale ha perso, nel 2013, 6 punti e mezzo percentuali, più del doppio del Centro-Nord (-2,7 per cento). Nella media cumulata del periodo di crisi 2008-2013, la contrazione del prodotto industriale ha raggiunto quasi il 25 per cento, dieci punti in più rispetto al Centro-Nord;
    nonostante tutto, il rapporto Confindustria-Srm individua segnali confortanti e contrastanti nelle esportazioni delle imprese del Sud Italia, dati che, però, da soli non consentono un'inversione di tendenza sufficiente, anche perché concentrati in alcune aree e con numeri ancora troppo esigui e, soprattutto, non supportati da un'azione pubblica convintamente anticiclica, se si eccettua l'effettivo saldo di buona parte dei debiti della pubblica amministrazione verso le imprese. Tra il 2009 e il 2013, infatti, la spesa in conto capitale nel Mezzogiorno si è ridotta di oltre 5 miliardi di euro, tornando ai valori del 1996, contribuendo alla riduzione del numero e del valore degli appalti pubblici. Di valore sempre più ridotto sono, inoltre, le gare di partenariato pubblico-privato bandite al Sud e pressoché dimezzati, rispetto all'anno precedente, i mutui concessi agli enti locali per il finanziamento degli investimenti. Si realizzano, dunque, sempre meno investimenti pubblici, sia che lo Stato li finanzi direttamente sia che li promuova indirettamente;
    nell'indagine annuale de Il Sole 24 ore sulla qualità della vita della 107 città italiane capoluoghi di provincia, le città del Sud sono nelle ultime posizioni per servizi, ambiente e salute, affari e lavoro e ordine pubblico;
    i suddetti dati, aggravatisi con la grave crisi attuale che investe prioritariamente l'economia più debole del nostro Paese che da sempre è quella meridionale, testimoniano che il Mezzogiorno non ha mai avuto una politica industriale e di investimenti ben programmata, che gli consentisse di recuperare il gap storico, che risale all'unità d'Italia, nei confronti del Centro-Nord;
    questo stato di fatto chiama in causa il tema della programmazione di bilancio dello Stato e della spesa delle risorse stanziate, ordinarie e straordinarie, destinate allo sviluppo del Paese e, in particolare, del Mezzogiorno ed impone di confrontarsi con numerose criticità che hanno ridotto e che possono ridurre ulteriormente l'efficacia dell'intervento pubblico;
    i fondi comunitari sono di fondamentale importanza per tutto il Paese, ma è necessario evidenziare che hanno una particolare rilevanza per il Sud Italia, in quanto sono molto spesso sostitutivi delle risorse statali per gli investimenti. Già nel rapporto strategico nazionale di dicembre 2009, prima ancora dei numerosi tagli che sono stati effettuati alle politiche di sviluppo (20 miliardi di tagli al fondo per le aree sottoutilizzate 2007-2013 destinato al Sud), il Ministero dello sviluppo economico dichiarava il mancato rispetto del principio di addizionalità previsto dai regolamenti europei. In quel periodo, infatti, il 15 per cento dei fondi europei fu utilizzato per sopperire alla mancanza di risorse nazionali;
    la Banca d'Italia, nel corso dell’Eurofi financial forum 2014, ha segnalato la necessità di «rilanciare gli investimenti pubblici e privati nazionali ed europei» per la ripresa economica e di affiancare alle riforme strutturali specifiche sul lato dell'offerta «una più ampia azione di politica economica per accelerare la costituzione di infrastrutture materiali ed immateriali indispensabili per un vero mercato unico europeo»; in particolare, sono due gli elementi di criticità che ostacolano ed inficiano l'effettiva redditività dei provvedimenti dello Stato finalizzate alle politiche di sviluppo;
    il primo elemento di criticità si rileva nella distorsione dell'utilizzo delle risorse della programmazione unitaria che sono state utilizzate come variabile di aggiustamento dei conti pubblici italiani nei provvedimenti di finanza pubblica adottati dal 2008 ad oggi. Circa un terzo (pari a 20 miliardi di euro) delle risorse dell'ex fondo per le aree sottoutilizzate (relative al periodo 2007-2013, ora denominato fondo per lo sviluppo e la coesione, sono state tagliate o destinate ad altre finalità. Tale distrazione ha determinato una forte incertezza sulle disponibilità finanziarie da utilizzare per le politiche di sviluppo;
    il taglio delle risorse destinate alla coesione territoriale è proseguito con la legge di stabilità per il 2015, che ha ridotto di 4,5 miliardi di euro l'importo delle risorse destinate al piano di azione e coesione, che finanzia in gran parte infrastrutture nel Mezzogiorno e ha ridotto di 1,8 miliardi di euro le risorse del fondo sviluppo e coesione, di cui 540 milioni di euro relativi alle 6 regioni del Mezzogiorno a statuto ordinario;
    il secondo elemento di criticità si ravvisa nei vincoli di finanza pubblica, con particolare riferimento al patto di stabilità interno di regioni, province e comuni, che hanno rallentato la spesa delle risorse stanziate, con la conseguenza che, a fine 2014, circa il 29 per cento dei fondi strutturali e più del 90 per cento delle risorse regionali dell'ex fondo per le aree sottoutilizzate devono ancora essere spese;
    secondo quanto si evince dalle analisi del bilancio dello Stato, risulta che, nel corso degli ultimi anni, si sia verificato una distrazione delle risorse destinate alle infrastrutture da una molteplicità di capitoli ordinari a pochi «maxi-capitoli», con una crescente concentrazione delle risorse nei maxi-capitoli dei fondi strutturali e del fondo per lo sviluppo e la coesione;
    le stime dell'Ance, di Confindustria e del Cresme evidenziano la grande portata delle risorse distratte dai capitoli ordinari: i due maxi-capitoli dei fondi strutturali e del fondo per lo sviluppo e la coesione rappresentano oggi tra il 40 ed il 45 per cento delle risorse destinate ogni anno dallo Stato alle infrastrutture e all'adeguamento del territorio. Appare, dunque, strategico il celere utilizzo di queste risorse proprio in ragione del contesto in cui versa il nostro Paese, nel quale le risorse pubbliche a disposizione dell'infrastrutturazione sono ai livelli minimi degli ultimi 20 anni;
    il rapporto annuale del Cresme sull'attivazione della «legge obiettivo» al 31 dicembre 2014 evidenzia una sperequazione tra gli investimenti infrastrutturali al Centro-Nord per 192.137 milioni di euro, pari al 67,4 per cento del totale, e per 90.469 milioni di euro per il Sud, pari al 31,7 per cento;
    la spesa dei fondi comunitari è prioritaria per la ripresa economica particolarmente nel Mezzogiorno. Infatti, questa zona ha subito pesantemente la crisi economica più di ogni altra area del Paese. Eurispes, nell'ultimo rapporto annuale, analizzando i dati economici dell'Italia, ha evidenziato che al Sud vi è una condizione molto critica con indicatori inferiori rispetto a quelli di altre aree e rispetto alle medie nazionali. Dal 2007, la crisi ha piegato il tessuto economico e produttivo del Sud, aumentando ulteriormente il divario con il Nord d'Italia. Nel Mezzogiorno le aziende registrano il peggior saldo del portafoglio ordini e della relativa variazione nel periodo. Non a caso, al Sud, dal 2007 ad oggi, ben 11.500 aziende (pari al 25 per cento del totale in Italia) hanno registrato una situazione di incapacità prolungata nel tempo di ripagare i propri debiti e hanno fatto richiesta di fallimento presso le cancellerie dei tribunali;
    è importante evidenziare che sugli investimenti finanziati con questi fondi grava non solo l'ostacolo rappresentato dal patto di stabilità interno delle regioni, ma anche quello rappresentato dal patto di stabilità interno degli enti locali (comuni e province), quando questi risultano destinatari dei finanziamenti della politica di coesione. Su questo punto, il legislatore non è intervenuto nella legge di stabilità, nonostante le reiterate richieste di «nettizzazione» di queste risorse nel calcolo del patto di stabilità interno;
    secondo le dichiarazioni rilasciate ad organi di stampa da rappresentanti del Governo, sarebbe allo studio una consistente riduzione delle risorse destinate al cofinanziamento degli interventi dei fondi strutturali per il periodo 2014-2020, rispetto ai circa 41 miliardi di euro che erano allo scopo previsti dal progetto di accordo di partenariato trasmesso alla Commissione europea il 22 aprile 2011;
    tale riduzione produrrebbe effetti positivi in termini di finanza pubblica, ma determinerebbe la rinuncia ad avvalersi di una quota consistente delle risorse assegnate alle regioni italiane nell'ambito della programmazione 2014-2020;
    nel corso dell'informativa urgente sulle linee di attuazione del programma di Governo del 16 settembre 2014, il Presidente del Consiglio dei ministri ha inteso evidenziare l'urgenza dell'investimento dei fondi comunitari, pronunciando queste parole: «Al termine dei mille giorni o spendiamo bene i fondi europei o i fondi europei porteranno via noi»;
    l'esclusione delle spese di investimento dal calcolo europeo del deficit, in particolare di quelle finanziate da fondi strutturali europei, appare sempre più la chiave di volta per rimettere in moto investimenti da troppo tempo bloccati e per ridare ai bilanci pubblici spazi di manovra senza i quali nessuna fase espansiva appare ipotizzabile. La sfida è costituita da una selezione attenta e mirata degli investimenti pubblici e privati, in alcune aree prioritarie e dal valore strategico: dalla ricerca e sviluppo alla competitività delle imprese, dalle risorse naturali e culturali all'istruzione, dall'efficienza energetica alle infrastrutture materiali e sociali e ai servizi che tali infrastrutture utilizzano;
    in questa direzione andrebbe orientata prioritariamente l'Agenzia di sviluppo e coesione nella sua attività di monitoraggio e, soprattutto, accompagnamento e supporto tecnico ai ministeri ed alle regioni titolari degli interventi finanziati dai fondi europei e dal fondo sviluppo e coesione;
    i dati di crisi del Mezzogiorno evidenziano quanto sia fondamentale l'immediata spesa delle risorse disponibili bloccate da adempimenti procedurali e burocratici o da inadempimenti degli enti beneficiari. Evidenziano, inoltre, l'urgente necessità di interventi strutturali dello Stato da aggiungersi agli impegni ed agli investimenti previsti dalle politiche dell'Unione europea per le aree di minor sviluppo. Tutto ciò al fine di favorire la ripresa puntando su settori che hanno tradizionalmente maggiore potenzialità in termini di crescita occupazionale e di coinvolgimento di molteplici attività produttive, quali innovazione, turismo, cultura, istruzione, agricoltura, infrastrutture e riqualificazione urbana, facendo emergere con orgoglio le realtà economiche nascoste nell'indifferenza e nella rassegnazione,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative dirette a riformare con estrema urgenza il patto di stabilità interno e le regole di finanza pubblica affinché sia possibile assicurare la spesa dei fondi europei nei tempi programmati, ricorrendo ai poteri sostitutivi del Governo nei confronti delle regioni inadempienti previsti dalle vigenti leggi in materia (decreto-legge n. 69 del 2013, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 98 del 2013 ed articolo 12 del decreto-legge n. 133 del 2014), nonché garantire un'equilibrata politica di investimenti da parte degli enti territoriali;
   ad assumere iniziative per rifinanziate la misura che prevede l'esclusione di parte dei cofinanziamenti nazionali dai parametri del patto di stabilità interno e che ha esaurito, con positivi riscontri in termini di accelerazione della spesa, i propri effetti nel 2014 dopo un triennio di operatività, con lo stanziamento di 1 miliardo di euro all'anno, tenuto conto che tale provvedimento si è già rivelato determinante per impedire la paralisi completa della spesa comunitaria e nazionale;
   a ridistribuire gli obiettivi di finanza pubblica stabiliti a livello nazionale in favore di una politica di investimento degli enti locali del Mezzogiorno, accompagnata da una revisione delle regole del patto di stabilità a livello nazionale ed europeo, con l'introduzione di un'adeguata flessibilità per favorire gli investimenti;
   a garantire che la programmazione infrastrutturale rappresenti l'elemento centrale dei programmi dei fondi strutturali europei e del fondo per lo sviluppo e la coesione 2007-2013 e 2014-2020, evitando di utilizzare impropriamente questi fondi per finanziare altre esigenze nell'attuale difficile contesto di finanza pubblica;
   a rafforzare l'azione dell'Agenzia di sviluppo e coesione nel supportare efficacemente le regioni del Mezzogiorno nella programmazione dei fondi europei, affinché essa sia strutturata e coerente con gli obiettivi e soprattutto integrata tra le stesse regioni e affinché possa garantire la tempestiva redazione dei relativi progetti, promuovendo la semplificazione delle procedure di autorizzazione degli interventi e della conseguente spesa;
   a favorire, nel corso della programmazione 2014-2020, l'utilizzo di risorse del fondo sociale europeo per la realizzazione di politiche attive a carattere sociale e quindi di contrasto alla povertà crescente, di inserimento nel mondo del lavoro dei giovani disoccupati, nonché di sostegno per le famiglie socialmente ed economicamente disagiate;
   a favorire lo sviluppo di un sistema creditizio e finanziario di effettivo sostegno alle imprese in crisi per il mantenimento o l'incremento dei livelli occupazionali;
   a promuovere, con la supervisione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e dei suoi uffici territoriali, di concerto con il dipartimento della gioventù e del servizio civile nazionale, iniziative di servizio civile culturale destinato ai giovani del Mezzogiorno per la valorizzazione e la divulgazione dei beni culturali, architettonici e paesaggistici presenti nelle regioni del Sud;
   a promuovere l'adozione di protocolli multilaterali di facilitazione istituzionale, legislativa e amministrativa e di semplificazione procedurale che coinvolgano le regioni del Mezzogiorno ed altri Paesi o enti di interesse economico intenzionati a investire in progetti di riqualificazione di attività produttive o di ricerca ed innovazione tecnologica e scientifica che abbiano significativo impatto per le comunità locali, così come già avvenuto in occasione del protocollo tra Governo, regione Sardegna e il fondo Qatar foundation endowment per il recupero dell'ospedale ex San Raffaele di Olbia.
(1-00765) «Matarrese, Mazziotti Di Celso, D'Agostino, Dambruoso, Vargiu, Antimo Cesaro, Cimmino, Molea, Vecchio, Piepoli, Vezzali».
(24 marzo 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    la crescita economica, sociale e culturale del Mezzogiorno è la vera sfida sulla quale si gioca il futuro dell'Italia;
    gli ultimi dati Istat e Svimez sono a questo proposito allarmanti: aumenta il divario con il Centro-Nord, mancano investimenti pubblici e privati, si assiste ad un impoverimento del capitale umano. In questo quadro sarà difficile che il Sud possa agganciare la ripresa e la sua lentezza potrebbe rivelarsi un deterrente per lo sviluppo di tutto il Paese;
    l'Italia sconta gli effetti negativi di un grande divario territoriale: un dualismo economico che si sta ampliando e che minaccia di essere una palla al piede di qualsiasi ipotesi di ripresa nazionale;
    di questo il rapporto Svimez 2014 sull'economia del Mezzogiorno, presentato nel mese di ottobre 2014, aveva già lanciato un avvertimento, delineando uno scenario preoccupante: l'aumento dell'emigrazione (+116 mila abitanti nel 2013), un basso indice di natalità (continuano nel 2013 a esserci più morti che nati), l'aumento della povertà (+40 per cento di famiglie povere nell'ultimo anno) perché manca il lavoro (al Sud si è perso l'80 per cento dei posti di lavoro nazionali tra il primo trimestre del 2013 e del 2014); l'industria continua a soffrire di più (-53 per cento degli investimenti in cinque anni di crisi, -20 per cento degli addetti); i consumi delle famiglie crollano di quasi il 13 per cento in cinque anni; gli occupati arrivano a 5,8 milioni, il valore più basso dal 1977 e il dato corretto sulla disoccupazione sarebbe il 31,5 per cento invece che il 19,7 per cento;
    uno scenario che secondo Svimez rischia di divenire strutturale: anche quando, dopo l'inizio della crisi nel 2008, il Centro-Nord aveva fatto segnare una limitata ripresa, con un aumento del prodotto interno lordo dal 2011 al 2012 del 3,8 per cento, il Sud aveva continuato a perdere prodotto, con una diminuzione dello 0,9 per cento. In totale, nonostante la crisi, il prodotto interno lordo del Centro-Nord dal 2001 al 2013 è aumentato del 2 per cento, mentre quello del Sud è sceso del 7,2 per cento;
    i conti economici territoriali dell'Istat, riferiti al periodo 2011-2013 e pubblicati il 9 gennaio 2015, confermano il quadro sopra descritto: il prodotto interno lordo per abitante nel 2013 risulta pari a 33,5 mila euro nel Nord-ovest, a 31,4 mila euro nel Nord-est e a 29,4 mila euro nel Centro. Il Mezzogiorno, con un livello di prodotto interno lordo pro capite di 17,2 mila euro, presenta un gap molto ampio con il Centro-Nord, dove si registra un livello di prodotto interno lordo pro capite di 31,7 mila euro; il valore registrato nel Mezzogiorno è quindi inferiore del 45,8 per cento rispetto a quello del Centro-Nord;
    i dati sopra evidenziati si traducono in un impoverimento dell'apparato produttivo a causa del calo degli investimenti: dal 2008 al 2013, gli investimenti in agricoltura sono calati del 44,6 per cento nel Mezzogiorno e del 14,5 per cento nel Centro-Nord; quelli nell'industria del 49,4 per cento nel Mezzogiorno e del 26,6 per cento nel Centro-Nord. Al tempo stesso gli investimenti in opere pubbliche sono scesi a un quinto di quelli di 20 anni fa, mentre nel Centro-Nord sono rimasti sostanzialmente invariati;
    dal punto di vista demografico, la fotografia dell'Istat è impietosa. I dati riferiti all'anno 2014, pubblicati il 12 febbraio 2015, dicono che nel Sud si fanno sempre meno figli e si assiste a un forte esodo di migranti verso le altre regioni del Paese e verso l'estero. Il Nord ha assorbito (al netto delle ripartenze) 2,4 migranti ogni mille residenti tra esteri e italiani da altre regioni; il Mezzogiorno, a causa della minore attrattività per l'immigrazione e dei flussi verso le regioni settentrionali e l'estero, ha perso 2,1 abitanti ogni mille. Dal 2001 al 2013 se ne sono andati, al netto dei rientri, 708 mila emigranti, di cui 494 mila giovani tra i 15 e i 34 anni e 188 mila laureati: una perdita enorme per lo sviluppo futuro del Mezzogiorno, a totale beneficio di altri territori. Di questo passo, conferma il rapporto Svimez, nei prossimi cinquant'anni il Sud scenderà dal 34,3 per cento della popolazione italiana al 27,3 per cento, perdendo quattro milioni di abitanti;
    è significativo, altresì, quello che accade in sanità, dove il rapporto annuale Istat 2014 evidenzia – se mai ce ne fosse bisogno – che per quanto il Servizio sanitario nazionale abbia migliorato il suo livello di accountability, attraverso la riduzione del debito accumulato, e i suoi standard di appropriatezza, si registrano aspetti ancora problematici sul fronte dell'equità, per la quale gli indicatori segnalano persistenti divari di genere, sociali e territoriali sia in termini di esiti di salute sia di accessibilità alle cure;
    nel Mezzogiorno, infatti, la speranza di vita è più bassa (79 anni per gli uomini e 83,7 per le donne, contro rispettivamente il 79,9 e l'84,8 del Nord), la prevalenza di patologie croniche gravi si attesta al 16,1 per cento contro il 14,2 per cento registrato al Nord, e aumenta, infine, la disabilità: non si può parlare, in generale, di un peggioramento delle condizioni di salute bensì di un incremento della popolazione esposta al rischio di ammalarsi con il conseguente aumento per il futuro della pressione sul Servizio sanitario nazionale a causa dell'incremento delle persone bisognose di cure e assistenza;
    il Servizio sanitario nazionale è nel Mezzogiorno anche meno equo che nel resto del Paese come testimonia la percentuale di persone che, pur in presenza di un bisogno di salute, rinunciano alla prestazione sanitaria: a questo riguardo, nel 2012, se a livello nazionale la quota di cittadini che ha rinunciato alle cure si attesta all'11,1 per cento (in prevalenza le donne sono il 13,2 per cento, mentre gli uomini sono il 9,0 per cento), nel Mezzogiorno la percentuale è del 14,4 per cento (anche in questo caso le donne sono il 16,5 per cento, mentre gli uomini il 12,2 per cento). La motivazione addotta è prevalentemente quella economica (50,4 per cento, in media);
    la sanità nel Mezzogiorno risulta penalizzata sotto più aspetti. Alla minore speranza di vita alla nascita si accompagna una maggiore mortalità, rispetto al resto del Paese, per malattie cardiovascolari, che costituiscono la prima causa di morte. Per quanto riguarda la mortalità per tumori, alcune regioni del Sud, anche in presenza di un'incidenza della malattia inferiore rispetto alle regioni del Nord, registrano tassi di mortalità analoghi; questo a testimoniare che coloro che si ammalano di tumore nel Mezzogiorno hanno una probabilità di sopravvivere sensibilmente inferiore rispetto ad un cittadino del Nord. Sul versante delle dotazioni finanziarie, negli ultimi anni, il settore sanitario si è caratterizzato per una diminuzione della spesa per investimenti, un dato che rischia di diventare allarmante nel Sud dove le strutture e la strumentistica medico-ospedaliera risultano in molti casi vecchie ed obsolete. Di conseguenza, risultano insufficienti i servizi per la prevenzione, come pure molti servizi specialistici. Carenze importanti riguardano i servizi territoriali per la medicina di base, per la salute della donna, per la salute mentale, per l'assistenza domiciliare agli anziani e alle persone non autosufficienti. Un settore caratterizzato da una situazione di particolare emergenza è quello oncologico, nel quale manca circa la metà degli strumenti di radioterapia necessari a servire la popolazione locale;
    le insufficienze strutturali e, soprattutto, la carenza di tecnologie avanzate e di divisioni specialistiche di eccellenza costringono i cittadini residenti nel Mezzogiorno a spostarsi per ricevere cure adeguate: le statistiche la definiscono mobilità sanitaria (ovvero il diritto del cittadino di ottenere cure, a carico del proprio sistema sanitario, anche in un luogo diverso da quello di residenza), ma in questo specifico caso – in cui la decisione di curarsi fuori dalla propria regione non è la conseguenza di una scelta ma di una necessità – è più corretto parlare di migrazione sanitaria: non è un caso, infatti, che – come certifica la settima edizione di «Noi Italia 2015. 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo» a cura dell'Istat, la maggior parte delle regioni del Mezzogiorno abbiano un alto indice di emigrazione ospedaliera. Le regioni del Sud mostrano, altresì, un basso indice di attrazione (inferiore ad uno), ovvero un deficit tra i flussi di entrata e di uscita rispetto ai ricoveri dei propri residenti. L'indice di attrazione conferma il dualismo tra alcune regioni del Centro-Nord, che registrano un valore significativamente più elevato di uno e quasi tutte le regioni del Mezzogiorno, con un indice pari o inferiore a 0,7;
    un quadro problematico, quello appena descritto, dal quale si discosta l'approccio alla tematica ambientale. Secondo i dati Istat – relativi al triennio 2010-2012 e pubblicati il 21 gennaio 2015 – la spesa per interventi di protezione dell'ambiente e di uso e gestione delle risorse naturali erogata complessivamente dalle amministrazioni regionali italiane nel 2012 ammonta a 3.825 milioni di euro, pari a 64,2 euro per abitante, con un'incidenza sul prodotto interno lordo dello 0,23 per cento;
    dallo scorporo dei dati, emerge che le amministrazioni regionali del Nord-ovest, del Nord-est e del Centro presentano una spesa ambientale per abitante inferiore alla media nazionale (rispettivamente 26,54, e 40 euro per abitante), mentre quelle del Mezzogiorno dedicano risorse pari a 113 euro per abitante: un dato incoraggiante, anche se l'Istat precisa che esso riflette la maggior presenza nel meridione di spese realizzate a valere sui fondi strutturali, nonché quelle connesse ad accordi di programma quadro in materia di servizi e infrastrutture ambientali. In ogni caso, rispetto al 2011, solo nel Mezzogiorno la spesa ambientale è aumentata (+0,6 per cento), mentre, rispetto al 2010, la spesa ambientale segna una diminuzione molto marcata nel Nord-ovest, Centro e Nord-est (-33 per cento, -24,9 per cento, -18,6 per cento rispettivamente) e un calo contenuto nel complesso delle amministrazioni regionali del Mezzogiorno (-2,9 per cento);
    in relazione alla tipologia, nel 2012 la quota prevalente della spesa ambientale (circa 3.825 milioni di euro) erogata nel triennio di riferimento è assorbita da attività e interventi finalizzati alla salvaguardia dell'ambiente (65 per cento del totale della spesa ambientale, circa 2.491 milioni di euro) e da interventi di uso e gestione delle risorse naturali (1.334 milioni di euro, 35 per cento del totale). Le amministrazioni regionali del Nord-ovest e del Nord-est riservano la quota maggiore della spesa ambientale a interventi per la protezione della biodiversità e del paesaggio (rispettivamente il 23,5 per cento e 24,7 per cento del totale nel 2012). Nel Centro una parte significativa della spesa ambientale è destinata a interventi di protezione e risanamento del suolo, delle acque del sottosuolo e delle acque di superficie (21,3 per cento del totale). Nel Mezzogiorno il 41,4 per cento del totale della spesa ambientale si ripartisce quasi in uguale misura tra interventi di protezione e risanamento del suolo, delle acque del sottosuolo e delle acque di superficie (21,5 per cento) e interventi di gestione delle risorse idriche (19,9 per cento);
    altro segnale in controtendenza: secondo la Coldiretti, che ha rielaborato i dati Istat relativi all'andamento economico ed occupazionale nel Mezzogiorno d'Italia nel 2013, l'agricoltura è l'unica attività economica che nel Mezzogiorno resiste alla crisi con una sostanziale stabilità sia del valore aggiunto (-0,3 per cento) che nel numero di occupati (-0,9 per cento) rispetto al crollo generalizzato: Coldiretti, infatti, sottolinea che nello stesso periodo la performance dell'agricoltura nel Centro-nord è peggiore (-2,4 per cento del numero di occupati) che al Sud, dove – è bene ricordarlo – il settore primario, pur in presenza di grandi potenzialità (due terzi delle coltivazioni biologiche nazionali con quasi la metà delle imprese agricole nazionali, il 10 per cento del territorio coperto da parchi e aree protette) sconta difficoltà infrastrutturali e di mercato;
    i segnali positivi sull'economia italiana si rafforzano e per il primo trimestre 2015 è previsto il ritorno alla crescita del prodotto interno lordo: questo è quanto certificato dall'Istat nella nota mensile pubblicata il 27 febbraio 2015;
    in questo quadro – reiterando quanto già detto all'inizio – è indiscutibile che la prossima ripresa economica sociale e culturale dell'Italia sarà tanto più immediata e strutturale quanto più efficaci saranno le politiche messe in campo affinché anche il Mezzogiorno agganci – questa volta davvero – la ripresa;
    un obiettivo fondamentale per il raggiungimento del quale – è bene sottolinearlo – non si parte da zero. Al di là della freddezza oggettiva dei numeri, infatti, si sa che nel Mezzogiorno d'Italia, pur con le difficoltà sopradescritte, sono presenti realtà produttive solide e – purtroppo – semisconosciute, o peggio ignorate, dalle istituzioni nazionali;
    si parla di realtà economiche che si fanno strada come fiori attraverso il manto di cemento dell'indifferenza politica: non si devono definirle «isole felici», perché non costituiscono «monadi» in un deserto. Sono il volano, o i driver se si preferisce, del riscatto del Mezzogiorno e della ripresa del Paese intero;
    la regione Puglia può essere considerata il paradigma di questa vivacità produttiva ed economica, a dispetto delle condizioni generali: già il rapporto Svimez 2012 sull'economia del Mezzogiorno (dati 2011), in un focus dedicato alla regione aveva certificato – in uno scenario di declino da brivido per la macro area – una sua modesta ma significativa ripresa pur in presenza di importanti punti di debolezza (calo dei consumi, basso reddito pro capite, alto livello di disoccupazione, in particolare femminile e giovanile, arretramento del prodotto interno lordo previsto per il 2012);
    il rapporto finale 2014 dell'Osservatorio Mezzogiorno di «The European House – Ambrosetti», dopo aver rilevato come la Puglia abbia perso nell'ultimo quinquennio ben il 10 per cento del prodotto interno lordo, colloca la regione in un quadro economico e produttivo caratterizzato dalla contestuale presenza di una perdurante situazione di crisi e di deboli segnali di ripresa da verificare, in particolare, nel biennio 2013-2014;
    la valutazione è confermata anche nel rapporto «Economie regionali - L'economia della Puglia» della Banca d'Italia, secondo il quale nei primi mesi del 2014 in Puglia si è attenuata la fase recessiva, anche se l'attività industriale rimane debole, con un fatturato ulteriormente ridotto per il calo della domanda interna. Il mercato del lavoro risente ancora della debole congiuntura e il numero degli occupati continua a diminuire. Dalla fine del 2012 il tasso di disoccupazione in regione è progressivamente cresciuto, raggiungendo il 21 per cento, oltre otto punti percentuali in più rispetto alla media nazionale;
    secondo il citato rapporto dell'Osservatorio Mezzogiorno di «The European House - Ambrosetti» – l'Osservatorio nasce nel 2006 proprio come «Osservatorio Puglia» – la regione Puglia deve anche essere pronta ad afferrare l'occasione che le si presenta in relazione al nuovo ciclo di programmazione dei fondi comunitari 2014-2020;
    nel nuovo ciclo della politica di coesione l'Europa investirà 351,8 miliardi di euro e l'Italia riceverà complessivamente 32,2 miliardi di euro, ovvero il 9,3 per cento del totale delle risorse europee;
    il 70 per cento delle risorse assegnate all'Italia è allocato a favore delle regioni dell'Obiettivo convergenza (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia): circa 22,2 miliardi di euro;
    sono 5,12 i miliardi di euro provenienti dall'Europa, in aggiunta alla quota di cofinanziamento nazionale, che la Puglia sarà chiamata ad impegnare in progetti per tradurre l'obiettivo europeo per il 2020 di uno sviluppo sostenibile, inclusivo e intelligente;
    tali risorse aggiunte, come si diceva, a quelle nazionali, possono realmente imprimere una svolta positiva all'economia della Puglia;
    nonostante le criticità che hanno continuato ad interessare il sistema economico pugliese, il citato rapporto 2014 dell'Osservatorio Mezzogiorno di «The European House - Ambrosetti» rileva come il sistema produttivo regionale sia caratterizzato da una particolare dinamicità con aziende dotate di importanti capacità di resilienza alla crisi in termini di fatturato e di redditività;
    emblematico a questo proposito è il caso della provincia di Taranto e del comune capoluogo, in particolare, in cui – pur in presenza di un quadro economico caratterizzato da indicatori economici e produttivi negativi – si possono iniziare a percepire i segnali di una ripresa certamente non immediata ma possibile;
    nella relazione previsionale e programmatica 2015 redatta dalla camera di commercio di Taranto, infatti, si rileva come, tenuto conto della gravità dello scenario economico generale e locale e le difficoltà quotidianamente vissute dalle aziende, risulta interessante la capacità di sopravvivenza del sistema produttivo locale nel suo complesso. Tuttavia, precisa il documento, tutto ciò sembrerebbe il risultato di pesanti e spesso dolorosi aggiustamenti nell'utilizzo delle risorse (economico-finanziarie, umane ed altro), con la conseguenza di un decremento della redditività e dell'occupazione e, in ultima analisi, un effettivo depauperamento del tessuto imprenditoriale, non tanto e non solo in termini numerici quanto sostanziali;
    una conferma con riguardo all'occupazione arriva dal sistema informativo Excelsior Unioncamere relativo ai programmi occupazionali delle imprese per il primo trimestre 2015. A differenza di quanto accade in Italia, nei primi mesi del 2015 in Puglia è prevista una variazione negativa dell'occupazione: il «saldo» occupazionale atteso in regione è pari, infatti, a -1.140 unità, in miglioramento, comunque, rispetto alle -1.700 di un anno prima. Dal punto di vista territoriale, considerando sempre sia il lavoro dipendente che quello atipico, saldi occupazionali positivi si prevedono soltanto nella province di Foggia (+290) e Lecce (+50), mentre a Taranto (-330), Brindisi (-490) e Bari (-660) si registrano decrementi significativi;
    in una situazione occupazionale già difficile, dunque, il territorio tarantino è interessato attualmente da numerose vertenze lavorative tra le quali spicca quella relativa al call center di Teleperformance, la seconda realtà produttiva della provincia di Taranto dopo l'Ilva. A fronte degli undicimila posti dello stabilimento siderurgico, infatti, Teleperformance garantisce occupazione a circa duemila dipendenti ai quali si aggiungono circa mille contratti a progetto. I lavoratori coinvolti sono per lo più donne sole, con figli. A giugno 2015 scadranno gli ammortizzatori sociali garantiti dall'accordo firmato nel gennaio 2013, che ha permesso di scongiurare temporaneamente i licenziamenti e a quel punto, senza una strategia che permetta di evitare contraccolpi lavorativi, il futuro occupazionale dei lavori del call center si presenta piuttosto cupo;
    mentre nel 2013 la citata relazione previsionale e programmatica della camera di commercio di Taranto sottolinea che il saldo tra imprese nuove iscritte e cessazioni, pur restando in area negativa, registra nella provincia performance migliori rispetto alla media regionale e delle singole province pugliesi; nel 2014 lo stesso dato risulta negativo:-0,09 per cento. Dal confronto dei dati a disposizione di Movimprese sulla natimortalità delle aziende, emergono le forti criticità territoriali. La camera di commercio sottolinea, altresì, come Taranto sconti la vicenda Ilva nel suo complesso e il previsto e temuto effetto domino; tuttavia, tutti i comparti produttivi sono in sofferenza: in agricoltura, il saldo tra nuove imprese e chiusure è di -259 unità, nelle attività manifatturiere -103 unità, nelle costruzioni -131 unità e nel commercio -324 unità;
    proprio la presenza dell'Ilva fa sì che il territorio tarantino presenti un quadro abbastanza complesso anche dal punto di vista sanitario ed ambientale strettamente connesso. Il comune di Taranto a partire dal 1987, insieme ai comuni di Statte, Crispiano, Massafra e Montemesola, è inserito in un'area definita dall'Organizzazione mondiale della sanità «ad elevato rischio ambientale» ed è ormai da tempo oggetto di studio per la stima del rischio di salute conseguente all'esposizione dell'area abitata del comune alle emissioni provenienti dall'adiacente area insidiata dal più grande stabilimento siderurgico a ciclo integrato d'Europa. Nell'area di Taranto indagini ambientali ed epidemiologiche hanno documentato una compromissione dell'ambiente e dello stato di salute dei residenti. Sono stati osservati eccessi di mortalità, a livello comunale, per malattie dell'apparato respiratorio, cardiovascolare e per diverse sedi tumorali. Nella coorte dei residenti, nei quartieri più vicini alla zona industriale, anche al netto dei differenziali sociali, sono stati misurati eccessi della mortalità e delle ospedalizzazioni per malattie dell'apparato respiratorio, cardiovascolare e per tumori. Questi dati – elaborati all'interno del progetto «Indagine epidemiologica nel sito inquinato di Taranto» (IESIT), finanziato dalla provincia – sono stati successivamente confermati nella loro gravità dallo studio Sentieri curato dall'Istituto superiore di sanità, il quale ha, altresì, evidenziato come la problematica riguardi anche la fascia pediatrica (0-14 anni): a questo proposito è stato osservato un eccesso di mortalità per tutte le cause e di ospedalizzazione per le malattie respiratorie acute, ed un eccesso di incidenza per tutti i tumori (54 per cento). Nel corso del primo anno di vita è stato rilevato un eccesso di mortalità per tutte le cause (20 per cento) ascrivibile all'eccesso di mortalità per alcune condizioni morbose di origine perinatale (45 per cento), mentre per questa stessa causa si osserva un eccesso di ospedalizzazione;
    dal punto di vista ambientale, lo stato di emergenza ormai acclarata nell'area di Taranto ha portato il Governo ad emanare nel breve arco di due anni (a partire dal 2012) ben sette provvedimenti urgenti al fine di fronteggiare e risolvere la situazione, in un ottica di salvaguardia della salute dei cittadini e della rinascita della città;
    sono provvedimenti in cui – in massima parte – è mancata una visione di insieme sia delle problematiche che gravano sulla città di Taranto e sull'area ad essa circostante, sia delle soluzioni da adottare e nei quali, soprattutto, si è voluto pervicacemente continuare a legare il destino della città a quello dell'Ilva;
    solo di recente, con il decreto-legge 5 gennaio 2015, convertito, con modificazioni, dall'articolo 1, comma 1, della legge 4 marzo 2015, n. 20, sembra si sia avviata una nuova fase per lo sviluppo della città e dell'area di Taranto;
    lo stesso Presidente del Consiglio dei ministri, in occasione dell'approvazione definitiva presso la Camera dei deputati del citato decreto-legge n. 1 del 2015, ha, infatti, parlato di un «progetto Taranto», con particolare riferimento alla cultura, al porto, alle bonifiche e alla salute e non più solo all'Ilva;
    il porto di Taranto situato nel cuore del Mediterraneo è la struttura ideale per il traffico commerciale tra l'Europa ed il resto del mondo e per il traffico a corto raggio nazionale ed europeo. Non si deve tuttavia considerare il porto solo per la sua tradizionale vocazione commerciale, bensì anche in un'ottica di integrazione con la città e di maggiore apertura ai traffici turistici;
    il nuovo piano regolatore del porto, adottato di recente, prevede, infatti, da un lato, di incrementare le aree destinate alle attività commerciali per consentire l'acquisizione di nuovi traffici e, dall'altro, di migliorare il rapporto con la città, aprendo ad essa nuove aree dell'ambito portuale. A questo proposito sono stati avviati i seguenti progetti: la piastra logistica, il consolidamento/adeguamento banchina terminal contenitori, dragaggi, nuova diga foranea, collegamenti ferroviari adattamento/riqualificazione del molo S. Cataldo e Calata 1; realizzazione di un nuovo terminal contenitori al 5o sporgente, il Distripark;
    nel 2012, l'autorità portuale di Taranto ha – altresì – avviato una programmazione mirata allo sviluppo della piena operatività del porto dal punto di vista turistico, in particolare per quanto riguarda il traffico crocieristico, alimentato dal bacino territoriale lucano (destinato ad assumere una dimensione internazionale e mondiale in seguito alla designazione di Matera capitale della cultura 2019) diretto in Nord Africa, in Medio ed Estremo Oriente e in tutti i porti del Mediterraneo. Sempre al fine di promuovere la competitività dello scalo tarantino nel settore turistico e del traffico passeggeri si segnalano le seguenti iniziative: la partecipazione ad eventi fieristici di settore, quale la fiera Seatrade Cruise and Shipping di Miami, memorandum of understanding con la regione Basilicata e il successivo memorandum of understanding con la provincia di Matera, la formulazione nel 2012 della domanda di acquisizione da parte dell'autorità portuale della banchina «ex Torpediniere», per l'utilizzazione della stessa ai fini della nautica da diporto e trasporto passeggeri, la realizzazione di un port exhibition center, da realizzare in ambito portuale con l'intento di valorizzare la vocazione tipicamente portuale di Taranto attraverso l'utilizzo di container marittimi per allestire un centro espositivo multimediale, la realizzazione, infine, del centro servizi polivalente, un edificio polifunzionale finalizzato alla riqualificazione del waterfront portuale;
    al fine di adeguare lo standard competitivo del porto di Taranto rispetto a quello dell'area mediterranea, l'autorità portuale sta puntando sulla diversificazione delle attività del porto. A questo proposito sono stati avviati cantieri per 377 milioni di euro destinati ad aumentare per progetti non legati alla monocultura industriale. Fra questi il progetto «Fresh Port», che mira ad individuare un percorso teso a valorizzare, in forma consorziata, l'intera catena produttiva e logistica del settore agroalimentare di alcune regioni del Sud Italia (Puglia, Basilicata, Calabria) e del Nord Africa, attraverso l'utilizzazione delle aree e dei servizi portuali e retroportuali di Taranto, e il riconoscimento nel maggio 2014 dell'area portuale di Taranto quale zona franca doganale non interclusa, gestita dalla stessa autorità portuale;
    Taranto ha anche l'arsenale militare marittimo, una struttura di grande potenzialità per la quantità e la qualità del personale impiegato (circa duemila e quattrocento dipendenti), per la consistenza e la funzionalità delle infrastrutture, degli impianti e dei mezzi ed attrezzature di lavoro in dotazione. I suoi compiti consistono principalmente nell'assicurare il supporto e l'efficienza delle unità navali, costituendo una struttura tecnico-logistica di grande rilievo. In aggiunta ai compiti istituzionali, l'arsenale è chiamato a svolgere, nei limiti e con le modalità previste dai regolamenti e dalle leggi in vigore, attività che, seppure di carattere secondario, sono altrettanto importanti e significative: assistenza alla protezione civile, interventi nelle calamità naturali, supporto alle unità navali appartenenti ad altre Forze armate ed alla Marina mercantile, assistenza ai barotraumatizzati;
    la struttura dell'arsenale deve essere messa al servizio della riqualificazione della città, non solo in un ottica di sviluppo turistico e culturale – come previsto nel citato decreto-legge n.1 del 2015 – ma anche sociale,

impegna il Governo:

   a valutare l'opportunità, compatibilmente con i vincoli di bilancio, di predisporre interventi di rilancio del sistema economico e produttivo del Mezzogiorno, incentivando lo sviluppo più completo delle potenzialità presenti nei relativi territori, attraverso interventi finalizzati:
     a) all'avvio di tempestive iniziative volte a salvaguardare gli attuali livelli occupazionali, con particolare attenzione all'occupazione giovanile e femminile;
    b) alla soluzione di tutte le vertenze lavorative aperte e con specifico riguardo alla vertenza Teleperformance e, più in generale, al personale impiegato nei call center, e a pervenire alla definizione, anche attraverso disposizioni di legge che rimandino a quanto previsto dalla contrattazione collettiva, di precise regole procedurali di confronto sindacale per la gestione delle crisi conseguenti a cambi di appalto, che possa condurre a configurare clausole sociali volte a salvaguardare la posizione dei lavoratori della società appaltatrice uscente, attraverso la configurazione di obblighi in capo all'appaltatore subentrante;
    c) a potenziare le strutture ospedaliere territoriali colmando le insufficienze strutturali e, soprattutto, la carenza di tecnologie avanzate, nell'ottica di un ammodernamento della strumentistica medica e dello sblocco del turnover del personale, con particolare attenzione per quelle zone in cui le evidenze epidemiologiche e scientifiche testimoniano un'elevata presenza di patologie oncologiche;
    d) a fronteggiare in maniera realistica ed incisiva l'emergenza ambientale, con particolare riguardo per quelle zone in cui tale allarme sia diretta conseguenza della presenza di realtà produttive di grandi dimensioni, valutando, in riferimento all'area di Taranto e alla presenza dell'Ilva, l'opportunità di assumere iniziative di carattere legislativo volte ad assicurare un aggiornamento quantomeno trimestrale della valutazione del danno sanitario prevista dall'articolo 1-bis, del decreto-legge n. 207 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 dicembre 2012, n. 231, in modo da avere stime puntuali e dati precisi a fronte di medie annuali;
    e) a valorizzare e a potenziare i sistemi logistico-intermodali del Mezzogiorno, in particolare quelli portuali, che, in virtù della centralità dell'Italia nei traffici marittimi intra-mediterranei e non solo, sono destinati ad avere un ruolo strategico nel rilancio dell'economia nazionale e del Mezzogiorno, valutando altresì l'opportunità di supportare con particolare attenzione i progetti finalizzati a diversificare le funzionalità delle strutture portuali, quali, ad esempio, quelli già avviati dall'autorità portuale di Taranto, dei quali si è dato conto nelle premesse del presente atto di indirizzo;
    f) a valutare l'opportunità di favorire intese, anche fra le diverse amministrazioni pubbliche, per mettere al servizio del territorio le strutture presenti e attualmente adibite a compiti istituzionali, sviluppandone le potenzialità al fine di promuovere il recupero e la riqualificazione sociale dei centri urbani, in particolare quelli soggetti ad un pesante degrado, con particolare riferimento all'uso per tale scopo dell'arsenale marittimo di Taranto.
(1-00766) «Labriola, Pisicchio, Catalano, Pinna, Furnari, Capelli, Caruso, Lo Monte».
(25 marzo 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    la crisi economica evidenzia ogni giorno di più l'esigenza di una rinnovata e prioritaria attenzione, in particolare per il Sud, ai problemi dell'occupazione, del lavoro, dei redditi e dell'impresa;
    ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, l'attuale politica governativa, per molti aspetti sembra non abbia ancora una strategia indirizzata al miglioramento e all'innovazione del contesto, con un evidente vuoto d'iniziativa che emerge come grave di fronte ad una crisi che colpisce particolarmente l'economia meridionale dispiegando effetti drammatici, anche se talvolta meno visibili a causa della frammentazione del tessuto imprenditoriale e del peso dell'economia cosiddetta a-legale, sospesa tra sommerso e illegalità;
    a fronte di questa situazione disastrosa l'impegno del Governo per il Mezzogiorno sembrerebbe racchiuso nell'unica promessa del raccordo dei fondi strutturali, cosa di per sé positiva ma del tutto insufficiente a risolvere l'enorme problema;
    v’è sovente inefficienza o vero e proprio spreco nel mancato utilizzo delle risorse europee per le regioni del Sud. Ma è noto anche che non basta mettere in elenco le risorse dei fondi europei per risolvere la questione perché i dati che sono sotto gli occhi di tutti non possono essere modificati con le semplici buone intenzioni, né con la sola stigmatizzazione delle regioni inadempienti. Occorre viceversa comprendere che la crisi del Mezzogiorno è la crisi dell'intero Paese e occorre agire di conseguenza con interventi urgenti e prioritari;
    al Sud vi è un gap infrastrutturale, in termini di trasporti, logistica, ricerca e innovazione, rispetto al resto del Paese; le conseguenze della presenza delle associazioni mafiose nel Mezzogiorno si intrecciano in modo complesso con l'economia del Sud, stravolgendo le regole del «fare impresa» e scoraggiando gli investimenti stranieri, oltre che creando un grave e indiscusso disagio sociale. Tutto ciò appare paradossale se solo si pensa che ogni iniziativa di carattere pubblico adottata nella storia repubblicana in favore del Sud va regolarmente a patire gli effetti della corruzione e dello sperpero. A tal proposito è opportuno fare appena cenno a quanto accaduto negli ultimi decenni: il Sud ha fruito, infatti, dapprima dei fondi della Cassa per il Mezzogiorno, durata dal 1950 al 1992, la quale dal 1957 in avanti erogò contributi a fondo perduto e crediti agevolati. Nel primo ventennio circa di attività la Cassa per il Mezzogiorno sembrò funzionare, ma la qualità del suo servizio andò progressivamente declinando mano a mano che i partiti invadevano e inquinavano la vita pubblica. La Cassa per il Mezzogiorno tramontò malinconicamente, abbandonata agli scandali e rappresentò uno dei più gravi esempi di corruzione e di interrelazione fra affari, politica e malavita nel Sud;
    poi fu la volta dei fondi della legge n. 488 del 1992, oggetto di frodi e di truffe fino alla sua conclusione avvenuta nel 2008. La legge n. 488 del 1992 è stata lo strumento attraverso il quale il Ministero delle attività produttive aveva messo a disposizione delle imprese che intendevano promuovere programmi di investimento, nelle aree depresse, agevolazioni sotto forma di contributi in conto capitale («a fondo perduto»);
    nel frattempo si erano aggiunti i fondi europei, destinati dall'Unione europea alle politiche di coesione, ma anche questi non hanno fatto una fine migliore. La sintesi migliore la offrì il Governatore della Banca d'Italia pro tempore Draghi nelle «considerazioni finali» di una delle sue relazioni in Banca d'Italia: «Il Mezzogiorno ha goduto in questo decennio (1998-2008) di fondi paragonabili per entità a quelli dell'intervento straordinario e che equivalevano a circa 45 miliardi di euro o a quasi tre punti di PIL». E tuttavia non esiste evidenza di vantaggi visibili;
    un esempio su tutti è quello legato al capitolo di spesa privilegiato dalla riprogrammazione dei programmi della convergenza, ossia dell'Agenda digitale europea: 1.140 milioni di euro destinati agli investimenti nel Sud per la banda ultra larga, 118,9 milioni di euro per la banda larga fino a 2 mega, 320 milioni di euro per i data center;
    allo stesso modo si rammentano i 1.242 milioni di euro destinati esclusivamente alle quattro regioni obiettivo convergenza (Calabria, Campania, Puglia e Sicilia), o i 142 milioni di euro per il credito di imposta per l'occupazione, o ancora le risorse per la rete dei trasporti, cui erano stati assegnati 1,2 miliardi di euro: per strade (866 milioni di euro) e aeroporti (28 milioni di euro);
    ma la sequenza di interventi che tardano a dispiegare effetti non finisce qui: si pensi alla legge n. 191 del 2009 che ha previsto la nascita di una banca con l'obiettivo di finanziare progetti di investimento nel Mezzogiorno, di erogare credito alle piccole e medie imprese, di favorire la nascita di nuove imprese e l'imprenditorialità giovanile e femminile, nonché di promuovere l'aumento dimensionale e l'internazionalizzazione di tali imprese, di finanziare attività di ricerca e innovazione, il tutto come detto, nelle regioni del sud Italia. Per questo motivo, il 1o agosto 2011 Poste Italiane spa aveva acquisito, per 136 milioni di euro, il 100 per cento di Unicredit Mediocredito Centrale e, pertanto, da settembre 2011, la nuova denominazione societaria è Banca del Mezzogiorno – Mediocredito Centrale spa operativa dal 2 febbraio 2012;
    tuttavia anche in questo caso, nonostante siano i soldi pubblici a sostenere l'impresa, non pare che detto strumento abbia dato respiro alle piccole e medie imprese del Sud. Nel corso della XVII legislatura sono stati già presentati diversi atti di sindacato ispettivo nei quali vengono richiesti i dettagli delle erogazioni della Banca del Mezzogiorno perché sovente destinati a gruppi industriali estranei alla «mission» meridionalista dell'istituto finanziario;
    da tali esperienze consegue che, per uscire dall'angolino dove la storia lo ha confinato, il Mezzogiorno ha bisogno di buona amministrazione, di correttezza, di lungimiranza e non di farsesche vicende di comuni, di municipalizzate e di privilegi regionali;
    è fondamentale che lo Stato rafforzi la propria presenza in tali territori, consolidando i tribunali, presidio di legalità e freno alla criminalità; occorre un intervento capace di promuovere sviluppo ed occupazione nel Mezzogiorno, al fine di favorire la ripresa dell'economia meridionale, come base per la crescita e lo sviluppo dell'intero Paese anche favorendo, sin dall'età scolare, percorsi educativi volti a stimolare un cambio culturale che determini già in età giovanile l'educazione all'impresa. In questo momento di crisi molte imprese sono costrette alla chiusura, non rientrando nei parametri degli studi di settore e il complesso scenario economico italiano, aggravato dalle conseguenze della crisi finanziaria, pone ancora una volta in primo piano la questione di un Paese con due differenti velocità di sviluppo: nel Mezzogiorno si produce solo un quarto del prodotto interno e si genera soltanto un decimo delle esportazioni italiane;
    il Mezzogiorno italiano è ancora privo di quella rete di infrastrutture essenziale per lo sviluppo e negli ultimi anni si è avvertita l'assenza, nei programmi di Governo, di un respiro strategico, volto a ridurre il gap economico, infrastrutturale e sociale del Sud;
    come già descritto nel presente atto di indirizzo, per lungo tempo si è assistito alla distorsione delle risorse destinate al Sud perché oggetto ora di dissennati tagli operati sulla dotazione del fondo per le aree sottoutilizzate per finanziare interventi di diversa natura o fatti oggetto di corruttela o non sempre corrispondenti a finalità di sviluppo e quasi sempre non localizzati nel Mezzogiorno. Ed invece il Meridione, grazie alla posizione geografica ed alla dotazione di porti e aeroporti, potrebbe svolgere un ruolo di cerniera negli scambi commerciali tra Europa, Mediterraneo e Paesi del far East e raccogliere le nuove opportunità del contesto competitivo internazionale;
    altresì si consideri che oltre un terzo dei laureati del Mezzogiorno under 34 è inattivo e la differenza con le regioni settentrionali diventa enorme se si considera il tasso di inattività dei diplomati under 34; i tassi di scolarizzazione in Italia presentano divari sfavorevoli al Meridione e sono accompagnati da un parallelo aumento del tasso di abbandono, dovuto alle condizioni di degrado sociale e familiare. Negative sono anche le evidenze in termini di «qualità» della formazione, dal momento che gli studenti meridionali che terminano la loro carriera accademica hanno maggiori difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro. Si genera così un ampio fenomeno migratorio dei «cervelli» che lasciano le regioni del Sud, provocando un depauperamento del capitale umano disponibile;
    il sistema produttivo del Mezzogiorno è legato a fattori strutturali di debolezza che riguardano le dimensioni piccole o piccolissime delle imprese di quest'area, spesso a gestione familiare, operanti prevalentemente in settori a basso valore aggiunto e con una conseguente scarsa propensione a investire nell'innovazione e in ricerca e sviluppo; inoltre, come già detto, permane una forte presenza della criminalità organizzata, che tenta di infiltrarsi nei grandi appalti per opere pubbliche e tenta di condizionare l'attività di impresa, e della microcriminalità che peggiora la qualità della vita nei centri urbani, aumentando il disagio sociale;
    eppure il Sud avrebbe modo di risollevare le sorti occupazionali già solo attraverso l'industria del turismo, tuttavia i dati relativi al turismo nel Meridione sono paradossali: su 100 stranieri che visitano l'Italia, meno di uno va in Calabria (0,9 per cento per chi ama l'esattezza), ancora meno in Molise. In Basilicata si raggiunge lo 0,1 per cento e in Abruzzo lo 0,6 per cento. Sommando le otto regioni meridionali, includendo Sicilia e Sardegna, si arriva al 13,2 per cento. Fa di più il solo Trentino Alto Adige, con il 14,2 per cento. Le politiche del turismo sono pertanto fallimentari;
    vari studi hanno tentato di quantificare, in termini di ritorno economico e occupazionale, lo sviluppo turistico del Sud anche per sollecitare un cambiamento culturale in tal senso ma nulla sembra essersi modificato in questi anni e la causa non è la mancanza di fondi (le recenti difficoltà del Programma operativo interregionale «Attrattori culturali, naturali e turismo» confermano che le criticità sono spesso politiche): i contributi europei arrivati al Sud non hanno generato virtuose sinergie tra destinazioni, operatori e investitori esterni, né hanno dato vita a poli di eccellenza che potessero «contaminare» positivamente i territori;
    è necessario promuovere lo sviluppo sostenibile del territorio e coniugare il tutto con le imprescindibili logiche di mercato del turismo che impongono prodotti, servizi e infrastrutture in grado di far fronte a una domanda che ha sempre più alternative a disposizione. Occorre selezionare, previa individuazione, le strutture, i siti e i beni di più grande interesse siti nel Meridione e abbandonati a sé stessi – ve ne sono di innumerevoli – e procedere per la loro valorizzazione sul piano nazionale;
    il drastico calo di investimenti pubblici dovuti ad una riduzione della spesa in conto capitale pari a circa 5 miliardi di euro (periodo 2009-2013) ha fatto tornare i livelli degli investimenti pubblici e privati ai dati del 1996;
    l'articolo 12 del decreto-legge n. 133 del 2014, cosiddetto «sblocca Italia», convertito, con modificazioni, dalla legge n. 164 del 2014, interviene di nuovo sulla materia della spesa dei fondi comunitari. Si affidano nuove funzioni al Presidente del Consiglio dei ministri al fine di accelerare l'impiego delle relative risorse ed evitare il rischio di incorrere nell'attivazione delle sanzioni comunitarie;
    va detto che una ragione rilevante dell'incapacità di spesa consiste nel patto di stabilità comunitario. La quota dell'Unione europea non si riesce a spendere perché le regioni, in particolare quelle del Sud, non possono mettere a bilancio le risorse di cofinanziamento, altrimenti sforerebbero il patto di stabilità;
    nel vertice sul lavoro del 9-10 ottobre 2014 l'Italia ha avanzato la proposta di escludere dal calcolo del deficit il cofinanziamento nazionale dei fondi europei;
    il sistema produttivo del Mezzogiorno evidenzia limiti di debolezza strutturali che riguardano le dimensioni piccole o piccolissime delle imprese di quest'area, spesso a gestione familiare, operanti prevalentemente in settori a basso valore aggiunto e con una minima propensione a investire nell'innovazione, nella ricerca e nello sviluppo;
    il sistema produttivo ed in generale tutto il tessuto economico, inoltre, sono fortemente compromessi dalla presenza della criminalità organizzata, che pervade il territorio infiltrandosi in ogni tipo di realtà;
    il tasso di scolarizzazione continua a presentare rilevanti criticità le quali continuano ad incide per oltre il 13 per cento in regioni come la Basilicata e la Calabria cui si collega anche il fenomeno dell'abbandono scolastico dovuto alle condizioni di degrado sociale e familiare;
    occorre un rilancio del settore turistico nonché la valorizzazione del patrimonio storico monumentale del Mezzogiorno, riconoscendo un grande significato e considerando una grande opportunità la nomina di Matera capitale europea della cultura nel 2019;
    la crisi economica ha inciso e sta incidendo in misura significativa sulla produzione, sui consumi e sull'attività delle piccole e medie imprese, soprattutto allocate nel Mezzogiorno d'Italia,

impegna il Governo:

   a verificare, avvalendosi della collaborazione del Cipe, le quote di cofinanziamento già assegnate alle regione e rimaste inutilizzate al fine di prevedere una nuova riassegnazione che comunque mantenga gli stanziamenti già previsti così da determinare una disponibilità immediata delle risorse;
   a porre, in sede comunitaria, il tema dell'esclusione, dal calcolo del Patto di stabilità e crescita, del cofinanziamento nazionale alla politica di coesione, in coerenza peraltro con la risoluzione approvata dal Parlamento europeo dell'8 ottobre 2013 «sugli effetti dei vincoli di bilancio per le autorità regionali e locali con riferimento alla spesa di Fondi strutturali dell'Ue negli Stati membri»;
   a procedere rapidamente ad un censimento delle risorse ancora disponibili e non ancora utilizzate nell'ambito degli strumenti della programmazione negoziata, finalizzato alla predisposizione di un piano di rilancio industriale, improntato sulle specificità e sulle eccellenze produttive presenti nel Mezzogiorno, avviando una nuova stagione di utilizzo degli strumenti sopra citati, ivi compresi i contratti d'area, i patti territoriali, i contratti di programma e i contratti di localizzazione, sulla base delle migliori pratiche e delle esperienze di successo del passato;
   a valorizzare il patrimonio culturale, turistico e paesaggistico del Sud, riservando parte della dotazione disponibile a partire dal residuo della programmazione 2007-2013 per le politiche di creazione, recupero, valorizzazione e promozione di grandi poli di attrazione, di siti Unesco e di prossimi eventi sportivi internazionali – come ad esempio i mondiali di kite surf – che potrebbero essere un importante volano per l'economia turistica del meridione;
   ad adottare le più opportune azioni anche in sede comunitaria, al fine di introdurre in favore delle regioni del Mezzogiorno una serie di misure, anche in via temporanea, di carattere eccezionale, sia di alleggerimento fiscale e contributivo, che finanziarie volte a consentire la nascita di nuove aziende e la prosecuzione delle attività delle aziende in conclamata difficoltà gestionale ed economica, al fine di tutelare il personale qualificato e formato proveniente da aziende affini e conformi, come nel caso Getek ed Infocontact, tutelando il più possibile le competenze ed evitando la dispersione di professionalità acquisite oppure la dequalificazione dei lavoratori attraverso fenomeni di dumping salariale;
   a prevedere azioni concrete dirette alla realizzazione di un programma di messa in sicurezza del patrimonio edilizio pubblico, in particolare degli edifici scolastici ed universitari ma anche in ambito di edilizia sanitaria e carceraria, e di opere legate alla messa in sicurezza del territorio e al contrasto dei fenomeni di dissesto idrogeologico che caratterizzano il Mezzogiorno;
   a riservare alle regioni del Mezzogiorno parte della dotazione disponibile per quanto riguarda la programmazione 2014-2020 per gli investimenti in energie rinnovabili, nel piano gestione delle acque e per le politiche ambientali, nonché per il prosieguo dei processi di bonifica e messa in sicurezza dei siti di interesse nazionale, con particolare riferimento all'area della Legnochimica di Rende in provincia di Cosenza e della Pertusola in provincia di Crotone e dei siti caratterizzati dalla presenza di particolari lavorazioni impattanti e per una promozione della diffusione della raccolta differenziata e del riciclo al fine di migliorare gli attuali livelli che vedono il Sud ancora mediamente in ritardo;
   a potenziare i progetti che prevedono nuove linee ad alta velocità con particolare attenzione per la direttrice Napoli-Reggio Calabria fino a Messina e Palermo e soprattutto per la direttrice ionica Taranto-Reggio Calabria, prevedendo la riorganizzazione dei principali nodi ferroviari urbani, riportando lo standard tecnologico della tratta a livelli conformi alle direttive europee, a partire dalla sua completa elettrificazione, garantendo la manutenzione ordinaria e straordinaria dell'intera tratta della ferrovia silana, inserendo la stessa tra le proposte per la mobilità sostenibile e il turismo della Strategia nazionale per le aree interne da finanziare attraverso le risorse della programmazione comunitaria 2014/2020;
   a prevedere la definizione di alcune priorità infrastrutturali tra cui quelle riguardanti i 491 chilometri della strada statale n. 106 ionica tra Taranto e Reggio Calabria, programmando sia interventi di adeguamento e messa in sicurezza della strada statale n. 106 esistente nei punti di maggiore pericolosità, sia la realizzazione di nuovi tratti in variante a quattro corsie per la realizzazione di un itinerario di lunga percorrenza, integrando il tutto con la Salerno-Reggio Calabria attraverso il completamento e la messa in sicurezza delle arterie trasversali di collegamento come la nuova strada statale n. 182 «Trasversale delle Serre», già in parte in esecuzione, la strada statale n. 280 «dei Due Mari» e la strada statale n. 534 tra lo svincolo di Firmo (autostrada A3) e Sibari (Megalotto 4);
   ad assumere iniziative dirette ad ottimizzare l'arretrato sistema fognario/depurativo presente in diverse zone del Meridione, con particolare riferimento alla provincia di Cosenza dove la situazione è oramai al tracollo sia dal punto di vista ambientale che da quello della salute, al fine di realizzare nuove e più efficienti condotte e un risparmio energetico dato dalla realizzazione di impianti fotovoltaici per la produzione di energia;
   a destinare quota parte dei fondi strutturali al fine di provvedere ad urgenti interventi per la messa in pristino dell'acquedotto pugliese, finalizzandoli all'ottimizzazione delle risorse idriche con particolare riferimento alle aree del Salento in quanto particolarmente popolate nel periodo estivo, alla costruzione di nuovi depuratori nonché all'adeguamento di quelli già esistenti anche al fine di ovviare alla deprecabile prassi dello sversamento di liquami in mare già oggetto di procedura di infrazione comunitaria.
(1-00770) «Barbanti, Baldassarre, Segoni, Mucci, Rizzetto, Rostellato, Prodani, Turco, Bechis, Artini».
(31 marzo 2015)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE IN MERITO ALLA COSIDDETTA CARTA DI MILANO, IN RELAZIONE AD EXPO 2015

   La Camera,
   premesso che:
    la Carta di Milano vuol essere un «patto sul cibo» da consegnare al pianeta per vincere la sfida alimentare globale. Una reale assunzione di responsabilità da parte degli Stati e dei cittadini del mondo per garantire il diritto a un cibo sano, sicuro e sufficiente per tutti;
    la Carta di Milano nasce dalla sintesi di un percorso di ricerca, di confronto, di idee e di culture sul tema di Expo 2015 «Nutrire il Pianeta, energie per la vita», avviato da Laboratorio Expo fin dal 2013 e proseguito in vari incontri, fino all'evento organizzato il 7 febbraio 2015 a Milano «Expo delle Idee» articolato in 42 tavoli di lavoro suddivisi in quattro percorsi di studio: le dimensioni dello sviluppo tra equità e sostenibilità, la cultura del cibo, l'agricoltura gli alimenti e la salute per un futuro sostenibile, la città umana e i futuri possibili tra smart e slow city;
    la versione finale della Carta di Milano verrà presentata al pubblico il 28 aprile 2015; il testo sarà, poi condiviso il 4 giugno 2015 con i Ministri dell'agricoltura dei 147 Paesi partecipanti ad Expo 2015 e, infine, il 16 ottobre 2015 il documento verrà consegnato al Segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon, in occasione della sua visita all'Expo;
    la Carta di Milano rappresenta un percorso bottom-up, ovvero dal basso verso l'alto: essa, infatti, vedrà protagonisti i cittadini, la società civile e le imprese che saranno chiamate, dal 1o maggio 2015, a sottoscrivere la Carta di Milano assumendosi la responsabilità di dare attuazione a precisi impegni. La Carta di Milano, infatti, conterrà una serie di impegni per cittadini, società civile e imprese contro lo spreco alimentare, per l'alimentazione sostenibile, per il diritto alla nutrizione, contro l'uso scorretto del suolo e delle risorse naturali. Saranno poi i cittadini, la società civile e le imprese a chiedere ai Governi e ai Parlamenti di tutto il mondo di assumere ulteriori impegni, giuridici e politici, puntualmente indicati dalla Carta;
    in questo senso la Carta di Milano rappresenta un modello del tutto innovativo di «protocollo» per il cibo: non sono i Governi a imporre dall'alto gli impegni, ma sono cittadini, società civile e imprese a impegnarsi in prima persona e a chiedere ai Governi di impegnarsi per raggiungere gli Obiettivi del Millennio;
    sostenendo la Carta di Milano, il Governo italiano fa propria la sfida di un sistema alimentare globale sostenibile attraverso azioni mirate a combattere lo spreco di cibo, favorire l'agricoltura sostenibile e contrastare fame e obesità. La strada da percorrere è indicata dalle parole di Maurizio Martina, Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali con delega a Expo 2015: «La principale eredità di Expo è di contenuto e l'Italia darà anima al grande tema Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita con la Carta di Milano, un protocollo per tutti i Paesi che decideranno di aderirvi e che in autunno arriverà a New York nella sede Onu per la definizione dei nuovi Obiettivi del Millennio». Un'eredità, dunque, di contenuto e di sostanza: immateriale nella sua definizione ma concreta, operativa e tangibile nella sua attuazione;
    secondo la Commissione europea la produzione e il consumo di cibo generano il 20-30 per cento di tutti gli impatti ambientali dell'Europa, il 17 per cento delle emissioni di gas serra, il 28 per cento di consumo di risorse materiali e altri impatti come consumo di suolo, perdita di biodiversità, deforestazione. Negli ultimi anni, inoltre, il settore agro-alimentare è divenuto terreno di numerose illegalità gestite anche dalla criminalità organizzata. Ma l'agricoltura può in realtà divenire un'importante prospettiva di futuro per il nostro pianeta, sul piano economico e ambientale, ma anche culturale e sociale. Questo è possibile se si riscopre e si coltiva una relazione stretta fra cibo e produzione, se sono valorizzate e privilegiate le numerose pratiche agricole sostenibili, che da anni dimostrano di essere efficaci e di rappresentare una valida alternativa e se si favorisce la diffusione di un modello di agricoltura multifunzionale;
    il cibo che si mangia, il modo in cui lo si produce, gli effetti sul nostro pianeta. Questi sono i temi di Expo 2015 e su questi temi tutto il mondo è chiamato a dare un contributo. Expo è un incrocio di culture. Fin dalla prima edizione londinese del 1851, le Expo servono soprattutto a questo: fare incontrare culture, etnie e comunità nazionali. A Milano ci saranno rappresentanti di 147 Pesi e turisti da tutto il mondo;
    per la prima volta nella storia delle Esposizioni universali, i Paesi partecipanti verranno raggruppati, anziché per criteri geografici, secondo identità tematiche e filiere alimentari. Sono nove i cluster telematici presenti a Expo Milano 2015: riso, cacao, caffè, frutta e legumi, spezie, cereali e tuberi, bio-mediterraneo, isole, mare e cibo, zone aride. Al loro interno saranno visitabili aree comuni – mercato, mostra, eventi, degustazioni – e spazi espositivi individuali, in cui ciascun Paese interpreterà a modo proprio i temi dell'Esposizione;
    se si guarda al sistema alimentare globale ci si accorge di tre grandi paradossi del nostro tempo riguardanti il cibo: a fronte di un numero elevatissimo di persone che non vi hanno accesso, un terzo della produzione nel mondo è destinato ad alimentare gli animali e una quota crescente dei terreni agricoli è dedicata alla produzione di biocarburanti per alimentare le auto. E a fronte di quasi un miliardo di persone al mondo che patiscono la fame o sono malnutrite, circa un miliardo e mezzo soffre le conseguenze dell'eccesso di cibo, aumentando il rischio di diabete, tumori e patologie cardiovascolari. Ogni anno si registrano 36 milioni di decessi per assenza di cibo e 29 milioni di decessi per eccesso di cibo, 144 milioni di bambini sono sottopeso, 155 milioni di bambini sono obesi o in sovrappeso. Infine, ogni anno viene sprecato un terzo della produzione alimentare globale, per un totale di circa 1,3 milioni di tonnellate all'anno, una quantità che sarebbe sufficiente a nutrire quasi un miliardo di persone che soffrono la fame o sono malnutrite. Nei Paesi in via di sviluppo le perdite più significative si concentrano nella prima parte della filiera agroalimentare, soprattutto a causa dei limiti nelle tecniche di coltivazione, raccolta e conservazione, o per la mancanza di adeguate infrastrutture per il trasporto e l'immagazzinamento. Nei Paesi industrializzati la quota maggiore degli sprechi avviene nelle fasi finali della filiera agroalimentare (consumo domestico e ristorazione, in particolare);
    compito di Expo è fornire una valida risposta alla domanda se la crescita esponenziale dell'accaparramento delle terre (land grabbing), l'intensificazione dell'agricoltura mediante un eccessivo input di fertilizzanti e pesticidi, l'introduzione di organismi geneticamente modificati siano gli unici strumenti che si hanno per sfamare il mondo oppure se sia nostro dovere, in primo luogo, rendere l'intera filiera del cibo, dalla produzione alla trasformazione e consumo inclusi stili di vita alimentari, più efficiente e sostenibile;
    di «ritorno alla terra» in Italia si parla ormai da diversi anni. La crisi e la disoccupazione spingono i più giovani a cercare nuove strade: anche in professioni, quelle agricole, che fino a qualche anno fa erano snobbate e considerate un retaggio del passato. È un fenomeno ancora marginale da un punto di vista numerico, ma che porta nuova linfa – e nuove competenze – nell'agricoltura italiana e che va seguito con attenzione;
    in tale contesto si segnala l'importanza del progetto, WE-Women for Expo, che parla di nutrimento mettendo al centro la cultura femminile, con la convinzione che la sostenibilità del pianeta passa attraverso una nuova alleanza tra cibo e cultura e che le artefici di questo nuovo sguardo e nuovo patto per il futuro debbano essere le donne;
    l'acqua è destinata a diventare una risorsa strategica quanto il petrolio, se non di più. Già oggi la scarsità d'acqua colpisce circa 1,2 miliardi di persone in ogni continente e altre 500 milioni di persone si troveranno presto a fare i conti con la siccità a causa del cambiamento climatico. Il consumo d'acqua potabile è cresciuto a velocità doppia rispetto alla crescita della popolazione nell'ultimo secolo. La produzione di cibo è in assoluto uno dei fattori che incidono di più sul consumo d'acqua potabile e ridurre l'impronta idrica degli alimenti è una priorità strategica;
    senza ricerca non c’è futuro, anche nel settore agroalimentare. La Carta di Milano è l'occasione per definire strategie di sviluppo scientifico dalla pesca sostenibile al consumo di suolo, dalle biotecnologie all'agricoltura di precisione, dagli organismi geneticamente modificati alla gestione degli scarti alimentari, dal food packaging al food-print;
    a fine Ottocento esistevano circa 8000 varietà di frutta. Oggi ce ne sono meno di 2000. Le motivazioni sono diverse: l'industrializzazione dei processi produttivi, il cambiamento climatico e quello delle abitudini alimentari. Le varietà sopravvissute sono quelle più convenienti da produrre e più adatte al trasporto. È necessario sostenere tutti quei processi che favoriscono il ritorno ad una maggiore biodiversità. La biodiversità comprende la vita in tutte le sue forme e implica la centralità della tutela di tutte le specie viventi sulla terra. L'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha sancito il valore di tale patrimonio nel 1992 – a Rio De Janeiro – siglando la convenzione sulla diversità biologica. Quando si rinuncia alla biodiversità in agricoltura si corrono gravi rischi perché si rende facile la vita dei parassiti e si mettono a repentaglio intere filiere produttive;
    la sicurezza alimentare è una questione complessa che coinvolge l'intera filiera agro-alimentare. Attiene ai rischi diretti e indiretti per la salute pubblica connessi a cibi, mangimi e materiali a contatto, ma anche alle contraffazioni, alla tracciabilità e alle etichettature. Nonostante i piani nazionali integrati e gli accordi comunitari, le sfide da affrontare sono ancora difficili e richiedono soluzioni globali;
    l'educazione alimentare è senza dubbio un investimento importante per il futuro. Tutti gli studi dimostrano come un'alimentazione corretta sia il principale alleato nella prevenzione di malattie cardiovascolari e tumori, le malattie da cui deriva la maggior parte della spesa sanitaria;
    in tale contesto la dieta mediterranea, patrimonio culturale immateriale dell'Unesco, è un vero e proprio stile di vita che incorpora saperi, sapori, elaborazioni, prodotti alimentari, coltivazioni e spazi sociali legati ai territori. Proprio per valorizzare i valori legati alla dieta mediterranea e rivendicare una sorta di «orgoglio mediterraneo», l'Expo, su proposta del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali italiano, dedicherà una settimana di incontri, dibattiti, sperimentazioni alla «Dieta mediterranea patrimonio dell'Umanità UNESCO», dal 14 al 20 settembre 2015;
    le indicazioni geografiche dop (denominazione di origina protetta) e igp (indicazione geografica protetta) sono strumenti fondamentali per tutelare il made in Italy. I prodotti dop e igp italiani, infatti, rappresentano il 40 per cento dell'intera produzione a denominazione comunitaria, con un fatturato complessivo in relazione alla produzione di circa 7 miliardi di euro;
    dal falso olio extravergine di oliva ai prodotti italian sounding che abbondano sui mercati internazionali: la contraffazione dei prodotti alimentari è una minaccia per la sicurezza dei consumatori e un danno per le imprese del settore, in particolare quelle che operano sui prodotti di alta qualità;
    dalle mozzarelle ai terreni agricoli, dai ristoranti all'autotrasporto, il business dell'agromafia fattura in Italia circa 14 miliardi di euro, trovando terreno fertile proprio nel tessuto economico indebolito dalla crisi e offrendo alla criminalità organizzata un appetibile strumento per riciclare denaro frutto di attività criminose;
    la creazione di un modello di consumo e produzione sostenibili necessita di un intervento globale in cui le azioni dei Governi e delle istituzioni siano tese alla protezione e alla conservazione delle risorse del pianeta, allo sviluppo sostenibile, ad un uso efficiente delle risorse, alla lotta contro la fame e ad affermare il diritto alla sicurezza alimentare per tutti gli abitanti del pianeta ed è importante che la Carta di Milano sia il luogo d'assunzione di impegni di buone pratiche e modelli sostenibili in termini di politiche agricole,

impegna il Governo:

   ad assumere il diritto al cibo come un diritto fondamentale anche valutando l'opportunità di adottare iniziative per inserirlo nella Carta costituzionale;
   ad adoperarsi affinché la Carta di Milano sancisca un «patto per il cibo» che sia una reale assunzione di responsabilità da parte degli Stati per garantire il diritto a un cibo sano, sicuro e sufficiente per tutti, prevedendo, in particolare, i seguenti impegni:
    a) individuazione di un meccanismo che permetta ai Governi e ai sistemi di produzione, trasformazione e commercializzazione della filiera agroalimentare il raggiungimento di risultati dichiarati in modo esplicito e trasparente, prevedendo, ad esempio, che ogni singolo Paese sia tenuto a comunicare le finalità che intende raggiungere e gli obiettivi realizzati nell'ambito dei rapporti Ocse in modo che possano essere monitorati e giudicati dai cittadini;
    b) contenimento e riduzione del consumo di suolo in modo da limitarne l'impermeabilizzazione ed incremento delle food policy in modo da concentrare l'attenzione sulle funzioni ambientali ed agricole del suolo piuttosto che sugli usi urbanistici, per il contrasto al dissesto idrogeologico e per la produzione di cibo;
    c) incremento delle risorse per la ricerca scientifica ed applicata in agricoltura, per sviluppare modelli di adattamento delle colture ai cambiamenti climatici e per i migliorare la produttività agricola nell'ambito della biodiversità, con particolare riguardo alle principali colture euro-mediterranee;
    d) predisposizione di politiche agricole a sostegno dell'agricoltura contadina familiare, dei modelli di aziende biologiche, degli agricoltori che lavorano in modo ecosostenibile e dei piccoli agricoltori locali, che consentano il recupero e la coltivazione dei prodotti tradizionali, che preservino la biodiversità e la varietà delle sementi, delle reti di acquisto di prodotti a chilometro zero e che migliorino le condizioni sociali ed economiche dei piccoli agricoltori;
    e) promozione dell'agricoltura urbana attraverso l'impulso alla creazione di orti urbani e di spazi destinati alla coltivazione assegnati dai comuni in comodato ai cittadini;
    f) implementazione delle esperienze di agricoltura sociale e degli aspetti connessi alla multifunzionalità agricola e delle politiche connesse al ricambio generazionale e al sostegno delle donne in agricoltura, anche attraverso l'istituzione a tale scopo di banche dati nazionali delle terre incolte e abbandonate;
    g) promozione di azioni educative nella scuola sulla base di tre assi principali: quali cibi figurano nella dieta; cosa e quanto si spreca in particolare come consumatori finali, ma anche durante l'intera filiera; come si produce (rispetto agli impatti sulle risorse naturali e sulla salute);
   in considerazione delle dimensioni assunte dal fenomeno dello spreco alimentare e soprattutto dalla portata dei suoi impatti, a sostenere le azioni necessarie a contrastare il fenomeno medesimo ed in particolare:
    a) a dare un significato univoco ai termini food losses e food waste ed armonizzare a livello internazionale la raccolta dei dati statistici;
    b) a comprendere le ragioni degli sprechi alimentari nelle varie filiere agroalimentari e a valutarne meglio gli impatti;
    c) ad investire prima nella riduzione delle perdite e degli sprechi alimentari e poi sul loro recupero;
    d) ad avviare iniziative di recupero degli sprechi non ancora eliminati attraverso la distribuzione a persone svantaggiate e l'impiego come mangime o, come ultima alternativa, per la produzione di bioenergia;
    e) a favorire lo sviluppo di accordi di filiera tra agricoltori, produttori e distributori per una programmazione più corretta dell'offerta alimentare;
    f) a rendere il consumatore consapevole dello spreco e a insegnargli come rendere più sostenibili l'acquisto, la conservazione, la preparazione e lo smaltimento finale del cibo;
   ad istituire la «settimana della dieta mediterranea» coinvolgendo scuole, enti di ricerca, soggetti pubblici e privati, al fine di sensibilizzare l'opinione pubblica e di diffondere e far conoscere la cultura del mangiare mediterraneo e i suoi effetti benefici non solo sulla salute ma anche sui territori, sul paesaggio e sulla biodiversità agricola;
   ad individuare le possibili modifiche, nell'ambito dell'Unione europea, alle direttive in materia di appalti pubblici, prevedendo misure premiali per le aziende biologiche nell'affidamento dei servizi di ristorazione nelle mense scolastiche.
(1-00769) «Speranza, Dellai, Oliverio, Sani, Rostellato, Fregolent, Martella, Luciano Agostini, Antezza, Anzaldi, Capozzolo, Carra, Cenni, Cova, Dal Moro, Fiorio, Lavagno, Marrocu, Mongiello, Palma, Prina, Romanini, Taricco, Tentori, Venittelli, Zanin, Fauttilli, Gadda, Artini, Baldassarre, Barbanti, Bechis, Mucci, Prodani, Rizzetto, Segoni, Turco».
(31 marzo 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    in occasione dell'Expo 2015, il cui adagio è «Nutrire il Pianeta. Energia per la Vita», è in corso un dibattito su alcuni nodi cruciali della sfida alimentare globale, che culminerà con l'adozione della «Carta di Milano», un documento che, su esperienze precedenti, come, ad esempio, il «Protocollo di Kyoto», vuole essere lo strumento e il frutto di un percorso partecipato, per guidare il dibattito che si svolgerà nei prossimi mesi, e per tutte le iniziative che diverranno eventi nel semestre dell'Expo 2015;
    la Carta di Milano sarà la dichiarazione conclusiva dell'Esposizione universale da consegnare al Segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon, quale atto di indirizzo internazionale e quale contributo alle riflessioni che saranno svolte in sede di discussione sui millennium goals a novembre 2015;
    la sua nascita si deve alla giornata «Expo delle idee», del 7 febbraio 2015, nella quale 500 esperti, riuniti all’hangar Bicocca di Milano, hanno avuto modo di cominciare a confrontarsi e analizzare le sfide dell'alimentazione globale intorno a 42 tavoli tematici su argomenti come: lo sviluppo sostenibile all'interno dell'interrelazione tra economia, ambiente e società; culture, identità e stili alimentari; agronomia, nutrizione, economia del cibo; Milano/Italy tra smart e slow city;
    un percorso di riflessione globale, attivato dal basso, che mira al reale coinvolgimento della società civile, che, ponendosi in fase dialogante con i governatori dei vari Paesi, ha l'ambizione di arrivare alla stesura di un documento finale, che in linea con i suoi scopi originali sia in grado di coinvolgere nel dibattito tanti più contributi possibili, ponendosi come obiettivo finale la sfida di un sistema alimentare ed agricolo globale sostenibile, in grado di contrastare gli sprechi alimentari, la fame nel mondo, dai Paesi con economie più povere, alle malattie legate all'alimentazione di Paesi con economie più avanzate, tutelare le culture indigene e le realtà di agricoltura contadina e familiare e garantire cibo sano. Il Governo italiano, sostenendo la Carta di Milano, farà suo questo intento;
    il 22 dicembre 2013 l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha dichiarato il 2014 anno internazionale dell'agricoltura familiare, International year of family farming; tutta la campagna in favore dell’International year of family farming ha avuto inizio nel 2008, ha visto coinvolte oltre 350 organizzazioni provenienti da Paesi di tutto il mondo, da piccole e medie comunità rurali ed aziende agricole fino ai popoli indigeni. L'obiettivo è quello di orientare radicalmente le politiche agricole a favore dell'agricoltura contadina familiare, sia nel mondo sviluppato che nei Paesi in via di sviluppo, ponendo l'attenzione sull'importante ruolo che essa gioca nell'alleviare la fame e la povertà, nel rafforzare la sicurezza alimentare e la nutrizione, nel migliorare i mezzi di sussistenza, nella gestione delle risorse naturali, nella protezione dell'ambiente e nel raggiungere uno sviluppo sostenibile, in particolare nelle zone rurali e marginali. Secondo un'analisi condotta da «Via Campesina», un'organizzazione internazionale fondata nel 1993 con più di 160 organizzazioni in 79 Paesi, che conta più di 200 milioni di contadini e contadine aderenti, le piccole e medie aziende contadine sono la spina dorsale economica e sociale dell'agricoltura europea, la più potente a livello mondiale, dove in media le aziende agricole sono di 14 ettari, oltre il 69 per cento delle aziende agricole coltivano meno di 5 ettari e solo il 2,7 per cento possiede più di 100 ettari. Imperniate sulle capacità e sull'intensità del lavoro – non sul capitale – adattate all'infinita diversità delle condizioni naturali, sociali ed economiche, queste strutture produttive garantiscono la sicurezza e la diversità alimentare ai cittadini europei e sono un modello di sostenibilità sociale, economica ed ecologica. Sposando un altro modello di sviluppo agricolo che, contrapponendosi all'agricoltura industriale, basata sul mercato di grossa scala e sulle monoculture, salvaguarda il territorio ed è in grado di dare risposte adeguate sia alla crisi economica che a quella climatica;
    in Europa e in Nord America si stima che i consumatori buttino via tra i 95-115 chilogrammi pro capite di cibo all'anno, mentre nel Sud-Est asiatico e nell'Africa sub-sahariana il dato è di 6-11 chilogrammi pro capite; lo spreco alimentare ha assunto, e sta sempre più assumendo, una dimensione di portata mondiale, tanto che metà del cibo prodotto nel mondo non arriva mai ad essere consumato. Il problema dello spreco alimentare è da ritenersi connesso alle politiche economiche e di marketing che, negli ultimi 20 anni, hanno prodotto fattori e azioni comportamentali altamente distorsivi della realtà fattuale con tutte le conseguenze effettuali che da tale modus comportandi e vivendi sono derivate. Le politiche di marketing delle multinazionali e le normative sulla brevettazione dei prodotti agroalimentari hanno contribuito a generare comportamenti sociali tendenti a produrre sempre più «spreco» e «scarto» alimentare. I dati sullo spreco di cibo nei Paesi industrializzati ammonta a 222 milioni di tonnellate, ossia il corrispettivo della produzione alimentare disponibile nell'Africa sub-sahariana, che è di 230 milioni di tonnellate; la Fao stima che a livello mondiale la quantità di cibo che finisce tra i rifiuti ammonta a 1,3 miliardi di tonnellate e che 925 milioni di persone nel mondo sono a rischio di denutrizione, mentre la popolazione mondiale ipernutrita è pari a quella sottonutrita e/o denutrita: questi dati allontanano, oggettivamente, il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo del millennio, incluso quello di dimezzare la fame e la povertà entro il 2025; sempre secondo dati della Fao, il previsto aumento da 7 miliardi a 9 miliardi della popolazione mondiale richiederà un incremento minimo del 70 per cento della produzione alimentare entro il 2050. Secondo i dati dell'indagine realizzata nel 2012 dalla Fondazione per la sussidiarietà e dal Politecnico di Milano, in collaborazione con Nielsen Italia, lo spreco alimentare in Italia ammonta a 6 milioni di tonnellate, pari a un valore di 12,3 miliardi di euro (6,9 miliardi direttamente dai consumatori);
    rispetto ai trattati internazionali in corso di negoziazione, come, ad esempio, il Transatlantic trade and investment partnership, Ttip, è doveroso sottolineare come l'agricoltura europea, frammentata in milioni di piccole aziende, finirebbe per entrare in crisi se non venisse più protetta dai dazi doganali e, soprattutto, se venisse dato il via libera alle colture geneticamente modificate. Ci sarebbero anche rischi per i consumatori perché i principi su cui sono basate le leggi europee sono diverse da quelli degli Stati Uniti. In Europa vige il principio di precauzione (l'immissione sul mercato di un prodotto avviene dopo una valutazione dei rischi), mentre negli Stati Uniti per una serie di prodotti si procede al contrario: la valutazione viene fatta in un secondo momento ed è accompagnata dalla garanzia di presa in carico delle conseguenze di eventuali problemi legati alla messa in circolazione del prodotto (possibilità di ricorso collettivo o class action, indennizzazione monetaria). Oltre alla questione degli organismi geneticamente modificati, questa critica viene sollevata relativamente all'uso di pesticidi, all'obbligo di etichettatura del cibo, all'uso del fracking per estrarre il gas e alla protezione dei brevetti farmaceutici, ambiti nei quali la normativa europea offre tutele maggiori. Non ultime, in questo discorso, le produzioni di qualità che contraddistinguono l'Italia nello scenario mondiale quale leader nell'esportazione di prodotti alimentari dop, igp e stg. Evocare la denominazione di un prodotto tipico fa parte di quel fenomeno di slealtà commerciale chiamato italian sounding, ossia la contraffazione imitativa che danneggia gravemente il made in Italy anche in Paesi come gli Stati Uniti. Non è che l'Italia sia più competitiva degli Usa in generale, ma l'Italia esporta prodotti alimentari di altissima qualità legati agli elevati standard qualitativi che i disciplinari tecnici europei richiedono per conseguire le denominazioni;
    alcuni prodotti alimentari italiani sono salvaguardati dalle imitazioni nell'Unione europea ma non negli Stati Uniti. Le conseguenze di tale accordo potrebbero seriamente minare le produzioni di qualità e, quindi, mettere in crisi non solo l'Italia, ma anche quei Paesi europei che basano i propri prodotti sulla “tipicità”. Proteggere dall'immissione di organismi geneticamente modificati vuol dire agire a tutto tondo: dalla mangimistica ai controlli sull'immissione in commercio, avvalendosi della clausola di salvaguardia che garantisce al nostro Paese il successo del marchio made in Italy; con il Transatlantic trade and investment partnership questa garanzia non sarebbe più tale e le ricadute economiche sul settore agroalimentare e sulla salute dei cittadini potrebbero assumere contorni catastrofici;
    la prima causa del diffondersi delle fitopatie e parassiti delle piante è senza dubbio rappresentata dai grandi flussi di merci che alimentano gli scambi commerciali. Gli imballaggi, i mezzi di trasporto ed il materiale vegetale trasportato si spostano da un continente all'altro, raggiungendo zone geografiche anche molto lontane dal loro areale di origine. Si tratta di ambienti nuovi per i patogeni importati, dove mancano i naturali antagonisti e la diffusione è semplificata. È poi da considerare che le grandi multinazionali, che operano nel campo della riproduzione vegetale, come le aziende sementiere, hanno insediato i propri stabilimenti nei Paesi in via di sviluppo, dove i costi di produzione, essenzialmente la manodopera e l'energia, sono ridotti, con scarsa attenzione alla condizioni ambientali di contorno, dove sono presenti microrganismi, insetti o virus che possono seguire i semi nel loro lungo viaggio verso i Paesi industrializzati. Gli scarsi o inefficaci controlli fitosanitari del materiale in partenza non permettono di limitare questo rischio alla fonte. Non potendo gestire il problema alla fonte, i Paesi importatori hanno stabilito delle regole per l'ingresso del materiale vegetale;
    in Europa questa attività viene svolta dall’European and Mediterranean plant protection organization. I suoi obiettivi riguardano la protezione delle piante, lo sviluppo di strategie contro l'introduzione e la diffusione di patogeni, la promozione della sicurezza e di efficaci metodi di controllo. All'atto dell'arrivo del materiale vegetale, imballaggi compresi, vengono effettuate delle ispezioni da parte degli ispettori fitosanitari alle dogane e, se tutte le condizioni previste sono state rispettate, viene rilasciato un apposito certificato fitosanitario. Tale certificato attesta l'idoneità del prodotto, in base alla legislazione vigente e nel rispetto degli accordi internazionali, grazie al quale le piante, che hanno rilevanza economica (alimentare, forestale, ornamentale), possono circolare liberamente. Nonostante i controlli, molti parassiti sono già entrati nel continente europeo, quali: la anoplophora chinensis, coleottero che attacca i fruttiferi e le alberate, il dryocosmus kuriphilus, il cinipide del castagno che sta arrecando ingenti danni in molte aree forestali del nostro Paese, la varroa e il coleottero dell’athina tumida che ha colpito le api, e la xylella fastidiosa negli ulivi pugliesi. Si sta cercando di evitare l'introduzione della phakopsora pachyrhizi, fungo agente della ruggine asiatica della soia, la cui diffusione negli ultimi 100 anni può servire da esempio per capire quanto difficile sia combattere una patologia. Rilevata per la prima volta in Asia nel 1902, dove fu causa di ingenti danni, si diffuse tramite spore trasportate da correnti d'aria in Africa e, a partire dal 2000, in America latina, da dove è poi sbarcata negli Stati Uniti;
    il land grabbing è un fenomeno che assume dimensioni sempre più planetarie, dove le vittime principali sono gli abitanti dei Paesi più poveri del mondo che vengono depauperati del loro sostentamento principale che è la terra. Il fenomeno socio-economico è drammaticamente in crescita esponenziale e si realizza grazie all'azione congiunta sia degli Stati che delle imprese, ma a prevalere nel percorso di accaparramento della terra è soprattutto il settore privato. L'asse portante consiste in investimenti a basso costo in terre del sud del mondo, dove si concentra circa il 40 per cento di tutte le fusioni e acquisizioni agricole. A «cedere» la loro terra sono, in generale, i Paesi più poveri, per la disponibilità e il basso costo della superficie coltivabile, per il clima favorevole e per la disponibilità di manodopera quasi a costo zero. Nella maggior parte dei casi, si tratta di Paesi che rientrano nella fascia con il più elevato rischio di fame e povertà al mondo;
    la contrattualistica si codifica in assenza di clausole vincolanti e precise che prevedano iniziative sociali e lavoristiche concrete da parte degli investitori a favore delle zone interessate dal fenomeno, oltre a riguardare il controllo e la verifica degli «impegni sottoscritti». La durata delle concessioni risulta essere molto lunga, 30,40 e, in alcuni casi, anche 90 anni, con accordi che prevedono affitti risibili che vanno dai 2 ai 10 dollari per ettaro, come in Sudan o in Etiopia. Gli interessi sono consoni alle esigenze degli investitori, senza riferimenti alla sicurezza alimentare delle popolazioni locali, che si vedono destinata solo una minima parte dei raccolti. Per sicurezza alimentare si intende non solo il ridotto raccolto che spetta ai locali, certamente non sufficiente per i loro fabbisogni alimentari, ma si estende anche all'alimentazione e alla protezione degli animali, anch'essi appartenenti alla catena alimentare. La sicurezza alimentare riguarda il tema dell'assenza di controlli veterinari e, non ultimo, dell'igiene, la cui assenza produce innumerevoli infezioni agli animali e agli esseri umani stessi;
    da qualche tempo, gli accaparratori di terre hanno messo gli occhi anche sui suoli più fertili d'Europa e d'Italia, dove i fenomeni di land grabbing si situano nella zona della Costa Smeralda, di Porto Torres e della provincia di Cagliari;
    l'agricoltura italiana sta vivendo uno dei periodi più drammatici della sua storia. I costi di produzione hanno raggiunto livelli insostenibili, mentre i ricavi delle produzioni agricole sono fermi agli anni settanta e non sono affatto remunerativi a causa del dimezzamento dei redditi degli agricoltori. A questa drammatica situazione non si è riusciti, ad ora, a dare una risposta, nonostante i notevoli servizi di multifunzionalità che il mondo agricolo offre alla società sotto il profilo della salute pubblica, della tutela dell'ambiente, del presidio del territorio e della biodiversità. Accanto a una situazione di grave disagio economico e sociale del comparto agricolo, il livello di tassazione e di imposizione fiscale rischia di far chiudere un numero non calcolato di aziende agricole, con tutti i drammatici effetti collaterali che un evento del genere comporterebbe per molti territori che vivono solo di agricoltura. A questo si aggiunga l'eccessiva burocratizzazione che spesso penalizza e rallenta il percorso di molti imprenditori agricoli, soprattutto i piccoli imprenditori, lasciando il mercato nelle mani di pochi monopoli. La burocratizzazione impedisce, altresì, la cooperazione fra i vari Stati;
    la fase di emergenza dei mercati agricoli e la conseguente diffusa volatilità dei prezzi, derivante dall'assenza di una condivisa regolamentazione globale del mercato delle merci che ha caratterizzato il settore nell'ultimo decennio, continuano a manifestare i propri segnali negativi;
    il suolo è una risorsa non rinnovabile che svolge funzioni ecosistemiche per la società nel suo complesso olistico. I processi di antropizzazione che l'uomo pone in essere con le sue attività produttive occupano sempre più porzioni di territorio che viene trasformato in modo pressoché irreversibile. Il ritmo di questi processi è cresciuto parallelamente allo sviluppo delle economie: quello dell'aumento del consumo di suolo è un fenomeno globale, in cui, per la scarsità di suolo edificabile, l'avanzata dell'urbanizzazione contende il terreno all'agricoltura e spinge all'occupazione di aree non adatte all'insediamento, come quelle a rischio idrogeologico;
    il consumo di suolo agricolo, inoltre, è corresponsabile di fenomeni di alterazione climatica, come l'innalzamento della temperatura e la diminuzione delle risorse edibili per l'uomo, la cui miscela socio-ambientale produce delle drammatiche conseguenze socio-economiche in quei Paesi dove si «mastica la fame»;
    in agricoltura, le monocolture, ossia il sacrificare vaste zone di territorio per la coltura di un'unica specie vegetale in maniera intensiva e standardizzata, sono tra le principali cause della scomparsa di biodiversità. Convertire foreste rigogliose, ecosistemi ricchi e variegati e complessi in monocolture significa condannare a morte milioni di creature vegetali e animali. Questo processo tanto sbandierato come «sviluppo» e «progresso» dalle multinazionali, di fatto ha contribuito enormemente ad aumentare il tasso di povertà nel mondo. Le aree impiegate per questo tipo di coltivazione, ormai sempre più frequente viene gestito da grandi gruppi, i quali esercitano – in un mercato globalizzato tendente alla riduzione progressiva delle varietà colturali in modo da esser più facilmente controllato – nelle zone delle foreste pluviali operazioni massicce di disboscamento, come avviene da anni in Amazzonia e negli ultimi due lustri per la Mata atlantica (fenomeno questo conosciuto come «desmatamento»);
    le foreste pluviali tropicali sono gli ecosistemi terresti più ricchi. Esse coprono il 7 per cento della superficie mondiale e danno rifugio al 70 per cento di tutte le specie. Le monocolture, quindi, rendono sterili i terreni, impoveriscono i sottosuoli e pregiudicano le sorgenti genetiche dell'agricoltura, rendendo i raccolti più vulnerabili alle fitopatie. La conseguenza è la drammatica alterazione degli equilibri microcosmici e sistemici, oltre al fatto che viene messo in serio rischio la sicurezza e la sovranità alimentare. La distruzione della biodiversità favorisce le infezioni e le patologie, perché le piante si indeboliscono e sono più facilmente attaccabili dagli insetti che negli ultimi 40 anni hanno raddoppiato i danni alle colture, nonostante l'uso di pesticidi sia decuplicato;
    l'agricoltura intensiva è l'attività che richiede più utilizzo di acqua in Europa. Circa l'80 per cento della risorsa idrica è impiegata nell'irrigazione, spesso inefficiente per la cattiva manutenzione degli impianti e per il ricorso a tecnologie obsolete e poco attente al risparmio idrico. L'agricoltura industrializzata non si limita ad impiegare ingenti quantità di acqua, ma è causa anche di inquinamento. Infatti, i fertilizzanti chimici e i pesticidi penetrano nel terreno raggiungendo e inquinando le falde acquifere sotterranee oppure vengono dilavati dalle acque meteoriche (piogge) e di irrigazione e immessi direttamente nelle acque superficiali in quantità tali da comprometterne la capacità autodepurativa. Inoltre, lo sconsiderato utilizzo di acqua, ossia il divario esistente tra il rifornimento idrico e la domanda di acqua, sta aumentando in quelle aree che già oggi soffrono di carenza di idrica, aggravata dai crescenti e violenti fenomeni di siccità, e si rivelerà il maggior vincolo alla crescita e allo sviluppo agricolo sostenibile;
    in Europa, soprattutto nelle aree meridionali e centrali, la disponibilità di acqua diminuirà sempre di più a causa di una continua diminuzione delle precipitazioni estive e delle elevate esigenze idriche di alcune tipi di colture e metodi di coltivazione semi o totalmente industrializzati;
    nei Paesi del sud del mondo l'acqua utilizzata per l'irrigazione rappresenta ben il 91 per cento del consumo idrico (rispetto al 39 per cento dei Paesi ad alto reddito), ma la produzione agricola è pari ad un terzo di quella dei Paesi industrializzati, poiché metà dell'acqua destinata all'irrigazione evapora per le elevate temperature, oppure si perde a causa delle pessime reti idriche di distribuzione;
    il fenomeno della tratta degli esseri umani e dello sfruttamento dei migranti rimane una delle prime problematiche da affrontare e risolvere a livello globale. Un fenomeno che coinvolge un alto numero di migranti che finiscono in circuiti di marginalità sociale e illegalità, vittime di un sistema di sfruttamento sia a livello di manodopera che sessuale;
    la presenza di un gran numero di lavoratori vulnerabili e disponibili a salari bassi ha consentito a molte aziende di reggere alla crescente pressione sui prezzi dei prodotti agricoli operata da commercianti, industrie conserviere e catene della grande distribuzione organizzata, causata dalla competizione internazionale dovuta alla liberalizzazione dei mercati dei prodotti agricoli. I conflitti sociali avvenuti negli anni scorsi a El Ejido in Andalusia, a Manolada in Grecia e nelle Bouches-du-Rhône in Francia mostrano come i lavoratori migranti impiegati in agricoltura siano in condizioni difficili un po’ in tutta Europa, sebbene con modalità differenti. Per non parlare dell'agricoltura californiana, che alcuni economisti e sociologi hanno individuato come il modello – fatto di agricoltura intensiva e ipersfruttamento dei migranti – cui si sta conformando l'agricoltura europea, soprattutto mediterranea. Per continuare si può citare la disumana condizione degli operai agricoli palestinesi nella Valle del Giordano, i quali lavorano in condizioni disastrose, fino a 18 ore al giorno, privi di qualsivoglia sistema di sicurezza. Di conseguenza, gli incidenti sul lavoro sono ricorrenti e spesso mortali. La piaga dello sfruttamento dei braccianti agricoli è di matrice globale ed ha urgenza di essere affrontata in modo dirimente;
    i modelli economici perseguiti finora hanno portato alla dipendenza di quelle fonti energetiche che maggiormente si allineano con il metodo della continua ricerca del profitto. L'uso del petrolio, per il quale si stima che, agli odierni ritmi estrattivi, si esaurirà tra il 2040 e il 2070, sta spingendo le aziende a trovare alternative energetiche di approvvigionamento. Gli agrocombustibili, in quota parte, sono proposti sia come alternativa al petrolio, sia come mezzo per combattere il riscaldamento climatico globale e per questo le maggiori imprese internazionali si stanno lanciando in questo nuovo mercato, che risulta essere, però, contrario alle necessità alimentari dei popoli. Il rischio, tuttavia, è che, diffondendo la sostenibilità di questa fonte energetica, le multinazionali potranno liberamente sfruttare i beni agricoli per il mercato energetico. Il biocarburante esiste in virtù del biocombustibile, cioè un propellente ottenuto in modo indiretto dalle biomasse: grano, mais, bietola, canna da zucchero. E dunque i biocarburanti di prima, seconda e terza generazione riducono la disponibilità di derrate alimentari, aumentando la fame nel mondo. Peraltro, la coltivazione delle materie prime necessarie a produrli, in generale, è inquinante: la produzione di biodiesel, per esempio, è molto dispendiosa dal punto di vista idrico. Un calcolo calorico porta a dire che mantenere i veicoli col cibo umano è dispendioso. Questi sono solo alcuni dei problemi legati all'uso improprio dei biocarburanti. La teoria economica classica attesta che se la domanda supera l'offerta i prezzi crescono. Gli speculatori finanziari comprano dai contadini (principalmente del terzo mondo) il grano ad un prezzo molto basso e fanno in modo che questo prezzo aumenti nel tempo, sostenendo artificiosamente la domanda e contenendo l'offerta, realizzando così forti guadagni. È chiaro che, con questi meccanismi, i prezzi dei cibi di prima necessità subiscono aumenti molto elevati, tutto a scapito di milioni di persone che muoiono di fame. La speculazione finanziaria sui generi alimentari ha causato negli ultimi anni la sottoalimentazione di circa 850 milioni di persone. Questa situazione è stata stigmatizzata sia dalla Fao che dalla Banca mondiale: entrambe le istituzioni affermano che tra il 2007 e il 2008 si è registrato un aumento di circa l'88 per cento del prezzo dei cereali e, in generale, dell'80 per cento di tutte le granaglie. Gli agrocombustibili nuoceranno in maniera devastante anche sulle riserve d'acqua. Secondo l'Istituto internazionale per l'acqua, la produzione su larga scala di agrocombustibili provocherà nel 2050 il raddoppio dell'attuale fabbisogno idrico destinato all'agricoltura. Attualmente, circa l'80 per cento del totale di acqua dolce consumata dall'uomo è utilizzato in questo settore. Dal punto di vista sociale la produzione in massa di agrocombustibile diventerebbe più dannosa del problema dell'inquinamento che si pensa di risolvere. La paura è che in un'economia come questa, se gli agrocombustibili danno/daranno alle imprese maggiori profitti rispetto al mais, al grano e ad altro, difatti verrà privilegiata la coltura a scopo speculativo in luogo di quella a scopo alimentare;
    i semi rappresentano il dono della natura, elevata energia in uno spazio notevolmente piccolo, un micro universo in evoluzione a cui è legata la storia dell'umanità. È compito dell'uomo salvaguardarli, responsabilità dell'uomo tramandarli alle generazioni future. Facendoli rivivere ogni anno, ogni giorno, in ogni luogo e assecondando la loro più intima natura, si provvede ai bisogni di nutrimento dell'uomo;
    il sapere accumulato sulle proprietà curative delle piante, gli effetti sulla salute e come anche su certe particolari prassi di coltivazione e interazioni con il mondo animale e vegetale, con il suolo e con l'acqua, si è ampliato ed è stato tramandato nei secoli e nei millenni. L'accelerazione delle rivoluzioni tecnologiche in tutti i campi e la crescente concentrazione del potere economico nelle mani di un ristretto gruppo di persone e imprese hanno prodotto una sempre maggiore omogeneizzazione delle strategie produttive e delle culture umane. Si stanno distruggendo, con delle modalità e ad una velocità senza precedenti, la variabilità genetica della vegetazione spontanea e della fauna, come anche la diversità delle lingue e delle culture. La rapida estinzione delle coltivazioni diversificate e delle varietà colturali e lo sviluppo di sementi non rinnovabili (gli ibridi di «proprietà riservata» e i semi sterili prodotti con la cosiddetta tecnologia Terminator) minacciano il futuro della vita del seme e, con esso, il futuro dei coltivatori e della sicurezza alimentare. La libertà di gestire i semi e la libertà dei coltivatori sono minacciate dai nuovi diritti di proprietà e dalle nuove tecnologie che stanno trasformando i semi da bene comune condiviso del mondo contadino ad un bene di consumo sotto il controllo centralizzato dei monopoli corporativi. Il libero scambio dei semi è importante per la conservazione della diversità biologica e deve contestualmente riguardare la condivisione di conoscenze e lo scambio di idee, facilitando una crescita collettiva della comunità;
    gli allevamenti intensivi si espandono sul suolo terrestre e nei mari come immense, spietate chiazze tossiche, divorando salubrità e risorse di ogni sorta. All'interno di essi, cardine dell'industria globale del cibo, finisce la metà degli antibiotici fabbricati al mondo, mentre le monocolture di cereali e soia destinate al bestiame causano deforestazioni e impoveriscono per sempre gli habitat naturali. L'allevamento intensivo, noncurante del benessere animale, reca sofferenza agli animali e danno alle comunità locali, costrette a subirne inquinamento dovuto ai gas climalteranti prodotti dalle pratiche intensive degli allevamenti. Gli stessi operatori impiegati in simili strutture risentono di condizioni di lavoro estreme a causa degli elevati livelli di ammoniaca con cui entrano in contatto;
    il livello elevato di utilizzo degli antibiotici, che si usano per allontanare le malattie da ambienti così malsani, contribuisce alla proliferazione di «super batteri» antibiotico resistenti. Il grande numero di animali da allevamento che necessita di ingenti quantità di mangime (coltivato in vaste aree agricole, usando pesanti quantitativi di acqua, energia, fertilizzanti e pesticidi) produce una quantità enorme di rifiuti, causando un serio inquinamento e degrado ambientale. I liquami di origine animale e vegetale prodotti negli allevamenti hanno un potenziale inquinante molto più elevato di quello dei liquami domestici. L'eccesso di azoto proveniente dagli allevamenti può causare l'inquinamento delle falde acquifere, aumentando il livello di nitrati nell'acqua potabile, a cui si aggiunge l'eutrofizzazione (arricchimento di sostanze nutrienti) degli acquedotti, che può causare la proliferazione di alghe (diminuisce la quantità di ossigeno presente nell'acqua), con conseguenti morie di pesci ed altri organismi acquatici, tant’è che l'Agenzia europea per l'ambiente afferma che: «è diventato un gravissimo problema nell'Europa nordoccidentale». I fertilizzanti e i pesticidi diminuiscono la biodiversità; 20 specie britanniche di uccelli hanno subìto una riduzione di popolazione di oltre il 50 per cento negli ultimi 25 anni,

impegna il Governo:

   ad assumere il diritto al cibo come un diritto fondamentale, assumendo iniziative per il suo inserimento nella Carta costituzionale;
   ad adoperarsi affinché la Carta di Milano sancisca un «patto globale per il cibo» che sia una reale assunzione di responsabilità da parte degli Stati al fine di garantire il diritto a un cibo sano, sicuro, sufficiente e accessibile per tutti, prevedendo, in particolare, i seguenti impegni:
    a) adottare iniziative a favore dell'agricoltura familiare, riconoscendo, anche giuridicamente, al coltivatore il ruolo sociale e ambientale che svolge nel proprio territorio, in particolare nelle aree considerate marginali, montane e soggette a spopolamento;
    b) incentivare un modello di alimentazione che riduca gli sprechi alimentari ed inutili scarti, promuovendo informazione e responsabilizzazione nei consumi, sostenendo percorsi premiali affinché le mense scolastiche europee offrano cibo biologico e a chilometro zero agli studenti;
    c) ostacolare il fenomeno del land grabbing, le cui vittime principali sono gli abitanti dei Paesi più poveri del pianeta, depauperati delle loro terre native e delle risorse per il proprio sostentamento, attraverso concessioni governative imposte o cessioni unilaterali in favore di grandi investitori e Governi stranieri, a scapito della sicurezza e della sovranità alimentare delle popolazioni locali che si vedono destinate solo una minima parte dei raccolti;
    d) disincentivare, su scala globale, le agricolture industriali che basano la propria strategia produttiva sulle monoculture e sull'utilizzo massiccio di fitofarmaci che si sono rivelati nel tempo un modello di sviluppo insostenibile per il pianeta e per la tutela della biodiversità, delle foreste primarie e delle risorse idriche;
    e) impedire su scala globale quelle agroenergie che ricorrono alla produzione della monocoltura agricola, valorizzando le nuove tecnologie che utilizzano gli scarti di lavorazione del processo produttivo dei beni di prima necessità, che, se non opportunamente valorizzati, si traducono in esternalità negative per l'ambiente e la società;
    f) arginare il fenomeno del consumo di suolo, prevedendo che i suoli agricoli non possano cambiare la loro destinazione d'uso e/o essere impermeabilizzati, se non in casi eccezionali e d'interesse pubblico, mitigando il dissesto idrogeologico con l'implementazione di politiche occupazionali pubbliche per il ripristino dell'equilibrio ambientale e sistemico;
    g) rafforzare la sicurezza alimentare globale, mantenendo inalterato il principio di precauzione e gli standard qualitativi e di sicurezza sui prodotti agroalimentari del mercato europeo, promuovendo su scala globale questi principi e non sottoscrivendo alcun trattato internazionale che preveda accordi al ribasso per il sistema agricolo e alimentare europeo o che possa prevedere il sistema degli arbitrati internazionali, lesivo dell'autonomia dei Governi e della stessa democrazia sociale;
    h) promuovere l'adozione di un protocollo internazionale per la movimentazione delle merci agroalimentari e intensificare il sistema dei controlli riguardo la movimentazione di prodotti agroalimentari da altri continenti, al fine di impedire l'ulteriore contaminazione e l'introduzione di parassiti e malattie esotiche per le piante e gli animali autoctoni, in modo da salvaguardare le razze e le varietà vegetali locali;
    i) sostenere il principio del libero scambio delle sementi, contrastando la diffusione delle sementi geneticamente modificate e ostacolando la brevettabilità delle sementi, che troppo spesso si traduce nel monopolio di alcune varietà da parte di grandi multinazionali del biotech, le quali limitano l'indipendenza degli agricoltori, impedendo ad essi, di fatto, la riproduzione e la selezione delle varietà vegetali e delle razze animali;
    l) adottare a livello globale un modello di allevamento, per terra e per mare, che sia rispettoso dell'ambiente ecologico e del benessere animale, in cui la mangimistica sia tracciabile, certificata e non lesiva dell'ecologia planetaria, ovvero che non amplifichi o addirittura sia causa dei processi di deforestazione, come oggi invece avviene per le coltivazioni che producono soia, mais e olio di palma, in particolare nelle zone delle foreste tropicali;
    m) mettere in atto a livello globale ogni strategia di contrasto allo sfruttamento sessuale e della manodopera dei braccianti agricoli e ponendo attenzione alle condizioni di salute dei lavoratori nei luoghi di lavoro, con particolare sensibilità relativamente alle irrorazioni di fitofarmaci cui sono sottoposti senza le necessarie precauzioni, in un'ottica di cooperazione in grado di stilare una «Carta dei diritti universali dei braccianti» impegnati nel settore dell'agricoltura;
    n) snellire le pratiche burocratiche nel settore agricolo al fine di renderle più sostenibili per chi fa agricoltura e facilitare la cooperazione fra i vari Stati, regolamentando il mercato globale agricolo in senso cooperativistico e mutualistico, soprattutto nel settore dello scambio delle merci.
(1-00776) «Scotto, Zaccagnini, Franco Bordo, Palazzotto, Pellegrino, Zaratti, Fratoianni, Pannarale, Airaudo, Costantino, Duranti, Daniele Farina, Ferrara, Giancarlo Giordano, Kronbichler, Marcon, Matarrelli, Melilla, Nicchi, Paglia, Piras, Placido, Quaranta, Ricciatti, Sannicandro».
(8 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    l'Esposizione universale Expo 2015, che avrà luogo a Milano tra il 1o maggio e il 31 ottobre 2015, ha scelto come tema «Nutrire il Pianeta, energia per la vita», puntando l'attenzione su tutto ciò che riguarda l'alimentazione mondiale: dal problema della mancanza di cibo in alcune zone del pianeta, all'educazione alimentare, fino alla conoscenza delle attività legate alla produzione dell'agroalimentare e alle innovazioni introdotte rispetto all'agricoltura tradizionale, quali gli organismi geneticamente modificati;
    oltre agli aspetti legati alle attività economiche, la principale eredità di Expo 2015 è di contenuto e riguarda il diritto ad un'alimentazione sana, sicura e soprattutto sufficiente per tutto il pianeta, principalmente attraverso una rivalutazione dell'importanza del territorio, della redistribuzione e della genuinità del cibo, nonché della preservazione ed individuazione dei migliori strumenti di controllo e di innovazione;
    la Carta di Milano, una sorta di protocollo sul cibo che nasce da un percorso di ricerca, confronto e proposta sui temi di Expo, non è solo un documento di intenti, ma contiene una serie di impegni per cittadini, società civile ed imprese per un'alimentazione sostenibile, per il diritto universale alla nutrizione, per il contrasto al consumo del suolo agricolo e all'uso scorretto delle risorse naturali in quanto beni comuni, ed è finalizzata a sollecitare un'assunzione di responsabilità in tale direzione da parte dei Governi e dei Parlamenti di tutto il mondo;
    sostenendo la Carta di Milano anche il Governo italiano assume gli impegni che in essa sono contenuti. Il settore agroalimentare è una delle eccellenze del nostro Paese, tanto da essere l'unico settore in crescita – sia in termini di occupazione che di export di prodotti – in un momento di grave crisi economica come quello attuale; esso comprende, oltre alle grandi produzioni, anche tutti i prodotti tradizionali e locali derivanti dall'attività della piccola agricoltura contadina;
    molte sono le associazioni di cosiddetti «agricoltori contadini» che in questi anni stanno portando avanti la battaglia per il riconoscimento a livello nazionale di un'agricoltura piccola ma foriera di grande valore per la riscoperta e conservazione di colture tradizionali lavorate con metodi naturali, sostenibili e biologici;
    la piccola agricoltura contadina sposa pienamente il tema dell'Expo 2015, poiché ha come obiettivi quello di valorizzare le colture locali e disincentivare il consumo di prodotti che non siano derivanti da una filiera corta; di contemplare metodi di lavorazione, coltivazione e allevamento sostenibili e che usino la biodiversità agroalimentare come mezzo per rispondere alle sfide che impone il cambiamento climatico;
    circa 9 su 10 delle 570 milioni di aziende agricole esistenti al mondo sono gestite da famiglie e costituiscono un fattore potenzialmente cruciale di cambiamento verso il raggiungimento della sicurezza alimentare e l'eliminazione della fame; come afferma l'ultimo rapporto dell'Onu e come scrive lo stesso direttore generale della Fao, Josè Graziano de Silva, nell'introduzione al nuovo rapporto Fao, «le aziende agricole a conduzione familiare producono circa l'80 per cento del cibo a livello mondiale. La loro significativa presenza e la loro produzione testimoniano che esse sono cruciali per la soluzione del problema della fame che affligge 800 milione di persone (....) e che sono una componente chiave dei sistemi alimentari sani di cui abbiamo bisogno per condurre delle vite più sane»;
    è evidente che la strada da intraprendere, che verrà indicata dalla Carta di Milano, è in netta antitesi con quella adottata dalle multinazionali che producono cibo globalizzato (a danno delle tradizioni alimentari locali) e che spesso distruggono le sementi millenarie di alto valore per la sopravvivenza dell'agricoltura sana e di qualità. Infatti, è con l'agricoltura intensiva che si preparano cibi artefatti, sempre meno naturali, organismi geneticamente modificati, ridotti a qualcosa di simile al carburante necessario ad alimentare la «macchina umana» e che sottostanno all'esigenza di produrre sempre di più per consumare di più, per fare solo sempre più profitto;
    il 2015 è stato indicato dall'Onu come l'anno internazionale del suolo; è noto che esiste una stretta correlazione tra estensione della superficie agricola e sicurezza alimentare, eppure, ad esempio, in Italia il ritmo con cui si continua a perdere suolo agricolo è di 11 ettari all'ora, ovvero circa 2.000 alla settimana, 8.000 al mese. In poco meno di 20 anni si sono perduti qualcosa come due milioni di ettari coltivati, ovvero l'incredibile percentuale del 16 per cento di tutte le campagne agricole del Paese;
    la crescente sottrazione di suolo per uso agricolo rischia di incidere pesantemente sul costo dell'approvvigionamento alimentare in Italia, dove attualmente è coperto solo il fabbisogno di cibo di tre cittadini su quattro e si rendono pertanto necessarie le importazioni per coprire il restante deficit produttivo. Quindi, da una parte cresce la domanda di cibo, dall'altra diminuiscono le terre coltivate. Questa contraddizione va fermata non solo in Italia, ma in tutto il pianeta, onde evitare l'incremento della dipendenza dall'estero nel campo agroalimentare, in un contesto globale in cui le stime di Fao e Ocse parlano, per i prossimi anni, di un rallentamento della crescita produttiva mondiale, a cui si affianca però la costante crescita demografica che porterà nel 2050 a superare la soglia dei 9 miliardi di abitanti nel pianeta;
    l'Expo delle idee è stato avviato l'8 dicembre; in quella sede 42 tavoli tematici hanno dato il via ad un'elaborazione collettiva che si concluderà con la cosiddetta Carta di Milano. Il focus, come si sa, è puntato sulla nuova frontiera del diritto: il cibo per tutti. Malgrado l'ambizione, i gruppi di lavoro non hanno individuato un panel da dedicare al consumo del suolo indebolendo così le strutture dell'intero impianto;
    il 31 marzo 2015, in sede di presentazione del SOER 2015, dossier di valutazione integrata dell'ambiente in Europa, Hans Bruyninckx, direttore esecutivo dell'Agenzia europea dell'ambiente, ha sottolineato come manchi tuttora un obiettivo europeo comune sulla tutela del suolo, per il quale si prevede un trend di deterioramento anche per i prossimi 20 anni;
    l'uso sempre più frequente di fitosanitari in agricoltura specialmente se usati in maniera massiccia, può comportare danni alla salute; secondo il recente rapporto di cancerogenicità redatto dalla Iarc, l'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro dell'Organizzazione mondiale della sanità, il glifosato, principale componente di molti erbicidi, è stato classificato come «probabilmente cancerogeno» assieme ai due insetticidi malatione e diazinone; mentre per gli insetticidi parathion e tetrachlorvinphos (Tcvp), già proibiti o di utilizzo ristretto in molti Paesi, la classificazione è stata quella di «possibili» agenti cancerogeni;
    tra i fitosanitari figurano anche i pesticidi, attualmente in discussione in quanto barriere non tariffarie al commercio, oggetto di accordi come il TTIP; nell'ottica di favorire il commercio, le grandi aziende di ogni settore, incluso quello agroalimentare, puntano in accordo con la Commissione europea e il Governo degli Usa a togliere ogni barriera normativa in merito ai pesticidi non autorizzati e ai loro limiti massimi residui, seguendo la logica del minimo comun denominatore;
    uno studio dell'università di Harvard ha recentemente verificato la possibile correlazione tra il consumo di cibi contaminati da pesticidi e i problemi di fertilità maschile. L'effetto negativo di queste sostanze sulla fertilità era stato documentato solo in soggetti esposti per motivi professionali; ora invece è stato provato anche in relazione al consumo di pesticidi direttamente ingeriti attraverso l'alimentazione;
    il consumo di alimenti di origine animale, legato al modello culturale ed economico dei Paesi industrializzati, è in continua crescita, con implicazioni sulla salute, sulla spesa sanitaria, sull'ambiente e sulla sicurezza alimentare, considerato che, secondo i dati Fao, nel 2050 la popolazione arriverà oltre i 9 miliardi di persone, con il conseguente problema di raddoppiare la produzione globale di cibo, mentre le risorse sostenibili sono limitate;
    dagli anni Sessanta, infatti, l'Italia ha visto quasi triplicare i propri consumi di carne, da 31 a 87 chili nel 2011, contrariamente alle raccomandazioni delle linee guida internazionali sulla salute e alle indicazioni dell'equilibrata dieta mediterranea. Secondo l'edizione 2010 delle Dietary Guidelines for Americans, una dieta di 3400 calorie giornaliere ammette, all'anno, per non essere dannosa, un consumo massimo complessivo di carne e uova pari a 50,12 chili e di 16,2 per il pesce. I dati Fao, invece, indicano che l'Italia ha un consumo medio, rispettivamente, di 103 e di 24,6 chili annui;
    la produzione di alimenti di origine animale, dovuta alla crescente richiesta dei consumi, ha un forte impatto ambientale. È la principale causa del consumo di risorse indispensabili come l'acqua e il fosforo, sta portando al consumo e al degrado del suolo – per produrre mangimi e per la deforestazione destinata al pascolo – con conseguente minaccia alla biodiversità e alla fertilità e contribuisce, in maniera importante, all'inquinamento dell'acqua e dell'aria;
    gli allevamenti, infatti, producono il 14,5 per cento delle emissioni globali di gas serra, con un'incidenza significativa sul cambiamento climatico. Per questo, secondo l’Intergovernmental panel on climate change Ipcc – solo diminuendo il consumo di cibo di origine animale a una media di 90 grammi al giorno, come raccomandato dalle linee guida mediche inglesi, si potrebbe raggiungere, dal 2030, una riduzione di 2,15 miliardi di tonnellate di anidride carbonica l'anno,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative, anche in sede di definizione dei contenuti della Carta di Milano, per:
    a) promuovere il contenimento del consumo del suolo e il riuso del suolo edificato al fine di ottenere il reale «consumo di suolo zero»;
    b) promuovere ogni possibile metodo alternativo all'utilizzo dei fitosanitari di sintesi, ivi inclusi quelli per il comune diserbo, anche costruendo una rete di coordinamento a livello mondiale;
    c) promuovere, in occasione di negoziati internazionali volti alla conclusione di accordi commerciali internazionali, il rispetto di elevati parametri di sicurezza umana e ambientale;
    d) promuovere la riduzione del consumo di alimenti di origine animale, come azione imprescindibile per migliorare la salute dei cittadini e l'impatto ambientale, che sta portando alla perdita irreversibile di risorse naturali critiche e all'aumento delle emissioni inquinanti, indirizzando la società verso scelte alimentari consapevoli e responsabili, che possano garantire la salvaguardia dell'ambiente e un sistema più equo della distribuzione delle risorse per la futura sicurezza alimentare;
    e) sostenere un cambiamento virtuoso dello stile di vita dei cittadini verso modelli culturali, economici e sociali più salubri e sostenibili, attraverso la promozione di attività di informazione e sensibilizzazione e mediante iniziative per l'introduzione, nei luoghi di ristorazione pubblici o convenzionati, di un'adeguata alternativa di menù privi di alimenti di origine animale;
   ad intraprendere ogni utile azione, specialmente in occasione di Expo 2015, volta a promuovere un'alimentazione sana e un'agricoltura biologica e priva di organismi geneticamente modificati;
   a riservare, nell'ambito dell'esposizione, distinti padiglioni all'agricoltura biologica e di qualità e alla promozione di colture «ogm free»;
   a promuovere, nell'ambito dell'esposizione, l'agricoltura familiare, anche garantendo alle aziende che hanno tali caratteristiche la possibilità di usufruire gratuitamente di stand, i cui costi andrebbero a carico delle multinazionali presenti;
   a promuovere in sede di Unione europea la ripresa dei lavori concernenti la direttiva in materia di protezione del suolo tramite tutti gli strumenti possibili, anche considerando quelli previsti dall'articolo 20, paragrafo 2, del Trattato sull'Unione europea, e dagli articoli 326-334 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea.
(1-00778) «Benedetti, Massimiliano Bernini, Gagnarli, Gallinella, L'Abbate, Lupo, Parentela, Busto, De Rosa, Mannino, Terzoni».
(8 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    attraverso Expo 2015, Milano sta riprogettando la propria identità di città dinamica, pronta ad affrontare le sfide del futuro, ma anche a valorizzare la propria tradizione agricola, il che significa la terra, gli spazi verdi come il Parco Sud, le cascine, i fiumi e i canali, per mettersi a disposizione del sistema Italia e per aiutare i Paesi in via di sviluppo;
    ogni idea, ogni proposta legate ad Expo, fin dalla candidatura di Milano, sono state considerate strumento indispensabile per il successo dell'evento, a condizione di essere il frutto di un contributo corale, anzitutto dei cittadini, e poi naturalmente delle istituzioni: Governo, regione Lombardia, comune di Milano, ma anche regioni e comuni di tutta Italia e inoltre, Confindustria, camera di commercio, sindacati e, soprattutto, università e centri di ricerca;
    il vero simbolo di Expo Milano 2015, per come l'Esposizione è stata concepita dagli ideatori, non è un monumento o comunque una realizzazione che rappresenti la grandezza di Milano e dell'Italia, ma una visione di futuro che identifichi Expo come progetto in divenire per un mondo nuovo dove il cibo sia sufficiente e sicuro per tutti e dove la salute, insieme al cibo, sia un diritto inalienabile di ogni persona, soprattutto dei bambini e degli anziani;
    il tema del diritto al cibo viene fatto proprio anche dalla Chiesa ed è stato oggetto nei giorni scorsi anche di una lettera dal titolo «Cibo che nutre. Per una vita sana e santa», scritta in vista di Expo 2015 dal ministro generale dei frati minori conventuali, fra’ Marco Tasca, agli oltre 4.000 frati dell'ordine in 63 Paesi dei cinque continenti, dove si sostiene, tra l'altro, che «Parlare del cibo» significa «parlare dei grandi problemi che attanagliano e preoccupano l'umanità e spinge il nostro sguardo verso orizzonti più vasti e spesso trascurati. Quello dello spreco di cibo è uno degli scandali più drammatici del nostro tempo. Quello di non sprecare dovrebbe essere per noi francescani una sorta di comandamento, perché ogni spreco di cibo (acqua, energia, suolo) è spreco della creazione e rende la terra più povera e inospitale per le generazioni future»;
    Expo Milano 2015 è stato concepito e progettato con un'attenzione particolare all'eredità culturale, infrastrutturale, economica ed umana che sarà in grado di lasciare alle generazioni future. Tra queste priorità spicca una maggiore sensibilità collettiva alle tematiche inerenti al diritto ad un'alimentazione sana, sicura, sufficiente ed equilibrata, all'accesso all'acqua per tutti gli esseri umani del pianeta e alle relative best practice necessarie a consentire la costruzione di un contesto internazionale favorevole all'efficace risoluzione dei problemi inerenti all'alimentazione e al benessere;
    l'impatto sulle potenzialità turistiche di Milano, della Lombardia e del Paese sarà elevato sia nel breve periodo (ricettività dei visitatori), sia nel medio-lungo periodo, proprio grazie alla valorizzazione del patrimonio enogastronomico italiano, oltre che turistico per la visibilità e la promozione dei monumenti e dei paesaggi naturali;
    Milano e l'Italia rappresenteranno, in virtù di Expo, e in una sorta di continuità ideale con il tema prescelto, un polo di eccellenza per la food safety, la food security, nonché per le best practice della filiera agroalimentare;
    Expo può costituire realmente un'occasione preziosa per affrontare il vasto tema della nutrizione del pianeta e dei rapporti con i Paesi in via di sviluppo, rappresentando un momento di incontro tra Paesi, culture, addetti ai lavori dei sistemi agroalimentari, tecnici e scienziati di tutto il mondo;
    in occasione dell'Esposizione universale Expo Milano 2015 verrà siglato un patto sul cibo tra nazioni e cittadini, incentrato sulla prevenzione e sullo spreco di cibo e, in particolar modo, sull'educazione alimentare, con cui fronteggiare, da un lato, lo spreco e, dall'altro, impedire che diete non salutari distorcano le reali esigenze nutrizionali dell'organismo umano;
    tra gli obiettivi di Expo 2015 c’è, infatti, quello di mettere a punto la Carta di Milano che dovrà contenere i nuovi diritti e doveri dell'umanità sul cibo, affinché gli Stati ed i cittadini possano assumersi le proprie responsabilità per garantire il diritto ad un cibo sano, sicuro e sufficiente per tutti;
    la Carta di Milano può essere uno strumento in grado di offrire un'opportunità di riflessione sui temi dell'alimentazione e del cibo. Alla Carta di Milano hanno lavorato eminenti personalità del mondo della ricerca e dell'alimentazione e l'obiettivo deve essere quello di tradurre in concretezza il loro impegno, a livello del nostro Paese, ma anche nel quadro internazionale. Tutte le iniziative «di principio» hanno un significato indiscusso se vanno nella direzione auspicata del «patto per il cibo»: valorizzazione delle peculiarità dei territori, equa distribuzione delle risorse, risparmio per evitare lo spreco;
    anche l'industria agricola e agroalimentare, assieme ad una legittima propensione ad aumentare i consumi, deve basare la sua attività su un utilizzo razionale delle risorse. A questo scopo, i Paesi che aderiscono alla Carta di Milano devono impegnarsi alla definizione di un «protocollo» locale con le associazioni delle categorie interessate;
    Expo 2015 potrebbe, inoltre, essere un'importante occasione per sensibilizzare l'intero pianeta sull'impiego abominevole che alcune realtà locali fanno dei bambini nei Paesi caratterizzati da conflitti, approfittando spesso dello stato di indigenza nel quale vivono,

impegna il Governo:

   a promuovere il made in Italy, sia attraverso un modello innovativo di rete territoriale (dato che Expo è già oggi un metodo di lavoro fondato su progetti che mettono in dialogo le eccellenze italiane con i protagonisti della vita economica, sociale, culturale delle aree del mondo coinvolte), sia con un impegno forte e concreto, soprattutto in ambito europeo, per proteggere e valorizzare il made in attraverso norme chiare e adeguate, assumendo ogni iniziativa utile in tal senso anche in sede di definizione dei contenuti della Carta di Milano;
   a promuovere il modello Expo 2015 nella solidarietà e nella cooperazione internazionale, valorizzando i progetti di sviluppo avviati in tutti i continenti, con decine di accordi stretti con le maggiori organizzazioni internazionali, come Fao, ONU, Millennium campaign, World food programme;
   a promuovere, anche nell'ambito degli impegni che saranno previsti dalla Carta di Milano, migliori stili di vita con riferimento ai problemi dei Paesi sviluppati;
   ad adoperarsi, nell'ambito dei lavori concernenti l'elaborazione della Carta di Milano, affinché prosegua l'impegno nato con Expo Milano 2015 per il trasferimento tecnologico e di conoscenza ai Paesi in via di sviluppo con riferimento alle più recenti innovazioni, per garantire, a costi contenuti, un approvvigionamento più sicuro di cibo e acqua per la popolazione;
   a promuovere l'educazione alimentare, sollecitando educatori, famiglie e istituzioni a ricercare e mettere in pratica metodi didattici innovativi, e, soprattutto, a valorizzare le istituzioni scolastiche, quale luogo di formazione di base accessibile a tutti che promuova l'inserimento nell'offerta formativa di percorsi educativi sulla nutrizione, sulla sicurezza alimentare e sull'utilizzo delle risorse alimentari del pianeta, facendo sì che l'educazione sia la strada maestra per lo sviluppo e tenendo conto che le modalità concrete con le quali realizzare progetti educativi ai diversi livelli, anche dopo Expo, necessitano certamente di significative risorse umane e finanziarie, ma costituiscono un investimento fondamentale perché Expo 2015 lasci un'eredità tangibile non solo a Milano ma anche a tutto il mondo;
   a valorizzare Milano anche dopo Expo, con particolare riguardo al contributo della città al sistema agroalimentare italiano e a tutte le sue manifestazioni ed eccellenze, per garantire continuità al progetto e al tema di Expo e far emergere a livello internazionale una città aperta al mondo e nel mondo, in grado di vincere le sfide del futuro;
   a coinvolgere sempre più in tutti i progetti futuri le realtà produttive agricole, alimentari, distributive dell'intero territorio di una regione, la Lombardia, che è la prima in Italia e una delle maggiori in Europa come peso economico assoluto del sistema agroalimentare, che esprime livelli di produttività tra i più elevati in ambito internazionale, che è una delle culle della moderna industria alimentare e della moderna distribuzione, che rappresenta un esempio di complessa e corretta gestione delle acque per gli usi agricoli, civili ed industriali, che possiede un «capitale umano», università, centri di ricerca e imprese in grado di effettuare un efficace e corretto trasferimento tecnologico;
   in vista degli obiettivi della Carta di Milano, a promuovere una collaborazione con il mondo della ricerca, dell'industria agricola e agroalimentare per creare una precisa sensibilità sui temi del risparmio e dell'utilizzo razionale delle risorse alimentari, al fine di favorire non solo i cibi sani dei territori, ma anche la più accurata definizione dei format di vendita e l'utilizzo dei prodotti invenduti;
   a sostenere un impegno preciso all'interno delle Nazioni Unite e di tutte le organizzazioni internazionali affinché anche la Carta di Milano e i sei mesi di Expo diventino un'occasione planetaria per condannare lo sfruttamento che alcune realtà locali fanno dei minori in stato di indigenza.
(1-00779) «Gelmini, Palese, Occhiuto».
(8 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    l'Expo 2015 è un evento di eccezionale importanza in quanto mette in risalto l'alimentazione e il suo valore nonché una straordinaria occasione per il rilancio economico e turistico del nostro Paese. Il tema è «Nutrire il Pianeta, energia per la vita» interamente dedicato alle questioni relative alla qualità e alla sicurezza alimentare e alla distribuzione ottimale del cibo;
    questa Esposizione universale ha come obiettivo primario quello di stimolare il dibattito sull'alimentazione e sul cibo, una vera e propria sfida che coinvolge tutti i soggetti partecipanti, inclusi i visitatori che si interrogheranno sulle conseguenze delle proprie azioni per le prossime generazioni. Mette al centro la necessità di porre un freno allo spreco di cibo ed un uso più consapevole dello stesso, a partire dalle scuole, laddove si deve sviluppare il senso più profondo del valore legato alla nutrizione attraverso campagne di educazione;
    l'Expo 2015 dovrà essere un'utile occasione sia per il pubblico, perché li porterà a scoprire le diverse identità regionali esistenti svelando affinità e differenze, che per le aziende agricole per le quali l'esposizione sarà un'occasione unica di visibilità e darà la possibilità di far conoscere i loro prodotti di qualità;
    l'obiettivo principale di Expo 2015 è quello di mettere a punto una «Carta di Milano» che contenga i nuovi diritti e doveri dell'umanità sul cibo. Un documento condiviso da consegnare al Segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, ad ottobre 2015, alla fine dell'Esposizione. Il 7 febbraio 2015 a Milano si è tenuto un primo incontro di preparazione e la prima versione della Carta sugli impegni assunti sarà presentata il 28 aprile 2015;
    la Carta di Milano nasce sulla base del Protocollo di Milano, messo a punto dalla Fondazione Barilla Center for Food and Nutrition (Barilla CFN) con l'obiettivo di abbattere lo spreco alimentare nel mondo del 50 per cento entro il 2020. La Carta quale «eredità» di Expo 2015 sarà il documento sui cui i Paesi nelle loro diverse espressioni si impegneranno a promuovere la sostenibilità alimentare nel mondo;
    ma Expo 2015 deve essere soprattutto un evento in grado di rilanciare l'economia agricola italiana e promuovere l'immagine del made in Italy agroalimentare sui mercati internazionali;
    agli agricoltori che oggi soffrono della crisi, vessati da imposizioni fiscali pesantissime, come l'Imu sui terreni agricoli – imposizione modificata per coprire parte del bonus di 80 euro, riducendo l'esenzione previgente per un valore di circa 260 milioni di euro – e che fanno i conti con il latte a 35 centesimi al litro, con la vendita sottocosto dei suinetti, con listini del mais a 15 euro al quintale che li porta a non riuscire a pagare il gasolio per innaffiare – anche per l'aumento, operato dalla legge di stabilità 2015, dell'aliquota di riduzione dei consumi medi standardizzati di gasolio da ammettere all'impiego agevolato per uso agricolo – non si può rispondere solo con le attuali finalità della Carta di Milano, ovvero con un documento che ribadisce un concetto sacrosanto quanto ovvio cioè il valore universale dell'accesso al cibo; è necessario inserire in essa precisi impegni a tutela di quei prodotti che garantiscono qualità e sicurezza alimentare altrimenti questa, così come strutturata, rischia di risultare una risposta anacronistica e priva di significato;
    ogni anno nel mondo si sprecano 1,3 miliardi di tonnellate di cibo, una quantità capace di poter sfamare quasi un miliardo di persone che oggi soffrono la fame o sono malnutrite. Nell'ambito dello spreco alimentare va citato il fenomeno delle «eccedenze» ovvero di quei prodotti alimentari che non sono acquistati o consumati – esclusi gli scarti della lavorazione – che non vengono poi recuperati per il consumo umano in un'ottica sociale o ambientale; ad oggi solo una piccola parte dell'eccedenza viene destinata mediante la donazione a food bank o enti caritativi. Nella filiera agroalimentare la quantità delle eccedenze in Italia è pari a circa 6 milioni di tonnellate l'anno e rappresenta il 17,4 per cento dei consumi. Le cause sono differenti a seconda del soggetto della filiera; ad esempio, per le aziende di trasformazione la causa è da ricercarsi nel raggiungimento della data di scadenza interna degli alimenti;
    in un periodo in cui la crisi economica spinge molte famiglie a tagliare anche la spesa alimentare e in cui l'aumento a 9 miliardi della popolazione mondiale, previsto per il 2050, porterà ad aumentare del 70 per cento la produzione agricola, nel mondo vengono comunque gettati nella spazzatura più di un terzo degli alimenti;
    molti dei prodotti alimentari destinati alle mense scolastiche non sono ottenuti da materie prime originarie dei territori in cui sono consumati, né sono riferibili alle tradizioni alimentari dei territori medesimi. È necessario assicurare una dieta equilibrata e corretta che educhi i bambini a mangiare secondo la stagionalità e la territorialità dei prodotti e sostenere le filiere locali tenendo sempre presente però le necessità di salute, di religione o esigenze particolari;
    il consumo di prodotti alimentari di qualità (dop-denominazione di origina protetta e igp-indicazione geografica protetta, attestazioni di specificità e prodotti biologici) e, più, in genere, di prodotti tipici e di territorio è riconosciuto come funzionale al mantenimento di un buon stato di salute ed è, pertanto, particolarmente indicato per i bambini, ai fini, di una corretta educazione alimentare. Il nostro Paese in Europa è quello con più prodotti a denominazione di origine protetta, a indicazione geografica protetta e di specialità tradizionale garantita (stg) con 268 prodotti iscritti nel registro dell'Unione europea che rappresentano circa un quarto delle denominazioni riconosciute a livello comunitario;
    il consumo di prodotti tipici e di qualità concorre altresì al mantenimento di forme di agricoltura ancorate al territorio e, quindi, anche alla tutela e allo sviluppo dei valori economici, sociali e culturali che sono propri dei territori di cui gli stessi prodotti sono espressione;
    così si rilancerebbe la filiera corta di produzione creando una relazione diretta tra il produttore e il consumatore che significa prima di tutto prodotti sempre freschi, genuini e di maggiore qualità, con dei costi molto contenuti e con un'attenzione anche all'ambiente. Essendo prodotti provenienti dal territorio le merci compiono meno passaggi, non devono essere imballate più volte; inoltre, vengono ridotte al minimo le emissioni di anidride carbonica derivate dal trasporto e si incentiverebbe anche la conoscenza dei prodotti tipici locali all'interno delle scuole, prodotti apprezzati e invidiati in tutto il mondo;
    Expo 2015 sarà un'occasione per mettere al centro dell'attenzione internazionale il grande tema dell'agricoltura e dell'alimentazione e della tutela del cibo dalle sofisticazioni. Le frodi e le contraffazioni nel settore agricolo e agroalimentare rappresentano un fenomeno preoccupante e, nonostante l'intensificarsi dei controlli, continuano a svilupparsi in maniera crescente e fanno perdere risorse al nostro Paese, risorse che creano indispensabili rapporti commerciali che sono fondamentali per l'economia del territorio;
    la contraffazione alimentare in Italia vale un miliardo di euro che sale a 60 se si considera il fenomeno dell’italian sounding nel mondo. La frode alimentare è un crimine particolarmente odioso perché si fonda soprattutto sull'inganno nei confronti di quanti, per la ridotta capacità di spesa, sono stati costretti a tagliare la spesa alimentare e ad optare per alimenti economici con prezzi troppo bassi per essere prodotti autentici, con conseguenze economiche e sanitarie di rilievo per i consumatori e per i produttori;
    la contraffazione e la falsificazione dei prodotti alimentari italian sounding a livello internazionale costa all'Italia 300mila posti di lavoro che si potrebbero creare nel Paese con un'azione di contrasto a livello nazionale ed internazionale. All'estero il vero nemico sono le imitazioni low cost dei cibi nazionali che non hanno alcun legame con il sistema produttivo del Paese. Due prodotti alimentari di tipo italiano su tre in vendita sul mercato internazionale sono il risultato dell'agropirateria internazionale;
    in sede di Unione europea il quadro normativo sul riconoscimento delle denominazioni e per la loro tutela è stato istituito, e aggiornato, da molti anni quindi i prodotti a denominazione di origine protetta e a indicazione geografica protetta sono riconosciuti e tutelati, mentre in ambito internazionale si rilevano l'assenza di regole multilaterali per una loro tutela globale contro l'agropirateria e la mancanza di una disciplina uniforme nel sistema commerciale;
    la trattativa sull'accordo di libero scambio tra Unione Europea e Stati Uniti, Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) è un appuntamento determinante anche per tutelare le produzioni agro-alimentari italiane dalla contraffazione alimentare e dal cosiddetto fenomeno dell’italian sounding molto diffuso sul mercato statunitense;
    la direttiva (UE) 2015/412 del Parlamento europeo e del Consiglio dell'11 marzo 2015 lascia la possibilità per gli Stati membri di limitare o vietare la coltivazione di organismi geneticamente modificati sul proprio territorio. Quindi Paesi come il nostro, che hanno scelto di vietare gli organismi geneticamente modificati, possono continuare a farlo e lo chiedono anche quasi 8 cittadini su 10 (76 per cento) che si oppongono al biotech nei campi;
    il modello della coltivazione di organismi geneticamente modificati è del tutto contrario e controproducente per gli interessi del settore agroalimentare del nostro Paese, che si basa sulla tipicità e sulla qualità. Per l'Italia, gli organismi geneticamente modificati in agricoltura non pongono solo seri problemi di sicurezza ambientale, ma soprattutto perseguono un modello di sviluppo che è il grande alleato dell'omologazione e il grande nemico del made in Italy;
    il regolamento (UE) n. 1169/2011 – entrato in vigore il 13 dicembre 2014 – in tema di etichetta prevede che non sia più obbligatoria l'indicazione in etichetta dello stabilimento di produzione e confezionamento dei prodotti alimentari. La non obbligatorietà dell'indicazione dello stabilimento di produzione comporta un grave danno al made in Italy in quanto si rischia di lasciare la libertà al produttore di produrre in qualunque sede europea o extra europea danneggiando ulteriormente le migliori produzioni nazionali;
    l'agricoltura ha un ruolo fondamentale nella tutela dell'ambiente e nello sviluppo sostenibile del territorio. L'azienda agricola deve non solo offrire al consumatore la qualità e la sicurezza dei prodotti agroalimentari ma anche conservare il più possibile il livello qualitativo e quantitativo delle risorse naturali;
    Expo 2015 sarà un evento dove l'agricoltura, il cibo e l'alimentazione giocheranno un ruolo da protagonista. Con Expo si avrà la possibilità di incidere sulle politiche dell'agroalimentare e del territorio con una modalità mai vista prima e per il nostro Paese sarà un'occasione unica per affrontare i problemi legati alla filiera agricola e mettere in risalto le qualità e il valore delle produzioni enogastronomiche del territorio italiano;
    o si entra realmente nel merito dei problemi o si rischia di farsi sfuggire un'occasione importante come Expo 2015 senza riuscire a valorizzare davvero la qualità dei prodotti italiani. Non basta un impegno formale come la Carta di Milano ma devono mettersi in campo riforme strutturali di aiuto all'agricoltura,

impegna il Governo:

   ad approfittare di Expo 2015 affinché i consumatori siano sensibilizzati ed educati, per l'approvvigionamento dei generi alimentari, ad acquistare prodotti provenienti dal territorio dalla provincia, dalla regione e dall'Italia, da reperire, principalmente, attraverso modalità finalizzate a favorire l'avvicinamento tra la fase produttiva agricola e quella di consumo;
   a prevedere condizioni adeguate, data l'importanza che riveste Expo 2015, affinché i produttori italiani di filiera corta siano in grado di presentarsi nel modo migliore al pubblico internazionale e dare, quindi, l'occasione alle qualità italiane di arrivare sui mercati esteri;
   a far sì che la Carta di Milano non sia solo un documento pomposo e vuoto e, quindi, che non abbia come unico intendimento quello di educare le generazioni future ad una corretta cultura alimentare e di prevenire lo spreco di cibo ed offrire suggerimenti su come ridurlo, ma che contenga anche proposte concrete ai problemi dell'agricoltura, in quanto essa svolge una funzione fondamentale di tutela dell'ambiente e di sviluppo sostenibile del territorio;
   a mettere in evidenza nella Carta di Milano l'ingente danno causato all'economia italiana dai falsi prodotti, nonché le scelte che possano valorizzare davvero il made in Italy affinché Expo sia un'importante occasione per indicare impegni precisi da parte dei Paesi partecipanti atti a contrastare il dilagante fenomeno della contraffazione e delle sofisticazioni in campo agroalimentare;
   a prevedere iniziative per favorire lo sviluppo di accordi bilaterali tra Unione europea e altri Paesi partner per il mutuo riconoscimento delle norme sulle indicazioni di origine e sfruttare in ambito WTO la tutela delle indicazioni di origine contro ogni forma di usurpazione e imitazione, contrastando il cosiddetto italian sounding;
   a promuovere, in sede europea, norme che estendano, di fatto, a tutti i Paesi extra Unione europea le tutele del mercato interno comunitario affinché ai prodotti a denominazione di origine protetta e a indicazione geografica protetta, in particolare italiani, venga garantita la protezione che meritano al fine di proteggerli anche in ambito internazionale;
   ad intervenire nelle opportune sedi europee affinché le denominazioni di origine protetta e a indicazione geografica protetta, in particolare dei prodotti italiani di eccellenza, continuino ad essere una priorità della Commissione europea non solo nell'ambito del TTIP tra Usa e Unione europea;
   a considerare la possibilità di reintrodurre il vincolo per le aziende produttrici di scrivere sulle etichette lo stabilimento di produzione e di confezionamento dei prodotti alimentari allo scopo non solo di tutelare la salute e la sicurezza alimentare dei consumatori ma anche di permettere loro di scegliere un alimento rispetto a un altro, anche in base al Paese o alla regione dove questo è prodotto, per la tutela anche del made in Italy;
   ad assumere iniziative per prevedere il divieto dell'uso di organismi geneticamente modificati nelle produzioni agroalimentari e forestali in campo aperto, poiché il valore aggiunto delle produzioni italiane è dato dalla loro specificità ed una contaminazione di organismi geneticamente modificati porterebbe alla distruzione del sistema agroalimentare italiano così come lo si conosce oggi, con le sue eccellenze, le sue varietà e le sue tipicità.
(1-00780) «Guidesi, Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Busin, Caparini, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Rondini, Saltamartini, Simonetti».
(8 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    Expo è un evento di eccezionale importanza ed una straordinaria occasione per il rilancio economico e turistico del nostro Paese. Il tema scelto per l'Expo 2015 è «Nutrire il pianeta, energia per la vita» e riguarda, tra l'altro, le risorse alimentari del pianeta e la loro distribuzione ottimale;
    l'Esposizione universale, quindi, ha come obiettivo primario quello di stimolare una riflessione ed un dibattito sull'alimentazione e sul cibo;
    in questo contesto sono numerosi e fondamentali gli argomenti che verranno dibattuti al fine di ricercare ed identificare le basi essenziali per un nuovo approccio mondiale al tema proposto dall'Expo;
    tra le questioni più importanti che verranno dibattute vanno poste in evidenza: la necessità di preservare e conservare i terreni di coltivazione, assicurando anche spazi spesso oggetto di accaparramento; la limitazione ed il superamento dell'uso di pesticidi e di fertilizzanti pericolosi per la salute dell'uomo; la difesa e la protezione del bene supremo essenziale per la vita umana: l'acqua; il sostegno e l'aiuto concreto a quanti intendono dedicarsi alle attività agricole nel momento in cui si avverte forte l'orientamento del ritorno alla terra che molti giovani, per scelta o per necessità, manifestano; la difesa delle biodiversità anche attraverso il ricorso a specifici studi e ricerche scientifiche; il sostegno forte e determinato alla ricerca nel campo del consumo del suolo, delle biotecnologie, della pesca sostenibile ed altro; l'impegno a tutto campo per combattere le frodi alimentari e le contraffazioni, l'agromafia, a difesa del bene supremo costituito dalla sicurezza alimentare;
    in questo quadro si iscrive un originale, significativo progetto dell'Expo, il «We-women for Expo», che propone la forza, la capacità, l'intelligenza, la volontà delle donne come elemento base e fulcro essenziale nel rapporto cibo-cultura e per la sostenibilità del pianeta;
    in occasione dell'Expo 2015, ci sarà un confronto tra ricercatori, docenti e istituzioni su alcuni punti cruciali della sfida alimentare globale: un dibattito che perverrà alla redazione della Carta di Milano, un documento dedicato alla grande questione alimentare globale che sarà consegnata al Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon il 16 ottobre 2015;
    sarà la prima volta nella storia delle Esposizioni universali che, ad evento concluso, un Expo lascerà in eredità un manifesto di impegni e priorità frutto di un percorso condiviso e partecipato. Infatti, da circa due anni un gruppo di docenti e ricercatori coordinati da Laboratorio Expo sta lavorando alla stesura di un documento;
    una prima versione ufficiale della Carta sarà presentata il 28 aprile 2015 in occasione del terzo colloquio internazionale di Laboratorio Expo; l'ambizione della Carta di Milano è, in effetti, quella di chiedere espressamente un'assunzione di responsabilità da parte di tutti nella battaglia per il diritto al cibo e contro le diseguaglianze alimentari;
    la Carta si propone l'obiettivo di unire cittadini ed istituzioni per trovare soluzioni concrete contro i paradossi dell'alimentazione. Promosso nel 2013, il protocollo di Milano si è avvalso del parere di 500 esperti internazionali, ha raccolto l'adesione di quasi 100 istituzioni e organizzazioni pubbliche e private ed ha l'obiettivo di trovare soluzioni concrete per:
    a) combattere lo spreco alimentare dal campo alla tavola;
    b) lottare contro la fame e l'obesità, promuovendo stili di vita sani a partire dalla giovane età;
    c) incoraggiare un'agricoltura più sostenibile;
    come evidenziato dal protocollo, il sistema alimentare mondiale è segnato da forti contraddizioni: a fronte di quasi un miliardo di soggetti privi di una qualsiasi fonte di alimentazione, circa un miliardo e mezzo di esseri umani dispone di un'eccessiva quantità di cibo responsabile, peraltro, dell'aumento del rischio di malattie. Infine, ogni anno, viene disperso un terzo della produzione alimentare globale, una quantità che sarebbe sufficiente a nutrire quasi un miliardo di persone che non dispongono di fonti alimentari o sono malnutrite;
    su quest'ultimo punto insiste la necessità di sostenere un principio essenziale: l'eliminazione degli sprechi ed il sostegno al consumo responsabile, incrementando e favorendo, in tale contesto, l'impegno meritorio delle associazioni che operano basandosi sul concetto di dono e condivisione, ormai diffuse e solidamente insediate in Europa e negli Stati Uniti; in particolare, nel nostro Paese, opera alacremente e costituisce un esempio significativo il Banco alimentare, che si occupa anche della raccolta delle eccedenze agroalimentari, effettuando la redistribuzione di tali beni ad enti, associazioni, centri – sovente collegati e creati da istituzioni – e favorendo specifiche iniziative di sensibilizzazione;
    nel protocollo di Milano sono elencate misure concrete per abbattere del 50 per cento entro il 2020 lo spreco alimentare nel mondo, lottare contro la fame e l'obesità, promuovere stili di vita sani a partire dalla giovane età, incoraggiare un'agricoltura più sostenibile, opponendosi alla speculazione finanziaria sulle materie prime alimentari;
    questo protocollo sull'alimentazione sarà, come detto, il primo passo verso quell'importante documento che nascerà dall'evento Expo, ovvero la Carta di Milano;
    la Carta di Milano, pertanto, costituirà una proposta di accordo mondiale per garantire cibo sano, sicuro, sufficiente per tutti e, al contempo, dovrà delineare l'agenda per uno sviluppo equo e sostenibile. Non costituirà, quindi, soltanto una generica dichiarazione di intenti, ma una reale assunzione di responsabilità e di impegni altrettanto concreti rivolti a cittadini, istituzioni, associazioni ed imprese;
    la Carta conterrà gli obiettivi che le Nazioni Unite dovranno perseguire come impegni prioritari: promuovendo, pertanto, la Carta di Milano, il Governo italiano vuole garantire azioni mirate dirette a combattere lo spreco di cibo, favorire l'agricoltura sostenibile e contrastare fame e obesità;
    la Carta affronterà anche alcune priorità, come quelle relative all'innovazione dei processi produttivi, agricoli e alimentari per renderli sempre più sostenibili, quelle relative alle grandi contraddizioni del nostro tempo ovvero il paradosso fame/obesità e quelle concernenti la lotta allo spreco alimentare: in un quadro, peraltro, di evidenti criticità e comprensibili dubbi che non riguardano tanto lo spirito dell'iniziativa, quanto, piuttosto, la possibilità stessa di pervenire a risultati concreti;
    il problema dello «spreco alimentare» riguarda, infatti, una fetta importante dell'intero pianeta. In Italia, ad esempio, esso ammonta, annualmente, a 6,5 milioni di tonnellate, pari a 108 chilogrammi pro capite: una cifra inferiore rispetto alla media europea, ma pur sempre rilevante. Lo spreco alimentare rappresenta lo 0,23 per cento del prodotto interno lordo italiano, per un valore complessivo di 3,5 milioni di euro e con un costo medio per ogni famiglia di 1.693 euro l'anno;
    la Carta avrà tre sezioni: la prima parte sarà un manifesto riassuntivo dei principi e degli obiettivi; la parte centrale sarà dedicata ai diritti ed agli impegni di tutti i soggetti coinvolti; l'ultima parte raccoglierà tutti i documenti elaborati sui temi della sostenibilità e dell'alimentazione;
    occorre, inoltre, sottolineare come oggi, stante la grave crisi economico-sociale che ha colpito il nostro Paese, molti giovani intraprendano le professioni agricole: fenomeno quest'ultimo che porta nuove competenze al mondo agricolo e che, pertanto, va seguito con attenzione per garantire un futuro ai giovani e per sviluppare un'agricoltura di qualità;
    in questo quadro sarebbe importante prevedere, anche attraverso un eventuale impegno straordinario, la possibilità di escludere dal regime previsto dalla normativa in materia di imu i terreni utilizzati per colture agricole;
    va, inoltre, considerato come il fenomeno dell'agrimafia, che va combattuto e contrastato con tutti i mezzi, risulti in evidente espansione (si pensa, infatti, che fatturi circa 14 miliardi di euro) ed offra alla criminalità organizzata la possibilità di riciclare i propri proventi;
    in tale contesto appare opportuno che, nel quadro di un impegno reale di ogni Paese sul tema, venga implementata e rafforzata la lotta alla contraffazione. Un fenomeno nel quale spicca, sopra tutti, quello che viene comunemente definito italian sounding: l'utilizzo, cioè, di immagini, marchi, denominazioni che illudono i consumatori sulla provenienza italiana di un prodotto, che, al contrario, non ha nulla a che fare con il nostro Paese. Ed è evidente che il fenomeno riguardi particolarmente l'Italia, che dispone di un patrimonio agroalimentare unico al mondo sia sotto il profilo della varietà che della qualità: un fenomeno che arreca al nostro Paese un danno che si aggira sui sessanta miliardi di euro; motivo per cui, insieme alla volontà di firmare insieme un documento, deve diventare operativa e concreta la volontà dei vari Paesi di tutelare il made in Italy in un rapporto di garanzie e di reciprocità sempre più forte e consapevole;
    inoltre, dovrà essere sviluppato il dibattito con proposte dirette a ridurre il consumo d'acqua potabile negli alimenti, proprio per la scarsità d'acqua che oggi colpisce circa 1,2 miliardi di persone in ogni continente: ridurre, pertanto, il consumo d'acqua per gli alimenti diventa un elemento strategico,

impegna il Governo:

   a contribuire, sul piano tecnico e scientifico, ad individuare interventi e buone pratiche da tradurre in politiche pubbliche, al fine di realizzare sistemi alimentari sostenibili, costituiti da un ambiente adeguato e dall'impegno delle persone e delle istituzioni, supportato dai processi attraverso i quali le derrate agricole vengono prodotte, trasformate e portate ai consumatori;
   a contrastare, anche in sede di definizione dei contenuti della Carta di Milano, lo spreco di prodotti alimentari nella filiera alimentare, coinvolgendo, in questo tipo di impegno, anche le scuole e mettendo in campo, attraverso dedicate campagne pubblicitarie, forti iniziative di sensibilizzazione che debbono vedere in prima linea il Governo;
   a coinvolgere i cittadini in una più consapevole attenzione ai modelli nutrizionali, adoperandosi affinché, anche alla luce degli obiettivi della Carta di Milano, possa essere sviluppata un'incisiva educazione nei confronti dei consumatori in modo che aumenti sensibilmente la coscienza individuale e collettiva in relazione al valore primario del cibo; a favorire l'orientamento a modelli nutrizionali più sani attraverso il potenziamento della ricerca scientifica e tecnologica e la predisposizione di una campagna di comunicazione e di informazione ai cittadini al fine di adottare stili di vita sani;
   a promuovere, come obiettivo principale di Expo 2015, quello di affermare il primato dell'agroalimentare e della sicurezza dei prodotti made in Italy nei confronti dell'Unione europea;
   a prevedere misure emergenziali per tutelare il settore lattiero, un'eccellenza ed un patrimonio del nostro Paese che va assolutamente difeso;
   a prevedere misure concrete ed efficaci per la tutela del settore ortofrutticolo, oggi gravemente penalizzato da problematiche interne ed internazionali, che ne limitano lo sviluppo e la diffusione e ne compromettono il futuro;
   ad assumere iniziative per introdurre, nel rispetto dei vincoli di bilancio, misure agevolative per i giovani agricoltori, che, come detto in premessa, costituiscono un punto di riferimento importante per la crescita del settore agricolo e del Paese;
   a contrastare con misure adeguate il fenomeno dell'agrimafia, un pericoloso fenomeno che si sta diffondendo sempre di più nel nostro Paese;
   ad intervenire concretamente contro il consumo del suolo quale bene comune e risorsa fondamentale, soprattutto in funzione della prevenzione e della mitigazione degli eventi di dissesto idrogeologico;
   nella piena consapevolezza che la Carta di Milano non può, da sola, risolvere le questioni più gravi ed urgenti del settore, a vigilare perché la medesima non risulti un significativo ma inutile manifesto, ma costituisca un approccio concreto e realistico alle questioni che intende affrontare.
(1-00782) «De Girolamo, Dorina Bianchi, Vignali, Alli».
(8 aprile 2015)

MOZIONI CONCERNENTI LA REALIZZAZIONE DEL CORRIDOIO DI VIABILITÀ AUTOSTRADALE DORSALE CIVITAVECCHIA-ORTE-MESTRE

   La Camera,
   premesso che:
    nel corso della seduta dell'8 novembre 2013, il Comitato interministeriale per la programmazione economica – Cipe – ha approvato, con prescrizioni, il progetto preliminare del corridoio di viabilità autostradale dorsale Civitavecchia-Orte-Mestre, relativo alla tratta E45-E55 Orte-Mestre;
    tale opera è ricompresa nell'elenco delle infrastrutture strategiche di cui alla delibera Cipe del 21 dicembre 2001, n. 121, in conformità a quanto previsto dalla «legge obiettivo» (legge n. 443 del 2001), e automaticamente inserita nel piano generale dei trasporti e della logistica (PGTL) approvato con il decreto del Presidente della Repubblica 14 marzo del 2001;
    come noto, il soggetto promotore del progetto autostradale risulta essere, insieme ad Anas spa, una cordata di imprese e di banche, capeggiata dalla società Gefip Holding, di proprietà dell'ex europarlamentare Vito Bonsignore, e formata da Banca Carige spa, Efibanca spa, Egis Projects sa, Ili Autostrada spa MEC S.r.L., Scetaroute sa, Technip Italy spa e Transroute International sa;
    l'autostrada Orte-Mestre costituisce una delle opere più grandi e impattanti previste nella «legge obiettivo»: copre una tratta di circa 396 chilometri, attraverso cinque regioni (Lazio, Umbria, Toscana, Emilia Romagna e Veneto), 11 province e 48 comuni e necessita di 139 chilometri di ponti e viadotti, 64 chilometri di gallerie, 20 cavalcavia, 226 sottovia, 83 svincoli, 2 barriere di esazione e 15 aree di servizio;
    il progetto prevede la realizzazione ex novo di un'autostrada a quattro corsie nel tratto Ravenna-Mestre e l'adeguamento con varianti della superstrada E-45;
    l'investimento complessivo previsto per la realizzazione dell'opera è stimato in quasi 10 miliardi di euro, circa 2 miliardi e 600 milioni di euro in più di quelli inizialmente preventivati dal Cipe;
    tale infrastruttura, che presenta un prospetto finanziario a lunghissimo termine, sarà affidata in concessione per 50 anni e verrà realizzata integralmente in regime di project financing; la società che si aggiudicherà l'appalto e la concessione dell'opera potrà inoltre beneficiare dell'applicazione della normativa per la defiscalizzazione delle opere di project financing, ai sensi della legge n. 183 del 2011, con un credito di imposta, quantificabile in circa 2 miliardi di euro, riconosciuto su Ires, Irap e Iva e valido per 15-20 anni;
    i rimanenti 8 miliardi di euro necessari per realizzare l'opera dovrebbero essere anticipati dalla stessa società privata utilizzando il sistema di project financing e di project bond, fatto salvo il sostegno pubblico, qualora le condizioni pattuite in sede di convenzione sulla base del piano economico e finanziario dovessero venire meno (ad esempio, livelli di traffico insufficienti);
    la realizzazione dell'infrastruttura in regime di project financing comporterà inevitabilmente l'introduzione di un pedaggio dell'arteria, considerata la natura dell'investimento da parte dei privati e considerate le modalità scelte per il ritorno del sopradetto investimento;
    il tracciato della nuova autostrada interferisce con importanti zone di interesse storico, paesaggistico ed ambientale come, ad esempio, il parco delle foreste casentinesi, la valle del Tevere, il delta del Po, le valli del Mezzano, la laguna di Venezia, la zona archeologica nei dintorni di Lova e la riviera del Brenta;
    solo nel tratto emiliano-veneto il consumo del suolo sarebbe stimato in 3.300.000 metri quadrati di terreno, per la quasi totalità agricolo, ed il tracciato autostradale andrebbe ad interessare 11.000 ettari di siti di interesse comunitario (Sic), 5800 zone a protezione speciale (Zps) e 8300 ettari di parchi regionali;
    come confermato dalla Commissione europea, il corridoio autostradale Civitavecchia-Orte-Mestre non è ricompreso tra i corridoi infrastrutturali e intermodali considerati strategici per lo sviluppo delle vie di comunicazione in Europa ed è considerato solo come intervento secondario complementare allo sviluppo delle reti Ten-T;
    la strada statale 309 Romea, la cui gestione è in capo alla società ANAS spa, è stata classificata, come riportato dai rilevamenti statistici dell'Aci e dell'Istat, come una delle strade più pericolose d'Italia, secondo i parametri relativi al numero di incidenti stradali per chilometro e al numero di decessi per incidente;
    Governo, regione Veneto e ANAS spa demandano la risoluzione del problema legato all'insicurezza dell'arteria strada statale 309 alla realizzazione della nuova autostrada Orte-Mestre, parallela all'attuale Romea commerciale, ma il progetto preliminare approvato dal Cipe non contiene alcun provvedimento significativo diretto alla riqualificazione e messa in sicurezza della strada statale 309 Romea;
    inoltre, gli attuali flussi di traffico e le stime di quelli futuri che interesseranno la nuova autostrada Orte-Mestre non giustificano assolutamente la costruzione di una nuova tratta autostradale di questa portata: stando a quanto riportato da associazioni e comitati, i dati del traffico commerciale che interessa la Romea sarebbero infatti crollati dal 2008 del circa 30 per cento;
    la strada statale 309 Romea registrerebbe attualmente livelli di traffico bassissimi (circa 15-18 mila veicoli al giorno), inferiori a quelli della strada regionale 11 Brentana e quindi considerati tali da non poter giustificare la costruzione di un nuovo tracciato autostradale di circa 400 chilometri le cui previsioni dei flussi di traffico sarebbero, alla luce di questi dati, inattendibili e sovrastimati,

impegna il Governo:

   a fronte delle gravi ripercussioni che la realizzazione della nuova autostrada comporterebbe in termini di consumo di suolo, aumento dell'inquinamento atmosferico ed acustico, aumento del rischio idrogeologico, danni al settore agricolo e turistico, e dell'insussistenza di stime di traffico utili a giustificarla, ad assumere iniziative per il ritiro del progetto preliminare del corridoio di viabilità autostradale dorsale Civitavecchia-Orte-Mestre-Tratta E45-E55 (Orte-Mestre);
   ad assumere iniziative per avviare, in tempi rapidi, un programma di interventi urgente per la messa in sicurezza del tracciato dell'attuale strada statale 309 Romea e della superstrada E-45 finalizzato alla riqualificazione e al potenziamento delle infrastrutture esistenti, al fine di migliorare la viabilità e la sicurezza su queste arterie;
   ad aprire un tavolo di confronto, con le associazioni, i comitati, tutte le amministrazioni locali interessate dal tracciato e le associazioni di categoria, al fine di raccogliere debitamente le loro istanze ed individuare alternative più sostenibili dal punto di vista ambientale, economiche ed efficaci rispetto alla realizzazione della nuova autostrada, sia sul breve che sul medio-lungo periodo.
(1-00531) (Nuova formulazione) «Spessotto, Vignaroli, Colonnese, Nesci, Cozzolino, Lorefice, Silvia Giordano, Dall'Osso, Dadone, Castelli, Dieni, Grande, Di Battista, Manlio Di Stefano, Sibilia, Di Benedetto, Brescia, Nicola Bianchi, Paolo Nicolò Romano, Liuzzi, Dell'Orco, Brugnerotto, Mannino, Terzoni, Segoni, Daga, Busto, De Rosa, Zolezzi, D'Uva, Artini, Frusone, Corda, Basilio, Alberti, Pesco, Cancelleri, Villarosa, D'Incà, Businarolo, D'Ambrosio, Colletti, Baldassarre, Chimienti, Cominardi, Bechis, Tripiedi, Ciprini, Rizzetto, Da Villa, Gallinella, Lupo, Benedetti, Mucci, Gagnarli».
(9 luglio 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    l'autostrada Orte-Mestre rappresenta una delle opere più grandi, impattanti e costose tra quelle inserite nell'elenco delle infrastrutture strategiche previste dalla delibera del Comitato interministeriale della programmazione economica (Cipe) 21 dicembre 2001, n. 121, in virtù di quanto previsto dalla «legge obiettivo» (legge n. 443 del 2001);
    il progetto preliminare dell'opera, approvato dal Cipe l'8 novembre 2013, prevede l'adeguamento della superstrada E-45 nel tratto Orte-Ravenna (allargamento della sede stradale e varianti) e la realizzazione di un tracciato ex novo nel tratto Ravenna-Mestre. La Orte-Mestre, quindi, integrata con il collegamento Civitavecchia-Orte e con il quadrilatero umbro (nodo di Perugia) andrebbe a costituire un corridoio autostradale tra Civitavecchia e Mestre di ben 396 chilometri complessivi, con 20 cavalcavia, 226 sottovie, 139 chilometri di ponti e viadotti, 64 chilometri di gallerie, 83 nuovi svincoli, 2 barriere di esazione (Lughetto, Orte) e 16 aree di servizio;
    si tratta, con tutta evidenza, di un'opera faraonica che coprirebbe con la sua tratta ben cinque regioni (e segnatamente il Lazio, la Toscana, l'Umbria, l'Emilia-Romagna e il Veneto), undici province e quarantotto comuni;
    il gruppo parlamentare Sinistra Ecologia Libertà, da sempre contrario alla realizzazione dell'opera, come pure numerose organizzazioni e associazioni di rilievo nazionale, quali Rete nazionale stop Orte-Mestre, Wwf, Legambiente, Italia nostra, Mountain wilderness e Pro natura, ha spesso evidenziato in sede parlamentare che la realizzazione dell'autostrada Orte-Mestre, oltre ad essere completamente inutile e priva di qualsiasi valenza strategica in quanto non ricompresa tra le priorità della rete europea Ten-t, produrrebbe un elevatissimo impatto ambientale in termini di: consumo di suolo diretto e indotto, interferenze con moltissimi siti di importanza comunitaria (sic), zone di protezione speciale (zps), important bird areas (iba), interferenze con importanti zone tutelate (Riviera del Brenta, Laguna di Venezia, delta del Po, Valli del Mezzano, Valle del Tevere, Parco delle foreste casentinesi), danni al paesaggio e al patrimonio storico-archeologico, inquinamento atmosferico e acustico e aumento del rischio idrogeologico;
    la nuova autostrada tra Orte-Mestre rappresenterebbe, peraltro, un doppione dell'autostrada A1 e della A14-A13, senza contare che il flusso di traffico totale attuale e di previsione si attesta su livelli molto modesti ed il progetto non prevede alcun intervento concreto per la messa in sicurezza della strada statale n. 309 Romea;
    il costo preventivato dell'opera è di circa 10 miliardi di euro, di cui attualmente 1,8 miliardi di euro di contributo pubblico indiretto in termini di sgravi fiscali; la rimanente quota dovrebbe essere a carico del proponente (che risulta essere, insieme ad Anas s.p.a., una cordata di imprese e banche, capeggiata dalla società Gefip holding, di proprietà dell'ex parlamentare europeo Vito Bonsignore, e formata da Banca Carige s.p.a., Efibanca s.p.a., Egis projects s.a., Ili autostrada s.p.a., Mec s.r.l., Scetaroute s.a., Technip Italy s.p.a. e Transroute international s.a.) attraverso gli strumenti del project financing e del project bond, a fronte di una concessione della durata di ben 49 anni. Essendo però il flusso di traffico stimato molto scarso, è prevedibile che il gettito dei pedaggi non sarà sufficiente a coprire il debito generato;
    i recenti scandali relativi al Mosa, Expo e alta velocità hanno messo chiaramente in evidenza come l'attuale sistema delle «grandi opere» sia particolarmente soggetto a fenomeni di malaffare e corruzione;
    con particolare riferimento all'autostrada Orte-Mestre, numerosissimi articoli di stampa nazionale e locale, con la pubblicazione di alcune intercettazioni agli atti della procura di Firenze, hanno rivelato come nell'ambito del decreto-legge cosiddetto «sblocca Italia» sarebbe stata volutamente introdotta una disposizione speciale (segnatamente il comma 4 dell'articolo 2 del decreto-legge n. 133 del 2014) per garantire – attraverso il meccanismo della defiscalizzazione – il finanziamento pubblico indiretto dell'infrastruttura per quasi due miliardi di euro, superando così i rilievi della deliberazione n. SCCLEG/16/2014/ PREV della Corte dei conti con cui erano stati ricusati il visto e la registrazione della delibera n. 73 dell'8 novembre 2013, avente ad oggetto l'approvazione del progetto preliminare del collegamento autostradale E45-E55 Orte-Mestre;
    secondo quanto riportato dalla stampa nazionale di questi ultimi giorni il Governo si appresterebbe ad escludere l'autostrada Orte-Mestre dalle opere prioritarie dell'allegato infrastrutture al documento di economia e finanza che sarà presentato nell'ambito del prossimo Consiglio dei ministri, ma questo non significa tecnicamente che l'opera non sarà mai finanziata e realizzata, stante la vigenza del citato comma 4 dell'articolo 2 decreto-legge n. 133 del 2014 che viene incontro proprio alle richieste della Corte dei conti contenute nella delibera dell'8 novembre 2013;
    con tale delibera, infatti, la magistratura contabile aveva eccepito l'assenza di una norma che escludesse l'opera dall'ambito di applicazione dell'articolo 19, comma 2, del decreto-legge n. 69 del 2013, ossia consentisse di estendere a tale opera le disposizioni introdotte dal comma 1 del citato articolo 19, considerato che l'opera in questione è stata dichiarata di pubblico interesse il 9 dicembre 2003 e, quindi, ben prima dell'entrata in vigore del decreto-legge n. 69 del 2013. In particolare, la mancanza della norma era stata considerata «presupposto imprescindibile ai fini della pubblicazione del bando di gara» e relativamente al collegamento Orte-Mestre, le misure di defiscalizzazione – secondo quanto si evince dalla deliberazione della Corte dei conti – ammonterebbero a circa 9.237 milioni, da intendere come limite massimo riconoscibile che non potrà essere superato durante l'intera concessione;
    successivamente all'entrata in vigore del decreto-legge n. 133 del 2014, proprio in virtù della disposizione contenuta nel comma 4 dell'articolo 2 prima citato, il Cipe, nella seduta del 10 novembre 2014, ha approvato nuovamente la delibera del 18 novembre 2013 sull'autostrada Orte-Mestre,

impegna il Governo:

   ad adottare, alla luce di quanto precede, ogni iniziativa normativa finalizzata a prevedere l'immediata abrogazione del comma 4 dell'articolo 2 del decreto legge n. 133 del 2014, cosiddetto «sblocca Italia», procedendo, altresì, al ritiro del progetto preliminare del corridoio di viabilità autostradale dorsale Civitavecchia-Orte-Mestre-tratta E45-E55 (Orte-Mestre);
   a prevedere interventi puntuali per la messa in sicurezza della strada E-45 e della strada statale 309 Romea, adottando ogni iniziativa di competenza finalizzata all'implementazione e all'integrazione del trasporto ferroviario con quello fluvio-marittimo, nonché allo sviluppo del corridoio ferroviario adriatico-baltico;
   ad adottare ogni iniziativa normativa finalizzata ad una revisione sostanziale della «legge obiettivo» (legge n. 443 del 2001) che, nel corso del tempo, è stata anche peggiorata, con la possibilità di realizzare lotti funzionali e lotti costruttivi, tradendo quindi completamente la logica dei «tempi certi e costi certi» per le infrastrutture, con tutti gli effetti distorsivi che ne conseguono sulla sterminata lista di opere che si vorrebbero realizzare a giudizio dei firmatari del presente atto di indirizzo di nessuna utilità collettiva, fino alle deroghe e proroghe che diventano la regola del sistema degli affidamenti;
   a valutare con particolare attenzione l'opportunità di assumere iniziative per modificare le norme contenute nel decreto-legge n. 133 del 2014, cosiddetto «sblocca Italia», che fanno riferimento ad opere che costituiscono oggetto di indagine agli atti della procura di Firenze (quali, oltre l'autostrada Orte Mestre, anche l'alta velocità Brescia-Verona e la Cispadana tra l'A-22 e l'A-13) e ad assumere iniziative consequenziali ai rilievi mossi dal presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione in relazione alla disposizione di proroga delle concessioni autostradali, valutando l'ipotesi di abrogarla per affrontare in modo serio e trasparente il tema della concessioni autostradali nell'ambito di un nuovo provvedimento normativo ad hoc.
(1-00777) «Scotto, Paglia, Pellegrino, Zaratti, Airaudo, Placido, Piras, Ricciatti, Ferrara, Marcon, Duranti, Fratoianni, Melilla, Quaranta, Franco Bordo, Costantino, Daniele Farina, Giancarlo Giordano, Kronbichler, Matarrelli, Nicchi, Palazzotto, Pannarale, Sannicandro, Zaccagnini».
(8 aprile 2015)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE IN MERITO ALLA SITUAZIONE OCCUPAZIONALE E PRODUTTIVA DEL COMPARTO AEREO-AEROPORTUALE

   La Camera,
   premesso che:
    numerose fonti istituzionali, politiche e di informazione rappresentano il trasporto aereo italiano come un settore in cui i licenziamenti, la mobilità, la cassa integrazione, i contratti di solidarietà, i tagli salariali, il peggioramento delle condizioni di lavoro, il deterioramento delle condizioni di salute e di sicurezza in cui operano gli addetti e il dilagare della precarietà nella categoria sono il frutto di una crisi economica generale che strangola il comparto, determinando ineluttabili conseguenze sui lavoratori;
    purtuttavia si deve rilevare che la situazione complessiva del trasporto aereo italiano non può in alcun modo essere descritta semplicemente in questi termini, perché sotto il profilo meramente commerciale il comparto aereo-aeroportuale ed il relativo indotto sembrerebbero essere tutt'altro che in crisi;
    dal 2008 al 2013 in Italia, ovvero negli anni in cui la crisi ha attanagliato maggiormente l'industria del nostro Paese, il traffico passeggeri negli scali aeroportuali è aumentato del 10,3 per cento ed il traffico merci del 16,6 per cento;
    nonostante la lieve contrazione del traffico merci e passeggeri registrata nel 2012 sul 2011 e nel 2013 sul 2012 (complessivamente di poco meno del 3 per cento), la crescita, di fatto, è stata copiosa, anche a fronte della decrescita generalizzata del sistema industriale italiano;
    nel 2014 sul 2013 i dati di crescita in Italia del trasporto aereo e del traffico merci sono esaltanti, ad esempio e rispettivamente +4,5 per cento e +5,1 per cento e tutto questo certo non può dipendere unicamente neanche dallo sviluppo impetuoso del traffico aeroportuale low cost;
    infatti, importanti e qualificati studi di settore elaborati da Assoaeroporti segnalano la crescita esponenziale di passeggeri sulle tratte intercontinentali ed a lungo raggio, ovvero in un segmento di mercato ove, per il momento, la concorrenza delle compagnie low cost è meno preponderante che sul medio-corto raggio;
    nell'ambito di tale contesto di crescita, particolarmente significativo è lo sviluppo dell'intero sistema aeroportuale romano (segnatamente gli aeroporti di Fiumicino e Ciampino) per ciò che riguarda il traffico passeggeri;
    da dati significativi per l'Aeroporto Leonardo da Vinci può risultare utile evidenziare che agli inizi del mese di ottobre 2014 Aeroporti di Roma ha festeggiato il transito dell'un milionesimo passeggero in più rispetto all'anno 2013 e che solo nel mese di ottobre 2014 su ottobre 2013 la crescita del traffico passeggeri nell'aeroporto di Fiumicino ha registrato un inequivocabile +10 per cento;
    un'estate positiva per il traffico merci si è pure registrata per altri numerosi aeroporti del sud e del nord dell'Italia: Napoli, Bergamo, Venezia, Firenze e altro;
    purtuttavia, a questa inequivocabile situazione di crescita dei dati sin qui esposti fa da contraltare una situazione eccezionalmente drammatica per il lavoro e per l'intera categoria del personale da sempre operante nel comparto aereo-aeroportuale;
    circa 15.000 lavoratori del sopradetto comparto, infatti, sono stati toccati a vario titolo ed «intensità» da cassa integrazione, mobilità e contratti di solidarietà;
    il che significa che il 25 per cento della forza lavoro del comparto aereo-aeroportuale è stato interessato dall'attivazione di ammortizzatori sociali e da altri strumenti di sostegno come il fondo speciale del trasporto aereo istituito nel 2005;
    altrettanto pesanti sono state, inoltre, le ricadute sull'indotto del settore, peraltro sprovvisto di un adeguato censimento, in grado di rendere evidente «giustizia» alla «mattanza» che i lavoratori di tale ambito produttivo (pulizie, esercizi commerciali e altro) stanno subendo dal punto di vista occupazionale, dei salari, dei diritti e delle garanzie di tutela della salute, nonché di aumento della precarietà;
    a tale proposito basti ricordare che, secondo stime della regione Lazio effettuate nel 2008, all'epoca della privatizzazione di Alitalia che costò il taglio di 10.000 posti di lavoro diretti, per ogni dipendente Az licenziato si sarebbe dovuta scontare anche la perdita occupazionale sull'indotto di circa 4,5 unità: una stima successivamente corretta al ribasso per 2,1 unità in conseguenza di un singolo licenziamento in Alitalia;
    d'altra parte le cronache giornalistiche anche più recenti evidenziano situazioni in cui i licenziamenti ed i tagli del personale rappresentano il denominatore comune di tutte le ristrutturazioni effettuate nelle aziende del comparto che hanno avuto come effetto, se non addirittura scopo, quello della compressione del costo del lavoro;
    l'elenco di tutte le vertenze che interessano il comparto aereo-aeroportuale sarebbe lunghissimo ed includerebbe moltissime situazioni ancora in via di definizione oppure conclusesi tragicamente per centinaia di famiglie di lavoratori;
    tra le molte ci si limita a ricordare, senza voler sottovalutare la miriade di ulteriori micro-vertenze, quanto accaduto alla Argol che ha licenziato 76 lavoratori dopo 20 anni di attività di contratti di appalto della compagnia Alitalia: contratti che la compagnia aeroportuale ha deciso di non rinnovare, con tutti gli effetti che si possono immaginare per i lavoratori addetti alla movimentazione del materiale aeronautico negli hangar di Fiumicino che nel 2012 furono sostituiti con personale più precario e più a basso costo;
    altrettante sono le vertenze ancora in essere, molte delle quali insistono sugli aeroporti romani (in totale 41.000 dipendenti) e su quelli milanesi che, rispettivamente, rappresentano i principali poli dell'industria aeroportuale dell'Italia centro- meridionale e quello dell'Italia settentrionale;
    i casi più eclatanti sono quello della compagnia Meridiana, dove su 1634 lavoratori minacciati fino a pochi giorni fa da un licenziamento di massa, non si è ancora trovata alcuna soluzione soddisfacente, visto che dal 1o gennaio 2015 il vettore in questione si ritroverà con un organico sensibilmente ridotto, visto che 275 persone hanno scelto o si sono viste comunque costrette a licenziarsi volontariamente. Una situazione in cui non c’è nulla di cui esultare, visto che già a partire da gennaio 2015 si pone il problema di affrontare altri esuberi che corrispondono a circa 1200 posti di lavoro. Eppure, solo dall'inizio della XVII legislatura, l'intero arco parlamentare è intervenuto sulla drammatica vicenda di Meridiana con ben 27 atti di indirizzo e di controllo – di cui numerosissimi peraltro presentati dal gruppo parlamentare Sinistra Ecologia e Libertà – rispetto ai quali il Governo si è impegnato ripetutamente ad intervenire con ogni iniziativa per fronteggiare la situazione garantendo la continuità territoriale ai collegamenti da e per la Sardegna ed il rilancio della compagnia aerea Meridiana attraverso l'impiego, la tutela occupazionale e la protezione sociale dei suoi lavoratori;
    e ancora il caso di Groundcare. Come riportato dalla stampa nazionale e locale, poco prima della notte di Capodanno 2015, Groundcare, la principale società di handling aeroportuale di Fiumicino, ha avviato le procedure di licenziamento per ben 450 persone, inclusi circa un centinaio di dipendenti della Groundcare Milano, già fallita ad agosto 2013 ed in «affitto» alla stessa Groundcare. Quest'ultima vicenda da sola meriterebbe un approfondimento, anche a fronte della diffida effettuata dal curatore fallimentare della Groundcare Milano nei confronti del curatore fallimentare della Groundcare in merito alla gestione dei lavoratori e dei beni in affitto. Peraltro, nonostante le rassicurazioni profuse solo il 10 dicembre 2014 dal Ministro delle infrastrutture e dei trasporti in occasione dello svolgimento dell'interrogazione a risposta immediata presentata dai deputati Sinistra Ecologia e Libertà n. 3-01214 sulla vertenza Groundcare sull'obiettivo di favorirne la tutela occupazionale, l'evoluzione della situazione per i suoi lavoratori, la questione ha avuto, purtroppo, un epilogo agghiacciante. Nelle giornate tra il 30 e il 31 dicembre 2014, infatti, sono stati chiamati in massa a firmare la propria lettera di licenziamento circa 450 lavoratori su poco più di 850 complessivi in forza presso la società. Questi lavoratori si sono recati in una sala della Palazzina Epua di Fiumicino per ritirare la lettera di licenziamento, ma oltre alla firma di quella lettera è stata pure richiesta, per quanto risulta, anche la sottoscrizione di una liberatoria al fine di rinunciare sia al pagamento del mancato preavviso, sia all'esperimento di qualsiasi azione legale rispetto alla mancata selezione del personale da espellere. Inoltre, la firma sulla liberatoria sembrerebbe stata sollecitata con l'esplicito riferimento in forza del quale, in caso di rifiuto della sottoscrizione, oltre al mancato inserimento nel bacino di ricollocazione, il licenziamento sarebbe stato recapitato successivamente al 1o gennaio 2015, in modo da penalizzare il lavoratore nell'accesso alla mobilità che, come noto, dal 1o gennaio 2015 ha subito una drastica riduzione per effetto dell'entrata in vigore della cosiddetta «legge Fornero». Per quanto risulta ai firmatari del presente atto di indirizzo, fortunatamente, qualcuno ha anche chiamato la polizia e la liberatoria a quel punto è diventata facoltativa mentre prima veniva associata, di fatto, al rilascio della lettera di licenziamento;
    in data 8 gennaio 2015 sono oltre 200 i lavoratori della Groundcare che dalla mattina protestano all'aeroporto di Fiumicino per colpa dei licenziamenti loro notificati. La manifestazione organizzata dal Cub Trasporti è iniziata alle ore 10.00 con un presidio davanti all'ingresso del terminal T3 partenze. I lavoratori Groundcare, Alitalia e Argol dietro agli striscioni si sono mossi, avanzando lungo il perimetro dello scalo e sono arrivati al terminal T1 e sul posto si trovavano polizia e carabinieri. Le parole del consigliere comunale Erica Antonelli, membro della commissione lavoro del comune di Fiumicino, in merito al licenziamento dei lavoratori Groundcare, sono state le seguenti: «In un aeroporto internazionale come quello di Fiumicino non è il lavoro ad essere carente ma piuttosto la gestione dello stesso, incapace di fornire adeguati servizi ai passeggeri e mantenere un livello occupazione nei vari segmenti capaci di rappresentare al meglio la principale porta d'ingresso in Italia. Come già richiesto dal Sindaco Montino serve un tavolo interistituzionale sul lavoro aeroportuale, ma non solo visto anche il recente fallimento della Romana recapiti. Chiederò al Presidente della Commissione Attività Produttive e Lavoro del Comune di Fiumicino una audizione, anche con le parti sociali, per approfondire quanto appena accaduto in aeroporto»;
    in Alitalia, come noto, sono stati 2251 gli esuberi derivanti dal fallimento della privatizzazione del 2008 della compagnia: una gabella ingiustificabile, pagata sull'altare del passaggio di Cai dalle mani della cordata di «prenditori» italiani agli arabi-anglosassoni di Etihad, senza contare l'ulteriore taglio salariale destinato ad abbattersi su chi è rimasto in servizio; tutto ciò è inaccettabile se si considera che solo nel mese di maggio 2014, mentre Etihad entrava in Alitalia e venivano annunciati imminenti sacrifici, ivi compresi gli esuberi, in nome dell'interesse generale, in Alitalia erano presenti in servizio oltre 1600 lavoratori precari, concentrati nei settori di terra operativi (scalo, carico-scarico bagagli, rampa e altro), necessari per far fronte all'atavico sottorganico esistente nella ex-compagnia di bandiera italiana. Ma non solo: mentre si consegnavano le lettere di licenziamento ad oltre 1600 dipendenti, in una stanza attigua, alcuni rappresentanti della dirigenza si accingevano ad assumere 200 lavoratori a tempo determinato. Ma la desertificazione delle attività di terra della ex-compagnia di bandiera prosegue nei giorni successivi con le esternalizzazioni delle attività;
    l'attività informatica dell'Alitalia viene spezzata in due grandi tronconi (attività applicative ed attività operative) pur di favorirne la dismissione. Da subito Alitalia procede con la cessione ad Ibm di circa 70 lavoratori inseriti nelle liste degli esuberi e minacciati da un licenziamento che tutti sanno che non potrà concretizzarsi senza un grave pregiudizio dell'attività dei sistemi della compagnia, ma brandito pur di evitare che cresca l'opposizione dei lavoratori a cui lo spettro della disoccupazione farà «digerire» il passaggio delle attività. L'altro grande spezzone dell'informatica Alitalia di circa 200 dipendenti, sarà invece al momento mantenuto nella compagnia per essere poi ceduto in un secondo momento. Pesantissimo è anche il disegno che incombe su quanto resta delle attività di manutenzione degli aeromobili della compagnia, al momento concentrate nella divisione tecnica di Alitalia (ormai meno di 2000 dipendenti contro gli oltre 5000 degli inizi degli anni 2000) e in AMS (Alitalia Maintenance Systems), una società partecipata Az che si occupa della revisione dei motori, creata nel 2008 ed ormai in liquidazione. L'annuncio della reinternalizzazione delle attività di manutenzione pesante degli aeromobili, ceduta dai patrioti di Cai alla israeliana Bedec, dovrebbe essere gestita da Atitech che in parte, secondo gli annunci, utilizzerebbe parte dei 200 operai delle manutenzioni licenziati a novembre 2014;
    attualmente, tuttavia, della realizzazione del progetto Atitech non si sa nulla. In realtà le manutenzioni Alitalia continuano a subire nel silenzio generale quel pesante ridimensionamento, avviato con la privatizzazione del 2009 di Alitalia, che ha prodotto, di fatto, lo smantellamento del polo della meccanica che nell'ambito dell'aviazione costituiva una delle più importanti eccellenze esistenti su Fiumicino;
    sono rilevanti, ovviamente, le responsabilità delle istituzioni che si sono avvicendate nelle ultime legislature sia in termini generali per ciò che sta accadendo nel settore, sia in termini più specifici per ciò che, solo per fare alcuni esempi, succede per i due ambiti citati (informatica e manutenzioni): con un minimo di lungimiranza industriale le suddette incontestabili eccellenze avrebbero potuto costituire la base della costruzione di segmenti di riferimento nell'ambito della più generale industria dei trasporti, consentendo l'aggregazione di segmenti produttivi che avrebbero consentito la concentrazione e la gestione di strategiche attività, oggi frammentate in mille rivoli, con costi esorbitanti di esercizio e spesso con scadenti risultati in termini di qualità del servizio offerto;
    si segnala, inoltre, che con riferimento alla situazione di Alitalia, più recentemente, una quarantina di operai licenziati sono stati ricollocati solo a dicembre 2014, con contratti da 25 giorni e segnatamente dal 4 al 28 dicembre 2014, per le manutenzioni dei velivoli Air Berlin. E ciò appare quanto mai deprecabile, se non addirittura allucinante, considerato che la precarizzazione dei licenziati rappresenta una vera e propria beffa dei diritti dei lavoratori e la chiara dimostrazione che il lavoro in Alitalia c'era;
    infine, si segnala come 500 lavoratori di Sea Handling siano stati agevolati all'uscita dalla società di gestione degli aeroporti milanesi (Linate e Malpensa) e, di fatto, sostituiti da lavoratori interinali e precari, nel passaggio delle attività dalla citata azienda ad Airport Handling, la neonata impresa, sorta a fronte del fallimento pilotato della prima in seguito alle sanzioni dell'Unione europea, inflitte per il presunto passaggio di denaro dalla Sea alla stessa Sea Handling;
    moltissime altre sarebbero le vertenze da raccontare per descrivere il soffocamento occupazionale che caratterizza il comparto aereo-aeroportuale;
    tutte, però, evidenziano l'enorme contraddizione esistente tra lo sviluppo del mercato del trasporto aereo e le ricadute che sul piano della tutela e della protezione sociale si stanno riflettendo sul mondo del lavoro;
    emblematico a tale proposito il comportamento di una consistente pletora di aziende del comparto aereo-aeroportuale che, nel passaggio delle attività da un'impresa all'altra nel liberalizzato mercato del settore in questione, si rifiutano di applicare la clausola sociale, ovvero l'unico istituto contrattuale di tutela occupazionale che prevede la «riprotezione» dei dipendenti e che, qualora fosse rispettata, eviterebbe l'espulsione di centinaia e centinaia di lavoratori; nella vertenza Groundcare, ad esempio, come anche è stato evidenziato dallo stesso curatore fallimentare, se fosse stata applicata la clausola sociale, decine e decine di lavoratori non sarebbero stati inclusi nei 450 licenziamenti effettuati recentemente, in quanto sarebbero restati in servizio, alle dipendenze delle società che hanno rilevato, anche negli ultimi tempi, le attività dalla stessa Groundcare, peraltro contribuendo ad affossarla e ad accelerare il definitivo fallimento;
    paradossale appare pure che in tale contesto la spesa pubblica sia concentrata al solo fine di assicurare un sistema di ammortizzatori sociali al personale espulso dalla produzione: un investimento pubblico a perdere, sperperato anche per finanziare la ristrutturazione delle imprese del comparto che espellono forza lavoro precedentemente più garantita al fine di sostituirla con personale precario e a basso costo, quasi a voler investire denaro pubblico per evitare l'esplosione di un dissenso sociale la cui deflagrazione, senza i dovuti interventi, potrà essere solo rinviata;
    si evidenzia, infine, come più volte siano stati invocati dagli stessi addetti operanti presso il comparto aereo-aeroportuale interventi della magistratura e degli organismi ispettivi del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, nonché delle strutture sanitarie atte a rilevare le condizioni di igiene e sicurezza dei lavoratori. Alcuni lavoratori hanno segnalato altresì l'opportunità che venga aperta al più presto un'inchiesta da parte della Commissione antimafia sull'assegnazione degli appalti nel settore e negli aeroporti italiani, perché le irregolarità, se non addirittura le infiltrazioni della malavita organizzata, sembrerebbero essere piuttosto evidenti sia negli aeroporti romani sia in quelli milanesi, come in altri aeroporti italiani. A Fiumicino, ormai, l'evidenza è stata per altro messa in luce e anche certificata dalla cronaca giudiziaria, con gli arresti di responsabili della Meridional, azienda che ha gestito fino al 2014 un appalto delle pulizie all'aeroporto di Fiumicino. Ma è evidente che questa potrebbe rappresentare solo la punta di un iceberg enorme che dovrebbe essere preso in esame dalle autorità competenti,

impegna il Governo:

   a porre in essere ogni iniziativa, anche normativa, tesa ad affrontare in modo efficace la gravissima crisi occupazionale che sta interessando l'intero comparto aereo-aeroportuale di cui i casi Alitalia, Meridiana, Groundcare, Sea Handling e Argol rappresentano solo alcuni di quelli più eclatanti, anche considerata l'enorme contraddizione esistente con lo sviluppo del mercato del trasporto aereo italiano;
   a porre in essere ogni iniziativa, anche normativa, finalizzata a consentire una moratoria dell'esercizio provvisorio e della licenza di Groundcare in attesa della definizione del sistema aeroportuale romano;
   ad adoperarsi affinché la vertenza Meridiana si risolva con la possibile garanzia del mantenimento dei livelli occupazionali ad oggi esistenti, al fine di impedire che si disperdano forze lavoro qualificate come quelle operanti nella sopradetta compagnia, nel quadro della necessità di avviare urgentemente un tavolo di confronto con il Governo sulla questione sarda basilare per la messa in campo di un necessario e quanto mai urgente piano per la rinascita economica e sociale della Sardegna che, secondo gli ultimi dati diffusi dall'Inps, conta circa 350.000 persone al di sotto della soglia di povertà relativa e 138.588 pensionati in situazione di povertà assoluta, considerato pure che, secondo i dati Istat, in Sardegna ci sono 119.000 disoccupati e 130.000 sfiduciati e ammonterebbe a circa 16.000 il numero dei lavoratori in mobilità;
   ad avviare un'indagine conoscitiva sulla situazione produttiva e occupazionale del comparto aeroportuale italiano, con specifico riferimento ai temi dell'emergenza e della condizione di precarietà che caratterizza il personale operante in tale settore, al fine di approfondire, in particolare, i fattori che incidono sulla capacità del sistema aeroportuale di garantire e incentivare il lavoro, valorizzando altresì l'occupazione delle giovani generazioni;
   a farsi promotore di ogni iniziativa di competenza tesa all'accertamento della presenza di eventuali irregolarità sotto il profilo della sicurezza e della tutela igienico-sanitaria dei lavoratori operanti nel comparto aereo-aeroportuale, nonché a svolgere le verifiche di competenza sugli appalti con specifico riguardo a quanto esposto in premessa;
   a salvaguardare e rilanciare il patrimonio industriale del trasporto aereo italiano in considerazione delle grandi potenzialità e delle prospettive che l'intero settore del trasporto e del turismo offrono al nostro Paese, promuovendo con sollecitudine un piano di sviluppo nazionale per il reimpiego e la valorizzazione dei lavoratori del comparto in possesso di know how e di risorse estromesse dal ciclo produttivo sin dal 2008;
   a porre in essere ogni atto di competenza finalizzato a chiarire i tempi e le modalità attraverso le quali il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti e l'Enac intendano definire i criteri di selezione del bacino costituito dal personale licenziato da cui dovranno attingere le aziende per le future assunzioni e per l'attivazione dei contratti di ricollocazione, così come definiti dalla legislazione vigente e avviati in forma sperimentale nel comparto del trasporto aereo.
(1-00694) (Nuova formulazione) «Scotto, Airaudo, Placido, Zaratti, Piras, Ricciatti, Ferrara, Marcon, Duranti, Fratoianni, Melilla, Quaranta, Franco Bordo, Costantino, Daniele Farina, Giancarlo Giordano, Kronbichler, Matarrelli, Nicchi, Paglia, Palazzotto, Pannarale, Pellegrino, Sannicandro, Zaccagnini».
(9 gennaio 2015)

   La Camera
   premesso che:
    il processo di liberalizzazione totale del mercato del trasporto aereo ha prodotto una situazione di forte competizione e di estremo squilibrio in tutta Europa;
    la conseguente difesa dei mercati e delle aziende dei Paesi europei più forti, a discapito di quelli meno ricchi e meno strutturati nel settore, ha accentuato in modo esorbitante il divario tra di essi in tutte le attività economiche e produttive inerenti il settore in parola;

    il suddetto processo di deregulation, l'avvento delle compagnie low cost e dell'alta velocità, le stringenti normative europee hanno, di fatto, accentuato, nel corso degli ultimi anni, le criticità insite nel sistema aeroportuale italiano, determinando una serie di aspre conflittualità, che inevitabilmente si sono riverberate sui lavoratori del comparto;
    le scarse misure di controllo, di verifica e, soprattutto, di programmazione delle politiche economiche del settore in Italia (che, nel corso di una decina d'anni, ha visto il susseguirsi di ben quattro piani nazionali, di cui l'ultimo ancora in corso di approvazione) hanno ampliato l'instabilità del sistema, alimentando in modo esponenziale la ricerca della sopravvivenza economica delle aziende attraverso un sistema industriale non più sano e una rincorsa spasmodica alla riduzione dei costi, determinando ripercussioni disastrose sull'occupazione;
    gli eventi di carattere internazionale, dalla guerra agli attentati terroristici, hanno sicuramente influito negativamente su una situazione già grave, ma possono essere indicati esclusivamente come fattori contingenti e non fondamentali;
    paradossalmente, nonostante i dati rappresentino una realtà in contrazione, il traffico aereo passeggeri degli aeroporti italiani ha avuto dal 2008 ad oggi uno sviluppo consistente, costituendo di conseguenza uno dei settori economici e di servizi che incamera profitti;
    tutte le aziende del settore, ed Alitalia in primo luogo, sono sempre state legate intimamente al mondo politico ed istituzionale, che, anziché produrre un processo virtuoso di mantenimento del «pubblico» e dello Stato in un settore strategico per il nostro Paese, ha istituito un sistema instabile;
    alcune responsabilità, oltre che al management, sono anche da addebitare al mondo sindacale, che sottoscrivendo il piano industriale di turno, accetta le situazioni tampone proposte dal sistema politico;
    le vicende che hanno portato la vecchia compagnia di bandiera ad un mutamento dell'assetto societario e le conseguenti procedure di riassetto e di riorganizzazione di Alitalia-Cai suggeriscono una riflessione urgente, anche alla luce della nuova crisi che ha investito il gruppo Meridiana;
    da diversi anni, la seconda società di bandiera, il gruppo Meridiana, vettore infrastrutturale strategico per garantire la viabilità aerea da e per la Sardegna, è interessato da una profonda crisi aziendale, che ha indotto i vertici societari a ricorrere all'istituto della cassa integrazione per migliaia di dipendenti di Meridiana fly, Air Italy e Meridiana maintenance;
    il gruppo Meridiana, di proprietà del fondo Akfed, è stato ciclicamente salvato da continue iniezioni di capitale;
    il nuovo assetto societario avrebbe dovuto rendere maggiormente competitiva ed efficiente la compagnia, creando al tempo stesso i presupposti per il risanamento aziendale;
    le suddette acquisizioni si sono rivelate fallimentari, dando vita, nel 2006, a una flessione negativa patrimoniale di 200 milioni di euro; il gruppo, a partire dal 2007, ha inoltre registrato margini lordi negativi, con una contrazione debitoria di 300 milioni di euro fino ad oggi;
    sulla base dei dati negativi esposti, Meridiana, Governo e sindacati, nel 2011, hanno concluso un accordo per concedere la cassa integrazione guadagni straordinaria, a zero ore, su base volontaria. Nel 2013 il numero medio dei dipendenti del gruppo Meridiana era pari a 1.694 addetti, di cui 1.011 personale di terra e 683 personale di volo, con una riduzione complessiva di 403 unità rispetto al 2012 mediante utilizzo della procedura di cassa integrazione guadagni straordinaria. Nel corso del 2014 la situazione di crisi di Meridiana spa si è ulteriormente aggravata, spingendo i vertici della società ad annunciare un piano di ristrutturazione che prevede la messa in mobilità di 1.634 dipendenti, «in esubero strutturale», di cui 1.478 dipendenti del settore del trasporto aereo (262 piloti, 896 assistenti di volo e 320 dipendenti personale di terra) e 156 dipendenti di Meridiana maintenance, che cura i servizi di manutenzione; nel contempo, è stata avviata la sostituzione della flotta che prevede l'acquisto di 20 aerei Boeing entro la fine del 2015;
    di fatto, i numeri del piano di ristrutturazione prefigurano un sostanziale ridimensionamento della seconda compagnia di trasporto aereo nazionale, il cui futuro si prospetta del tutto incerto e senza obiettivi industriali credibili;
    quella che doveva essere un'operazione di salvataggio dell'azienda si configura, invece, a giudizio dei firmatari del presente atto di indirizzo, come una vera e propria operazione di dumping;
    il costo del lavoro è sicuramente una componente rilevante del deficit di bilancio, ma ci sono anche dei punti deboli non superati della compagnia aerea. Tra i nodi in questione, un organico sovradimensionato che deve mantenere una flotta considerevole e, in parte, obsoleta. La compagnia utilizzerebbe aeromobili acquistati negli anni ’80, che la maggior parte delle compagnie moderne non utilizza o sta dismettendo. Al contempo, gli aeromobili più moderni, tra cui gli Airbus 320, i Boeing 737 e 767 sono in affitto, per cui hanno un costo anche se restano fermi;
    l'eccesso di personale è in parte legato ad una serie di contenziosi legali che hanno comportato assunzioni obbligatorie, imposte dall'autorità giudiziaria. Infatti, alcuni dipendenti sono stati assunti con i contratti delle aziende di provenienza, risalenti ai primi anni duemila. Si tratta di contratti a tempo determinato e in massima parte di carattere stagionale, soprattutto per il personale proveniente da Eurofly. Oltre 500 lavoratori, assunti inizialmente per 2 o 3 stagioni, hanno impugnato il contratto originario e preteso, in alcuni casi, il reintegro e, in altri, un risarcimento pecuniario, determinando, per la società, un eccesso di personale e l'obbligo di risarcimento delle controparti;
    il licenziamento di 450 lavoratori della società GroundCare, la principale società di handling aeroportuale di Fiumicino, è davvero emblematico. Secondo quanto diffuso dai media, tra il 30 e il 31 dicembre 2014, sarebbero stati chiamati in massa a firmare le «liberatorie», per la rinuncia al mancato preavviso e per non presentare ricorso opponendosi al licenziamento stesso, circa 450 lavoratori su poco più di 850 complessivi in forza presso la società. Detto licenziamento sarebbe stato recapitato successivamente al 1o gennaio 2015, in modo da penalizzare il lavoratore nell'accesso alla mobilità che, come noto, dal 1o gennaio 2015 ha subito una drastica riduzione per effetto dell'entrata in vigore della cosiddetta legge Fornero;
    tra le molte vertenze si segnala quanto accaduto alla Argol che ha licenziato 76 lavoratori dopo 20 anni di attività di contratti di appalto della compagnia Alitalia: contratti che la compagnia aeroportuale ha deciso di non rinnovare, con tutti gli effetti che si possono immaginare per i lavoratori addetti alla movimentazione del materiale aeronautico negli hangar di Fiumicino che nel 2012 sono stati sostituiti con personale più precario e più basso costo;
    altrettanto sconcertante appare la vicenda di 500 lavoratori di Sea handling, agevolati all'uscita dalla società di gestione degli aeroporti milanesi (Linate e Malpensa) e, di fatto, sostituiti da lavoratori interinali e precari, nel passaggio delle attività dalla citata azienda ad Airport handling, la neonata impresa, sorta a fronte del fallimento pilotato della prima in seguito alle sanzioni dell'Unione europea, inflitte per il presunto passaggio di denaro dalla Sea alla stessa Sea handling, che la controlla. La Sea, a sua volta, è posseduta al 54 per cento dal comune di Milano e al 44 per cento da una serie di altri azionisti minori, sia pubblici che privati;
    per quanto riguarda la società Alitalia la prevista ristrutturazione determinerà esuberi strutturali pari a 2.250 unità;
    tale ristrutturazione, prevista all'interno di un organico piano industriale, ha richiesto un investimento di Etihad pari a 1,25 miliardi di euro da qui al 2018, sacrificando, in nome dell'interesse generale, oltre 1.600 lavoratori precari, concentrati nei settori di terra operativi (scalo, carico-scarico bagagli, rampa e altro), purtuttavia procedendo all'assunzione di 200 lavoratori a tempo determinato. Tali licenziamenti continuano ad avere ripercussioni negative sulle attività di terra della ex-compagnia nazionale, costretta a esternalizzare dette attività;
    l'attività informatica dell’Alitalia viene spezzata in due grandi tronconi (attività applicative ed attività operative) pur di favorirne la dismissione. La cessione ad Ibm determina il licenziamento di circa 70 lavoratori inseriti nelle liste degli esuberi. L'altro grande spezzone dell'informatica di circa 200 dipendenti sarà, invece, mantenuto integro, nelle more di una successiva cessione. Relativamente alle restanti attività di manutenzione degli aeromobili della compagnia, al momento concentrate nella divisione tecnica di Alitalia (ormai meno di 2.000 dipendenti contro gli oltre 5.000 degli inizi degli anni 2000) e in Ams (Alitalia maintenance systems), una società partecipata da Alitalia che si occupa della revisione dei motori, creata nel 2008 ed ormai in liquidazione, si profila la reinternalizzazione dei 200 operai delle manutenzioni licenziati a novembre 2014, da impiegare nelle attività di manutenzione pesante degli aeromobili, ceduta da Cai all'israeliana Bedec e gestita da Atitech,

impegna il Governo:

   ad avviare un'indagine amministrativa sulla situazione produttiva e occupazionale del comparto aeroportuale, in modo tale da farsi garante di una soluzione che tenga conto della salvaguardia dei posti di lavoro e della dignità dei lavoratori coinvolti e delle rispettive famiglie, di cui i casi Alitalia, Meridiana, Groundcare, Sea handling e Argol rappresentano solo alcuni di quelli più eclatanti;
   a fornire ogni utile elemento sullo stato della vertenza Meridiana, con particolare riguardo al piano di ristrutturazione e riorganizzazione aziendale ed al futuro occupazionale dei dipendenti interessati;
   ad adottare tutte le possibili iniziative, nell'ambito delle proprie competenze, a livello nazionale ed europeo, affinché forme di deregulation come quella attuata dalla compagnia di proprietà dell'Aga Khan (che ha acquistato la Air Italy trasferendovi tutta la forza lavoro di Meridiana ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo al solo scopo di risparmiare) siano vietate;
   ad adottare iniziative volte ad impedire il ripetersi di operazioni quali quella verificatasi tra Meridiana fly e Air Italy, al fine di evitare che i lavoratori si trovino costretti ad accettare contrattazioni al ribasso per non essere licenziati;
   a porre in essere, per quanto di competenza, ogni iniziativa di vigilanza e ispezione da parte delle autorità competenti, per verificare la presenza di eventuali irregolarità sotto il profilo della sicurezza e della tutela igienico-sanitaria dei lavoratori operanti nel comparto aero-aeroportuale, nonché a svolgere le verifiche di competenza sugli appalti, con specifico riferimento a quanto espresso in premessa;
   a porre in essere iniziative che consentano di verificare eventuali abusi di personale tecnico del comparto aereo, che, pur usufruendo dell'istituto dell'ammortizzatore sociale, offre la prestazione professionale a compagnie che hanno sede all'estero;
   ad approvare al più presto un piano nazionale aeroporti in grado di rispondere alle reali esigenze di mobilità, tale da favorire la definizione dei piani industriali necessari al rilancio delle società di gestione aereoportuali e una rapida approvazione dei contratti di programma da parte dell'Enac, mettendo in atto le condizioni per la ripresa dell'intero settore e facendosi promotore di una soluzione che salvaguardi gli attuali livelli occupazionali;
   a valutare i benefici contrattuali ed occupazionali del settore del trasporto aereo che scaturiscono dall'approvazione del contratto di settore da parte delle associazioni datoriali di categoria e dei sindacati confederali, considerando che tale contratto di settore ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo procede in direzione opposta alla politica governativa, che, invece, punta ad una definizione di contratti aziendali più flessibili e variabili a seconda delle diverse esigenze aziendali;
   a porre in essere ogni iniziativa di competenza finalizzata a chiarire i tempi e le modalità attraverso le quali il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti e l'Enac intendano definire i criteri di selezione della platea dei lavoratori licenziati da cui dovranno attingere le aziende per le future assunzioni e per l'attivazione dei contratti di ricollocazione, così come definiti dalla legislazione vigente e avviati in forma sperimentale nel comparto del trasporto aereo;
   alla luce della comunicazione della Commissione europea sugli aiuti di Stato agli aeroporti e alle compagnie aeree (2014/C 99/03), a valutare l'opportunità di impiegare le risorse del fondo speciale trasporto aereo per garantire il mantenimento del livello occupazionale, lo sviluppo e la ripresa del sistema aeroportuale, anziché destinarle al mero sostegno al reddito, anche considerati i risultati finora conseguiti;
   in conseguenza di quanto sopra detto, a valutare quale sia l'effettivo utilizzo delle somme di cui agli articoli 4, comma 75, e 2, comma 47, della legge n. 92 del 2012 nell'ottica di alimentare il fondo speciale per il sostegno del reddito e dell'occupazione e della riconversione e riqualificazione del personale del trasporto aereo.
(1-00774) «Cominardi, Paolo Nicolò Romano, Tripiedi, Lombardi, Ciprini, Chimienti, Dall'Osso, Liuzzi, Dell'Orco, De Lorenzis, Carinelli, Spessotto, Nicola Bianchi».
(8 aprile 2015)

   La Camera
   premesso che:
    il trasporto aereo costituisce un fattore fondamentale per la crescita del sistema economico-sociale del nostro Paese. Esso ha assunto da tempo in Italia una rilevanza strategica nell'ambito dell'intero sistema dei trasporti interni e di collegamento internazionale: rilevanza destinata a crescere ulteriormente in relazione alle rotte ed al numero dei vettori impiegati;
    un recentissimo studio di Aci Europe evidenzia, altresì, come gli aeroporti in Europa contribuiscano alla crescita economica del continente, generando nel complesso 675 miliardi di euro all'anno, pari al 4,1 per cento del prodotto interno lordo europeo;
    per il trasporto aereo la Commissione europea prevede che, nonostante la grave crisi economica che ha colpito i Paesi europei, vi sia un trend di sviluppo positivo entro il 2030, con un raddoppio del traffico aereo globale a livello mondiale;
    è da sottolineare, in particolare, come in Italia, le previsioni dell'evoluzione del traffico aereo nel medio e lungo periodo, secondo quanto riportato dall'indagine conoscitiva svolta nella XVI legislatura dalla Commissione trasporti, poste e telecomunicazioni della Camera dei deputati, prospettino un rilevantissimo incremento. Infatti, sono state elaborate proiezioni secondo le quali nel nostro Paese si passerà dai 133 milioni di passeggeri nel 2008 a circa 230 milioni nel 2020;
    nel 2014, secondo le stime di Assoaeroporti, il traffico aereo italiano è tornato a crescere dopo due anni di contrazione. Il sistema aeroportuale italiano ha, infatti, registrato, rispetto all'anno 2013, un incremento del traffico passeggeri pari al 4,5 per cento e un aumento dei volumi di merce trasportata pari al 5 per cento. In particolare, i passeggeri transitati nei 35 scali monitorati da Assoaeroporti sono stati, nel corso del 2014, 150.505.471, corrispondenti a 6,4 milioni di passeggeri in più rispetto al 2013. Gli scali di Roma Fiumicino, Milano Malpensa, Milano Linate, Bergamo e Venezia si confermano i primi cinque aeroporti italiani di passeggeri transitati. In particolare, sul risultato complessivo ha inciso positivamente sia la ripresa del traffico nazionale, che registra un incremento del 2,5 per cento rispetto al 2013, sia la netta crescita del traffico internazionale, con un 5,9 per cento in più, sia quella del traffico dell'Unione europea, che registra un più 7,5 per cento rispetto al 2013. La valenza della crescita del trasporto aereo nel 2014 è resa ancora più significativa dal fatto di essere superiore di 1,7 milioni di passeggeri rispetto ai volumi di traffico del 2011, ultimo anno di crescita del traffico aereo in Italia;
    nonostante i dati registrati nel 2014 (che denotano un trend di crescita positivo per il trasporto aereo), occorre evidenziare come vi sia una situazione grave per quanto riguarda l'occupazione del personale che opera nel comparto aeroportuale;
    la grave crisi economica che ha colpito così profondamente il nostro Paese ha, infatti, determinato un contraccolpo negativo nei vari settori produttivi, colpendo anche il comparto aeroportuale: di fronte alla condizione di evidente difficoltà le varie imprese hanno cercato di porre rimedio ricorrendo a piani di razionalizzazione, sia dei voli stessi che del personale. Ed in altri casi (come quello di Alitalia) a fusioni con altri operatori;
    tra i casi di crisi aziendali che riguardano l'intero settore aeroportuale suscitano particolare preoccupazione quelle riguardanti Alitalia, Meridiana, Groundcare, Sea handling e Argol;
    tale crisi ha messo in grave difficoltà le prospettive di lavoro di famiglie e la dignità di moltissimi operatori presenti nell'indotto;
    il rapporto annuale dell'Enac ha messo in evidenza le principali cause di difficoltà che i vettori italiani hanno dovuto affrontare nel corso del 2013: esse sono legate ad elementi congiunturali amplificati dalla perdurante crisi economica, dalla frammentazione della quota di mercato, dalla competizione delle compagnie low cost e dei charter. Le compagnie, pertanto, hanno dovuto attuare processi di ristrutturazione aziendale al fine di recuperare competitività, migliorare la produttività e ridurre i costi. Secondo il rapporto Enac, inoltre, hanno inciso sull'andamento delle compagnie aeree nel 2013: l'aumento del costo del carburante (con il petrolio oltre i 100 dollari al barile), l'incremento delle tariffe aeroportuali e di navigazione aerea ed il calo della domanda dovuto ad una diminuzione della propensione al consumo;
    è da sottolineare, altresì, come due fattori, tra loro fortemente interrelati, hanno reso possibile una sostanziale modifica delle condizioni di produzione e di fruizione del servizio aereo: il processo comunitario di liberalizzazione del trasporto aereo (che ha avuto piena attuazione a partire dal 1997) e la successiva intensificazione delle dinamiche competitive hanno favorito la crescita del numero dei concorrenti, un aumento dell'offerta proposta su numerose rotte ed una conseguente riduzione delle tariffe. Questo processo è divenuto irreversibile ed ha comunque prodotto, sostanzialmente, condizioni più favorevoli per l'intero sistema;
    la liberalizzazione del trasporto aereo in Europa ha, pertanto, prodotto regole completamente nuove: infatti, da un mercato fortemente rigido si è passati ad un ambito liberalizzato che ha creato i presupposti per un cospicuo incremento dell'offerta ed il conseguente soddisfacimento di una domanda più ampia. Ciò ha consentito l'ingresso di nuovi operatori, connotati da diverse dimensioni ed ambiti di operatività, che si è tradotto indubbiamente in un vantaggio per l'utenza. Le dinamiche tariffarie conseguenti alla liberalizzazione hanno, quindi, inciso profondamente sull'assetto competitivo e sugli equilibri finanziari delle imprese;
    sicché dove si è intensificata la dinamica concorrenziale, per molti vettori si sono determinati anche gravi problemi di sostenibilità economica che hanno messo e mettono, quindi, in discussione il numero degli attori presenti;
    in tale contesto si dovrebbero valutare operazioni di concentrazione o diverse forme di cooperazione tra i vettori in modo da garantire agli stessi di mantenere la competitività sul mercato, assicurando, al contempo, una maggiore efficienza del sistema. Solo in questo caso si avrà un quadro competitivo del trasporto aereo nazionale adeguato ed efficiente, in modo da offrire all'utente condizioni favorevoli e sicure. Da non trascurare, altresì, è la circostanza che un assetto dinamico del trasporto aereo può fornire, senza dubbio, un considerevole contributo di efficienza e competitività internazionale ad altri settori produttivi che, in vario modo, partecipano alla crescita complessiva del nostro Paese;
    non va trascurato, infine, come lo sviluppo della concorrenza, che rappresenta, nel suo complesso, un elemento positivo, sia un processo difficile e costoso che incide su fattori della produzione delicati, come quello relativo all'occupazione che va tutelata e salvaguardata;
    il Governo si è subito attivato per affrontare una crisi grave che rischia di colpire un settore strategico per il nostro Paese: l'intervento del Governo, infatti, nei limiti di quelle che sono le sue competenze e possibilità, ha permesso che venissero attivate le giuste sedi di confronto sindacali ed aziendali. L'Esecutivo ha svolto un ruolo fondamentale ed attivo nella gestione delle vertenze che hanno riguardato le compagnie aeroportuali,

impegna il Governo:

   a promuovere un tavolo di confronto nazionale sul trasporto aereo che coinvolga i Ministri interessati, le regioni e le parti sociali, al fine di adottare soluzioni condivise che possano superare la grave crisi occupazionale che sta attraversando il comparto aeroportuale;
   a promuovere misure dirette a facilitare l'aggregazione delle società del comparto aeroportuale, in modo da garantire alle stesse di mantenere competitività sul mercato ed avere maggiore efficienza;
   ad assumere iniziative per introdurre misure dirette a rilanciare il settore economico dell'indotto, nonché per consentire il rilancio industriale del comparto aeroportuale.
(1-00775) «Garofalo, Dorina Bianchi, Piso».
(8 aprile 2015)

   La Camera,
   premesso che:
    per handling si intende l'insieme dei servizi svolti in aeroporto finalizzati a fornire assistenza a terra a terzi, vettori, utenti di aeroporto o in autoproduzione (self handling);
    si tratta di un'attività particolarmente intensiva di lavoro: a livello europeo si può stimare che i costi del fattore lavoro raggiungano il 65 per cento-80 per cento dei costi totali;
    per svolgere l'attività di handling è necessario acquisire la relativa certificazione da parte dell'Enac, che vi provvede in conformità con la verifica del rispetto dei requisiti di cui all'articolo 13 del decreto legislativo n. 18 del 1999;
    con tale ultimo decreto legislativo il legislatore ha recepito la direttiva comunitaria n. 67 del 15 ottobre 1996, che introduce la libera concorrenza dei servizi di assistenza a terra, contiene un elenco dettagliato dei servizi da garantire negli aeroporti comunitari, sia in air side che in land side, ed ammette la possibilità per le compagnie aeree di prestare il servizio in autoproduzione (self handling);
    fra le cause dell'attuale crisi del servizio di handling possono individuarsi, secondo il professore Oliviero Baccelli dell'Università Bocconi, il calo dei volumi movimentati e il fatto che «l'uscita delle società di gestione degli aeroporti da questo settore ne ha determinato una frammentazione, con tante aziende di assistenza a terra che tendono a seguire poche compagnie aeree»;
    la pluralità delle imprese di handling (14 nei soli due scali romani) non è di per sé un fatto negativo ed anzi evidenzia un positivo sviluppo della concorrenza e del mercato dei relativi servizi, purché si garantisca che tutte le imprese presenti sul mercato siano in grado di lavorare in condizioni di efficienza e sicurezza;
    la Commissione europea, a seguito degli studi dalla stessa svolti in preparazione alla riforma della normativa europea sui servizi di assistenza a terra, ha accertato che il livello di qualità del servizio di handling si riverbera su tutti i portatori di interesse del sistema aeroportuale ed è quindi suscettibile di danneggiarlo nel suo insieme;
    sempre la Commissione europea ha sottolineato la forza del legame intercorrente tra il livello di formazione del personale e il livello di qualità e di sicurezza dei servizi di handling;
    è, inoltre, necessario evidenziare la contrapposizione tra un sistema aereo-aeroportuale ed il relativo indotto, caratterizzato da una significativa crescita, e la drammatica situazione occupazionale che ha portato negli ultimi anni l'intera categoria del personale operante in detto comparto a dover far ricorso a strumenti straordinari di sostegno del reddito, quali cassa integrazione, mobilità e contratti di solidarietà;
    si è assistito, dunque, all'evidente paradosso della crescita esponenziale, evidenziata dai dati di Assoaeroporti, del traffico merci e passeggeri sulle tratte intercontinentali e a lungo raggio, a cui non solo non ha fatto seguito la crescita di produttività legata al comparto aereo-aeroportuale, ma è seguita una ricaduta negativa sull'indotto del settore;
    sono numerose le società di handling di tutta Italia, in evidente stato di difficoltà, a causa anche di un'eccessiva frammentazione in una situazione non caratterizzata da adeguate condizioni di efficienza, sicurezza ed equità nei contratti di lavoro che ha portato, nel passaggio delle attività da un'azienda ad un'altra, alla mancata applicazione delle clausole sociali in grado di garantire le adeguate tutele occupazionali per i dipendenti,

impegna il Governo:

   a dialogare con le parti sociali, al fine di facilitare l'individuazione di forme contrattuali idonee a garantire condizioni di lavoro eque e omogenee, atte a garantire la tutela dei livelli occupazionali e della concorrenza nel settore aereo-aeroportuale;
   ad intervenire, sia in sede europea che in sede nazionale, anche tramite i propri poteri di iniziativa, al fine di introdurre specifiche regole per il subappalto dei servizi di handling, tali da garantire la sicurezza e l'efficienza non solo del servizio di ground handling, ma dell'intero sistema aeroportuale;
   ad assumere iniziative al fine di vietare, nell'ambito dei servizi di handling, la possibilità di ricorrere al subappalto «a cascata», ossia l'affidamento di lavorazioni di competenza del subappaltatore ad altra impresa in sub-affidamento;
   ad assumere iniziative per prevedere requisiti più stringenti, finalizzati a garantire una maggiore qualità e sicurezza del servizio, per la concessione da parte dell'Enac della certificazione necessaria allo svolgimento di attività di handling;
   ad assumere iniziative per assicurare dei periodi obbligatori di addestramento dei lavoratori da parte delle imprese di handling;
   a sostenere gli sforzi della Commissione europea finalizzati all'emanazione di una normativa uniforme del settore, sotto forma di regolamento direttamente applicabile nei Paesi membri;
   a garantire misure a sostegno delle eccellenze del settore del trasporto e del turismo nazionale, attraverso il reimpiego e la valorizzazione dei dipendenti già impiegati nel comparto aereo-aeroportuale;
   a porre in essere ogni iniziativa atta a garantire adeguata regolamentazione ed omogeneità di applicazione dei regolamenti per ogni singolo aeroporto.
(1-00781) «Catalano, Oliaro, Mazziotti Di Celso, Antimo Cesaro».
(8 aprile 2015)

INTERROGAZIONI A RISPOSTA IMMEDIATA

   NUTI, RUOCCO, VILLAROSA, COZZOLINO, TONINELLI, CECCONI, DADONE, DIENI, D'AMBROSIO e NESCI. — Al Ministro per le riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento. — Per sapere – premesso che:
   in data 19 febbraio 2014, sono apparse sui principali organi di informazione svariati articoli in cui si riportava che Antonio Ragusa, generale dell'Arma dei carabinieri in pensione, e Luigi Bisignani, noto alle cronache in qualità di «faccendiere», già condannato in via definitiva e attualmente coinvolto in alcune note inchieste giudiziarie, inclusa l'inchiesta denominata «P4», venivano portati agli arresti domiciliari, con l'accusa, il primo, di corruzione e turbativa d'asta e, il secondo, di frode fiscale;
   Antonio Ragusa è stato membro dell'Arma dei carabinieri, ove avanzò rapidamente di carriera, passando dal reparto operativo al nucleo tribunali, sino ad approdare al gruppo Roma primo;
   tuttavia, nel 1992, durante la terza prova scritta dell'esame di procuratore legale venne scoperto mentre copiava e per questo motivo fu esonerato dall'Arma dei carabinieri; successivamente fu trasferito al Sismi;
   nel 2005 la sua nomina alla direzione nazionale antidroga fu respinta e l'anno seguente venne assunto, durante il Governo presieduto da Silvio Berlusconi, a capo del dipartimento «risorse strumentali» presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, nonostante fosse già in pensione, in deroga alla prassi seguita fino ad allora, per cui tale incarico veniva ricoperto da un dipendente di ruolo;
   la posizione ricoperta da Antonio Ragusa, dunque, gli consentiva di gestire, per conto della Presidenza del Consiglio dei ministri, somme di denaro molto significative;
   il signor Ragusa fu confermato in quella posizione fino al 2012, quando l'allora Presidente del Consiglio dei ministri Mario Monti decise di non procedere al rinnovo di numerosi incarichi conferiti nel corso degli anni precedenti a persone già in pensione;
   dal 2006 al 2012 la Presidenza del Consiglio dei ministri ha proceduto a conferire svariati appalti, anche tramite procedure apparentemente non chiare e senza l'opportuna evidenza pubblica, mentre Antonio Ragusa riceveva uno stipendio complessivo lordo ben oltre 200 mila euro annui;
   tra questi appalti figura anche quello relativo alla gestione dei servizi informatici e di sicurezza della Presidenza del Consiglio dei ministri del 2010, oggetto dell'inchiesta che ha portato all'arresto di Luigi Bisignani e Antonio Ragusa;
   secondo quanto affermato dalla procura inquirente, Antonio Ragusa avrebbe mostrato un'assenza di remore nell'alterare il corretto svolgimento della gara d'appalto e nel deviare i poteri connessi alla sua pubblica funzione, al fine di perseguire meri interessi utilitaristici di carattere privato;
   avrebbe in più occasioni favorito i membri della propria famiglia, incurante dei doveri di imparzialità e correttezza connessi alla sua funzione e della peculiarità dell'ufficio ricoperto; avrebbe tenuto una condotta pericolosa, per il carattere sistematico e non occasionale delle modalità familistiche con le quali era solito esercitare funzioni pubbliche giungendo a operarne una vera e propria mercificazione;
   infatti, la figlia di Antonio Ragusa, Simona Ragusa, dal gennaio 2008 al dicembre 2012, per 5 anni, è stata consulente del comitato per la biosicurezza, le biotecnologie e le scienze della vita della Presidenza del Consiglio dei ministri, all'interno della stessa struttura ove lavorava il padre;
   i termini del bando di gara d'appalto oggetto dell'indagine, il cui valore ammonta a circa 9 milioni di euro, sarebbero stati scritti appositamente per consentire alla società Italgo, dell'imprenditore Anselmo Galbusera, di vincere; quest'ultimo avrebbe dovuto poi, in cambio, subappaltato determinati lavori, per un valore di 117 mila euro, alla società del genero di Antonio Ragusa, Marco Napoli;
   la procura inquirente ipotizza, inoltre, che la concessione di tale appalto alla Italgo sia riconducibile ad un favore fatto in precedenza ad Antonio Ragusa da parte dell'ex direttore delle relazioni esterne di Finmeccanica, Lorenzo Borgogni, per far assumere il figlio di Ragusa, all'interno di una società del gruppo Finmeccanica;
   Luigi Bisignani, pluricondannato ed ad oggi indagato in note inchieste giudiziarie, avrebbe avuto il ruolo di intermediatore per la concessione dell'appalto;
   recentemente, un servizio televisivo de «Le Iene show», andato in onda giovedì 26 marzo 2015, ha trasmesso la testimonianza di un soggetto che ha descritto sospetti episodi di corruzione all'interno della Presidenza del Consiglio dei ministri avvenuti nel corso degli ultimi anni, molto simili a quello descritto in premessa: in particolare, veniva dipinto un vero e proprio sistema corruttivo che vedeva coinvolti altri funzionari della Presidenza del Consiglio dei ministri e alcune società;
   agli interroganti, inoltre, risultano irreperibili i bandi degli appalti richiamati in tale servizio televisivo, dei quali non si conosce neppure le modalità di espletamento: in altre parole, agli interroganti risulta che tali appalti, così come altri afferenti la Presidenza del Consiglio dei ministri, siano stati effettuati contrariamente alle disposizioni di legge in materia, in quanto non assegnati tramite regolare bando europeo;
   secondo gli interroganti, visto quanto esposto sopra, emergerebbe un desolante quadro in cui gli appalti banditi dalla Presidenza del Consiglio dei ministri sono stati puntualmente e costantemente pilotati in favore di pochi –:
   quali siano stati dal 2006 ad oggi le consulenze e gli appalti assegnati, anche tramite trattativa privata, dal dipartimento risorse strumentali della Presidenza del Consiglio dei ministri, quali siano i principali soggetti beneficiari, e se non si intendano promuovere delle verifiche in merito alle vicende esposte in premessa e riesaminare il quadro complessivo dei dirigenti e dei consulenti, predisponendo, altresì, urgentemente dei meccanismi di attivazione e conferimento degli incarichi affinché sia garantito il corretto operato delle strutture della Presidenza.
(3-01415)
(8 aprile 2015)

   DORINA BIANCHI, SCOPELLITI, CAUSIN e SAMMARCO. — Al Ministro della difesa. — Per sapere, premesso che:
   il libro bianco per la sicurezza internazionale e la difesa costituisce un elemento base idoneo a definire le strategie per il futuro delle Forze armate;
   infatti, le Forze armate italiane saranno chiamate ad operare per il conseguimento di obiettivi sempre più complessi e sofisticati: sia per la salvaguardia di interessi nazionali che per la protezione e la tutela, la stabilità e la sicurezza delle aree di crisi e delle popolazioni residenti;
   nel corso dell'ultimo decennio, grazie anche ad importanti riforme, l'Italia si è dotata di personale delle Forze armate dotato di grandi capacità e specificità;
   le Forze armate dovranno ora adottare un modello operativo che possa, in coerenza con le risorse economiche previste, fornire uno stabile e sicuro riferimento per le esigenze del nostro Paese, specialmente, oggi, alla luce delle nuove e moderne minacce;
   il libro bianco dovrà, pertanto, definire la forza e le capacità necessarie per consentire alle Forze armate di poter operare per la difesa del territorio e per poter garantire il qualificato contributo alle esigenze delle missioni internazionali;
   è necessario, pertanto, in sede di stesura e di attuazione del libro bianco, definire le risorse finanziarie occorrenti per garantire l'operatività e le esigenze della Forze armate, ovvero per gli investimenti e per il mantenimento in servizio (esercizio) dello strumento militare;
   a tal fine è indispensabile, come già avviene in alcuni Paesi europei e di oltreoceano, promuovere una legge pluriennale (sei anni sarebbe il limite più congruo, considerata la complessità dei sistemi d'arma delle Forze armate) per gli investimenti e l'esercizio, in modo da fornire l'indispensabile stabilità delle risorse, nel medio-lungo termine –:
   quali iniziative di competenza intenda adottare per sostanziare le indicazioni contenute nel libro bianco e per garantire risorse finanziarie certe e, soprattutto, stabili per le esigenze delle Forze armate, anche promuovendo una legge di bilancio pluriennale di almeno sei anni che assicuri la stabilità delle citate risorse finanziarie, in modo che l'industria correlata alla difesa sia stimolata ad operare secondo strategie tecnologiche ed industriali certe per poter meglio rispondere alle esigenze di sicurezza e di difesa del Paese.
(3-01416)
(8 aprile 2015)

   ARTINI. — Al Ministro della difesa. — Per sapere – premesso che:
   il 24 settembre 2014 la Camera dei deputati ha approvato la mozione n. 1/00586, a prima firma Scanu, che impegna il Governo «a riesaminare l'intero programma F-35 per chiarirne criticità e costi con l'obiettivo finale di dimezzare il budget finanziario originariamente previsto, così come indicato nel documento approvato dalla Commissione difesa della Camera dei deputati a conclusione dell'indagine conoscitiva sui sistemi d'arma, in vista del Consiglio europeo del dicembre 2013, tenendo conto dei ritorni economici e di carattere industriale da esso derivanti; a ricercare, entro questi limiti, ogni possibile soluzione e accordo con i partner internazionali del programma F-35, al fine di massimizzare i ritorni economici, occupazionali e tecnologici, valorizzando gli investimenti già effettuati nella Faco e la sua potenzialità quale polo produttivo e logistico internazionale; a mantenere costante il controllo sulla piena rispondenza dei velivoli ai requisiti di efficienza e di sicurezza e ai criteri operativi delle Forze armate»;
   il dimezzamento del budget previsto dalla suddetta risoluzione comporterà evidentemente una riduzione del numero complessivo di velivoli F-35 che potranno essere acquistati;
   fino a oggi non risulta essere stato comunicato al Joint program office del programma Joint Strike Fighter nessuna riduzione rispetto alla previsione di acquisto di 90 velivoli F-35 da parte dell'Italia;
   il Ministro interrogato ha più volte dichiarato che la ridefinizione del programma F-35 potrà essere effettuata in base alle risultanze del libro bianco per la sicurezza internazionale e la difesa, documento fondamentale per indirizzare il processo di ammodernamento e trasformazione dello strumento militare nazionale, che avrebbe dovuto essere presentato entro dicembre 2014;
   secondo quanto reso noto da fonti di stampa, il libro bianco sarebbe già pronto e dovrebbe essere presentato il 21 aprile 2015 in occasione del Consiglio supremo di difesa –:
   come si concretizzerà la riduzione della partecipazione italiana al programma Joint Strike Fighter in seguito al dimezzamento del relativo budget e, in particolare, quale sarà il numero complessivo di velivoli F-35 che saranno acquistati dall'Italia nel corso dell'intero programma.
(3-01417)
(8 aprile 2015)

   FABRIZIO DI STEFANO e PALESE. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   il 5 agosto 2014 il Governo, con decreto a firma del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, Graziano Del Rio, ha nominato Giuseppe De Dominicis a commissario del Parco della Costa teatina;
   nel suddetto atto di nomina non sono specificati, se non in via del tutto sommaria, i compiti, le funzioni e le strutture di supporto del commissario;
   il commissario ha in più sedi affermato che l'istituzione del Parco della Costa teatina sarà un efficace deterrente rispetto al progetto «Ombrina mare 2» (programma di sviluppo di idrocarburi, liquidi e gassosi, della Medoilgas Italia s.p.a., società del gruppo Mediterranean oil & gas plc), che in data 6 marzo 2015 ha ricevuto anche il parere positivo della commissione valutazione di impatto ambientale nazionale –:
   quali siano le ragioni curriculari per le quali il Governo ha deciso di nominare il dottor Giuseppe De Dominicis, nonché quali siano i compiti, le mansioni, la durata dell'incarico, la struttura organizzativa e il compenso del commissario del Parco della Costa teatina e se sia vero che l'istituzione del Parco della Costa teatina sarà elemento ostativo del progetto «Ombrina mare 2».
(3-01418)
(8 aprile 2015)

   MATARRESE e D'AGOSTINO. — Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. — Per sapere – premesso che:
   secondo quanto si evince dalle cronache, i carabinieri del nucleo operativo ecologico di Lecce hanno sequestrato a Ginosa, in provincia di Taranto, in contrada «lama di pozzo», presso l'impianto di compostaggio Aseco spa, circa mille metri cubi di acm, ovvero «ammendante compostato misto», un compost ricavato dai rifiuti depurati provenienti dagli insediamenti civili utilizzato in agricoltura;
   il composto di fanghi provenienti dagli impianti di depurazione gestiti da Aqp è stato prodotto da Aseco s.p.a., società del gruppo Acquedotto pugliese incaricata di gestire l'impianto di compostaggio ubicato nella provincia di Taranto, ed è stato già altre volte rivenduto o ceduto gratuitamente ad oltre 50 aziende agricole e destinato poi alla concimazione dei campi;
   il provvedimento è stato emesso dal giudice per le indagini preliminari del tribunale di Lecce, su richiesta della direzione distrettuale antimafia, in quanto secondo quanto accertato dai carabinieri del nucleo operativo ecologico e successivamente confermato dalla consulenza tecnica, questo ammendante sarebbe da considerare e da gestire a tutti gli effetti come un rifiuto, poiché risultato essere non conforme alla vigente normativa di settore, in quanto realizzato con fanghi derivanti da reflui provenienti da insediamenti industriali ed artigianali e non solo da insediamenti civili;
   a seguito di analisi, è stato accertato che il compost contiene elevate concentrazioni di metalli ed idrocarburi totali, che lo rendono inidoneo alla commercializzazione ed all'utilizzazione in agricoltura, poiché è rilevante il rischio di inquinamento delle matrici suolo ed acqua sotterranea;
   secondo quanto riferito dai quotidiani, inoltre, la consulenza tecnica disposta dal pubblico ministero avrebbe anche accertato che in alcuni casi i fanghi contenevano alluminio, antimonio, argento, arsenico, boro, berillio, cadmio, cromo, ferro, mercurio, selenio, stagno, tallio e vanadio in concentrazioni fino 87 volte superiori ai rispettivi valori minimi riscontrati. Per il piombo, addirittura, si è giunti a superare il valore minimo di 220 volte –:
   se non intenda, per quanto di competenza, anche per il tramite del Comando carabinieri per la tutela dell'ambiente, effettuare un monitoraggio delle aree concimate con il compost prodotto da Aseco e rivenduto alle aziende agricole pugliesi ed una mappatura delle zone potenzialmente inquinate, anche attraverso le analisi delle falde acquifere interessate.
(3-01419)
(8 aprile 2015)

   SBERNA. — Al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   il fondo, istituito con legge 23 dicembre 2005, n. 266, finalizzato a indennizzare i risparmiatori, vittime di frodi finanziarie a seguito di investimenti sul mercato finanziario, si alimenta con gli importi dei conti correnti e dei rapporti bancari definiti come dormienti all'interno del sistema bancario, nonché del comparto assicurativo e finanziario;
   la legge 27 ottobre 2008, n. 166, all'articolo 3, comma 345-quater, ha disposto che gli importi dovuti ai beneficiari dei contratti di cui all'articolo 2, comma 1, del codice delle assicurazioni private (decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209), che non sono reclamati entro il termine di prescrizione del relativo diritto, sono devoluti al suddetto fondo e ha stabilito il termine di due anni per la prescrizione e la conseguente devoluzione al fondo;
   il termine di due anni si è, però, rivelato insufficiente al fine di garantire la possibilità di riscatto della polizza, soprattutto in caso di morte dell'intestatario. Inoltre, si è verificato che molti intermediari non abbiano rivolto, così come previsto dall'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica n. 116 del 2007, al verificarsi delle condizioni di dormienza del conto, ai relativi titolari l'invito a impartire disposizioni e l'avviso che, decorso il termine previsto dalla legge, il rapporto sarebbe stato estinto e le somme devolute al sopra menzionato fondo. Tutto questo ha fatto sì che molte persone si sono viste devolvere al fondo i propri risparmi dopo la prescrizione di 2 anni, senza essere stati avvertiti dall'intermediario;
   proprio per questo il decreto-legge n. 179 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, ha riportato da 2 a 10 anni il termine di prescrizione delle polizze vita «dormienti»;
   tuttavia, si è così verificata una disparità di trattamento per tutti i risparmiatori la cui prescrizione è avvenuta tra l'entrata in vigore della legge n. 166 del 2008 e quella del decreto legislativo n. 179 del 2012, non avendo quest'ultimo carattere retroattivo;
   per ovviare alla disparità di trattamento il Ministero dello sviluppo economico ha indetto, tramite la Consap s.p.a. (Concessionaria servizi assicurativi pubblici), due bandi di rimborso volti ad indennizzare i consumatori danneggiati per le modifiche intervenute in materia di prescrizione delle polizze vita e per la scarsa disponibilità e tempestività dell'informazione relativa al susseguirsi di tali modifiche;
   i due bandi hanno rimborsato i risparmiatori le cui polizze erano scadute entro il 31 dicembre 2009. Il secondo bando ha corrisposto un rimborso proporzionalmente ridotto a causa dell'accoglimento di domande per un importo superiore allo stanziamento predisposto dal Ministero dello sviluppo economico;
   rimane una disparità di trattamento tra i risparmiatori in quanto sono del tutto esclusi dal rimborso coloro la cui prescrizione è avvenuta tra il 1o gennaio 2010 e il 20 ottobre 2012, data dell'entrata in vigore della legge n. 179 del 2012 –:
   se non intenda finanziare un terzo e ultimo bando che, eliminando le disparità di trattamento verificatesi, permetta a tutti i risparmiatori di rientrare in possesso del proprio denaro.
(3-01420)
(8 aprile 2015)

   TAGLIALATELA. — Al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   dal piano di riorganizzazione del gruppo Finmeccanica sembra emergere una penalizzazione, in particolare, dei siti produttivi ed industriali dislocati in Campania, destinata ad avvenire attraverso alienazioni di imprese, chiusure di stabilimenti, delocalizzazione in altre aree del Paese o compressione delle posizioni strategiche nei vari insediamenti produttivi della regione;
   sarebbe prossima alla chiusura la sede napoletana di Telespazio, che effettua attività di ricerca e sviluppo, e sembra non essere più attuale la scelta di accompagnare la decisione di dare vita ad un polo delle manutenzioni presso l'area aeroportuale di Capodichino, con l'individuazione di altre idonee infrastrutture per la realizzazione della linea finale di volo nel territorio regionale, nell'ambito delle attività finanziate anche con risorse pubbliche, che già vedono coinvolti gli stabilimenti di Pomigliano e Nola;
   a questi si aggiungono la paventata compressione dei segmenti campani dell'elettronica e della radaristica, con la possibile chiusura di ulteriori insediamenti produttivi dopo le misure che nell'ultimo periodo hanno già pesantemente colpito quelle attività, e la possibile alienazione di Mbda e la chiusura dello stabilimento di Wass, che in Campania svolgono funzioni strategiche nell'ambito dell'industria della difesa;
   il consorzio Mbda, in particolare, è attualmente il produttore del sistema missilistico Albatros, impiegato sia dalla Marina militare italiana sia da quella di altri Paesi, rispetto al quale nel 2015 dovrà essere avviato un programma di sostituzione di alcune batterie impiegate nei missili per la difesa terra-aria, in assenza del quale verrebbero a determinarsi gravi ripercussioni sul sistema missilistico di difesa del nostro Paese;
   oltre al depauperamento del tessuto produttivo della regione, le notizie relative al piano di riorganizzazione preoccupano con riferimento alle possibili ricadute occupazionali, considerato che in Campania attualmente operano dieci stabilimenti, con un numero di addetti diretti superiore alle 6.500 unità ed un indotto che occupa circa 15.000 lavoratori;
   in termini di innovazione, ricerca, sviluppo e strategie industriali Finmeccanica fornisce un apporto di fondamentale importanza per l'economia e lo sviluppo del territorio in Campania;
   l'assenza di una strategia nazionale sulle politiche industriali compromette l'utilizzo degli ingenti investimenti per centinaia di milioni di euro che la regione Campania ha messo in campo in questi anni e che ha già confermato di essere disponibile ad impegnare anche per la programmazione comunitaria 2014-2020 –:
   in che modo intenda intervenire al fine di salvaguardare i siti industriali di Finmeccanica in Campania rispetto alle prospettate chiusure o delocalizzazioni, tutelando i livelli occupazionali e lo sviluppo della regione.
(3-01421)
(8 aprile 2015)

   PIRAS, PELLEGRINO, ZARATTI, FERRARA e RICCIATTI. — Al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   secondo le norme vigenti è previsto che entro il 31 dicembre 2014 venga definito il sito unico nazionale per lo stoccaggio delle scorie nucleari;
   il 2 gennaio 2015, la Sogin (la società statale per lo smantellamento degli impianti nucleari italiani e la gestione del rifiuti radioattivi) ha consegnato a Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) la carta delle aree potenzialmente idonee ad ospitare il deposito nazionale per i rifiuti radioattivi;
   il deposito nazionale, infrastruttura di superficie dove mettere i rifiuti radioattivi, consentirà la sistemazione definitiva di circa 75 mila metri cubi di rifiuti di bassa e media attività e lo stoccaggio temporaneo di circa 15 mila metri cubi di rifiuti ad alta attività;
   dei circa 90 mila metri cubi di rifiuti radioattivi, ricorda Sogin, il 60 per cento deriverà dalle operazioni di smantellamento degli impianti nucleari, mentre il restante 40 per cento dalle attività di medicina nucleare, industriali e di ricerca, che continueranno a generare rifiuti anche in futuro;
   la pubblicazione della carta e quella contestuale del progetto preliminare, spiega la Sogin, «apriranno una fase di consultazione pubblica e di condivisione, che culminerà in un seminario nazionale, dove saranno invitati a partecipare tutti i soggetti coinvolti ed interessati»;
   nella mappa realizzata dalla Sogin, dalle aree considerate sono escluse le aree vulcaniche attive o quiescenti, le località a 700 metri sul livello del mare o ad una distanza inferiore a 5 chilometri dalla costa, le aree a sismicità elevata, a rischio frane o inondazioni e le «fasce fluviali», dove c’è una pendenza maggiore del 10 per cento, le aree naturali protette, che non siano ad adeguata distanza dai centri abitati, quelle a distanza inferiore di un chilometro da autostrade e strade extraurbane principali e ferrovie;
   la Sardegna secondo tutti i piani connessi e richiamati non rientra in alcun modo nelle priorità di esclusione;
   le simulazioni geosatellitari confermerebbero che la Sardegna sarebbe l'unica regione d'Italia a corrispondere a questi criteri individuati;
   sono concrete le possibilità per cui il Governo nazionale possa chiedere disponibilità alla Sardegna come sede del «deposito nazionale di scorie nucleari», considerata l'ampia presenza di aree non urbanizzate ed a bassa densità abitativa;
   la mappa consegnata dalla Sogin all'Ispra è inspiegabilmente secretata, a tutti i livelli istituzionali, negando così la possibilità ai governi regionali e ai livelli parlamentari di poter sapere quali territori sono stati individuati in via preliminare per la costruzione del deposito nazionale;
   in Sardegna grava il 60 per cento delle servitù militari italiane, con i tre poligoni militari più grandi d'Europa, depositi sotterranei di armi e munizioni, polveriere e aree militari delimitate in tutti i territori;
   l'assessore regionale all'ambiente Donatella Spano e il presidente della regione Sardegna Francesco Pigliaru hanno già fatto sapere di essere fermamente contrari, in maniera formale, all'ipotesi della costruzione del deposito nazionale di scorie nucleari in Sardegna, così come tutte le principali forze politiche rappresentate nel Parlamento nazionale e nel consiglio regionale della Regione autonoma della Sardegna;
   il 15 e 16 maggio del 2011 i sardi si sono espressi attraverso un referendum consultivo popolare che chiedeva al popolo di esprimersi sulla presenza in Sardegna di centrali nucleari e siti di stoccaggio di scorie radioattive: il referendum ha raggiunto un quorum del 60 per cento (887.347 sardi al voto), che per il 97,1 per cento (848.691 sardi) ha detto «no» a centrali nucleari e siti di stoccaggio di scorie nell'isola;
   i sardi, attraverso il voto popolare e la democrazia diretta, hanno, quindi, deciso di non mettere a disposizione la loro terra, che vivono e lavorano quotidianamente, per la costruzione di impianti di stoccaggio o depositi di scorie nucleari;
   sono tantissime le aree in Sardegna individuate anche dal Governo nazionale da sottoporre a bonifica e riconversione ambientale, per cui sarebbe incomprensibile aggiungere ulteriori servitù inquinanti;
   l'articolo 27, comma 3, del decreto-legge n. 31 del 2010 prevede la pubblicazione tempestiva sul sito internet della Sogin spa della proposta di carta nazionale e del progetto preliminare; tale tempistica, tuttavia, è stata dilatata attraverso il decreto-legge n. 45 del 2014, che ha disposto la trasmissione all'Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) della proposta di carta nazionale da parte della Sogin; l'Ispra deve, entro 60 giorni, validarne e verificarne i dati, inviando una relazione ai Ministeri dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e dello sviluppo economico, i quali comunicano entro 30 giorni il proprio nulla osta alla Sogin ai fini della pubblicazione della proposta di carta nazionale;
   il 2 gennaio 2015 la Sogin ha consegnato ad Ispra la carta delle aree potenzialmente idonee ad ospitare il deposito nazionale; si dovevano, quindi, attendere 90 giorni per il percorso istituzionale previsto: la pubblicazione della proposta di carta nazionale sarebbe dovuta avvenire ad inizio del mese di aprile 2015;
   l'accesso all'informazione e la partecipazione sono due elementi centrali dei processi decisionali in materia ambientale, come riconosciuto nella Convenzione di Aarhus sul diritto di accesso alle informazioni, la partecipazione ai processi decisionali e l'accesso alla giustizia in materia ambientale del 1998, ratificata in Italia con la legge 16 marzo 2001, n. 108, e dal diritto comunitario attraverso le direttive 2003/4/CE e 2003/35/CE;
   con l'ordine del giorno 9/02803-A/149, presentato dal primo firmatario del presente atto di sindacato ispettivo ed accolto dal Governo, il Governo si è impegnato a garantire la pubblicazione della carta nel pieno rispetto della tempistica prevista dalla normativa vigente (2 aprile 2015), in modo tale da non dilatare ulteriormente l'avvio della fase di consultazione pubblica –:
   quali siano i siti individuati potenzialmente idonei ad ospitare il deposito nazionale, vista la scadenza dei 90 giorni previsti dalla normativa vigente per il 2 aprile 2015.
(3-01422)
(8 aprile 2015)

   BENAMATI, EPIFANI, MARTELLA, TARANTO, LACQUANITI, BARGERO, SENALDI, BINI e CINZIA MARIA FONTANA. — Al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   fondata nel 1872 e quotata alla Borsa di Milano dal 1922, Pirelli è tra i principali produttori mondiali di pneumatici (6,15 miliardi di euro i ricavi 2013), con un posizionamento distintivo sulla gamma alta;
   presente in 13 Paesi con 19 stabilimenti, il gruppo ha un'ampia diffusione commerciale (oltre 160 Paesi) distribuita tra mercati maturi ed emergenti;
   attualmente, il 51,197 per cento del capitale è detenuto dal mercato, il 26,19 per cento da Camfin (i cui soci sono Nuove partecipazioni, Unicredit, Intesa San Paolo e Rosneft) ed il restante è ripartito tra soci minori;
   il 22 marzo 2015 è stato dato l'annuncio da parte del consiglio d'amministrazione di Camfin della firma dell'accordo vincolante che permetterà alla China national chemical, attraverso la controllata China national tire & rubber, di assumere il controllo del gruppo con la nascita di una nuova società, Bidco, che comprerà il 26,2 per cento di Pirelli dall'attuale holding e poi lancerà un'offerta pubblica di acquisto obbligatoria sul resto del capitale a 15 euro per azione ed un'offerta pubblica di acquisto volontaria sulle azioni di risparmio condizionata al raggiungimento di almeno il 30 per cento del capitale, sempre a 15 euro ad azione;
   a seconda delle adesioni all'offerta pubblica di acquisto, ChemChina potrà avere un controllo del gruppo che andrà dal 51 al 65 per cento;
   nell'accordo, secondo il comunicato del consiglio di amministrazione, verrebbe difesa la specificità della tecnologia italiana, in quanto «il centro ricerca e sviluppo e l’headquarters di Pirelli continueranno ad essere situati in Italia», e per autorizzare lo spostamento della sede, come «il trasferimento a terzi della proprietà intellettuale di Pirelli», serviranno maggioranze rafforzate pari al 90 per cento;
   l'operazione di acquisizione della Pirelli da parte di soggetti esteri è solo l'ultima manifestazione di una tendenza che dal 2009 ha riguardato molteplici segmenti produttivi;
   secondo Kpmg, nel 2014, solo gli operatori cinesi hanno investito quasi 4,8 miliardi di euro in aziende italiane: inoltre, dal 2011 al 2014, secondo la banca dati di S&P capital iq, le operazioni di acquisizione perfezionate da aziende e gruppi esteri in Italia sono state 198, per un valore di 53,9 miliardi di euro –:
   quale sia l'orientamento del Governo in merito alle prospettive industriali ed occupazionali del gruppo Pirelli e, più in generale, delle imprese italiane derivanti dall'aumento degli investimenti commerciali e degli scambi con la Repubblica popolare cinese.
(3-01423)
(8 aprile 2015)

   BORGHESI, FEDRIGA, ALLASIA, ATTAGUILE, BOSSI, BUSIN, CAPARINI, GIANCARLO GIORGETTI, GRIMOLDI, GUIDESI, INVERNIZZI, MARCOLIN, MOLTENI, GIANLUCA PINI, RONDINI, SALTAMARTINI e SIMONETTI. — Al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
   la Stefana spa è una storica azienda di acciaierie e ferriere in provincia di Brescia, con quattro stabilimenti nel territorio bresciano, due a Nave, uno a Montirone e uno a Ospitaletto, ed una forza lavoro di 700 dipendenti;
   il 31 dicembre 2014 la società ha presentato istanza di ammissione al concordato preventivo al tribunale di Brescia, che ha fissato al 30 aprile 2015 il termine per la presentazione della proposta, del piano e della documentazione prevista dall'articolo 161 del regio decreto 16 aprile 1942, n. 267;
   la drammatica situazione produttiva ed occupazionale della Stefana spa è stata già denunciata con l'interrogazione n. 5-04489, con la quale i Ministri interrogati, del lavoro e dello sviluppo economico, sono stati chiamati ad tempestivo intervento per la salvaguardia dei posti di lavoro e della continuità produttiva dell'azienda;
   nella seduta del 19 marzo 2015, il rappresentante del Ministero del lavoro ha risposto alla suddetta interrogazione, sottolineando di aver espressamente interpellato sulla vicenda il Ministero dello sviluppo economico, per le parti di sua competenza, senza ricevere da questo nessuna risposta in merito all'adozione di una strategia condivisa per il mantenimento della continuità produttiva negli stabilimenti del bresciano;
   l'azienda non è stata risparmiata dalla crisi economica; l'ultimo bilancio disponibile, depositato nella primavera 2015, evidenzia che al 31 dicembre 2014 la Stefana spa vantava crediti per 76,2 milioni di euro, riportando, però, debiti per 288,61 milioni di euro, per gran parte nei confronti dei fornitori e delle banche;
   allo stato, la società risulta inattiva; i lavoratori stanno usufruendo degli ammortizzatori sociali, con la sola esclusione dei dipendenti che si occupano della contabilità, del personale e della gestione delle pratiche necessarie per la procedura concorsuale in atto –:
   se il Ministro interrogato voglia convocare con urgenza un tavolo di concertazione tra le parti interessate, al fine di poter apprendere quali siano le strategie industriali della Stefana spa ed arrivare ad una soluzione il più possibile condivisa, che miri al mantenimento della continuità produttiva dell'azienda, quale presupposto fondamentale per garantire la tutela dei posti di lavoro e il diritto delle imprese fornitrici ad essere liquidate.
(3-01424)
(8 aprile 2015)