TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 331 di Giovedì 13 novembre 2014

 
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MOZIONI CONCERNENTI L'ACCORDO DI PARTENARIATO PER IL COMMERCIO E GLI INVESTIMENTI TRA UNIONE EUROPEA E STATI UNITI D'AMERICA NOTO COME TRANSATLANTIC TRADE AND INVESTMENT PARTNERSHIP (TTIP)

   La Camera,
   premesso che:
    il 14 giugno 2013 il Consiglio europeo ha accordato alla Commissione europea il mandato per negoziare, a nome dell'Unione europea, l'accordo di partenariato economico-finanziario noto come Transatlantic trade and investment Partnership (TTIP) considerato «il più importante accordo di libero scambio del mondo e della storia» che, ad opinione di molti, viene considerato una «Nato economica», per enfatizzare il ruolo egemone degli Stati Uniti nell'organizzazione del Patto atlantico;
    le condizioni per la creazione di una zona di libero scambio vennero poste già nel 2007 con l'istituzione di un Consiglio economico transatlantico, un anno prima dello scoppio della bolla speculativa che ha aperto la strada alla crisi finanziaria e all'attuale depressione economica; ciò, considerato alla luce delle recenti indiscrezioni che vedrebbero la Federal Reserve intenzionata ad avviare una stretta monetaria – i cui effetti provocherebbero un rialzo dei tassi di interesse statunitensi generando un consistente afflusso di dollari dal resto del mondo agli Usa – renderebbe verosimile la possibilità dell'adozione del dollaro come moneta unica europea quale provvidenziale soluzione all'ormai irreversibile crisi dell'euro;
    già da tempo gli Stati Uniti si sono impegnati a migliorare gli accessi per incentivare gli scambi con l'Unione europea che offre un mercato di oltre 500 milioni di persone, con particolare riguardo ai comparti manifatturiero, dell'agricoltura e dei servizi a conferma delle tesi che ritengono il TTIP un accordo disegnato a misura degli interessi dell'economia americana;
    si legge nell’executive order n. 13534 del marzo 2010, firmato dal Presidente americano Barack Obama, che gli Stati Uniti si sono impegnati a migliorare gli accessi per gli scambi oltreoceano relativi alla propria manifattura, agricoltura e servizi ed è pertanto plausibile sostenere che il TTIP sia disegnato a misura degli statunitensi, dove l'Unione europea è puramente subordinata alle loro scelte;
    le trattative per la conclusione del TTIP si svolgono nel più assoluto segreto; anche i documenti elaborati nei vari incontri che si sono susseguiti sono e saranno secretati; infatti, nessuna bozza o schema è uscito dalle trattative sul TTIP tra Stati e multinazionali, mentre le popolazioni e le organizzazioni sociali vengono tenute rigorosamente all'oscuro e fuori da ogni processo decisionale e nel silenzio complice dei grandi media;
    il 4o round del negoziato Ue-Usa si è svolto il 26 marzo 2014, mentre quello successivo è previsto a Washington prima dell'estate. Sul sito dell'Unione europea si legge che lo scopo dell'accordo è quello di «aumentare lo scambio delle merci, eliminando dazi e barriere commerciali», una deregulation insomma, tramite tre obiettivi: accesso ai mercati, allineamento delle regole e norme in materia di commercio per la globalizzazione;
    il Ministero Usa del commercio con l'estero ha proseguito i nuovi negoziati del TTIP ad Arlington, nello Stato della Virginia, nei giorni dal 19 al 23 maggio 2014; nella settimana precedente alle elezioni europee, nell'intento di aumentare il consenso alle trattative a partire da Francia e Germania, all'idea della necessità di ulteriori liberalizzazioni, il Commissario europeo al commercio De Gucht ha aperto per tre settimane una consultazione online sul sito della Commissione europea per acquietare quella parte dell'opinione pubblica che lo accusa di scarsa trasparenza nel negoziato e ha iniziato una marcia forzata di incontri con imprese e istituzioni competenti;
    il timore per il nostro Paese è più che lecito, poiché basta chiedere ai piccoli imprenditori e agricoltori, che sono la maggior parte in Italia, se l'attuale globalizzazione li ha favoriti; infatti, saranno coinvolti i prodotti agroalimentari e industriali, il mercato dei servizi come il trasporto e la liberalizzazione degli investimenti privati, che coinvolgeranno anche gli appalti pubblici, sicurezza ambientale e alimentare, dei farmaci, dei diritti di proprietà intellettuale;
    il Ministero dello sviluppo economico ha commissionato nel 2013 a Prometeia spa una prima valutazione d'impatto per l'Italia, da cui si evince che i primi benefici delle liberalizzazioni si manifesterebbero nell'arco di tre anni dall'entrata in vigore dell'accordo, immaginando il 2018 quale data più vicina, con un aumento del prodotto interno lordo dello 0,5 per cento nel migliore dei casi; secondo l'Ice solo le prime 10 imprese italiane, su 210 mila, monopolizzano oltre il 70 per cento dell’export italiano, quindi alle piccole imprese, se non già inserite nelle filiere globali, il trattato non risulta dare vantaggi, piuttosto potrebbero non sopravvivere allo shock, mentre le grandi imprese, che già sono ben inserite nel mercato globale, esportando grazie molto spesso alle esternalizzazioni di parti dell'impresa fuori dal territorio italiano, non risultano necessitare del trattato;
    erroneamente si ritiene che per l'Italia l'interesse strategico assoluto sia la riduzione massima delle barriere commerciali, quali i dazi, al fine di avere più aperture di mercato possibili, come se l'apertura dei mercati fosse la panacea per risolvere una situazione di crisi creata dallo stesso sistema economico neoliberista, che promuove, ad esempio, la gestione privatistica di beni e servizi essenziali i cui risultati fallimentari sono ben visibili, essendo l'interesse privatistico unicamente il raggiungimento dell'utile a fine anno e non la fornitura del bene o servizio a fini sociali; l'aumento del prodotto interno lordo può tradursi, a questo punto, nella distruzione di interi settori produttivi italiani, quali la manifattura e la piccola e media trasformazione, i presidi dop e igp;
    sulla natura di tale accordo viene affermato, tra l'altro, che potrebbe far aumentare l'economia europea di 120 miliardi di euro, considerazione frutto di studio che è stato commissionato da un ente, il Center for economic policy research (Cepr) di Londra che, secondo i firmatari del presente atto di indirizzo, non sembra risultare del tutto indipendente;
    sul sito dell’Economic and social research Council, si legge che il Center for economic policy research è finanziato dalla Banca d'Inghilterra, dalla Fondazione Rockefeller, dalla Banca del Canada e di Israele, dalla Banca centrale europea, dall’Alpha Bank, dalla Barclays, dal Citigroup, dal Credit Suisse, dall’Intesa San Paolo, dal gruppo Santander, da JP Morgan e altre banche e con i fondi del MES. Il Center for economic policy research è presieduto da Guillermo De La Dehesa, membro del «gruppo dei trenta» del comitato esecutivo del Banco Santander e consulente internazionale di Goldman Sachs. Alcuni ricercatori del Center for economic policy research risulta che lavorino per la Rockefeller foundation e la Banca mondiale. Il capo progetti del dossier del TTIP elaborato dal Center for economic policy research è Jospeh François economista di Linz (Austria) con cittadinanza statunitense e ha lavorato per l’International trade commission degli Stati Uniti, occupandosi degli accordi Nafta, Gatt E Wto;
    è logico considerare che il TTIP sia lontano dall'essere un progetto neutrale, la zona euro-americana di libero scambio legherebbe in maniera definitiva le sorti dell'Europa e dell'euro a quelle degli Stati Uniti e del dollaro, limitando la residua autonomia di un'Unione europea sempre meno integrata al suo interno e rischia di sfociare in un'annessione totale dell'Europa ai dettami finanziari e commerciali di Washington;
    il paventato rialzo dei tassi di interesse americani non sarebbe senza implicazioni per la politica monetaria nell'eurozona e imporrebbe alla Banca centrale europea di scegliere se svalutare l'euro o elevare il saggio di sconto, spingendo verso la bancarotta alcuni degli Stati periferici come l'Italia;
    sul piano strettamente economico giova rilevare che mentre il mercato unico, quantomeno nelle intenzioni, ha l'obiettivo di creare un'omogeneità di regolamentazione senza precedenti, volta ad assicurare ai cittadini europei uguali condizioni di partenza per l'esercizio dell'attività imprenditoriale, quello statunitense è frutto di anni di deregulation e i nostri operatori economici si troveranno a competere con concorrenti americani in un quadro caratterizzato dalla compresenza di assetti legislativi differenti, poiché difficilmente i negoziatori europei riusciranno a persuadere i colleghi d'oltreoceano sulla bontà delle pesanti normative in vigore nell'Unione europea. Inoltre, le regole e gli standard europei in termini di tutela della salute e delle condizioni di lavoro, come è noto più restrittivi in Europa rispetto agli Stati Uniti, riescono a tenere lontani dai nostri mercati alcuni prodotti non sicuri o tossici (cibi geneticamente modificati e trattati con nanoparticelle di vetro per aumentarne la croccantezza, residui di pesticidi nel cibo, ftalati nei giocattoli, carne agli ormoni, solo per fare qualche esempio), ma la preoccupazione di una concessione alle multinazionali di porsi al di sopra dei bisogni delle persone e di sfruttare in maniera incontrollata risorse naturali fondamentali come l'acqua, il suolo, i minerali rimane forte;
    l'Unione europea, attraverso il TTIP, potrebbe imporre con maggiore facilità le politiche di austerità e di smantellamento delle politiche sociali, inizialmente introdotte in modo forzoso a causa della crisi del debito pubblico, fino alla completa privatizzazione anche dei servizi essenziali alla persona;
    in particolare, relativamente al comparto agricolo, per il quale i fautori dell'accordo vantano benefici a doppio senso, in considerazione delle enormi barriere tariffarie esistenti, le preoccupazioni maggiori riguardano le importazioni di organismi geneticamente modificati, posto che gli Usa cercano sbocchi per grano e soia, e, in assenza di opportune salvaguardie, il rischio di chiusura di molte piccole aziende, in quanto la frammentazione della proprietà agraria che caratterizza il continente europeo comporta un'impari competizione con i grandi farmer statunitensi;
    si rileva l'esautorazione dei tribunali nazionali in caso di dispute legali, in quanto l'accordo prevede, infatti, l'inclusione dell’Investor State dispute settlement (ISDS), uno strumento che consentirebbe a un soggetto privato di denunciare un Governo per i mancati profitti derivanti da politiche sociali; per fare un esempio, accordi simili hanno fatto sì che la Philip Morris stia chiedendo il risarcimento ai Governi uruguaiano e australiano per le politiche di restrizione del fumo a tutela della salute; ciò, unitamente all'esautorazione dei tribunali nazionali nella risoluzione di dispute legali che verranno risolte da un organismo terzo, come già avviene con i panel dell'Organizzazione mondiale del commercio, metterebbe a rischio la tutela ambientale e sociale garantita dalla legislazione europea, di gran lunga più garantista per i cittadini di quanto non lo sia quella statunitense;
    è assolutamente necessario, dunque, sviluppare la dovuta informazione sul significato di tale tipo di scenario per la società, l'ambiente e la democrazia; a questo proposito, infatti, va evidenziato che sul sito della Commissione europea è disponibile il questionario per la consultazione informale sul TTIP, ma nessuna campagna informativa è stata promossa dai Ministeri competenti per i cittadini e le associazioni interessate; tutto questo mentre la legge n. 234 del 2012, recante «Norme generali sulla partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa delle politiche dell'Unione europea», prevede che il Governo debba obbligatoriamente rendere conto di tutte le riunioni e delle iniziative che avvengono nell'ambito dell'istituzione dell'Unione europea, compresi i negoziati per i trattati,

impegna il Governo:

   a riferire periodicamente al Parlamento in merito agli sviluppi delle trattative e, nell'ottica di una più ampia partecipazione democratica, a valutare l'opportunità di indire un referendum di indirizzo;
   ad intervenire presso le competenti sedi comunitarie affinché:
    a) si rivedano i termini dell'accordo al fine di escludere qualsiasi intesa che di fatto limiti la portata delle leggi della Repubblica italiana e, in particolare, si riconsideri il meccanismo di composizione delle controversie tra investitori e Stati, escludendo la previsione di un organismo terzo rispetto ai tribunali tradizionali;
    b) il partenariato si articoli su assetti legislativi quanto più omogenei e preveda forti tutele per l'agricoltura comunitaria;
    c) siano esclusi dall'ambito dell'accordo i beni fondamentali, quali la gestione del servizio idrico integrato e i servizi pubblici locali, le materie di carattere sanitario, fitosanitario e di conservazione ambientale, al fine di mantenere l'attuale sistema di tutela dei diritti sociali e del lavoro, nonché la preservazione dei beni comuni, quali acqua e terra/cibo, e le garanzie di accesso ai servizi essenziali;
    d) si svolgano adeguate consultazioni pubbliche attraverso l'attivazione di tavoli di lavoro partecipati volti a informare e coinvolgere i cittadini, le associazioni e la società civile in merito alle ragioni e agli effetti di un tale accordo e alle conseguenze che esso avrebbe sui rapporti politici e diplomatici con gli altri partner commerciali, quali i cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica);
    e) si introducano adeguati meccanismi di salvaguardia degli interessi produttivi degli Stati membri, in particolare di quelli dell'area mediterranea, qualora la Banca centrale europea decidesse di innalzare i tassi di interesse dell'eurozona, posto che il mantenimento di un obiettivo di cambio con il dollaro in rivalutazione genererebbe insormontabili difficoltà per le finanze pubbliche nazionali;
   a richiedere, a norma dell'articolo 218 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea una volta concluso l'accordo, il parere della Corte di giustizia dell'Unione europea circa la compatibilità delle disposizioni in esso contenute con quanto disposto dai Trattati, con particolare riferimento al meccanismo di risoluzione delle controversie tra investitore e Stato.
(1-00490)
(Nuova formulazione) «Gallinella, Daga, Sibilia, Agostinelli, Alberti, Artini, Baldassarre, Barbanti, Baroni, Basilio, Battelli, Bechis, Benedetti, Massimiliano Bernini, Paolo Bernini, Nicola Bianchi, Bonafede, Brescia, Brugnerotto, Businarolo, Busto, Cancelleri, Cariello, Carinelli, Caso, Castelli, Cecconi, Chimienti, Ciprini, Colletti, Colonnese, Cominardi, Corda, Cozzolino, Crippa, Currò, Da Villa, Dadone, Dall'Osso, D'Ambrosio, De Lorenzis, De Rosa, Del Grosso, Della Valle, Dell'Orco, Di Battista, Di Benedetto, Luigi Di Maio, Manlio Di Stefano, Di Vita, Dieni, D'Incà, D'Uva, Fantinati, Ferraresi, Fico, Fraccaro, Frusone, Gagnarli, Luigi Gallo, Silvia Giordano, Grande, Grillo, Cristian Iannuzzi, L'Abbate, Liuzzi, Lombardi, Lorefice, Lupo, Mannino, Mantero, Marzana, Micillo, Mucci, Nesci, Nuti, Parentela, Pesco, Petraroli, Pinna, Pisano, Prodani, Rizzetto, Rizzo, Paolo Nicolò Romano, Rostellato, Ruocco, Sarti, Scagliusi, Segoni, Sorial, Spadoni, Spessotto, Terzoni, Tofalo, Toninelli, Tripiedi, Turco, Vacca, Simone Valente, Vallascas, Vignaroli, Villarosa, Zolezzi».
(9 giugno 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP, Transatlantic trade and investment partnership) è un trattato di libero scambio e investimento, che l'Unione europea e gli Stati Uniti stanno attualmente negoziando;
    i negoziati sono stati avviati ufficialmente il 17 giugno 2013. Si segnala che il 9 ottobre 2014 il Consiglio europeo ha deciso di rendere pubblico il testo del mandato negoziale e, a tal fine, si è aperta una consultazione organizzata dal mediatore europeo, l'irlandese Emily ÒReilly, con cui i soggetti interessati possono dare suggerimenti sulle misure concrete che la Commissione europea dovrebbe intraprendere per rendere più trasparenti i negoziati sul TTIP. Tuttavia, in attesa dell'effettiva desecretazione degli atti, ad oggi non ancora attuata, dai documenti man mano emersi nell'ambito della discussione circa i diversi round, emerge il forte rischio che un trattato di questo tipo, mirando ad un'armonizzazione delle normative, quindi a un abbattimento delle regolamentazioni tra le due aree, porti ad un allentamento della normativa europea, solitamente più rigida, appiattendola ai livelli di quella statunitense;
    si sono avute numerose previsioni sugli effetti economici del Transatlantic trade and investment partnership. La stima citata più frequentemente proviene da una relazione di valutazione d'impatto, commissionata dalla Commissione europea al Centre for economic policy research di Londra. Secondo questa, l'ipotesi più ottimista per l'effetto di un accordo tra Unione europea e Stati Uniti afferma che il prodotto interno lordo dell'Unione europea aumenterebbe dello 0,5 per cento entro il 2027 (in media lo 0,036 per cento in un anno);
    gli Stati Uniti non hanno ratificato diverse convenzioni Ilo e Onu in materia di diritti del lavoro, diritti umani e ambiente. La mancata ratifica di dette convenzioni rende, negli Stati Uniti, il costo del lavoro più basso e il comportamento delle imprese nazionali più disinvolto e competitivo, in termini puramente economici, anche se più irresponsabile. La ratifica e la piena attuazione delle norme fondamentali del lavoro dell'Organizzazioni internazionale del lavoro dovrebbe rappresentare una delle condizioni fondamentali dell'accordo; tuttavia, i negoziati sembra vadano nella direzione opposta;
    per quanto attiene alla perdita di posti di lavoro, effetto collaterale solitamente inevitabile di accordi di libero scambio, la Commissione europea ha confermato la possibilità che il Transatlantic trade and investment partnership favorisca per i lavoratori europei un ricollocamento «dilazionato nel tempo ed effettivo», poiché le aziende verrebbero incoraggiate a procurarsi merci e servizi dagli Stati Uniti dove gli standard di lavoro sono più bassi e i diritti sindacali pressoché inesistenti («Impact assessment report on the future of EU-US trade relations», Strasburgo: Commissione europea, 12 marzo 2013, sezione 5.9.2.);
    in una fase in cui i tassi di disoccupazione in Europa hanno raggiunto livelli-record, con una disoccupazione giovanile in alcuni Stati membri dell'Unione europea che supera il 50 per cento, la Commissione europea ammette «timori fondati» che i lavoratori rimasti disoccupati a seguito del trattato Transatlantic trade and investment partnership non saranno più in grado di trovare un'altra occupazione. Al fine di offrire assistenza all'elevato numero di nuovi disoccupati, la Commissione europea ha suggerito agli Stati membri dell'Unione europea di ricorrere a fondi di sostegno strutturali, come il Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione e il Fondo sociale europeo, cui sono stati assegnati 70 miliardi di euro da distribuire nell'arco di sette anni, dal 2014 al 2020;
    molti contadini e consumatori sono preoccupati per un allentamento degli standard ambientali e sul trattamento degli animali, che regolano, ad esempio, le condizioni di vita negli allevamenti in batteria e in altre strutture per la produzione industriale di carne. Al momento, in Europa è possibile incoraggiare i contadini ad allevare gli animali in condizioni accettabili e a produrre per il mercato locale. Se il trattato di libero scambio andasse in porto, si sarebbe, invece, soggetti alle regole del mercato globale ed è risaputo: al mercato globale non importa più di tanto della protezione degli animali e dell'ambiente;
    la minaccia maggiore del Transatlantic trade and investment partnership è costituita probabilmente dalla clausola in esso contenuta che cerca di garantire alle società transnazionali il diritto di citare in giudizio direttamente i singoli Paesi per perdite subite in conseguenza a provvedimenti pubblici. Considerando le implicazioni che comporta, tale disposizione per la «risoluzione delle controversie tra stato e investitori» (Isds, Investor-State dispute settlement) non ha equivalenti nel diritto commerciale internazionale: il Transatlantic trade and investment partnership concederebbe alle imprese americane ed europee il potere di impugnare le decisioni democratiche prese da Governi sovrani e di chiedere risarcimenti nei casi in cui quelle decisioni avessero effetti negativi sui propri utili;
    nei Paesi in cui la Isds è già stata inclusa in trattati d'investimento bilaterali o altri accordi di libero scambio, i danni arrecati allo stato di diritto e alla democrazia sono ormai sotto gli occhi di tutti. Tra gli esempi più rilevanti si citano:
     a) la società energetica svedese Vattenfall sta facendo causa al Governo tedesco per 3.700 milioni di euro per via della decisione presa dal Paese di eliminare gradualmente l'energia nucleare a seguito del disastro nucleare di Fukushima;
     b) il gigante del tabacco americano Philip Morris sta facendo causa per migliaia di miliardi di dollari al Governo australiano per via della sua politica di sanità pubblica che impone la vendita di sigarette solo in pacchetti senza scritte; la Philip Morris ha citato in giudizio anche l'Uruguay a causa delle misure imposte da questo Stato nella lotta contro il fumo;
    l'accordo dovrebbe, inoltre, obbligare l'apertura o la liberalizzazione degli appalti pubblici a livello subnazionale, compreso il livello comunale. I governi locali rischiano, di conseguenza, di non poter far valere qualsiasi criterio sociale e ambientale nell'impiego di denaro pubblico a sostegno dello sviluppo economico locale sostenibile;
    il secondo pilastro del TTIP riguarda la realizzazione di una maggiore convergenza tra standard e regolamentazioni in molti settori. Tra questi, le maggiori divergenze sono distribuite tra istanze di tipo generale che riguardano vari settori dell'economia e problemi relativi a divergenze di approccio in settori chiave come i prodotti chimici e farmaceutici, le telecomunicazioni, la cultura e i servizi finanziari. Per quanto riguarda i temi generali, le maggiori divergenze in termini di approccio regolamentare sono riscontrabili in tre aree: la legislazione in tema di proprietà intellettuale, gli standard sull'approvazione di prodotti che possono avere effetto sulla salute e la protezione dei dati personali. Più nello specifico, nel campo della proprietà intellettuale l'Unione europea ha compiuto importanti passi con l'approvazione del brevetto unitario, ma permangono importanti divergenze con gli Stati Uniti, dove il concetto di denominazione d'origine appare pressoché sconosciuto, mentre nell'Unione europea esso viene utilizzato come baluardo delle tradizioni locali e garanzia di non appropriazione da parte di Paesi terzi. Come conseguenza, la Commissione europea vorrebbe stabilire un registro delle denominazioni di origine che abbia effetto vincolante, mentre gli Usa propendono per un sistema di registrazione puramente volontario e senza effetti cogenti; questo fattore andrebbe ad incidere sulla mancata armonizzazione legislativa e commerciale fra i due continenti;
    quanto ai temi settoriali, i principali problemi sono riscontrabili nei settori dei prodotti farmaceutici, chimici e cosmetici, nel settore alimentare, che rappresenta gran parte dei negoziati, e più in generale, in tutti i settori in cui la regolamentazione mira a garantire la sicurezza dei prodotti. In questi settori, l'Unione europea si affida al cosiddetto principio di precauzione e al controllo amministrativo e sostanziale ex ante nel determinare l'accesso al mercato di prodotti innovativi, come i novel food o gli organismi geneticamente modificati (ogm), mentre gli Stati Uniti prediligono un approccio basato sui costi e i benefici e sul controllo ex post. Ciò soprattutto alla luce del fatto che nell'ambito della negoziazione è emerso come gli Stati Uniti appaiono interessati a vendere una quota maggiore dei loro prodotti agricoli di base, quali il frumento e la soia, obiettivi che mettono in seria discussione la salute dei cittadini europei, nonostante il ribadire della Commissione europea che sottolinea come le norme fondamentali, come quelle in materia di organismi geneticamente modificati, o in difesa della vita e della salute umana, della salute e del benessere degli animali o dell'ambiente e degli interessi dei consumatori, non rientreranno nei negoziati. Quest'ultimo assunto sarà difficile da rispettare, considerando il fatto che proprio il frumento e la soia, alimenti fondamentali nel settore del mangime animale, siano fortemente esposti all'alto contenuto di organismi geneticamente modificati, soprattutto quelli di derivazione americana; inoltre, circa i sistemi di controllo fra i due continenti vi è la fondamentale differenza: mentre in Europa il controllo è fatto ex ante, negli Usa è fatto ex post; questa differenza non è pertanto in grado di mantenere l'obiettivo dichiarato della Commissione europea di salvaguardare la salute dei cittadini e di lasciare fuori dalle norme fondamentali del trattato proprio gli organismi geneticamente modificati che, al contrario, rischiano di essere immessi nella nostra catena alimentare, andando ad alterare la difesa della biodiversità sulla quale si basa prevalentemente il prodotto alimentare made in Europe,

impegna il Governo:

   a richiedere alla Commissione europea il pieno accesso ai documenti negoziali per i Parlamenti nazionali, data l'incidenza del loro contenuto sulle normative nazionali in essere anche in ambito non strettamente commerciale;
   ad istituire un meccanismo efficace di trasparenza e di consultazione in itinere del Parlamento, delle parti sociali e della società civile sui negoziati commerciali in corso a livello bilaterale, plurilaterale e multilaterale;
   a promuovere in sede europea un'azione contro la proliferazione di accordi commerciali di nuova generazione, che travalicano gli ambiti di stretta competenza commerciale, così come previsto dall'articolo 207 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, e minacciano di indebolire i principi più elementari della democrazia, tanto nell'Unione europea che negli Stati Uniti;
   ad assumere le opportune iniziative affinché siano mantenuti inalterati il principio di precauzione e gli standard qualitativi e di sicurezza sui prodotti immessi nei mercati europei e a non approvare alcun trattato sia nel vicino sia nel lontano futuro che preveda un sistema simile o analogo a quello dell’Investor-State dispute settlement (Isds) enucleato in premessa.
(1-00558)
(Nuova formulazione) «Kronbichler, Scotto, Fratoianni, Palazzotto, Pannarale, Airaudo, Franco Bordo, Costantino, Duranti, Daniele Farina, Ferrara, Giancarlo Giordano, Marcon, Matarrelli, Melilla, Nicchi, Paglia, Pellegrino, Piras, Placido, Quaranta, Ricciatti, Sannicandro, Zaratti, Zaccagnini».
(23 luglio 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    il 9 ottobre 2014, il Consiglio dell'Unione europea ha proceduto alla declassificazione delle «Direttive di negoziato sul Partenariato transatlantico per gli scambi e gli investimenti tra l'Unione europea e gli Stati Uniti d'America», cioè del mandato sulla cui base lo stesso Consiglio aveva autorizzato la Commissione europea, il 14 giugno 2013, ad avviare e sviluppare il negoziato bilaterale con gli Stati Uniti d'America;
    l'analisi delle sopradette «Direttive» conferma, anzitutto, che l'obiettivo dello sviluppo del partenariato transatlantico sugli scambi e sugli investimenti – ovvero di una reciproca liberalizzazione degli scambi di beni e servizi, attraverso un accordo concernente accesso al mercato, ostacoli non tariffari e questioni normative, che si traduca in «un risultato equilibrato tra la soppressione dei dazi, l'eliminazione di inutili ostacoli normativi agli scambi e il miglioramento normativo» – assume a suo fondamento «principi e valori comuni coerenti con i principi e gli obiettivi dell'azione esterna dell'Unione»;
    al riguardo, le «Direttive» prevedono che il preambolo dell'accordo «dovrà contenere, tra l'altro, i seguenti richiami: i valori condivisi in aree come i diritti umani, le libertà fondamentali, la democrazia e lo stato di diritto; l'impegno delle Parti a favore dello sviluppo sostenibile e il contributo del commercio internazionale allo sviluppo sostenibile per quanto riguarda i suoi aspetti economici, sociali e ambientali, inclusi lo sviluppo economico, l'occupazione piena e produttiva e il lavoro dignitoso per tutti, nonché la tutela e la conservazione dell'ambiente e delle risorse naturali; l'impegno delle Parti per la conclusione di un accordo pienamente coerente con i loro diritti e obblighi derivanti dall'OMC e favorevole al sistema di scambi multilaterali; il diritto delle Parti di prendere le misure necessarie per realizzare obiettivi legittimi di politica pubblica in base al livello di tutela della salute, della sicurezza, dei lavoratori, dei consumatori, dell'ambiente e della promozione della diversità culturale sancita dalla convenzione dell'UNESCO sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali, che esse ritengono appropriato; l'obiettivo, che le Parti condividono, di tenere conto dei problemi specifici che le piccole e medie imprese devono affrontare quando partecipano allo sviluppo degli scambi commerciali e degli investimenti; l'impegno delle Parti di comunicare con tutte le altre parti interessate, compresi il settore privato e le organizzazioni della società civile»;
    conseguentemente, le «Direttive» indicano, in sede di «obiettivi», che «l'accordo deve riconoscere che lo sviluppo sostenibile costituisce un obiettivo essenziale delle Parti, le quali intendono anche garantire e facilitare il rispetto degli accordi e delle norme internazionali in materia ambientale e del lavoro promuovendo, nel contempo, elevati livelli di tutela dell'ambiente, del lavoro e dei consumatori, coerenti con l’acquis dell'Unione europea e la legislazione degli Stati membri. L'accordo deve riconoscere che le Parti non promuoveranno gli scambi o gli investimenti diretti esteri rendendo meno severe la legislazione e le norme nazionali in materia di ambiente, lavoro, salute e sicurezza sul lavoro o meno rigide le politiche e le norme fondamentali del lavoro o le disposizioni legislative finalizzate alla tutela e alla promozione della diversità culturale»;
    pertanto, per quel che riguarda gli scambi di merci, le «Direttive» segnalano che «l'obiettivo è sopprimere tutti i dazi sugli scambi bilaterali, con lo scopo comune di raggiungere una sostanziale eliminazione delle tariffe al momento dell'entrata in vigore dell'accordo e una graduale abolizione di tutte le tariffe, salvo quelle più sensibili, in un breve arco di tempo» e, quanto alle norme di origine, che «i negoziati mireranno a conciliare l'approccio dell'UE e degli Stati Uniti in materia di norme di origine in modo da facilitare il commercio tra le Parti e tenere conto delle norme di origine dell'UE e degli interessi dei produttori dell'Unione», prevedendo comunque «una clausola sulle misure antidumping e compensative, la quale riconosca che una qualsiasi delle Parti può prendere le misure appropriate contro il dumping e/o sovvenzioni compensative (...)», nonché «una clausola di salvaguardia bilaterale che consenta ad una qualsiasi delle parti di rimuovere, in parte o integralmente, le preferenze se l'aumento delle importazioni di un prodotto proveniente dall'altra Parte arreca o minaccia di arrecare un grave pregiudizio alla sua industria nazionale»;
    quanto agli scambi di servizi, le «Direttive» annotano che «i negoziati sugli scambi devono tendere a vincolare l'esistente livello autonomo di liberalizzazione di entrambe le Parti al livello di liberalizzazione più elevato raggiunto dagli attuali accordi di libero scambio (...)», fermo restando che la Commissione europea «deve inoltre provvedere affinché nessuna disposizione dell'accordo vieti alle Parti di applicare le loro disposizioni legislative e regolamentari e le condizioni concernenti l'ingresso e il soggiorno purché queste ultime non annullino o compromettano i vantaggi derivanti dall'accordo»;
    restano, inoltre, «applicabili le disposizioni legislative e regolamentari e le condizioni dell'UE e degli Stati membri in materia di lavoro» e «l'elevata qualità dei servizi pubblici dell'UE deve essere preservata conformemente al TFUE e, in particolare, al protocollo n. 26 sui servizi di interesse generale e tenendo conto dell'impegno dell'UE in tale settore, compreso il GATS»;
    sul versante della tutela degli investimenti, ancora, le «Direttive» assumono, quale obiettivo dei negoziati, «disposizioni sulla liberalizzazione e sulla tutela degli investimenti, inclusi i settori di competenza mista quali gli investimenti di portafoglio e gli aspetti della proprietà e dell'esproprio, in base ai livelli più elevati di liberalizzazione e agli standard di tutela più alti che entrambe le Parti abbiano negoziato finora», precisando, altresì, che «previa consultazione con gli Stati membri e conformemente ai trattati UE, l'inclusione della tutela degli investimenti e della risoluzione delle controversie tra investitore e Stato (ISDS) dipenderà dall'eventuale raggiungimento di una soluzione soddisfacente rispondente agli interessi dell'UE (...)», anche in riferimento al non pregiudizio del diritto dell'Ue e degli Stati membri «di adottare e applicare, conformemente alle loro rispettive competenze, le misure necessarie al perseguimento non discriminatorio di legittimi interessi di politica pubblica negli ambiti sociale, ambientale, della sicurezza nazionale, della stabilità del sistema finanziario, della salute pubblica e della sicurezza»;
    in materia, poi, di appalti pubblici «l'accordo deve essere volto a rafforzare l'accesso reciproco ai mercati degli appalti pubblici a ogni livello amministrativo (nazionale, regionale e locale) e a quello dei servizi pubblici, in modo da applicarsi alle attività pertinenti delle imprese operanti in tale campo e garantire un trattamento non meno favorevole di quello riconosciuto ai fornitori stabili in loco», perseguendo una «compatibilità normativa», che tuttavia «non deve pregiudicare il diritto di legiferare conformemente al livello di tutela della salute, della sicurezza, dei consumatori, del lavoro, dell'ambiente e della diversità culturale che ogni Parte ritiene appropriato o di realizzare in altro modo obiettivi normativi legittimi»;
    i negoziati, in particolare, «mireranno a prevedere una protezione rafforzata e il riconoscimento mediante l'accordo delle indicazioni geografiche dell'UE, basandosi sui TRIPS e integrandoli, affrontando inoltre il rapporto con la loro precedente utilizzazione sul mercato statunitense al fine di risolvere in modo soddisfacente i conflitti esistenti» e «prenderanno in considerazione misure per facilitare e promuovere lo scambio di merci rispettose dell'ambiente e a basse emissioni di carbonio, beni, servizi e tecnologie caratterizzati da un uso efficiente dell'energia e delle risorse, anche tramite appalti pubblici verdi e un sostegno alle scelte di acquisto informate da parte dei consumatori»;
    l'accordo deve, altresì, «contemplare disposizioni a sostegno delle norme riconosciute a livello internazionale in materia di responsabilità sociale delle imprese, nonché di conservazione, gestione sostenibile e promozione del commercio di risorse naturali sostenibili (...)», mirando «a garantire un contesto imprenditoriale aperto, trasparente e prevedibile in campo energetico e ad assicurare un accesso illimitato e sostenibile alle materie prime» ed includendo «aspetti connessi al commercio che interessano le piccole e medie imprese»;
    la scelta di procedere alla declassificazione delle «Direttive» – fin qui rapidamente sintetizzate ed originariamente assunte come documento riservato ai fini dell'efficacia della strategia negoziale – può, dunque, certamente contribuire a chiarire interrogativi, dubbi e preoccupazioni da più parti avanzati circa l'impatto economico, sociale ed ambientale dell'accordo – con particolare riferimento agli effetti del partenariato transatlantico rispetto al sistema delle piccole e medie imprese, agli standard europei di salute e sicurezza della filiera agroalimentare e di tutela ambientale, al riconoscimento delle indicazioni d'origine ed al contrasto della contraffazione, alla risoluzione delle controversie tra investitore e Stato, ai diritti del lavoro, alla liberalizzazione dei servizi e degli appalti pubblici – poiché ne emerge un mandato negoziale di fondo per cui il perseguimento del maggiore coordinamento normativo e regolamentare transatlantico – ai fini della riduzione di barriere, duplicazioni e costi superflui – non implica riduzione della qualità della regolazione posta a tutela dell'ambiente, della salute e della sicurezza, così come, su altro ed essenziale versante, la tutela degli investimenti dalla discriminazione, dall'espropriazione e dal trattamento ingiusto ed iniquo, può anche chiamare in causa meccanismi di risoluzione delle controversie tra investitore e Stato (Isds – Investor State dispute settlement), ma senza che ciò mini la possibilità della salvaguardia di legittimi interessi di politica pubblica;
    del resto, il capo negoziatore dell'Unione europea, Ignacio Garcia Bercero, facendo il punto, il 3 ottobre 2041, sull'andamento del negoziato a conclusione del settimo round, ha sottolineato la chiarezza e la fermezza del mandato ricevuto circa il punto che «non sarà fatto nulla che possa indebolire o danneggiare la protezione dell'ambiente, della salute, della sicurezza, dei consumatori o qualsiasi altro obiettivo delle politiche pubbliche perseguito dai regolatori dell'Ue o degli USA» e che, quanto ai servizi, «i Governi restano liberi di decidere in qualsiasi momento che certi servizi siano forniti dal settore pubblico», mentre il Commissario europeo designato, Cecilia Malmström, ha riaffermato, nella sua audizione al Parlamento europeo, che i processi decisionali sulle nuove regolazioni rimarranno soggetti agli esistenti controlli democratici;
    pur essendo fin d'ora chiaro il potenziale del processo di compiuta liberalizzazione di un'area il cui interscambio di beni e servizi vale, già oggi, circa due miliardi di euro al giorno, meritano, comunque, attenta verifica le principali stime fin qui effettuate in ordine all'impatto economico dell'accordo cifrato, in uno scenario di piena attuazione, in 120 miliardi di euro l'anno aggiuntivi a beneficio dell'economia europea, in 90 miliardi di euro a beneficio dell'economia statunitense e in 100 miliardi di euro a beneficio delle altre aree economiche mondiali;
    è, peraltro, evidente il più ampio significato geopolitico del TTIP, poiché – rappresentando le parti interessate circa la metà della produzione mondiale – l'accordo potrebbe assumere il rilievo di uno «standard globale» e concorrere al rafforzamento di modelli di governo democratico della globalizzazione oggi più che mai necessari;
    per quel che specificamente riguarda l'Italia, la «Stima degli impatti sull'economia italiana derivanti dall'accordo di libero scambio USA-UE» – effettuata, a giugno del 2013, da Prometeia – evidenzia che: «Un'estensione ampia dell'accordo di liberalizzazione potrebbe incidere in misura apprezzabile sulla crescita italiana e degli altri paesi coinvolti, arrivando a sfiorare il mezzo punto percentuale per la nostra economia. In questo caso, a tre anni dall'applicazione dell'accordo il Pil aumenterebbe, al netto dell'inflazione, di 5,6 miliardi di euro e l'occupazione totale di circa 30 mila unità»;
    l'ICE – osservando che «i benefici dell'accordo per le imprese europee discenderebbero da una barriera protezionistica “differenziale”, data dalla preferenza per i prodotti europei negli Stati Uniti e americani nell'Unione europea in seguito all'eliminazione dei dazi e degli altri ostacoli al commercio», che «equivarrebbe ad un dazio (o misura di effetto equivalente) “differenziale” sulle merci degli esportatori dei paesi esclusi dall'accordo» – ha sottolineato che in ragione del considerevole «peso relativo sull'export verso gli USA di meccanica, moda, alimentari e bevande, con produzioni sensibili al prezzo ed esposte alla concorrenza asiatica, il “dazio differenziale” aiuterebbe la produzione italiana più di quanto favorirebbe quella di un paese con produzione più differenziata o a maggiore valore aggiunto o che esporta beni a domanda più rigida»;
    al riguardo – come osservato da Confindustria – sarebbe comunque utile «adottare una prospettiva diversa e più ampia nel calcolare le ricadute di questo accordo e degli altri a venire (...). L'analisi d'impatto che la Commissione prevede di condurre a negoziati avviati, anziché limitarsi agli effetti sui flussi commerciali, potrebbe utilmente approfondire le implicazioni dell'accordo sui due sistemi produttivi e trarne al più presto le necessarie conseguenze in termini di politiche industriali e di rafforzamento del proprio settore manifatturiero»;
    peraltro, la portata potenziale dell'accordo e la sua effettiva traduzione in occasione di costruzione di occupazione e crescita aggiuntive chiamano certamente in causa la capacità di coordinamento delle politiche economiche nell'area transatlantica, nonché, in particolare, il coordinamento, pur nella consapevolezza della loro diversità di missione, delle scelte di politica monetaria operate dalla Banca centrale europea e dalla Federal Reserve allo scopo di contrastare sfasature negli interventi e rischi di «conflitti valutari»,

impegna il Governo:

   ad agire, in particolare nella fase del semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea, affinché siano concretamente valorizzate le previsioni delle «Direttive di negoziato sul Partenariato transatlantico per gli scambi e gli investimenti tra l'Unione europea e gli Stati Uniti d'America» circa l'impegno della Commissione europea a sviluppare, nel corso della trattativa, «un dialogo regolare con tutte le pertinenti parti interessate della società civile» e ciò, in particolare, in occasione dei diversi round del negoziato, allo scopo di consentire di valutarne l'avanzamento rispetto all'impostazione del mandato originario;
   ad agire ancora, in particolare nella fase del semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea, affinché siano concretamente valorizzate le previsioni delle sopradette «Direttive» circa l'esame dell'impatto economico, sociale ed ambientale dell'accordo «mediante una valutazione d'impatto per la sostenibilità (SIA) indipendente, cui partecipi la società civile, che sarà condotta in parallelo ai negoziati e che sarà conclusa prima della sigla dell'accordo», integrando altresì le stime sugli effetti economici dell'accordo fin qui effettuate con un approfondimento delle sue refluenze sulla struttura dei sistemi produttivi coinvolti nel partenariato, sui loro divari di competitività e sulle conseguenti necessità d'intervento, considerato che il Consiglio dell'Unione europea potrebbe indicare come procedere in tal senso, sia ai fini dell'individuazione delle risorse disponibili per effettuare tale valutazione che per la scelta del soggetto che la condurrà;
   a vigilare, in particolare nella fase del semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea, su un approccio equilibrato ai meccanismi arbitrali Investor State dispute settlement (Isds), che tenga presente le ragioni della tutela della qualità dei servizi pubblici essenziali, dei diritti sociali e del lavoro e delle norme ambientali;
   a riaffermare, in particolare nella fase del semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea e in sede di confronto con il Consiglio e con la Commissione europea, la necessità per il settore alimentare – ai fini dell'avanzamento del negoziato Transatlantic trade and investment partnership (TTIP) – del riconoscimento delle indicazioni geografiche (IIGG) e del contrasto dell’«italian sounding» e, più in generale, la rilevanza delle barriere non tariffarie, di natura tecnico-regolamentare, quale ostacolo all'accesso al mercato statunitense da parte delle imprese europee;
   a sottolineare, in particolare nella fase del semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea, l'importanza di un approccio al negoziato Transatlantic trade and investment partnership (TTIP) particolarmente attento alla valorizzazione delle sue opportunità per le piccole e medie imprese e, dunque, alla messa in opera di ogni utile strumento di supporto all'accrescimento della partecipazione di dette imprese all'interscambio commerciale dell'area transatlantica, a partire dagli appositi help-desk già discussi in sede di trattativa;
   a sospingere dunque – in particolare nella fase del semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea e con l'adeguato coinvolgimento del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali, cui regolarmente riferire circa stato e sviluppi delle trattative – il tempestivo avanzamento del negoziato, affinché, proprio prendendo le mosse dalla scelta di de-secretazione del mandato negoziale, si proceda alla definizione degli obiettivi effettivamente raggiungibili e della conseguente tabella di marcia, cercando di cogliere – come è anche emerso nel corso dell'appuntamento di Roma sul Transatlantic trade and investment partnership (TTIP) del 14 ottobre 2014, evento promosso dalla Presidenza italiana del Consiglio dell'Unione europea – la finestra di opportunità per la conclusione di un accordo, finestra che si protrarrà fino ai primi mesi del 2016, a ridosso delle primarie americane.
(1-00630)
«Taranto, Benamati, Amendola, Berlingheri, Gentiloni Silveri, Martella, Quartapelle Procopio, Tidei, Ginefra, Senaldi, Bargero, Scuvera, Albini, Iacono, Bonomo, Montroni, Petitti, Schirò, Camani, Giulietti, Sani, Carbone, Manciulli».
(20 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    si rileva la straordinaria importanza dei negoziati in corso tra la Commissione europea ed il Governo degli Stati Uniti, finalizzati alla creazione di un Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti, o Transatlantic trade and investment partnership, TTIP;
    si sottolinea, da un lato, come dal raggiungimento di un accordo tra la Commissione europea ed il Governo degli Stati Uniti possa sorgere il più grande e ricco mercato del mondo, con potenziali effetti positivi per le imprese di entrambi i contraenti e come, dall'altro, sussistano tuttavia anche importanti elementi d'incertezza sulla natura del partenariato che si sta negoziando;
    in particolare, l'Unione Europea è un'area economica ad alto tasso di regolamentazione, mentre gli Stati Uniti hanno sperimentato nel corso degli ultimi decenni un'intensa deregulation; si delinea così l'adesione delle due parti negozianti a modelli sociali profondamente differenti;
    sotto il profilo dei contenuti, esistono orientamenti radicalmente differenti negli Stati Uniti e nell'Unione Europea in alcune materie sensibili, come la commerciabilità dei prodotti agricoli geneticamente modificati;
    indiscrezioni sull'andamento dei negoziati euro-americani stanno lasciando intendere che potrebbero essere eliminate anche le barriere non tariffarie che proteggono alcune caratteristiche socio-economiche e culturali dei Paesi membri dell'Unione europea, al punto che si dubita persino della sostenibilità a lungo termine del modello della cosiddetta «economia sociale di mercato»;
    è conseguentemente della massima importanza conoscere, comprendere e discutere l'assetto normativo che assumerà l'area transatlantica in via di realizzazione, anche per potervi incidere in modo funzionale agli interessi del nostro Paese ed alle legittime aspettative della sua opinione pubblica;
    destano preoccupazione:
     a) le sorti di interi comparti produttivi europei, come l'agroalimentare ed i settori a più alta intensità di tecnologia, che rischiano di essere esposti alla concorrenza delle imprese d'oltreoceano, in grado di sfruttare vantaggi competitivi semplicemente incolmabili per le aziende europee, si pensi, ad esempio, alla grande differenza dimensionale che esiste, per ragioni storiche e culturali non trascurabili, tra le farm americane e le imprese agricole europee;
     b) la possibilità che i mercati dell'Unione europea siano invasi da prodotti agroalimentari o farmaceutici non garantiti secondo gli standard imposti dalla disciplina comunitaria;
     c) quanto filtra a proposito del diritto che le imprese nordamericane si vedrebbero riconoscere a citare in giudizio gli Stati europei dai quali si ritenessero danneggiate, ad esempio in materia di appalti, causa tra l'altro di una crescente opposizione della Germania all'avanzata delle trattative;
     d) la possibilità che dalla creazione della partnership transatlantica derivi, altresì, una notevole compressione dell'autonomia politica dell'Unione europea, che potrebbe trovarsi a dover dare automatica attuazione alle scelte degli Stati Uniti in materia di concessione o revoca della clausola della nazione più favorita, rendendo automatica l'adesione dell'Unione europea alle strategie sanzionatorie deliberate dall'amministrazione e dal Congresso statunitensi;
    negli ultimi 18 mesi i Governi della Repubblica hanno sistematicamente espresso l'appoggio pressoché incondizionato del nostro Paese al successo dei negoziati per il TTIP senza aver sottoposto la questione al preventivo vaglio del Parlamento, come se si trattasse di un accordo tecnico di secondaria importanza;
    si registra la perdurante assenza di un vero dibattito nel Parlamento e nel Paese sull'argomento, imputabile in larga misura alla mancanza di informazioni affidabili;
    è ormai indifferibile l'apertura di un confronto serio sulle questioni oggetto del partenariato transatlantico in via di negoziazione, alla luce della rilevanza e potenziale irreversibilità dei suoi effetti,

impegna il Governo:

   a richiedere alla Commissione europea il pieno accesso ai documenti negoziali per i Parlamenti nazionali, data l'incidenza che il loro contenuto potrebbe avere sul diritto e sul futuro socio-economico degli Stati membri dell'Unione europea, anche in ambiti non strettamente commerciali;
   ad informare tempestivamente il Parlamento ed il Paese circa l'andamento ed i contenuti del negoziato finalizzato alla creazione del Partenariato per il commercio e gli investimenti tra Unione europea e Stati Uniti d'America, finora svoltosi in un clima di ingiustificata segretezza, nonché in merito alle posizioni che hanno, nei confronti del Transatlantic trade and investment partnership (TTIP), i principali Stati membri dell'Unione europea;
   ad adoperarsi in tutte le sedi competenti affinché nel negoziato con gli Stati Uniti trovino adeguata tutela gli interessi dei Paesi europei e dell'Italia in particolare, scongiurando in primo luogo il rischio che la realizzazione del Transatlantic trade and investment partnership (TTIP) possa implicare il completo smantellamento della Politica agricola comune e del sistema regolatorio creato a tutela del consumatore europeo, a partire dalle norme che limitano la vendita nell'Unione europea dei prodotti geneticamente modificati;
   a respingere qualsiasi ipotesi di intesa transatlantica suscettibile di cristallizzare ed amplificare i vantaggi competitivi di cui le imprese nordamericane godono nei confronti di quelle europee in numerosi comparti, dall'agricoltura all'aerospazio;
   ad adoperarsi affinché i negoziatori della Commissione europea difendano la specificità socio-economica ed identitaria del modello europeo rispetto a qualsiasi disposizione dell'accordo che possa minacciarla e tutelino l'Unione europea dal rischio di perdere la propria autonomia politica in materia di commercio estero e di eventuali regimi sanzionatori.
(1-00631)
«Gianluca Pini, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Busin, Caon, Caparini, Fedriga, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Prataviera, Rondini, Simonetti».
(20 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    l'8 luglio 2013 si è svolta a Washington la prima sessione negoziale, finalizzata alla conclusione di un importante accordo di libero scambio economico Usa-Unione europea: l'accordo di partenariato per il commercio e gli investimenti tra Unione europea e Stati Uniti d'America (Transatlantic trade and investment partnership – TTIP);
    il trattato, che si presenta come un accordo di ampia portata volto ad includere la riduzione delle barriere normative non tariffarie al commercio di beni e servizi, l'accesso alle commesse pubbliche, la definizione di nuovi e più ambiziosi standard in alcuni settori industriali e gli investimenti, è stato ritenuto dai Presidenti Barroso, Van Rompuy e Obama, come uno degli strumenti di maggiore rilevanza, attraverso il quale il TTIP potrà sostenere sia l'economia europea, che quella americana;
    la conclusione positiva del TTIP, in base ad alcune stime, determinerebbe, a tal fine, una serie di ricadute estremamente positive sull'occupazione e la crescita per entrambe le sponde dell'Atlantico, i cui vantaggi prodotti da un futuro accordo deriverebbero, per una quota compresa fra i due terzi e i quattro quinti, dal taglio della burocrazia e da un più intenso coordinamento fra le autorità di regolamentazione;
    la Commissione europea, a tal fine, ha stimato che dal presente anno 2014 fino al 2027 il prodotto interno lordo dell'Unione europea, in caso di una definizione favorevole dell'accordo, beneficerebbe un aumento annuo medio dello 0,4 per cento, mentre quello americano dello 0,5 per cento, a differenza di altre stime che evidenziano invece elevati aumenti del prodotto interno lordo pro capite (quasi il 5 per cento in più per l'Italia);
    gli effetti vantaggiosi determinati dall'eventuale conclusione di un propizio accordo di partenariato per il commercio e gli investimenti tra Unione europea e Stati Uniti d'America potrebbero, inoltre, recuperare l'iniziativa sul piano della definizione degli standard e delle regole del commercio internazionale;
    l'accordo, tuttavia, potrebbe essere largamente ridimensionato nel corso del negoziato a causa di una molteplicità di difficoltà connesse, dalla difficile armonizzazione degli standard tecnici e degli approcci alla regolamentazione in settori industriali strategici, dalla regolamentazione dei mercati finanziari, dalla protezione dei dati personali e della proprietà intellettuale alle commesse pubbliche e ai sussidi alle imprese locali;
    una vasta parte dell'opinione pubblica si interroga, a tal fine, sull'effettivo significato del valore del TTIP, il cui rapporto nella regolamentazione si propone di individuare metodi razionali per rendere maggiormente compatibili tra loro la regolamentazione dell'Unione europea con quella degli Stati Uniti, garantendo, al contempo, un'adeguata tutela dei cittadini;
    a tal fine risulta importante rilevare che i contenuti dell'accordo di libero scambio sono stati ufficialmente resi noti dall'Unione europea soltanto di recente, attraverso un documento predisposto dal Consiglio dell'Unione europea e composto da 18 pagine, datato 9 ottobre 2014, all'interno del quale tra i 46 obiettivi indicati dall'intesa è inclusa l'apertura del mercato statunitense degli appalti pubblici, nonché l'introduzione dell'arbitrato internazionale Stato-imprese, il cosiddetto Investor State dispute settlement (Isds), il cui meccanismo consentirà agli investitori di citare in giudizio i Governi presso le corti arbitrali internazionali;
    la decisione di declassificare le direttive negoziali, se, da un lato, costituisce un indubitabile aspetto condivisibile, in particolare se rapportato alla possibile incidenza che il nostro Paese potrà determinare nel corso del semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea, conferma tuttavia il permanere di una complessiva mancanza di trasparenza e di scarse informazioni rivolte, ad esempio, agli standard su lavoro, ambiente, legislazione sanitaria, prezzi dei farmaci, libero utilizzo di internet, privacy dei consumatori, energia, brevetti e materia di copyright e albi professionali;
    una riduzione di regole e normative, come sostengono fra l'altro alcune numerose organizzazioni non governative, se per alcuni aspetti può liberare le economie di entrambi i continenti, rilanciando la crescita e migliorando i livelli di competitività, dall'altro, se non adeguatamente monitorata, può determinare ripercussioni gravissime, innanzitutto su un comparto strategico dell'economia italiana quale quello agro-alimentare che, in questa trattativa, gli Usa considerano strategico;
    il Presidente del Consiglio dei Ministri la scorsa settimana, esprimendo il suo parere nell'ambito del TTIP, ha rilevato che il semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea deve rappresentare l'occasione per un salto di qualità e uno scatto in avanti per la definizione dell'accordo di libero scambio Unione europea-Usa, aggiungendo inoltre che esso rappresenta una fondamentale scelta strategica;
    una valutazione complessiva sulla regolamentazione che il TTIP intende compiere in maniera risolutiva per i prossimi anni, risulta pertanto prematura, anche in considerazione delle articolate osservazioni in precedenza richiamate, per consentire una previsione ottimistica delle prospettive di ciò che, tuttavia, rimane il più ambizioso progetto transatlantico di cooperazione;
    le rispettive offerte nell'ambito del partenariato per il commercio e gli investimenti tra Unione europea e Stati Uniti d'America (TTIP), che può rappresentare uno strumento utile di stimolo alla crescita per l'Unione europea, assumono per l'Italia un valore strategico e fondamentale sia economico che d'immagine, in considerazione della centralità che il sistema Paese riveste a livello planetario con il made in Italy, le cui caratteristiche uniche ed inimitabili riassumono valori distintivi riconosciuti, non soltanto in Europa e negli Stati Uniti, ma a livello pressoché globale;
    la necessità di vigilare, con particolare attenzione, attraverso un impulso politico rigoroso e incisivo, sul proseguimento dei negoziati al fine di valutare quali scelte decisionali sono state assunte all'interno del futuro accordo per la creazione di un'area transatlantica di libero scambio, riveste pertanto un'importanza determinante per l'Italia, proprio in considerazione del prestigio che il made in Italy riveste a livello nazionale e mondiale;
    rafforzare la leadership italiana e tutti gli attori della filiera coinvolti nella realizzazione delle eccellenze del made in Italy, autentico baluardo dei valori nazionali, nell'ambito dei processi decisionali, del TTIP nei riguardi della vasta gamma dei prodotti offerti sui mercati internazionali, costituisce, a tal fine, una priorità per l'Esecutivo italiano da salvaguardare e tutelare nei diversi capitoli del negoziato, in un'ottica di mutuo vantaggio,

impegna il Governo:

   a riferire periodicamente nelle sedi istituzionali competenti circa l'evoluzione del processo negoziale riferito al partenariato per il commercio e gli investimenti tra Unione europea e Stati Uniti d'America (TTIP), che si presenta come un accordo di portata molto ampia, come richiesto dalle regole dell'Organizzazione mondiale del commercio per gli accordi preferenziali di commercio internazionale, coinvolgendo con maggiore partecipazione anche il Parlamento nei «pacchetti legislativi» che s'intendono proporre;
   a monitorare lo svolgimento delle trattative, con particolare attenzione, affinché ogni decisione intrapresa nell'ambito dei negoziati Unione europea-Usa non produca effetti negativi e penalizzanti per il sistema del made in Italy, il cui giro d'affari, pari a 62 miliardi di euro per il 2014 e 47 miliardi di euro per l’export, implica l'esigenza di innalzare i livelli di tutela e di salvaguardia dei prodotti italiani, in particolare quelli dell'agroalimentare, all'interno dei processi decisionali che s'intendono prevedere nel Transatlantic trade and investment partnership (TTIP);
   ad intervenire in sede europea – in attesa di ulteriori elementi informativi, oltre al documento declassificato da parte del Consiglio dell'Unione europea, datato 9 ottobre 2014, che non risulta essere esaustivo, considerando la vastità delle materie interessate – al fine di chiarire che i negoziati sul Transatlantic trade and investment partnership (TTIP) non determineranno un abbassamento degli standard in materia di sicurezza, ambiente, agroalimentare italiano e tutela dei consumatori finali, e negli altri settori in precedenza riportati;
   a prevedere meccanismi di tutela e salvaguardia per il sistema delle piccole e medie imprese, che rappresentano il tessuto connettivo dell'economia europea, arrivando a rappresentare il 99,8 per cento del totale delle imprese europee, al fine di evitare che il quadro regolatorio definito dalle scelte conclusive dell'accordo di partenariato per il commercio e gli investimenti tra Unione europea e Stati Uniti d'America possa essere sbilanciato a vantaggio delle imprese di grande dimensione;
   a perseguire ogni utile iniziativa in sede comunitaria, affinché il partenariato per il commercio e gli investimenti tra Unione europea e Stati Uniti d'America (TTIP) possa ridurre in maniera significativa gli oneri burocratici, considerando che le conseguenze favorevoli di ciò inciderebbero positivamente sui costi delle attività economiche transatlantiche, facilitando per le imprese il compito di rispettare contemporaneamente la legislazione europea e quella americana, la cui semplificazione potrebbe garantire per le rispettive economie una nuova crescita per alcuni miliardi di euro.
(1-00632)
(Nuova formulazione) «Palese, Bergamini».
(20 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    nel luglio 2013 si è svolta a Washington la prima sessione negoziale per la conclusione di un grande accordo di libero scambio economico USA-UE: il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Transatlantic trade and investment partnership, TTIP). Il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti è un accordo commerciale che è attualmente in corso di negoziato tra l'Unione europea e gli Stati Uniti con l'obiettivo di rimuovere le barriere commerciali in una vasta gamma di settori economici per facilitare l'acquisto e la vendita di beni e servizi tra Europa e Stati Uniti;
    il TTIP si presenta come un accordo di ampia portata che riguarda la questione delle barriere non tariffarie al commercio di beni e servizi, l'accesso alle commesse pubbliche, la definizione di nuovi e più ambiziosi standard in alcuni settori industriali e gli investimenti. Oltre a ridurre le tariffe in tutti i settori, l'Unione europea e gli Stati Uniti vogliono affrontare il problema delle barriere doganali, come le differenze nei regolamenti tecnici, le norme e procedure di omologazione: spesso, infatti, questi rappresentano un aggravio inutile in termini di tempo e denaro per le società che vogliono vendere i loro prodotti su entrambi i mercati;
    l'accordo porterebbe a ricadute estremamente positive su occupazione e crescita per i Paesi interessati. La Commissione europea ritiene che, da oggi al 2017, il prodotto interno lordo dell'Unione europea beneficerebbe di un aumento annuo medio dello 0,4 per cento e quello americano dello 0,5 per cento. L'Unione europea ha, inoltre, effettuato una valutazione d'impatto dei potenziali effetti dell'accordo. Tale valutazione non si è limitata ad esaminare l'impatto economico, ma anche le potenziali ripercussioni sociali ed ambientali. Sono, quindi, state prese in considerazione le possibili situazioni risultanti da diversi gradi di liberalizzazione tra Unione europea e Usa. In tutti i casi l'effetto complessivo per l'Unione europea si è rilevato positivo, ma è emerso in maniera chiara che esso sarebbe tanto più positivo quanto più elevato sarà il grado di liberalizzazione;
    uno degli studi su cui si è basata la valutazione d'impatto della Commissione europea è una relazione indipendente commissionata dall'Unione europea al Centro di ricerca per la politica economica di Londra. Lo studio suggerisce che il beneficio per l’ economia dell'Unione europea potrebbe ammontare a 119 miliardi di euro l'anno. Sempre secondo lo studio l'economia statunitense potrebbe ricavarne un utile supplementare di 95 miliardi di euro l'anno. Questi benefici avrebbero un costo esiguo perché deriverebbero dall'eliminazione delle tariffe doganali e dalla soppressione delle norme inutili e delle lungaggini amministrative che rendono difficile acquistare e vendere oltreoceano. La crescita economica supplementare, quindi, che dovrebbe derivare dal TTIP sarà vantaggiosa per tutti. Rilanciare il commercio è un buon modo di dare impulso alle nostre economie, creando una maggiore domanda ed offerta senza dover aumentare la spesa e l'indebitamento pubblici;
    benché le tariffe tra Unione europea e Stati Uniti siano già basse, le dimensioni sia delle economie dell'Unione europea e degli Usa che dei loro scambi commerciali indicano che uno smantellamento tariffario sarebbe vantaggioso sul piano della crescita e dell'occupazione. L'area in cui tali negoziati potrebbero realizzare un notevole risparmio per le imprese, creare occupazione e garantire maggiori vantaggi per i consumatori è quella relativa all'eliminazione di norme e disposizioni inutili: i cosiddetti ostacoli non tariffari. Il taglio alla burocrazia, pertanto, ridurrebbe i costi delle attività economiche transatlantiche, facilitando alle imprese il compito di rispettare contemporaneamente le leggi europee e quelle americane;
    le imprese, i lavoratori ed i cittadini europei trarrebbero un enorme vantaggio da una maggiore apertura del mercato statunitense. Infatti, l'Unione europea dispone di molte imprese altamente competitive che producono prodotti e offrono servizi di qualità eccellente. Pertanto, l'eliminazione delle tariffe e di altri ostacoli al commercio consentirà ai produttori europei di incrementare le vendite verso gli Usa, fattore positivo sia per le imprese che per l'occupazione. Rimuovere gli ostacoli ai prodotti e agli investimenti originari degli Stati Uniti d'America e dell'Unione europea si traduce in una più ampia scelta e prezzi inferiori per la popolazione europea;
    nonostante USA e Unione europea siano, tra di loro, i principali partner commerciali, nonché i primi fornitori esteri di servizi e i maggiori investitori nei rispettivi mercati, il vasto complesso dell'economia transatlantica non riposa su alcun trattato che ne regoli il funzionamento interno in maniera sistematica;
    il TTIP si presenta come un accordo di portata molto ampia. Il negoziato relativo all'accordo si concentrerà, in particolare, sulla questione delle barriere non tariffarie al commercio di beni e servizi, ma anche sull'accesso alle commesse pubbliche in molti settori, sulla definizione di nuovi e più ambiziosi standard in alcuni settori industriali e sugli investimenti;
    per quanto riguarda le barriere tariffarie tra Usa ed Unione europea, come già detto, si può riferire che tra i due blocchi queste si attestano al 4/5 per cento in media per beni e servizi, anche se vi sono settori nei quali il livello tariffario appare abbastanza elevato (ad esempio, il settore delle infrastrutture, in particolare delle ferrovie, il tessile, l'abbigliamento);
    ben più significative sono le barriere di tipo non tariffario dovute a divergenze regolamentari in molti settori, tra cui quello automobilistico, quello chimico e quello farmaceutico. Basti pensare che nel settore dei prodotti chimici i dazi doganali imposti dagli Stati Uniti ai prodotti europei sono circa dell'1,2 per cento, mentre le barriere non tariffarie comportano un peso addizionale di circa il 19,1 per cento e che nel settore automobilistico le barriere tariffarie applicate dall'Europa nei confronti dei prodotti Usa sono di circa il 10 per cento, ma quelle non tariffarie arrivano al 25,5 per cento;
    nel quadro degli scambi commerciali tra Unione europea ed Usa spicca il settore delle commesse pubbliche soggetto ad un accordo plurilaterale noto come Government procurament agreement (Gpa). Si tratta di un settore in costante espansione. Nell'ambito del Government procurament agreement la differenza tra Unione europea ed Usa è evidente: l'Unione europea ha aperto alla concorrenza circa l'85 per cento dei propri mercati. Negli Stati Uniti, al contrario, le liberalizzazioni sono avvenute in modo parziale. Inoltre, le probabilità di concessioni reciproche da parte di Usa ed Unione europea in settori chiave, come quelli della difesa, dell'aeronautica e delle infrastrutture sono assai modeste;
    i negoziati per il TTIP comprendono anche l'agricoltura. L'apertura dei mercati agricoli comporterà vantaggi reciproci per l'Unione europea e gli USA. Gli Stati Uniti sono interessati a vendere una quota maggiore dei loro prodotti agricoli di base, quali il granoturco e la soia. Le esportazioni dell'Unione europea verso gli Usa interessano in genere prodotti alimentari di maggiore valore, come alcolici, vino, birra e alimenti trasformati (ad esempio formaggi e prosciutto). L'Unione europea ha un chiaro interesse a potenziare le vendite negli Stati Uniti dei prodotti alimentari di alta qualità che produce, senza inutili ostacoli tariffari o non tariffari. Alcuni prodotti alimentari europei, tra cui i prodotti lattiero-caseari, ma anche le mele e le pere, incontrano notevoli ostacoli non tariffari che ne limitano l'accesso al mercato statunitense. L'eliminazione di questi e di altri ostacoli contribuirebbe a rafforzare le esportazioni dell'Unione europea verso gli Stati Uniti;
    i detrattori dell'accordo sostengono che l'azzeramento delle barriere non tariffarie comporterebbe l'ingresso di prodotti alimentari contenenti organismi geneticamente modificati o prodotti che non ottemperano gli standard di sicurezza europei in materia di uso di sostanze chimiche tossiche, leggi sanitarie, prezzi dei farmaci, libertà di internet e privacy dei consumatori, energia, brevetti e copyright e gli albi professionali; gli Usa considerano strategico l'accordo per la parte agroalimentare, ma non sono chiari gli effetti che questo potrebbe avere sul made in Italy agroalimentare e sulla lotta all’Italian sounding;
    un ulteriore aspetto problematico consiste nell'introduzione dell'arbitrato internazionale Stato-imprese, il cosiddetto Investor State dispute settlement (Isds), il cui meccanismo consentirà agli investitori di citare in giudizio i Governi presso le corti arbitrali internazionali con riflessi problematici sull'applicazione delle norme di maggior tutela dei consumatori di cui dispone l'Unione europea;
    perché i negoziati commerciali funzionino e abbiano esito positivo, è necessario un certo grado di riservatezza, ma nel corso dei negoziati occorre, tuttavia, che la Commissione europea continui ad intrattenere contatti con l'industria, le associazioni di categoria, le organizzazioni dei consumatori e altre rappresentanti della società civile;
    la Commissione europea, pertanto, dovrà comunicare agli Stati membri, in sede di Consiglio e di Parlamento europeo, gli sviluppi dei negoziati,

impegna il Governo:

   a riferire periodicamente al Parlamento, in occasione dei diversi round del negoziato, sugli sviluppi dei negoziati sull'accordo di partenariato per il commercio e gli investimenti tra Unione europea e Stati Uniti d'America (TTIP), allo scopo di consentire di valutarne l'avanzamento rispetto all'impostazione del mandato originario;
   riguardo ai meccanismi arbitrali per la definizione dei contenziosi (Investor State dispute settlement), a vigilare in sede di definizione delle regole, affinché non possano essere utilizzati in danno delle maggiori tutele che l'Unione europea prevede per i propri cittadini;
   a prevedere l'adozione, da parte dell'Italia, di una posizione di principio nella quale si preveda il pieno riconoscimento, da parte degli Usa, delle tutele garantite ai prodotti alimentari tipici italiani (e, di conseguenza, di ciascun Paese componente) dalle normative dell'Unione europea, nonché la piena tutela dei livelli qualitativi del made in Italy agroalimentare e il mantenimento della maggiore tutela dei consumatori garantita dalle normative comunitarie.
(1-00635)
«Dorina Bianchi, Alli, Tancredi».
(20 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    nel giugno 2013 la Commissione europea è stata autorizzata ad avviare i negoziati per conto dell'Unione europea per sviluppare un partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP) con gli Stati Uniti, con l'obiettivo di concluderne l’iter entro la fine del 2015. Si sono svolti sette cicli di negoziato, l'ultimo dei quali si è tenuto a Washington dal 29 settembre 2014 al 3 ottobre 2014;
    l'obiettivo prioritario del Transatlantic trade and investment partnership (TTIP) è la soppressione di tutti i dazi sugli scambi bilaterali, con lo scopo comune di raggiungere una sostanziale eliminazione delle tariffe al momento dell'entrata in vigore dell'accordo e una graduale abolizione di tutte le tariffe, salvo quelle più sensibili, in un breve arco di tempo;
    le barriere tariffarie tra le due aree si attestano intorno al 4-5 per cento in media per beni e servizi, anche se vi sono settori nei quali il livello tariffario non è insignificante (infrastrutture, tessile, abbigliamento e calzature, acciaio di elevata qualità, alcuni tipi di veicoli e alimenti come le marmellate, il cioccolato e i prodotti caseari), con un costo totale pari a circa sei miliardi di dollari annui, mentre ben più consistenti sono le barriere di tipo non tariffario, dovute soprattutto a divergenze regolamentari in molti settori, tra cui quello automobilistico, quello chimico e farmaceutico e altri settori chiave come le telecomunicazioni e i servizi finanziari;
    l'armonizzazione di tutte le rispettive regolamentazioni in materia di commercio internazionale è apparsa da subito alquanto problematica, a causa delle evidenti differenze che tuttora intercorrono tra Unione europea ed Usa nelle normative in materia di protezione sanitaria, alimentare, di diritto d'autore e del lavoro;
    gli standard dell'Unione europea, basati sul principio di precauzione, sono infatti molto più stringenti di quelli degli Usa in numerosi settori e l'applicazione del partenariato comporterebbe uno scivolamento verso i livelli di deregolamentazione americani;
    il 9 ottobre 2014, anche grazie all'iniziativa della presidenza italiana, il Consiglio dell'Unione europea ha deciso di declassificare le direttive di negoziato del partenariato. La declassificazione del mandato di negoziato costituisce un passo importante per garantire la trasparenza dei negoziati con gli Stati Uniti;
    grazie a tale classificazione si può leggere che il preambolo dovrà ricordare che il partenariato con gli Stati Uniti si basa su principi e valori comuni coerenti con i principi e gli obiettivi dell'azione esterna dell'Unione europea e dovrà contenere, tra l'altro, i seguenti richiami:
     a) i valori condivisi in aree come i diritti umani, le libertà fondamentali, la democrazia e lo stato di diritto;
     b) impegno delle parti a favore dello sviluppo sostenibile e il contributo del commercio internazionale allo sviluppo sostenibile per quanto riguarda i suoi aspetti economici, sociali e ambientali, inclusi lo sviluppo economico, l'occupazione piena e produttiva e il lavoro dignitoso per tutti, nonché la tutela e la conservazione dell'ambiente e delle risorse naturali;
     c) l'impegno delle parti per la conclusione di un accordo pienamente coerente con i loro diritti e gli obblighi derivanti dall'Organizzazione mondiale del commercio e favorevole al sistema di scambi multilaterali;
     d) il diritto delle parti di prendere le misure necessarie per realizzare obiettivi legittimi di politica pubblica in base al livello di tutela della salute, della sicurezza, dei lavoratori, dei consumatori, dell'ambiente e della promozione della diversità culturale sancita dalla Convenzione dell'Unesco sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali, che esse ritengono appropriato;
     e) l'obiettivo che le parti condividono di tenere conto dei problemi specifici che le piccole e medie imprese devono affrontare quando partecipano allo sviluppo degli scambi commerciali e degli investimenti;
     f) l'impegno delle parti di comunicare con tutte le altre parti interessate, compresi il settore privato e le organizzazioni della società civile;
    l'accordo dovrà riconoscere che lo sviluppo sostenibile costituisce un obiettivo essenziale delle parti, le quali intendono anche garantire e facilitare il rispetto degli accordi e delle norme internazionali in materia ambientale e del lavoro, promuovendo nel contempo elevati livelli di tutela dell'ambiente, del lavoro e dei consumatori, coerenti con l’acquis dell'Unione europea e la legislazione degli Stati membri. L'accordo deve riconoscere che le parti non promuoveranno gli scambi o gli investimenti diretti esteri rendendo meno severe la legislazione e le norme nazionali in materia di ambiente, lavoro, salute e sicurezza sul lavoro o meno rigide le politiche e le norme fondamentali del lavoro o le disposizioni legislative finalizzate alla tutela e alla promozione della diversità culturale;
    l'accordo non dovrà, altresì, contenere disposizioni che potrebbero pregiudicare la diversità culturale o linguistica dell'Unione europea o dei suoi Stati membri, in particolare nel settore della cultura, né impedire all'Unione europea e agli Stati membri di mantenere le politiche e le misure esistenti a sostegno del settore della cultura, considerato il loro status speciale nell'Unione europea e negli Stati membri;
    si teme, tuttavia, che la potenza delle multinazionali possa ledere i diritti dei cittadini e la sovranità dei Paesi membri, d'altronde la segretezza del negoziato, formalmente mantenuta fino al 9 ottobre 2014 ha alimentato tali dubbi, in particolare rispetto al rispetto del citato «principio di precauzione». Introdotto per la prima volta in occasione della Conferenza sull'ambiente e lo sviluppo delle Nazioni Unite (Earth summit) di Rio de Janeiro del 1992, il principio era rivolto alla protezione dell'ambiente, ma è finito per estendersi alla politica di tutela dei consumatori, della salute umana, animale e vegetale;
    per il Viceministro dello sviluppo economico, Calenda, «secondo le principali analisi disponibili, l'Italia sarebbe tra i principali beneficiari del TTIP, che potrebbe portare fino a mezzo punto di prodotto interno lordo di crescita aggiuntiva e alla creazione di posti di lavoro»;
    secondo la Commissione europea di qui al 2027 il prodotto interno lordo dell'Unione europea beneficerebbe di un aumento annuo medio dello 0,4 per cento e quello americano dello 0,5 per cento. Per Il Sole 24 ore, grazie all'accordo commerciale con Washington, l'Unione europea potrebbe guadagnare 119 miliardi di euro all'anno e l'Italia mezzo punto di prodotto interno lordo;
    grazie al TTIP, il blocco economico transatlantico rappresenterebbe da solo quasi il 50 per cento del prodotto interno lordo mondiale, un terzo del commercio internazionale in beni e una percentuale molto superiore degli investimenti esteri diretti (56,7 per cento di quelli in uscita e 75 per cento di quelli in entrata) e costituirebbe un polo d'attrazione irresistibile per le altre economie del pianeta. Grazie ad esso Usa ed Unione europea potrebbero recuperare l'iniziativa sul piano della definizione degli standard e delle regole del commercio internazionale e contrastare l'ascesa della Cina e dei Brics,

impegna il Governo:

   nel corso del semestre italiano di presidenza del Consiglio dell'Unione europea:
    a) a verificare l'effettiva applicazione dei principi contenuti nel preambolo delle direttive di negoziato sul partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP) con gli Stati Uniti;
    b) a vigilare, in particolare, sulla corretta applicazione e rispetto del principio di precauzione per quanto riguarda gli aspetti economici, sociali e ambientali derivanti da tale accordo, inclusi lo sviluppo economico, l'occupazione piena e produttiva e il lavoro dignitoso per tutti, nonché la tutela e la conservazione dell'ambiente e delle risorse naturali;
    c) a monitorare l'impatto dell'accordo sul sistema delle piccole e medie imprese, che rappresentano la quasi totalità delle imprese europee per evitare che il nuovo quadro normativo diventi troppo favorevole alle imprese di maggiori dimensioni;
    d) a verificare con particolare attenzione che da tale accordo non risulti penalizzato il sistema del made in Italy in generale, salvaguardando, in particolare, la filiera agroalimentare, sempre più danneggiata dal dilagare di prodotti italian sounding;
    e) a porre in essere tutte le azioni utili per la tutela e promozione della diversità culturale e la conseguente esclusione dei prodotti e servizi culturali e audiovisivi dal negoziato con gli Usa;
    f) a tutelare il rispetto degli ordinamenti giuridici interni dei Paesi nei quali operano le aziende multinazionali;
    g) ad assumere iniziative volte a favorire la rapida conclusione del negoziato, anche al fine di rilanciare il ruolo dell'Unione europea nel panorama mondiale e per cogliere l'opportunità delle riconosciute ricadute positive su occupazione e crescita ad esso collegate.
(1-00638)
«Fitzgerald Nissoli, Marazziti, Caruso, Buttiglione, Binetti, De Mita, Fauttilli, Cera, Gigli, Piepoli, Sberna, Rabino».
(21 ottobre 2014)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE VOLTE ALLA SEPARAZIONE SOCIETARIA DELLA INFRASTRUTTURA DELLA RETE DI TELECOMUNICAZIONE E ALLA DEFINIZIONE DEL RELATIVO MODELLO DI GOVERNANCE

   La Camera,
   premesso che:
    nell'ultimo decennio l'uso di Internet ha raggiunto dimensioni tali che la disponibilità di connessioni veloci e superveloci per un Paese è ormai una precondizione essenziale per la sua crescita economica e sociale. Numerosi sono gli studi di autorevoli istituzioni internazionali (Ocse, Broadband and the Economy – Banca mondiale, Economic impact of Broadband – Unesco, The State of Broadband 2012) che evidenziano come gli investimenti in banda larga abbiano effetti diretti e indiretti sulla crescita complessiva dei sistemi sociali, sull'efficienza delle imprese, sull'aumento della produttività, dell'innovazione tecnologica e dell'occupazione. La Banca mondiale quantifica che una variazione di 10 punti percentuali della penetrazione della banda larga possa generare una crescita del prodotto interno lordo dei Paesi sviluppati dell'1,2 per cento. In virtù di queste considerazioni, la Commissione europea, nell'ambito dell'Agenda digitale, ha fissato una serie di target per stimolare i Paesi membri alla realizzazione di nuove infrastrutture di telecomunicazione, ponendo l'obiettivo di conseguire entro il 2020 una copertura totale della connessione a 30 megabit al secondo e di 100 megabit al secondo per almeno il 50 per cento della popolazione;
    anche in Italia numerosi sono gli studi volti a misurare l'impatto economico degli investimenti nella banda larga e ultra larga. Una ricerca dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom), l'Authority preposta ad assicurare la corretta competizione degli operatori nel mercato delle telecomunicazioni e a tutelare il pluralismo informativo e le libertà fondamentali dei cittadini nell'accesso alla conoscenza e alla comunicazione, evidenzia chiaramente che, se la banda larga arrivasse al 60 per cento delle famiglie e al 90 per cento delle imprese, il potenziale per l'economia italiana sarebbe di un aumento del prodotto interno lordo dell'1,2 per cento, nella peggiore delle ipotesi, e del 12,2 per cento nella migliore;
    a fronte di tali importanti dati, che avrebbero di molto migliorato le capacità di risposta del nostro Paese alla crisi economica, la realizzazione di reti di accesso a Internet ad alta velocità risulta allo stato attuale insoddisfacente. Come dimostra lo scoreboard sui progressi dell'Agenda digitale europea dedicato all'Italia, il nostro Paese vede una copertura della rete Next generation access network (Ngan), con velocità di connessione di almeno 30 megabit al secondo, pari al 14 per cento delle abitazioni contro una media europea del 53,8 per cento, mentre la penetrazione della fibra ultraveloce (ad almeno 100 megabit al secondo) appare del tutto marginale. Secondo dati dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, la penetrazione della banda larga in Italia, a fine 2013, constava di meno di 14 milioni di collegamenti su rete fissa e di 38 milioni di cellulari con accesso ad Internet. Dati questi che, pur indicando una crescita, rispetto all'ultimo anno, sono comunque tali da non modificare significativamente il ritardo digitale del nostro Paese, il cui dato più emblematico è quel 45 per cento di popolazione che ancora non usa Internet, anche perché milioni di unità abitative e produttive sono ancora senza nessuna copertura. La situazione, inoltre, si presenta critica anche laddove le unità abitative e produttive sono raggiunte da connessione in quanto la sua qualità è la peggiore in Europa. Secondo il rapporto Akamai sullo stato di Internet 2013, infatti l'Italia compare al 48o posto al mondo per velocità della connessione, ultima nella graduatoria europea poiché anche Cipro e Grecia la superano;
    il ritardo della copertura della rete infrastrutturale di telecomunicazioni nazionale, rispetto agli altri partner europei, è stata fotografata anche nel recente rapporto Caio, il team di esperti istituito dal precedente Governo Letta per fare luce sullo stato degli investimenti nella rete nazionale. Dal rapporto «Raggiungere gli obiettivi Europei 2020 della banda larga in Italia: prospettive e sfide», presentato il 30 gennaio 2014, si sostiene esplicitamente che l'obiettivo della totale copertura della rete con velocità a 30 megabit al secondo entro il 2020 è di impossibile realizzazione per una parte rilevante del Paese e, pertanto, si auspica nelle conclusioni un ruolo attivo, vigile e continuo del Governo e quindi dello Stato al fine del conseguimento degli obiettivi Digital Agenda Europe 2020 che altrimenti, date le condizioni date, rimarrebbero a rischio;
    da questi dati si evince chiaramente come la causa principale della difficoltà del nostro Paese ad uscire dalla crisi economica è imputabile prioritariamente all'inadeguatezza dell'infrastruttura di rete nazionale e questo è paradossale considerando che l'Italia è stata per anni all'avanguardia nel mondo delle telecomunicazioni. Infatti, Telecom Italia prima della privatizzazione era la più importante società di telecomunicazioni del mondo. Con 120.000 dipendenti solo in Italia, contava 30 partecipate estere, disponeva di un ingente ed innovativo patrimonio tecnologico e di know how tale da essere stata la prima a portare sul mercato le carte prepagate e, se non fosse stata privatizzata, la prima a portare la fibra ottica in 20 milioni di abitazioni (progetto «Socrate»). Il suo debito, 20 per cento del fatturato, era assolutamente trascurabile;
    con la privatizzazione avviata dal 1997 dal Governo Prodi ad oggi, Telecom Italia è stata oggetto secondo i firmatari del presente atto di indirizzo della più colossale truffa finanziaria che sia mai stata realizzata nel nostro Paese. Progressivamente depauperata delle proprie risorse umane, finanziarie e strumentali, per ripianare i cospicui debiti serviti per le sue scalate, il gruppo si è trovato nella totale impossibilità di far fronte agli investimenti necessari a colmare il digital divide del nostro Paese e di ammodernare le reti esistenti. Secondo stime di Asati, l'associazione dei piccoli azionisti di Telecom Italia, la privatizzazione è costata direttamente alla compagnia di bandiera 26 miliardi di euro, 70.000 posti di lavoro e la svendita del suo immenso patrimonio tecnologico ed immobiliare e, indirettamente, all'intero sistema Paese per gli inquantificabili costi economici e sociali per l'inadeguatezza della sua infrastruttura;
    attualmente Telecom Italia, oltre ad avere un indebitamento netto pari a circa 28 miliardi di euro e un lordo di 36 miliardi di euro, opera in un mercato domestico caratterizzato da una congiuntura economica negativa e su una rete obsoleta che necessita di urgenti interventi di ammodernamento;
    Internet è uno strumento indispensabile per la libertà di espressione dei cittadini e per l'accesso alle informazioni, all'istruzione, alla formazione, ai servizi sanitari, al turismo ed alla cultura. Ma è un fattore ancor più importante ai fini dello sviluppo e della crescita economica delle imprese poiché la quasi totalità della nostra economia si fonda sulla presenza in rete;
    gli investimenti finora assicurati da Telecom Italia si sono dimostrati insufficienti per garantire il raggiungimento degli obiettivi previsti dall'Agenda digitale europea e la situazione di forte indebitamento del gruppo non fa presagire un rapido incremento degli stessi tali da garantire l'accesso alla rete a condizioni almeno pari a quelle assicurate negli altri Paesi comunitari. Non solo, la presenza nel board di Telefonica, la compagnia telefonica iberica diretta concorrente sui mercati internazionali di Telecom Italia, è un ulteriore dimostrazione dell'incapacità dell'attuale assetto societario di garantire non solo politiche industriali efficaci ma anche la stessa sicurezza della rete e delle informazioni che vi transitano. Le strategie commerciali di Telefonica sono antitetiche a quelle di Telecom Italia che detiene un assett fondamentale come Tim Brazil, di cui gli spagnoli vogliono liberarsi così come hanno già fatto con Telecom Argentina;
    per ragioni economiche e di sicurezza nazionale occorre agire immediatamente per un ritorno dell'infrastruttura nazionale di telecomunicazione in mano pubblica, attraverso lo scorporo ovvero la separazione societaria della rete, in modo da garantire l’equivalence of input sulla parità di trattamento di tutti gli operatori del mercato, attualmente di difficile realizzazione come ha attestato la recente sentenza del Tar del Lazio 8 maggio 2014, n. 4801, che ha confermato la condanna di Telecom Italia per abuso di posizione dominante, e gli investimenti necessari a raggiungere gli obiettivi dell'Agenda digitale;
    lo scorporo ovvero la separazione societaria della rete non contrasta con la Costituzione e la normativa nazionale ed europea. Non contrasta in primis con l'articolo 41 della Costituzione che pur stabilendo che «l'iniziativa economica privata è libera» questa non «può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.». Principio di utilità sociale rafforzato dall'articolo 43 della Costituzione che stabilisce che: «ai fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale.». La rete di telecomunicazioni nazionale, che possiede caratteristiche di monopolio naturale, è una risorsa strategica per il nostro Paese, poiché garantisce quei servizi pubblici essenziali e di preminente interesse generale, quali la libertà di comunicazione, l'accesso alla conoscenza, la competitività e la crescita economica delle imprese, che sono costituzionalmente sanciti;
    anche in ambito comunitario non si evincono preclusioni alla separazione e rinazionalizzazione ex lege dell'infrastruttura di rete, in quanto l'articolo 36 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea sancisce la tutela e il rispetto dell'accesso ai servizi di interesse economico generale, la cui individuazione rinvia alle legislazioni e prassi nazionali. Inoltre, nell'ambito dei servizi di interesse economico generale, l'articolo 14 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (ex articolo 16 del Trattato che istituisce la Comunità europea) limita la regola della concorrenza preservando aree di intervento in via esclusiva dei poteri pubblici attraverso strumenti normativi anche necessari ed urgenti come i decreti-legge. L'articolo 106 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (ex articolo 86, paragrafo 2, del Trattato che istituisce la Comunità europea) invece sancisce che i servizi d'interesse generale sono sottoposti «alle norme di concorrenza, nei limiti in cui l'applicazione di tali norme non osti all'adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata» mentre la neutralità rispetto al regime di proprietà, pubblica o privata, delle imprese è sancito dall'articolo 345 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (ex articolo 295 del trattato che istituisce la Comunità europea);
    la normativa nazionale prevede l'adozione da parte dello Stato di poteri speciali (cosiddetti golden power) stabiliti con decreto-legge n. 21 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 56 del 2012, recante «norme in materia di poteri speciali sugli assetti societari nei settori della difesa e della sicurezza nazionale, nonché per le attività di rilevanza strategica nei settori dell'energia, dei trasporti e delle comunicazioni», esercitabili dal Governo. Con riferimento a tali ultimi settori i poteri speciali esercitabili, emanati recentemente dal Governo con i decreti attuativi pubblicati nella Gazzetta Ufficiale 6 giugno 2014, consistono nella possibilità di far valere il veto dell'Esecutivo alle delibere, agli atti e alle operazioni concernenti asset strategici, qualora essi diano luogo a minaccia di grave pregiudizio per gli interessi pubblici relativi alla sicurezza e al funzionamento delle reti e degli impianti e alla continuità degli approvvigionamenti, ivi compresi le reti e gli impianti necessari ad assicurare l'approvvigionamento minimo e l'operatività dei servizi pubblici essenziali;
    inoltre, esiste anche la possibilità per l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni di procedere ai sensi dell'articolo 50-bis del codice delle comunicazioni elettroniche, decreto legislativo 1o agosto 2003, n. 259, alla separazione funzionale involontaria, imponendo alle imprese verticalmente integrate, nel caso specifico Telecom Italia, la collocazione delle attività relative alla fornitura all'ingrosso di prodotti di accesso in un'entità commerciale operante in modo indipendente, questo se è dimostrata l'incapacità della stessa di garantire un'efficace concorrenza oppure una fornitura all'ingrosso di detti prodotti di accesso;
    la separazione societaria della rete di accesso, oltre che rafforzare l'assetto concorrenziale del mercato a vantaggio dei cittadini, appare una precondizione per consentire l'ingresso di nuovi capitali nella costituenda società in grado di sostenere gli investimenti necessari per l'ammodernamento della rete ed il passaggio alla fibra ottica in linea con gli obiettivi fissati nell'Agenda digitale europea,

impegna il Governo:

   a provvedere, anche ricorrendo ad iniziative normative d'urgenza, al necessario e urgente scorporo, ovvero alla separazione societaria della infrastruttura della rete di telecomunicazione, intendendo con esso il perimetro delle attività e delle risorse relative allo sviluppo e alla gestione della rete di accesso, sia in rame sia in fibra, mediante la costituzione di una società della rete a maggioranza pubblica;
   a consentire nella nuova società l'ingresso anche di privati, in primis gli other licensed operator, favorendo un modello di governance di tipo public company in cui oltre a detenere la maggioranza di capitale pubblico sia garantita un'adeguata rappresentanza nel consiglio di amministrazione di dipendenti e azionisti di minoranza;
   ad assicurare la presentazione di un piano industriale indirizzato ad un più rapido sviluppo delle reti in fibra di nuova generazione, coerentemente con gli obiettivi posti dall'Agenda digitale europea, anche attraverso l'integrazione degli assetti in fibra ottica e rame già di proprietà di enti locali, enti governativi e partecipate e sostenendo la piena tutela e valorizzazione dell'occupazione e del patrimonio di conoscenze e competenze di Telecom Italia;
   a procedere alla riforma dell'istituto dell'offerta pubblica di acquisto, in linea con gli impegni contenuti nella mozione approvata dal Senato della Repubblica il 17 ottobre 2013 e mai attuata, modificando il Testo unico della finanza, in modo da rafforzare i poteri di controllo della Consob nell'accertamento dell'esistenza di situazioni di controllo di fatto da parte di soci singoli o in concerto tra loro, e ad aggiungere alla soglia fissa del 30 per cento, oltre la quale è già prevista per legge l'offerta pubblica di acquisto obbligatoria, una seconda soglia, legata all'accertata situazione di controllo di fatto.
(1-00515)
«Paolo Nicolò Romano, Nicola Bianchi, De Lorenzis, Dell'Orco, Cristian Iannuzzi, Liuzzi, Spessotto, Agostinelli, Alberti, Artini, Baldassarre, Barbanti, Baroni, Basilio, Battelli, Bechis, Benedetti, Massimiliano Bernini, Paolo Bernini, Bonafede, Brescia, Brugnerotto, Businarolo, Busto, Cancelleri, Cariello, Carinelli, Caso, Castelli, Cecconi, Chimienti, Ciprini, Colletti, Colonnese, Cominardi, Corda, Cozzolino, Crippa, Currò, Da Villa, Dadone, Daga, Dall'Osso, D'Ambrosio, De Rosa, Del Grosso, Della Valle, Di Battista, Di Benedetto, Luigi Di Maio, Manlio Di Stefano, Di Vita, Dieni, D'Incà, D'Uva, Fantinati, Ferraresi, Fico, Fraccaro, Frusone, Gagnarli, Gallinella, Luigi Gallo, Silvia Giordano, Grande, Grillo, L'Abbate, Lombardi, Lorefice, Lupo, Mannino, Mantero, Marzana, Micillo, Mucci, Nesci, Nuti, Parentela, Pesco, Petraroli, Pinna, Pisano, Prodani, Rizzetto, Rizzo, Rostellato, Ruocco, Sarti, Scagliusi, Segoni, Sibilia, Sorial, Spadoni, Terzoni, Tofalo, Toninelli, Tripiedi, Turco, Vacca, Simone Valente, Vallascas, Vignaroli, Villarosa, Zolezzi».
(24 giugno 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    le telecomunicazioni sono un tema di grande attualità e costituiscono un settore strategico per lo sviluppo economico del nostro Paese, provvedendo a dare un contributo sia diretto, (tramite investimenti ed occupazione), che indiretto (promuovendo una società più moderna), stimolando l'innovazione, aumentando la produttività delle imprese e della pubblica amministrazione e contribuendo, altresì, alla sostenibilità ambientale;
    il settore delle telecomunicazioni rappresenta, pertanto, per il nostro Paese, un importante obiettivo di sviluppo che può realizzarsi attraverso il superamento degli ostacoli e dei ritardi strutturali che attualmente caratterizzano la diffusione delle nuove reti di comunicazioni. Queste ultime, infatti, costituiscono un asset strategico per la sicurezza, la crescita e la competitività dell'intero sistema Paese;
    disporre, pertanto, di infrastrutture di telecomunicazione moderne di nuova generazione a banda ultralarga, mobili e fisse, diventa essenziale per l'Italia e merita di essere al centro della politica industriale del Governo;
    gli investimenti in questo settore, infatti, hanno rappresentato negli ultimi venti anni il più importante fattore di crescita, determinando fino allo 0,6 per cento dell'aumento del prodotto interno lordo dei Paesi più avanzati;
    il mercato delle telecomunicazioni è stato caratterizzato da una progressiva apertura alla concorrenza rispetto al quadro normativo di riferimento che è di derivazione comunitaria, da un lato, e discende dall'attività di regolazione dell'Autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni, dall'altro. Gli assetti del mercato sono mutati profondamente: infatti, all'operatore storico in posizione di monopolio si è affiancata una pluralità di attori operanti soprattutto nell'ambito della telefonia mobile e si è assistito all'affermazione di nuovi servizi a banda larga per la rete fissa e per le reti mobili della nuova generazione, senza che ciò intaccasse la posizione dominante dell’ operatore ex monopolista nel comparto delle comunicazioni fisse;
    nella telefonia mobile, la realizzazione delle infrastrutture di nuova generazione è nella sostanza garantita dalla competizione presente tra i quattro operatori infrastrutturati (Vodafone, Telecom, Wind e 3). Le nuove infrastrutture consentiranno anche al Paese di chiudere il digital divide, portando la banda larga ovunque sul territorio con tecnologia senza fili. Gli investimenti privati possono essere agevolati attraverso interventi di incentivo e di semplificazione amministrativa e normativa;
    nella telefonia fissa, la realizzazione di un'infrastruttura di nuova generazione in fibra, necessaria nelle principali città e nei distretti industriali, rappresenta una sfida più complessa perché la rete di accesso è un monopolio naturale, ancora di più in Italia dove manca anche la competizione dell'infrastruttura via cavo televisivo. All'operatore privato proprietario dell'attuale rete di accesso in rame (Telecom Italia) manca, dunque, lo stimolo competitivo e l'interesse economico a realizzare gli investimenti di modernizzazione della fibra nei tempi e nelle modalità che invece servirebbero al Paese per il suo sviluppo complessivo;
    è evidente il forte squilibrio concorrenziale nel mercato della rete fissa, certificato anche da una recente sanzione comminata dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato all'operatore Telecom Italia, per oltre 103 milioni di euro per comportamenti anticoncorrenziali;
    il mercato della rete fissa in Italia si trova in una situazione anomala, trattandosi sostanzialmente di un monopolio infrastrutturale in cui manca una rete alternativa che ha fortemente limitato lo sviluppo della stessa rete fissa in Italia. Il 99 per cento delle linee di accesso a tale rete è tuttora controllato da Telecom Italia, contro il 77 per cento della media dei Paesi dell'Unione europea. Telecom Italia è monopolista nella generazione di cassa dell'industria della rete fissa (con una quota del 100 per cento) negli ultimi cinque anni ed è l’incumbent con la quota di mercato della rete fissa più alta in Europa;
    alcuni organi di informazione hanno riportato la notizia secondo la quale si potrebbe verificare un'eventuale acquisizione di Metroweb spa da parte di Telecom Italia: questa ipotesi rappresenterebbe una limitazione della concorrenza e un potenziale ostacolo allo sviluppo delle reti di accesso di ultima generazione (Ngan) in Italia, perché si verrebbero a creare un nuovo monopolio infrastrutturale sulla fibra e la possibile preclusione all'accesso Ngan per gli operatori alternativi (olo) con forti impatti sulle dinamiche competitive;
    alcuni degli operatori privati di telecomunicazioni fisse stanno accelerando gli investimenti necessari per la realizzazione di una moderna rete in fibra, ma, come divulgato da un recente studio dell'ex commissario per l'Agenda digitale, tali investimenti non saranno sufficienti per raggiungere gli obiettivi della Digital agenda 2020 ed il Paese si troverebbe presto in una situazione di profondo divario tra uno scarso 50 per cento della popolazione che godrebbe di perfomance di rete in linea con tali obiettivi e la rimanente popolazione;
    la realizzazione di una nuova infrastruttura di rete di accesso in fibra ottica costituirebbe, quindi, direttamente un volano di sviluppo del settore delle telecomunicazioni e del settore delle costruzioni con molte imprese locali che si occuperebbero della realizzazione degli scavi e delle infrastrutture civili, con benefici economici e occupazionali immediati su tutto il territorio;
    lo sviluppo di un progetto di tale portata può avvenire solo con un'iniziativa di cooperazione e coinvestimento finalizzata alla realizzazione e alla gestione della nuova infrastruttura in fibra, poi affittata in modo neutrale agli operatori che realizzeranno i servizi per famiglie e imprese in concorrenza tra loro. In tale società potranno essere coinvolti investitori finanziari specializzati, a partire, ad esempio, dalla Cassa depositi e prestiti, a condizioni di ritorno economico di mercato simili a quelle delle altre grandi infrastrutture. Tale approccio rappresenta il miglior bilanciamento per promuovere, al contempo, investimenti su infrastrutture e sviluppo della concorrenza a beneficio del Paese;
    l'iniziativa potrebbe essere concretamente realizzata partendo da Metroweb SpA che ha il potenziale per diventare la piattaforma dalla quale sviluppare un'infrastruttura in fibra necessaria allo sviluppo del Paese (moderna, aperta alla concorrenza e neutrale rispetto agli operatori di telecomunicazioni), che assicuri la concorrenza e massimizzi l'adozione del servizio, con pari partecipazione degli operatori, al fine di aggregare la domanda di banda ultralarga rendendo l'investimento Ngan sostenibile;
    la creazione di una società della rete e controllo pubblico e governance indipendente costituirebbe la soluzione più efficiente ed efficace dal punto di vista di sistema per lo sviluppo Ngan, anche alla luce degli obiettivi dell'Agenda digitale europea,

impegna il Governo

a sostenere il progetto di costituzione di una nuova infrastruttura in fibra attraverso una società in cui potranno essere coinvolti investitori finanziari specializzati, a partire, ad esempio, dalla Cassa depositi e prestiti.
(1-00657)
«Dorina Bianchi, Garofalo, Minardo, Calabrò, Pagano, Piso, Sammarco, Scopelliti».
(10 novembre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    in questi anni, uno dei settori che ha generato più valore nelle economie avanzate è l'economia di Internet. Per la prima volta nella storia economica mondiale la prima azienda per capitalizzazione è un'azienda che ha come principale fattore di produzione la conoscenza. I campi d'azione sono molteplici: dai sistemi di pagamento ai servizi postali, dall'educazione ai lavori pubblici, dalla sanità al fisco;
    sviluppare appieno le potenzialità di Internet e delle nuove tecnologie vuol dire creare centinaia di migliaia di posti di lavoro ad alto valore aggiunto e, al contempo, consentire allo straordinario patrimonio rappresentato dalle piccole e medie imprese italiane di essere più competitive e generare nuova ricchezza;
    l'obiettivo non può essere solo quello basilare di garantire a tutti i cittadini l'accesso alla rete, ma anche e soprattutto di porre «realmente» gli individui nelle condizioni di sfruttare appieno il potenziale espressivo, formativo, creativo e lavorativo fornito dalle nuove tecnologie. Solo così il nostro Paese può recuperare il ruolo storico come esempio di imprenditorialità e leadership nella produzione di ricerca, sapere e innovazione e solo così è pensabile generare un tessuto economico e sociale capace di valorizzare il talento, il merito e la competenza con maggiore equità nelle opportunità e nei diritti;
    l'affermarsi della digital and network economic rende improcrastinabili le trasformazioni radicali dei modelli di sviluppo dove cultura, conoscenza e spirito innovativo sono i volani che proiettano nel futuro: a livello globale la «internet economy» supera i 10.000 miliardi di dollari (presentazione National strategy for trusted identities in cyberspace – Nstic);
    in Italia, le conseguenze di un mancato serio intervento in questo settore si riflettono, sia per i cittadini che per le aziende, sugli indici di digitalizzazione che si attestano su posizioni di retrovia: i dati di alfabetizzazione informatica, di copertura di rete fissa e di sviluppo dei servizi on-line, sia sotto il profilo di utilizzo da parte dei consumatori che delle imprese, sono nettamente al di sotto della media europea. Non a caso il peso di Internet nel prodotto interno lordo italiano è ancora al 2,5 per cento contro, ad esempio, il 7 per cento dell'economia inglese. Questo dato da solo spiega forse meglio di tutti il differenziale di crescita fra l'economia italiana e le economie occidentali che mantengono una prospettiva di sviluppo;
    i principali Paesi europei si sono da tempo dotati di piani strategici di sviluppo delle reti di accesso di nuova generazione (Ngan) in linea con gli obiettivi dell'Agenda digitale europea che anche la Commissione europea considera elemento base della sostenibilità socioeconomica. Tali piani mirano a creare condizioni favorevoli allo sviluppo degli investimenti privati, favorendo la collaborazione tra i vari operatori e tra questi e le amministrazioni pubbliche;
    il Governo britannico ha sviluppato il «Digital Britain» per un settore che già oggi vale il 7,2 per cento del prodotto interno lordo, più della quota riservata alla spesa sanitaria;
    il Governo tedesco ha un redatto il progetto «Digital Deutschland 2015», nel quale, tra le altre cose, si stima che la banda ultra larga genererà 1 milione di nuovi posti di lavoro in Europa;
    il Governo francese ha assegnato allo sviluppo delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione (ict) 4,5 miliardi di euro, 500 milioni di euro in più di quanto raccomandato dal rapporto strategico «Investir pour l'avenir»;
    il Governo spagnolo si è dato come obiettivo di investire in innovazione il 4 per cento del prodotto interno lordo entro il 2015 ed arrivare a 150 brevetti annui per milione di abitanti;
    nel nostro Paese l'attuale penetrazione della banda larga si attesta al 17 per cento contro il 23 per cento della media europea e l'assenza di un obbligo di fornitura del servizio universale da parte delle compagnie di telecomunicazione ha creato un ulteriore discrimine tra i cittadini e le imprese che hanno accesso alla banda larga di prima generazione e coloro che ne sono esclusi;
    i finanziamenti pubblici devono essere destinati, nell'ambito delle aree sottoutilizzate, ai bacini territoriali caratterizzati da importanti insediamenti demografici ed industriali, come le aree nelle quali si collocano i distretti industriali, in quanto maggiormente sollecitati nell'agone competitivo globale. In tali aree, l'assenza di un'adeguata capacità di banda costituisce un grave svantaggio competitivo che potrebbe essere colmato sviluppando una domanda di servizi innovativi che poggiano le basi sulle reti di nuova generazione a banda «ultra larga», anche per contrastare l'erosione della propria competitività attraverso innovazioni di processo;
    su un universo di circa un milione di piccole e medie imprese, circa 300 mila sono dislocate in aree che necessitano di banda ultra larga e di queste 100 mila si trovano in aree con la più elevata priorità, in quanto corrispondenti a zone ad alta densità di aziende. Sviluppare moderne infrastrutture di nuova generazione, con un'alta capacità di trasmissione nelle sopradette aree, consentirebbe l'interconnessione di tutte le 100 mila aziende in aree con una maggiore priorità mediante un'infrastruttura di rete di nuova generazione a banda ultra larga;
    i distretti sono dislocati su tutto il territorio nazionale e concentrati principalmente nei centri e nelle province di media e piccola dimensione e nelle aree poste in prossimità dei grandi centri urbani. In particolare, le aree sono Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Marche, Campania, Puglia e Sicilia;
    l'attuale situazione del mercato italiano vede la presenza di Telecom Italia come operatore incumbent, dominante in tutti i segmenti della catena del valore, proprietario dell'unica infrastruttura di accesso in rame necessaria a tutti gli operatori alternativi per offrire i propri servizi. In Italia, a differenza di altri Paesi europei, non esistono infrastrutture alternative, come, ad esempio, gli operatori televisivi via cavo, che potrebbero consentire uno stimolo agli investimenti;
    Telecom ha gestito per quasi un secolo la rete di telecomunicazioni nel nostro Paese e tuttora controlla e gestisce questo asset strategico e una delle principali infrastrutture del Paese e, quindi, anche tutti i dati dei cittadini, ma anche quelli delle imprese e delle pubbliche amministrazioni;
    l'Autorità garante della concorrenza e del mercato ha recentemente sanzionato Telecom per comportamenti anti concorrenziali nel mercato della rete fissa, comminandogli una sanzione di oltre 103 milioni di euro, confermata dal Tar Lazio;
    il 2 ottobre 2013 è stato emanato il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 129, correttivo del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 30 novembre 2012, n. 253, che prevede l'inclusione nelle attività di rilevanza strategica per la sicurezza e la difesa nazionale anche delle reti e degli impianti utilizzati per la fornitura dell'accesso agli utenti finali dei servizi rientranti negli obblighi del servizio universale e dei servizi a banda larga e ultralarga;
    recentemente è stato adottato un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri che definisce fra gli asset strategici anche gli impianti per i servizi a banda larga ed ultralarga e le reti in rame o fibra;
    nell'ambito delle telecomunicazioni, la rete rappresenta un patrimonio importante per i cittadini ed è necessario che si intervenga per preservarla, garantendo, al contempo, un'accelerazione dello scorporo della governance della rete da quella dei servizi al fine di garantire lo sviluppo della rete in fibra quale piattaforma fondamentale per le reti di nuova generazione;
    secondo alcune indiscrezioni giornalistiche, Telecom Italia starebbe per acquisire Metroweb spa, unico operatore infrastrutturato alternativo che possiede e gestisce una capillare rete in fibra ottica, principalmente a Milano. Questa concentrazione rappresenterebbe un forte rischio di limitazione della concorrenza ed un ulteriore ostacolo alla sviluppo delle reti di accesso di nuova generazione, perché si creerebbe un nuovo monopolio infrastrutturale sulla fibra e la possibile preclusione dell'accesso alle reti di accesso di nuova generazione per gli operatori alternativi (olo) con forti impatti sulla competizione e sulla concorrenza;
    la delibera n. 731/09/CONS, in cui l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni aveva formulato alcune previsioni rivolte alle reti di nuova generazione ed alle infrastrutture atte ad ospitarle, riprende quanto previsto dagli impegni di Telecom Italia quali l'obbligo di fornire accesso alle infrastrutture civili ed alla fibra spenta (delibera n. 718/08/CONS) che sono stati a giudizio dei firmatari del presente atto di indirizzo ampiamente disattesi;
    la possibilità per le televisioni locali di operare anche come aziende di telecomunicazione, oltre che editoriali, ha portato alla migliore ottimizzazione possibile nell'utilizzazione dello spettro radioelettrico dedicato alle trasmissioni televisive, consentendo lo sviluppo di una rete di aziende produttrici di apparati di trasmissione che, pur partendo da approcci spesso artigianali, costituiscono ancora oggi un comparto fra i primi cinque al mondo;
    gli operatori di rete in ambito locale, partendo dalla migliore utilizzazione delle frequenze televisive a loro assegnate, potrebbero costituire un'importante risorsa per le centinaia di migliaia di piccole e medie imprese che, per la loro competitività, sono bisognose di accesso alla banda larga;
    data l'imprescindibile necessità di broadband, il wireless broadband costituisce un'opportunità irrinunciabile per il Paese che, se negli anni Novanta poteva vantare una penetrazione dei servizi mobili di seconda generazione assai maggiore rispetto agli Stati Uniti, con l'avvento dei servizi mobili di terza generazione è stata ampiamente superata sia come penetrazione del servizio che come tasso di crescita. Il wireless broadband è, inoltre, di fondamentale importanza in quanto consente di fornire l'accesso ai servizi broadband, sia alle aziende che agli utenti consumer, in tempi molto più brevi rispetto alle rete fissa;
    vista l'impossibilità del mercato italiano di remunerare gli investimenti necessari per la realizzazione di più reti a banda ultra larga, la via sostenibile per la realizzazione di una rete a banda larga ultra veloce, dunque, è l'identificazione di una Netco, come indicato nel memorandum of understanding firmato dagli operatori con il Ministero dello sviluppo economico nel novembre 2010, per la realizzazione di un'infrastruttura passiva, neutrale, aperta ed economica, che porti la rete in fibra al 50 per cento della popolazione italiana;
    l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, anche tenendo conto delle raccomandazioni europee, ha chiesto misure di semplificazione degli adempimenti burocratici e amministrativi nonché iniziative diverse dagli investimenti pubblici per facilitare la creazione di un ecosistema digitale e fluidificare il percorso di aziende e cittadini nella produzione e fruizione dei contenuti digitali. Interventi che dovrebbero essere completati dall'adozione di una politica dello spettro radio coerente con i principi comunitari in cui siano valorizzate le risorse frequenziali, liberando più risorse per la larga banda;
    è urgente e necessario prevedere un piano di migrazione completa dall'attuale rete in rame al fine di garantire una sostenibilità del progetto ed evitare l'aumento dei prezzi ai clienti finali;
    le regole sui servizi di accesso delle reti di nuova generazione, che l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni doveva definire, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo sono state un'occasione persa per creare le condizioni di sviluppo del mercato italiano della fibra ottica;
    è necessario realizzare una rete aperta, senza sovrapposizioni, che preveda una suddivisione dei costi tra gli operatori. La presenza di un altro operatore in alcune aree porterebbe ad uno sviluppo a diverse velocità della rete di nuova generazione nelle diverse aree del Paese;
    la rete è un patrimonio che va mantenuto ed implementato e l'organizzazione dei lavori non può prescindere dal coinvolgimento sistematico e strutturato degli stakeholder per garantire l'apporto delle intelligenze operative multidisciplinari necessarie e garantire il volume degli investimenti necessari a migliorare il servizio e la qualità dei contenuti;
    le tecnologie digitali non sono solo un importante mezzo di comunicazione interpersonale sul quale focalizzarsi per evidenziare gli usi distorti che ne possono conseguire, ma sono anche una grande occasione, estesa ad ogni settore dell'economia e della società, per favorire profonde trasformazioni mediante la digitalizzazione,

impegna il Governo:

   ad adottare con urgenza le iniziative necessarie per accelerare lo scorporo della rete fissa telefonica dai servizi, fondamentale per garantire la libera concorrenza del mercato e la tutela dei consumatori con migliori prezzi e servizi, allo scopo esercitando anche i poteri attribuitigli dalla legge in materia di assetti societari per le attività di rilevanza strategica;
   ad attuare un piano di infrastrutturazione tecnologica in fibra ottica per massimizzare la penetrazione dei servizi broadband per restare allineati alle principali economie, assicurando la competitività delle aziende, la continuità operativa dei servizi essenziali e l'offerta di servizi sempre più evoluti;
   a perseguire l'obiettivo della creazione di un'infrastruttura di telecomunicazione capace di fronteggiare le sfide dell'innovazione idonea a permettere sempre più elevate prestazioni, vale a dire far fronte alle crescenti esigenze di nuovi e più evoluti servizi nel settore dell'informatica e delle telecomunicazioni;
   a promuovere una strategia che si dimostri adeguata a permettere ai cittadini ed alle imprese di sviluppare rapidamente una domanda di accesso a servizi innovativi, per contrastare l'erosione della propria competitività attraverso innovazioni di processo;
   a prevedere interventi per opere di modernizzazione delle infrastrutture di telecomunicazione strategiche per la crescita economica, civile e culturale con la realizzazione di una rete in fibra ottica che possa essere efficacemente strutturata negli anni, in funzione anche di significativi cambiamenti della pianificazione, delle esigenze e dell'effettiva disponibilità delle risorse;
   ad adottare iniziative per riservare un adeguato ruolo agli operatori di rete in ambito locale valorizzando la cospicua esperienza acquisita quali aziende radio-televisive e consentendo di estendere la loro capacità di impresa sul territorio, a beneficio di centinaia di migliaia di piccole e medie imprese, alla fornitura – in neutralità tecnologica – dei nuovi servizi in banda larga nell'ambito delle frequenze a loro assegnate;
   ad incentivare la ricerca e le applicazioni alternative come, ad esempio, la power line communication (plc) per le aree rurali o le nuove tecnologie fotoniche studiate, tra gli altri, dal Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa per quanto riguarda le reti di trasmissione dati ultra veloci via cavo e via etere;
   a ritenere prioritaria, in relazione al complesso di interventi volti a sostenere il rilancio dell'economia del Paese, la finalità di assicurare, attraverso il piano di sviluppo delle nuove reti, un'alta capacità di trasmissione alle principali città ed ai distretti industriali che ancora scontano un forte divario di connettività;
   a promuovere la realizzazione di one network, un'unica infrastruttura di rete a banda larga, aperta, efficiente, neutrale, economica e già pronta per evoluzioni future, garantendo il rispetto delle regole di libero mercato e concorrenza nella fornitura di accesso e servizi agli utenti finali privati ed imprese con un'unica rete all'ingrosso e concorrenza al dettaglio;
   a promuovere ed incentivare una tempestiva migrazione dalla rete in rame a quella in fibra ottica alla cui realizzazione dovranno partecipare e contribuire tutti gli operatori;
   a dotare con urgenza l'Italia di un'organica agenda digitale che preveda interventi nell'ambito delle infrastrutture tecnologiche, dei servizi finali e infrastrutturali, includendo i necessari standard per l’e-business e per i beni digitali (o «neobeni puri», secondo la definizione del Cnel) e una più organica regolamentazione;
   a promuovere ogni iniziativa volta alla massima diffusione dell'utilizzo delle tecnologie digitali e alla sperimentazione dei relativi vantaggi, anche con riferimento alla disciplina dei rapporti tra pubblica amministrazione e cittadini;
   a prevedere la neutralità tecnologica per l'utilizzo dello spettro al fine di ottimizzare l'utilizzo medesimo oltre che renderlo remunerativo per lo Stato.
(1-00658)
«Caparini, Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Busin, Caon, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera, Rondini, Simonetti».
(10 novembre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    le telecomunicazioni rappresentano un motore fondamentale di sviluppo poiché aumentano la produttività delle imprese e della pubblica amministrazione. Gli investimenti in banda ultra larga sono dunque strategici per il sistema Paese;
    lo sviluppo delle reti fisse a banda larga e ultra larga costituisce un passaggio cruciale per dotare il Paese di quelle infrastrutture che rappresentano la base per dare un forte impulso al processo di digitalizzazione, nonché un fattore determinante di rilancio dell'economia, della competitività e della crescita;
    il settore delle telecomunicazioni in Italia è stato pienamente liberalizzato sin dal 1998 e risulta oggi caratterizzato da un elevato livello di concorrenzialità ed è regolamentato a livello sia europeo sia nazionale;
    a livello nazionale le società proprietarie di reti, a vario titolo, si stanno fortemente impegnando nello sviluppo delle infrastrutture di rete, come confermato dall'importante piano di investimenti di Telecom per il triennio 2014-2016, che vale complessivamente 9 miliardi di euro, di cui 3,4 miliardi di euro dedicati allo sviluppo di reti e servizi innovativi sia per quanto riguarda la fibra che il 4G;
    a novembre 2013 Vodafone ha annunciato il programma «Spring» che prevede investimenti per 3,6 miliardi di euro in due anni al fine di raddoppiare le risorse per lo sviluppo dei collegamenti a banda ultra larga, mobile e fissa. Più nello specifico Vodafone intende sviluppare infrastrutture e piattaforme evolute e accelerare gli investimenti, oltre che sulle reti mobili 3G e 4G, anche nella rete fissa in fibra ottica, arrivando a coprire le 150 principali città con la rete Fttc (Fibre to the home), con l'obiettivo di raggiungere entro il 2016 almeno 6 milioni e mezzo di famiglie, pari a un quarto della popolazione italiana;
    allo stesso modo Fastweb spa, società a socio unico soggetta all'attività di direzione e coordinamento di Swisscom AG, ha sviluppato una rete nazionale in fibra ottica che si estende per 35.000 chilometri e raggiunge circa il 50 per cento della popolazione italiana, di cui il 10 per cento direttamente in tecnologia fiber to the home, il collegamento in fibra ottica fino a casa del cliente, offrendo servizi a banda ultra larga fino a 100 megabit al secondo;
    dal 1995 opera in Italia anche Albacom spa, nata come progetto delle società British Telecom (BT) e Banca nazionale del lavoro (Bnl), il cui capitale sociale è stato interamente acquisito alla fine del 2004 da British Telecom e il 4 febbraio 2005 la compagnia ha modificato la denominazione sociale in BT Albacom spa;
    nel 2006 in BT Albacom confluiscono le attività di Atlanet spa, acquisita da British Telecom nel mese di marzo, e la società ha assunto la sua attuale ragione sociale, BT Italia spa;
    BT Italia è il principale fornitore in Italia di servizi e soluzioni integrate di comunicazione e IT interamente dedicato alle imprese, dalle multinazionali alle piccole e medie imprese e professionisti, e alla pubblica amministrazione, gestendo una base clienti di circa 150.000 aziende e una rete in fibra ottica di oltre 14.000 chilometri;
    opera in Italia, e in particolare in Lombardia e Liguria, anche Metroweb, che nell'area metropolitana di Milano gestisce una rete in fibra ottica di 7.254 chilometri di cavi, pari a 324.000 chilometri di fibre ottiche, coprendo un'area di oltre 2,7 milioni di abitanti;
    una visione liberale dell'economia promuove la piena trasparenza, competitività e libera concorrenza nel mercato tutelando al contempo l'impresa privata;
    è necessaria un'azione di regia da parte del Governo affinché, grazie ad una cooperazione tra settore pubblico e privato, l'Italia colmi il digital divide che la separa dagli altri Paesi ad economia avanzata. Per cercare di risolvere il problema del digital divide sono fondamentali gli investimenti sia sulla rete mobile che sulla rete fissa;
    il digital divide va considerato come esistente non solo sui megabit necessari alla connessione base, ma anche all'accesso veloce a Internet;
    è dunque necessaria un'efficace azione di Governo volta, da un lato, a creare le condizioni per favorire gli investimenti e, dall'altro, ad attuare iniziative di stimolo ed impulso che favoriscano la domanda di servizi digitali anche a fronte del fatto che il livello di alfabetizzazione digitale del Paese risulta basso, come scarso risulta ancora il numero degli utilizzatori di Internet ed il tasso di diffusione dei pc nelle famiglie;
    il ritardo accumulato dal Paese deriva anche da una governance sull'Agenda digitale estremamente farraginosa, poco trasparente, con evidenti sovrapposizioni di ruoli e carenza nell'individuazione degli obiettivi e delle azioni necessarie al loro raggiungimento;
    come riportato anche dalla recente ricerca dell'Osservatorio agenda digitale della School of management del Politecnico di Milano, infatti, ad oggi sono stati adottati solo 18 dei 53 provvedimenti attuativi, tra regolamenti e regole tecniche, previsti per il raggiungimento degli obiettivi dell'Agenda digitale, e su alcuni di questi sono stati accumulati oltre 600 giorni di ritardo,

impegna il Governo:

   ad elaborare una visione strategica nazionale per il settore delle telecomunicazioni tale da soddisfare la funzione di interesse generale dell'infrastruttura di telecomunicazioni e fornire il quadro di riferimento per gli operatori, con la possibilità di prevedere forme di societarizzazione interna ovvero aperta a tutti gli operatori per la gestione della rete di accesso, ove la sola concorrenza non sia in grado di perseguire l'interesse generale;
   ad attivarsi con e nelle istituzioni dell'Unione europea affinché sia possibile escludere gli investimenti pubblici, diretti a colmare il digital divide, dal patto di stabilità;
   ad attivarsi affinché i fondi strutturali europei siano impiegati a sostegno degli interventi necessari a sviluppare la banda ultra larga su rete fissa e in fibra, wi-fi e mobile, anche nelle aree a fallimento di mercato;
   a valutare le strategie più efficaci e praticabili atte a consentire lo sviluppo dell'infrastruttura di rete e della relativa governance in modo da assicurare la piena concorrenza tra operatori;
   a promuovere ogni iniziativa volta alla massima diffusione dell'utilizzo delle tecnologie digitali e alla sperimentazione dei relativi vantaggi, attuando politiche volte a diffondere l'uso di Internet tra i cittadini, anche attraverso la sensibilizzazione delle fasce della popolazione che attualmente non fanno uso di servizi on-line;
   a rivedere la governance dell'Agenda digitale, in modo da chiarire univocamente obiettivi, ruoli ed azioni, nonché a provvedere alla celere adozione dei decreti attuativi necessari all'implementazione della stessa.
(1-00663) «Bergamini, Palese».
(12 novembre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    sia le istituzioni sovranazionali che i Governi nazionali riconoscono all'evoluzione delle infrastrutture di nuova generazione e al conseguente sviluppo dei servizi in rete un ruolo fondamentale per garantire una crescita inclusiva, sostenibile e duratura dei singoli Paesi e, sotto tale profilo, l'anno 2011 ha rappresentato uno snodo importante caratterizzato dalla definizione degli ambiziosi obiettivi comunitari dell'agenda digitale europea (COM(2010)245) per il prossimo decennio, ma anche dagli indirizzi regolamentari per la realizzazione delle reti di accesso di nuova generazione e dal lancio delle prime offerte a 100 megabit al secondo anche in Italia;
    le reti di accesso di nuova generazione sono reti di accesso cablate costituite, in tutto o in parte, da elementi ottici e in grado di fornire servizi d'accesso a banda larga con caratteristiche più avanzate (quale una maggiore capacità di trasmissione) rispetto a quelli forniti tramite le reti in rame esistenti;
    dette reti, definite anche come delle vere e proprie «autostrade informatiche» per veicolare il traffico dati a grande velocità, in sicurezza e senza strozzature, secondo quanto emerge dal secondo rapporto dell'Osservatorio I-Com sulle reti di nuova generazione, rappresentano non solo uno strumento di sviluppo e crescita dell'economia, ma anche e soprattutto una modalità di investimento per evitare il cosiddetto «sotto-sviluppo» dei Paesi;
    non a caso, proprio sulle reti di nuova generazione, si sono indirizzati importanti investimenti sia di carattere pubblico che privato nei principali Paesi del mondo e, in particolare, negli Stati Uniti, in Cina, in Corea, in India e in Australia;
    anche i Paesi europei a più elevato tasso di digitalizzazione quali il Regno Unito, l'Olanda e le economie scandinave hanno investito sulle reti di accesso di nuova generazione, anche se in modo più limitato di altre realtà internazionali;
    ciononostante, numerosi studi di caratura nazionale e internazionale dimostrano come le reti di nuova generazione (fisse e mobili) possono promuovere la crescita almeno di un 1 punto di prodotto interno lordo ogni 10 per cento aggiuntivo di diffusione della banda larga e, al contempo, generare importanti risparmi che, a regime, per l'Italia corrisponderebbero a quasi 40 miliardi di euro all'anno. Sul punto, si segnala come la Banca Mondiale stimi, infatti, in 1,21 per cento l'impatto per i Paesi ad alto reddito di prodotto interno lordo aggiuntivo per ogni 10 per cento di diffusione della banda larga (Qiang e Rosotto, «Economic impacts of broadband», in Information and Communication for Development 2009: Extending Reach and Increasing Impact, Word Bank). Con riferimento specifico all'Italia, inoltre, il Progetto Italia digitale 2010 di Confindustria quantifica i risparmi grazie al: telelavoro (in 2 miliardi di euro); e-learning (in 1,4 miliardi di euro); e-government e impresa digitale (in 16 miliardi di euro); e-health (in 8,6 miliardi di euro); giustizia e sicurezza digitale (in 0,5 miliardi di euro); gestione energetica intelligente (in 9,5 miliardi di euro). Analoghe considerazioni sono contenute nel rapporto Oecd (2009) Network developments in support of innovation and user needs – Directorate for science, technology and industry;
    come si evince della lettura del secondo rapporto dell'Osservatorio I-Com sulle reti di nuova generazione, molti Governi hanno implementato strategie volte alla diminuzione degli ingenti costi di costruzione delle infrastrutture e a fornire, conseguentemente, incentivi sufficienti ad attrarre l'investimento privato in zone di mercato altrimenti escluse. Solitamente tali interventi sono successivi a un preliminare processo di stima della domanda potenziale e possono avere scala nazionale o, più frequentemente, essere associati a politiche regionali settoriali, indirizzate a specifiche aree geografiche, in cui il costo di fornitura privata del servizio richiesto è troppo elevato per il livello di domanda identificata;
    tra i meccanismi di investimento implementati a livello europeo e internazionale, uno dei metodi per canalizzare l'intervento pubblico in modo efficiente consiste:
     a) nel progettare forme di partenariato, dal momento che esse permettono di controllare più facilmente i flussi di investimento pubblico e, al contempo, di valersi dell'esperienza e della professionalità del settore privato. Un famoso modello di partenariato pubblico-privato è quello adottato per il progetto Amsterdam Citynet, anche se il modello si è evoluto discostandosi dall'assetto iniziale, con la drastica riduzione della componente pubblica, in seguito al trasferimento di parte della proprietà alle società private KPN e Reggefiber;
     b) nell'avviare prestiti di lungo periodo per gli operatori e programmi nazionali di finanziamento. I programmi di finanziamento vengono adottati per sostenere gli investimenti degli operatori e per agevolare la diffusione della banda larga attraverso incentivi all'entrata sul mercato. Nella maggior parte dei casi, i finanziamenti sono diretti a sovvenzionare soggetti privati, come nel caso dei programmi di finanziamento statunitensi «Rural Broadband Access Loan» e «Guarantees Program», nei quali il Governo si impegnava a concedere garanzie e prestiti agli operatori a tassi agevolati;
     c) nel riconoscimento di incentivi fiscali. Tale tipologia di intervento serve a promuovere gli investimenti in ricerca e sviluppo, in modo tale che gli operatori che investono sia in nuove reti che, in alcuni casi, in nuovi contenuti abbiano incentivi sufficienti a creare ulteriore innovazione. In tale tipologia di intervento rientrano diverse agevolazioni fiscali, che variano a seconda della legislazione del Paese prescelto, e che comprendono il credito di imposta (Usa) e i sussidi elargiti agli operatori di business (Canada). Gli incentivi fiscali sono particolarmente diffusi in Danimarca e negli Stati Uniti, dove sono stati introdotti per agevolare gli investimenti dei nuovi operatori (Usa) e per sussidiare indirettamente i dipendenti di quelle imprese che adottano sistemi di gestione dei dati supportati dalle reti di prossima generazione (Danimarca);
     d) nell'adottare strategie di abbattimento dei costi amministrativi legati ai processi di creazione dell'infrastruttura e nell'agevolare gli investimenti in nuovi rami di business;
     e) nell'adottare politiche di condivisione delle infrastrutture. La ratio di tali politiche è legata al fatto che i costi delle opere civili costituiscono di gran lunga la componente dominante dei costi di realizzazione delle reti di prossima generazione in fibra ottica. In particolare, il Giappone ha utilizzato le reti elettriche esistenti per lo sviluppo della fibra ottica, arrivando a risparmiare il 23 per cento dei costi di implementazione. La Francia, invece, ha deciso di condividere la fibra nelle aree urbane, a Parigi in particolare, aprendo il suo sistema di fognatura ai concorrenti, evitando in tal modo gran parte dei costi di ingegneria civile. Nel mese di agosto del 2008, il legislatore francese ha poi approvato una legge che impone ai costruttori dei nuovi edifici di distribuire la fibra di tutto l'edificio e di renderla disponibile a tutti gli operatori concorrenti su base non discriminatoria;
     f) nell'adottare iniziative per assicurare un utilizzo efficiente dello spettro radio. Lo sviluppo del mercato della banda larga dipenderà in misura consistente dallo sviluppo di reti di tipo wireless, come ha ribadito la Commissione europea nella comunicazione sul futuro della banda larga in Europa del 20 settembre 2010;
     g) nell'implementare il cosiddetto mapping territoriale. Un altro tipo di intervento che, ad oggi, è relativamente poco diffuso è la mappatura delle zone scoperte, ossia quel procedimento di identificazione delle aree territoriali effettivamente escluse dall'accesso a servizi a banda larga mediante un catasto delle infrastrutture;
    al riguardo, le analisi condotte dall'Osservatorio I-Com sulle reti di nuova generazione hanno evidenziato come non tutte le tipologie di politiche pubbliche a sostegno della diffusione della banda larga e delle reti di nuova generazione sembrano esercitare un effetto positivo sulla diffusione delle linee a banda larga;
    infatti, mentre l'implementazione di forme di partenariato pubblico-privato (sia con proprietà pubblica che privata della rete) risulta avere un effetto positivo e statisticamente significativo sul grado di penetrazione della banda larga sul territorio nazionale, così come la realizzazione di programmi di finanziamento e prestiti di lungo periodo per gli operatori, altre politiche quali la mappatura del territorio o il riconoscimento di incentivi fiscali sembrano esercitare un effetto debole e statisticamente non significativo;
    in ogni caso, si ritiene che la questione del finanziamento e degli investimenti in banda larga e reti di nuova generazione appaia troppo importante dal punto di vista economico e sociale per essere lasciata solo nelle mani degli investitori privati, la cui disponibilità all'investimento in tempi rapidi potrebbe essere limitata dagli elevati costi di realizzazione delle nuove reti e, soprattutto, dall'incertezza circa la capacità di ottenere adeguati ritorni dall'investimento;
    l'Italia, peraltro, presenta un numero di «analfabeti digitali» (definito come numero di cittadini che non hanno mai utilizzato Internet) fra i più alti d'Europa e questo fenomeno – che frena la crescita economica e la diffusione della cultura delle informazioni, pregiudicando in modo irreversibile il futuro delle prossime generazioni – nel breve e nel medio periodo, di fatto, potrà essere efficacemente contrastato solo attraverso una forte politica di investimenti pubblici da parte dello Stato;
    con il termine Agenda digitale si intendono un insieme di specifiche politiche pubbliche volte al potenziamento delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione;
    l'Agenda digitale europea è stata presentata dalla Commissione europea nel maggio 2010 – comunicazione «Un'agenda digitale europea» (COM(2010)245) – con lo scopo di sfruttare al meglio il potenziale delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione per favorire l'innovazione, la crescita economica e la competitività;
    non a caso l'Agenda digitale europea rappresenta una delle sette «iniziative faro» della Strategia per la crescita «Europa 2020», proponendo di realizzare un mercato unico digitale, di garantire un internet «veloce» e «superveloce» accessibile a tutti e a prezzi competitivi, attraverso reti di nuova generazione, di favorire gli investimenti privati e raddoppiare le spese pubbliche nelle sviluppo delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione;
    il 20 settembre 2010, la Commissione europea ha presentato un pacchetto di misure di attuazione dell'Agenda digitale, tra le quali la comunicazione (COM(2010)472) che indica l'obiettivo di assicurare entro il 2020 l'accesso ad Internet a tutti i cittadini con una velocità di connessione superiore a 30 megabit al secondo (banda ultra larga) e per almeno il 50 per cento delle famiglie con velocità superiore a 100 megabit al secondo;
    la promozione di reti di banda larga è, infatti, ritenuta di importanza centrale al fine del superamento del cosiddetto digital divide e con il termine «banda larga», nella teoria dei segnali, vengono indicati i metodi che consentono a due o più segnali di condividere la stessa linea di trasmissione. Esso è però divenuto con il tempo sinonimo di «alta velocità» di connessione alla rete Internet e di trasmissione ed è, pertanto, un concetto relativo e in evoluzione con l'avanzamento tecnologico. L'attuale sviluppo tecnologico indica generalmente come «banda larga» le connessioni in Europa superiori a 2 megabit al secondo;
    il Piano nazionale per la banda larga, coordinato dal Ministero dello sviluppo economico, mira all'eliminazione del digital divide in tutto il Paese, in particolare tramite l'eliminazione del deficit infrastrutturale presente in oltre 6 mila località del Paese ed i cui costi di sviluppo non possono essere sostenuti dal mercato;
    l'Agenda digitale europea fa riferimento anche alla banda «ultra larga», termine con il quale sono generalmente indicate velocità di connessione superiori a 30 megabit al secondo e che possono raggiungere anche i 100 megabit al secondo;
    sullo stato di diffusione della banda larga in Italia fornisce informazioni utili il rapporto «Raggiungere gli obiettivi Europei 2020 della banda larga in Italia: prospettive e sfide» presentato il 30 gennaio 2014 da Francesco Caio, nella sua qualità di commissario per l'attuazione dell'Agenda digitale, ai sensi del decreto-legge n. 69 del 2013, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 98 del 2013;
    il rapporto contiene un'analisi dei piani di investimento dei gestori italiani di telecomunicazioni. Nel rapporto si evidenzia un moderato ottimismo, purché gli operatori continuino ad investire, l'evoluzione tecnologica sia conforme alle attese e vi sia un coordinamento per l'attuazione tra operatori, regolatore e comuni. Per quanto riguarda l'obiettivo della copertura a 30 megabit al secondo per il 100 per cento della popolazione, le prime stime indicano una copertura raggiungibile al 2020 del 70 per cento con piani di dettaglio che arrivano al più fino al 2016-2017 con coperture al 50 per cento. Si ritiene che il raggiungimento completo degli obiettivi dell'Unione europea richieda ulteriori azioni complesse di tipo finanziario e di coordinamento tra i soggetti in campo, con un forte impegno e monitoraggio della Presidenza del Consiglio dei ministri;
    inoltre, la Commissione europea ha autorizzato con decisione COM(2012)9833 del 18 dicembre 2012 il progetto nazionale italiano per la banda ultra larga, che sarà gestito nell'ambito di appositi accordi con le regioni. In questo quadro, sono stati emessi a febbraio 2013 i bandi nazionali per 900 milioni di euro per l'azzeramento del digital divide nonché per accelerare lo sviluppo della banda ultra larga;
    con il Documento di economia e finanza 2014-2016 l'attuale Governo si è impegnato al raggiungimento degli obiettivi europei al 2020 di garantire al 100 per cento dei cittadini servizi di connettività ad almeno 30 megabit al secondo e incentivando, al contempo, la sottoscrizione di servizi oltre i 100 megabit al secondo per la metà della popolazione;
    la IX Commissione (Trasporti, poste e telecomunicazioni) della Camera dei deputati, il 16 aprile 2014, ha espresso parere favorevole al Documento di economia e finanza 2014-2016 evidenziando, tra le altre cose, la priorità di sostenere adeguatamente la piena attuazione dei piani nazionali della banda larga e della banda ultra larga ed operare per il conseguimento degli obiettivi previsti dall'Agenda digitale europea;
    purtuttavia, si deve evidenziare che con riferimento allo stato di attuazione dell'Agenda digitale italiana di cui ai decreti-legge n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 134 del 2012, n. 179 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 221 del 2012 e n. 69 del 2013, per quanto risulta ai firmatari del presente atto di indirizzo è stato rilevato che dei 55 adempimenti considerati dalla normativa vigente ne sono stati adottati solo 17 (per gli adempimenti non ancora adottati in 21 casi risulta già scaduto il termine per provvedere; rispetto alla ricognizione precedente sono state prese in considerazione le misure dell'articolo 13 del decreto-legge n. 69 del 2013, nonché ulteriori disposizioni del decreto-legge n. 179 del 2012 in precedenza non considerate ma comunque collegate all'attuazione dell'Agenda digitale);
    si segnala altresì che non risulta mai utilizzata la procedura prevista dall'articolo 13, commi 2-bis, 2-ter e 2-quater, del decreto-legge n. 69 del 2013, in base alla quale, per accelerare l'adozione dei provvedimenti attuativi previsti da quattordici specifiche disposizioni del decreto-legge n. 179 del 2012 si consente, per i regolamenti governativi, la loro adozione su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri e non dei ministri proponenti previsti (comma 2-bis) e per i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri e per i decreti ministeriali la loro adozione su proposta del Presidente del Consiglio anche in assenza del concerto dei Ministri previsti (comma 2-ter e 2-quater); infatti, tutti i provvedimenti attuativi in questione risultano ancora da adottare, fatta eccezione per due casi, nei quali si è però utilizzata la procedura ordinaria (si tratta nello specifico del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 agosto 2013, n. 109, attuativo dell'articolo 2, comma 1, e del decreto ministeriale 9 agosto 2013, n. 165, attuativo dell'articolo 14, comma 2-bis);
    eppure la rilevanza strategica dell'Agenda digitale, in un momento cruciale per il nostro Paese, imporrebbe la priorità di intervenire con urgenza sull'Agenda digitale. Una compiuta dematerializzazione consentirebbe, infatti, di ottenere risparmi pari a 43 miliardi di euro l'anno, di cui 4 miliardi di euro l'anno di soli risparmi per gli approvvigionamenti, 15 miliardi di euro l'anno di risparmi legati all'aumento di produttività del personale, 24 miliardi di euro l'anno di risparmi sui «costi di relazione» tra pubblica amministrazione e imprese, grazie a uno snellimento della burocrazia, come dimostrano i dati dell'Osservatorio fatturazione elettronica e dematerializzazione del Politecnico di Milano;
    recentemente, è stata, altresì, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 9 settembre 2014, n. 209, la delibera del comitato interministeriale per la programmazione economica relativa all'approvazione della proposta di accordo di partenariato nell'ambito della programmazione dei fondi strutturali e di investimento europei 2014-2020;
    è stata approvata con delibera del 18 aprile 2014 del Comitato interministeriale per la programmazione economica, la proposta di accordo di partenariato che stabilisce la strategia di impiego di fondi strutturali e di investimento europei per il periodo 2014-2020. Undici gli obiettivi tematici (OT) previsti dal regolamento (UE) n. 1303/2013: OT1: rafforzare la ricerca, lo sviluppo tecnologico e l'innovazione; OT2: migliorare l'accesso alle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, nonché l'impiego e la qualità delle medesime; OT3: promuovere la competitività delle piccole e medie imprese, il settore agricolo e il settore della pesca e dell'acquacoltura; OT4: sostenere la transizione verso un'economia a basse emissioni di carbonio in tutti i settori; OT5: promuovere l'adattamento al cambiamento climatico, la prevenzione e la gestione dei rischi; OT6: tutelare l'ambiente e promuovere l'uso efficiente delle risorse; OT7: promuovere sistemi di trasporto sostenibili ed eliminare le strozzature nelle principali infrastrutture di rete; OT8: promuovere l'occupazione sostenibile e di qualità e sostenere la mobilità dei lavoratori; OT9: promuovere l'inclusione sociale, combattere la povertà e ogni forma di discriminazione; OT10: investire nell'istruzione, formazione e formazione professionale, per le competenze e l'apprendimento permanente; OT11: rafforzare la capacità delle amministrazioni pubbliche e degli stakeholder e promuovere un'amministrazione pubblica efficiente;
    l'importo complessivo da ripartire tra gli obiettivi tematici è di 41.548,4 milioni di euro per il periodo di programmazione 2014-2020. Nella delibera sono allegate alcune tavole con cui viene dettagliata la ripartizione già disponibile del Fondo europeo di sviluppo regionale e del Fondo sociale europeo, pari a complessivi 31.118,7 milioni di euro, articolata per obiettivo tematico rispettivamente a favore delle regioni più sviluppate, delle regioni in transizione e delle regioni meno sviluppate. Nelle successive fasi di negoziazione formale con la Commissione europea e di attuazione dell'accordo di partenariato ci si impegna a tener conto delle esigenze che già sono sorte in fase istruttoria al fine di ottimizzare e garantire l'efficace realizzazione dei programmi, nel rispetto del principio della proficua gestione delle risorse;
    come, tuttavia, emerge da una recente inchiesta condotta dal Corriere delle Comunicazioni, tutte le regioni del nostro Paese hanno deliberato in tema di digitalizzazione e sono molte quelle che si sono dotate di agende digitali, reti di nuova generazione, cloud e razionalizzazione dell'esistente: i pilastri, in buona sostanza, sui cui poggia buona parte dei piani;
    lo scenario che ne emerge è sorprendente: le regioni sono molto più avanti di quanto si creda in materia di digitalizzazione e non mancano i progetti (di cui moltissimi già portati a termine) votati a rafforzare l'erogazione di servizi innovativi a cittadini e imprese che fanno leva su tecnologie di ultima generazione; il cloud, considerato dai più uno strumento per razionalizzare l’hardware; aumentare la capacità di storage e abbattere i costi in nome dell'efficienza e della spending review;
    fra le priorità anche la dematerializzazione e anche in questo caso a guidare i progetti c’è il duplice obiettivo di efficientare la macchina pubblica ottenendo un sensibile risparmio sulle spese vive, che non guasta in tempi di crisi;
    da evidenziare il rafforzamento degli investimenti in connettività e in particolare in banda larga per consentire l'erogazione di servizi evoluti e spingere l'attuazione di progetti digitali legati in particolare a sanità e scuola, ma anche a sostenere i distretti produttivi e a favorirne crescita e sviluppo in chiave di globalizzazione;
    da Nord a Sud, le agende regionali si somigliano molto; le differenze si misurano per lo più in termini di risorse disponibili e, quindi, di capacità attuativa delle iniziative sulla carta. Il patto di stabilità, da un lato, e l'incapacità di sfruttare appieno i fondi europei, dall'altro, rappresentano i grandi ostacoli sul cammino;
    le agende digitali regionali ci sono, dunque, ma ancora non si comprende come potranno integrarsi nel grande progetto nazionale. Attuare un'agenda digitale nazionale, quando ci sono già 21 agende locali, potrebbe determinare il rischio di una frammentazione che può inficiare l'attuazione stessa dei progetti a causa di annose questioni quali la mancanza di standard e di interoperabilità e la duplicazione delle iniziative, per non parlare del pericolo di ritrovarsi un'Italia digitale eternamente a macchia di leopardo;
    strettamente legata alla capacità del nostro Paese di centrare pienamente gli obiettivi dell'Agenda digitale europea è senza alcun dubbio l'annosa questione relativa alla necessità di garantire il controllo nazionale dell'infrastruttura di rete;
    come noto e costantemente rilevato da precedenti atti di indirizzo e di sindacato ispettivo presentati dal gruppo parlamentare Sinistra Ecologia Libertà, nel 2013, il nostro Paese ha dovuto assistere inerme alla dolorosa cessione, di fatto, ad investitori stranieri di una delle società che per anni ha rappresentato l'eccellenza nel mondo delle telecomunicazioni, ovverosia Telecom;
    con riferimento a Telecom spa, in data 4 dicembre 2013, la IX Commissione (Trasporti, poste e telecomunicazioni) della Camera dei deputati ha approvato la risoluzione n. 8-00029 concernente la situazione della società, nell'ambito della quale ha impegnato il Governo «ad adottare le iniziative consentite affinché siano garantiti i principi di equità e non discriminazione nell'accesso alla rete di telecomunicazioni da parte degli operatori, e, nel caso in cui si proceda alla costituzione di una società della rete, affinché la governance e gli assetti siano tali da assicurare che la gestione di una risorsa strategica per il Paese sia effettuata in modo rispondente a finalità di interesse generale»;
    purtuttavia, durante le audizioni svolte presso la IX Commissione (Trasporti, poste e telecomunicazioni) della Camera dei deputati, il sindacato Slc-Cgl aveva ribadito che senza uno strumento che potesse rimettere in discussione gli accordi che facevano diventare Telefonica controllore di fatto di Telecom Italia dal 1o gennaio 2014, ogni discussione sugli investimenti in infrastrutture necessari a rimuovere il gap tecnologico del nostro Paese sarebbe avvenuto fuori tempo massimo e che sarebbe stato necessario promuovere il decreto sull'offerta pubblica d'acquisto, avviando successivamente con Telefonica un negoziato che, partendo da un aumento di capitale a cui far partecipare investitori come Cassa depositi e prestiti, fondi pensione, assicurazioni vita, fosse in grado di produrre uno sforzo significativo per la costruzione della rete di nuova generazione;
    detto sindacato ha, inoltre, chiesto ai membri della IX Commissione di farsi promotori di una mozione con cui impegnare il Governo, tra le altre cose, a modificare la legge sull'offerta pubblica d'acquisto sulla scorta di quanto realizzato già dal Senato della Repubblica con la mozione n. 1-00160 approvata dall'Assemblea del Senato della Repubblica, a prima firma del presidente Mucchetti e coofirmata dai senatori del gruppo parlamentare Sinistra Ecologia Libertà, ove si chiedeva al Governo di attivarsi al fine di introdurre, con la massima urgenza, anche attraverso l'adozione di un apposito decreto-legge, le necessarie modifiche al Testo unico della finanza, in modo da: a) rafforzare i poteri di controllo della Consob nell'accertamento dell'esistenza di situazioni di controllo di fatto da parte di soci singoli o in concerto tra loro, in linea con le decisioni già assunte dalla Consob stessa in casi analoghi; b) aggiungere alla soglia fissa del 30 per cento, già prevista per l'offerta pubblica d'acquisto obbligatoria, una seconda soglia legata all'accertata situazione di controllo di fatto;
    a questo impegno, purtroppo, non si è dato mai seguito, nonostante fosse stato assunto analogamente anche alla Camera dei deputati in occasione della presentazione successiva di mozioni orientate in tal senso da parte di diversi gruppi parlamentari,

impegna il Governo:

   a valutare con particolare attenzione, alla luce di quanto previsto dalla normativa nazionale ed europea, l'opportunità di accelerare le procedure di scorporo, ovvero di separazione societaria della infrastruttura della rete di telecomunicazione al fine di rimuovere il gap tecnologico del nostro Paese, mediante la costituzione di una società della rete a maggioranza pubblica che possa prevedere soprattutto il coinvolgimento della Cassa depositi e prestiti;
   a valutare l'opportunità di adottare le più opportune iniziative, avendo riguardo ai risultati delle esperienze maturate nel contesto europeo e internazionale richiamate in premessa, tese a favorire gli investimenti pubblici e privati nelle reti di nuova generazione;
   a valutare l'opportunità di dare seguito agli impegni richiamati dalla citata mozione n. 1-00160 approvata al Senato della Repubblica in materia di modifiche alla legislazione sull'offerta pubblica di acquisto, a prima firma del presidente Mucchetti e coofirmata dai senatori del gruppo parlamentare Sinistra Ecologia Libertà, per le ragioni espresse in premessa, ove si impegnava, tra l'altro, il Governo pro tempore ad attivarsi al fine di introdurre, con la massima urgenza, anche attraverso l'adozione di un apposito decreto-legge, le necessarie modifiche al testo unico della finanza, in modo da: rafforzare i poteri di controllo della Consob nell'accertamento dell'esistenza di situazioni di controllo di fatto da parte di soci singoli o in concerto tra loro, in linea con le decisioni già assunte dalla Consob stessa in casi analoghi; aggiungere alla soglia fissa del 30 per cento, già prevista per l'offerta pubblica d'acquisto obbligatoria, una seconda soglia legata all'accertata situazione di controllo di fatto;
   a valutare l'opportunità di affrontare in modo deciso l'intera materia relativa all'attuazione dell'Agenda digitale, eventualmente intervenendo con un'iniziativa normativa ad hoc, così da dare finalmente esecuzione ad una serie di procedure di rilevanza essenziale per lo sviluppo e la competitività del nostro Paese;
   a valutare l'opportunità di informare quanto prima il Parlamento circa l'ammontare preciso e complessivo delle risorse che saranno destinate alla banda larga e ultra-larga, nonché al piano nazionale per l'attuazione dell'Agenda digitale italiana, chiarendo la strategia complessiva da adottare al fine, da un lato, di non sottovalutare il ruolo che le regioni possono avere in termini di competenze e di conoscenza delle specifiche realtà territoriali ma anche, dall'altro, di evitare inutili «doppioni» e ridondanze che rischierebbero di rallentare i progetti e di non assicurare un efficace impiego delle risorse disponibili.
(1-00664)
«Quaranta, Scotto, Franco Bordo, Ricciatti, Ferrara, Airaudo, Placido, Paglia, Melilla, Marcon, Duranti, Piras, Fratoianni, Costantino, Daniele Farina, Giancarlo Giordano, Kronbichler, Matarrelli, Nicchi, Palazzotto, Pannarale, Pellegrino, Sannicandro, Zaratti, Zaccagnini».
(12 novembre 2014)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE IN MATERIA DI DIRITTI DEI RICHIEDENTI ASILO E DEI RIFUGIATI, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALLA REVISIONE DEL REGOLAMENTO DELL'UNIONE EUROPEA NOTO COME «DUBLINO III»

   La Camera,
   premesso che:
    il fenomeno dei rifugiati e richiedenti asilo in Europa – a causa dei drammatici conflitti e delle violenze che stanno investendo l'area mediterranea e, più in generale, il continente africano – sta assumendo dimensioni terribili. Secondo il rapporto di Eurostat sul primo trimestre del 2014, le persone che, tra gennaio e marzo, hanno chiesto asilo sul territorio dei 28 Paesi dell'Unione europea sono state circa 108.300, quasi 25.000 in più rispetto allo stesso periodo del 2013, con un aumento del 30 per cento; in particolare, l'Italia ha ricevuto 10.700 domande, risalendo così al quarto posto tra i Paesi dell'Unione europea come meta dei richiedenti asilo. Tra i Paesi di provenienza, la Siria continua ad occupare il primo posto (16.770), seguita da Afghanistan (7.895) e Serbia (5.960);
    il numero delle vittime e delle violazioni dei diritti umani da parte dei trafficanti, negli anni, è considerevolmente aumentato (in generale, dal 2000 al 2013, sono morti più di 23 mila migranti nel tentativo di fuggire dai conflitti e di raggiungere l'Europa via mare o attraversando i confini del vecchio continente via terra: in media più di 1.600 l'anno);
    nonostante lo straordinario impegno del Governo italiano con l'operazione di soccorso denominata Mare Nostrum, che ha salvato migliaia di vite umane, i drammi e le violazioni dei diritti umani continuano a perpetrarsi;
    la gestione dell'accoglienza, dell'identificazione e dell'assistenza da parte di molti Paesi dell'Unione europea presenta numerose criticità, data la consistenza del fenomeno e considerate le talvolta difficili condizioni sociali ed economiche dei Paesi riceventi, difficoltà che si riflettono sia sulle popolazioni accoglienti che sui rifugiati e richiedenti asilo;
    con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, le materie concernenti l'asilo, la protezione sussidiaria e la protezione temporanea hanno acquisito la qualifica di politica comune dell'Unione europea (articolo 78 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea); pertanto, la concreta regolamentazione di tali materie risulta un'applicazione del Trattato;
    la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, che con il Trattato di Lisbona ha acquisito la stessa portata e rilevanza giuridica del Trattato stesso: riconosce e garantisce il diritto di asilo nel rispetto delle norme stabilite dalla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e dal Protocollo del 31 gennaio 1967 sullo status dei rifugiati, e a norma del Trattato sull'Unione europea e del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (articolo 18); vieta le espulsioni collettive e le espulsioni ed estradizioni verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti (articolo 19);
    le richieste di asilo nei Paesi dell'Unione europea sono disciplinate dal regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 (cosiddetto regolamento «Dublino III»), che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l'esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di Paese terzo o da un apolide;
    il regolamento «Dublino III» intende assicurare il pieno rispetto del diritto d'asilo garantito dall'articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, nonché dei diritti riconosciuti ai sensi degli articoli 1, 4, 7, 24 e 47 della Carta medesima (diritto alla dignità umana, proibizione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, rispetto della vita privata e familiare, diritto del bambino e diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale);
    l'obiettivo del regolamento «Dublino III» è quello di realizzare un sistema di asilo europeo basato su criteri omogenei di riconoscimento del diritto d'asilo dei richiedenti, sul rispetto dei diritti umani nei Paesi d'accoglienza e sulla solidarietà tra gli Stati membri e di consentire la rapida determinazione ed identificazione dello Stato membro competente al fine di garantire l'effettivo accesso alle procedure volte al riconoscimento della protezione internazionale, non pregiudicando l'obiettivo di un rapido espletamento delle domande di protezione internazionale;
    nei fatti, l'applicazione del regolamento in questione è di difficile gestione e il principio generale in esso stabilito, secondo cui i Paesi responsabili dell'esame di una domanda di protezione internazionale «anche di coloro che hanno varcato illegalmente le frontiere di uno Stato membro» sono quelli di prima accoglienza, presenta notevoli criticità a causa del numero sempre crescente di migranti;
    tra le principali criticità vi è la gestione nazionale, ossia in carico ai singoli Stati, delle richieste d'asilo, che induce in numerosi migranti il rifiuto di farsi identificare e il loro incontrollato movimento tra i Paesi europei;
    come rilevato da alcune agenzie di protezione dei rifugiati, tra cui l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, alcune disposizioni del regolamento «Dublino III», in particolare quelle relative alle procedure da adottare per la presa in carico dei minori non accompagnati, stanno determinando seri problemi di interpretazione e di implementazione;
    come rilevato da un report dell'Aida 2013, la regolamentazione sta diventando sempre più complicata e complessa e le garanzie a favore dei migranti (nell'espletamento della procedura di richiesta), tra cui il diritto all'assistenza legale, si stanno via via indebolendo;
    a più riprese l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, da sempre particolarmente attenta al tema dei rifugiati e dei richiedenti asilo e, in generale, del rispetto dei diritti umani dei più deboli, ha raccomandato, da ultimo nella risoluzione 2047 (2014), una profonda revisione del suddetto regolamento;
    il Consiglio europeo del 26 e 27 giugno 2014, nel definire gli orientamenti strategici della programmazione legislativa e operativa nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia per gli anni a venire, ha chiesto alle istituzioni dell'Unione europea e agli Stati membri: di dotarsi di una politica efficace in materia di migrazione, asilo e frontiere, guidata dai principi di solidarietà ed equa condivisione delle responsabilità; di recepire ed attuare efficacemente, quale priorità assoluta, il sistema europeo comune di asilo (Ceas), adottando norme comuni di livello elevato e istituendo una maggiore cooperazione per creare condizioni di parità che assicurino ai richiedenti asilo le stesse garanzie di carattere procedurale e la stessa protezione in tutta l'Unione europea; di rafforzare il ruolo svolto dall'Ufficio europeo di sostegno per l'asilo (Easo), in particolare promuovendo l'applicazione uniforme dell’acquis; di intensificare la cooperazione con i Paesi di origine e di transito, anche attraverso l'assistenza volta a rafforzare le loro capacità di gestione della migrazione e delle frontiere; di potenziare ed espandere i programmi di protezione regionale, in particolare nelle vicinanze delle regioni di origine;
    in considerazione del semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea e in vista del prossimo Consiglio europeo del 23 e 24 ottobre 2014, è opportuno che il nostro Paese ponga la necessità di mettere al centro dell'agenda europea la definizione di una politica solida e condivisa, improntata su solidarietà e responsabilità, in materia di immigrazione e diritto d'asilo,

impegna il Governo:

   a proporre nelle competenti sedi europee la necessità di una revisione del regolamento «Dublino III», che ponga al centro:
    a) il rispetto e la protezione dei diritti umani dei rifugiati e dei richiedenti asilo, al fine di garantire un ambiente più favorevole a una loro accoglienza, compatibilmente con le possibilità dei Paesi ospitanti, e di provvedere efficacemente a una loro identificazione per evitare che finiscano vittime del traffico clandestino, fornendo loro un'adeguata assistenza;
    b) un omogeneo sistema europeo che regoli la concessione del diritto di asilo secondo standard e procedure comuni e il coordinamento nella raccolta delle domande dei richiedenti, anche al di fuori del territorio dei Paesi membri e in collaborazione con l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, per permettere agli aventi diritto di raggiungere i Paesi di accoglienza in modo sicuro e prevenire ogni abuso del sistema con la presentazione di domande di asilo multiple da parte di una sola persona;
    c) un sistema europeo di accoglienza che si basi sulla solidarietà tra i Paesi membri e che distribuisca la presenza dei rifugiati per quote definite sulla base degli indici demografici ed economici;
    d) un sistema di mutuo riconoscimento tra gli Stati membri della concessione del diritto di asilo, tale da garantire la libertà di stabilimento del beneficiario in ogni Stato membro, per cui il riconoscimento della protezione internazionale ad un richiedente asilo all'interno di un determinato Stato sia valido nell'intero territorio dell'Unione europea, considerato che tale sistema, che presuppone la responsabilità condivisa di un piano comune europeo di protezione temporanea e di riconoscimento dell'asilo, risulta prodromico all'istituzione del sistema europeo di accoglienza;
    e) l'istituzione di un'agenzia europea per l'asilo e l'immigrazione al di fuori del territorio dell'Unione europea, favorendo l'utilizzazione delle sedi diplomatiche già esistenti in alcuni Paesi africani, quali sedi operative nelle zone di maggior transito dei rifugiati, in grado di gestire le domande di protezione internazionale e di contenere il numero dei flussi migratori indistinti.
(1-00603)
«Nicoletti, Speranza, Berlinghieri, Amendola, Giuseppe Guerini, Quartapelle Procopio, Campana, Beni, Fiano, Monaco, Chaouki, Moscatt, Iacono, Scuvera, Piazzoni, Migliore, Bruno Bossio, Mattiello, Fabbri, Amoddio, Malisani, Brandolin».
(3 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    la Presidenza italiana del Consiglio dell'Unione europea, considerato che l'Unione europea è soggetta a pressioni migratorie strutturali, conseguenti a cambiamenti sociali e politici negli Stati limitrofi, è tenuta ad assolvere entro il 31 dicembre 2014 il rafforzamento della tutela dei diritti fondamentali, attraverso un'efficace promozione della migrazione, individuando strumenti operativi;
    secondo i dati dello European asylum support office (Ufficio europeo di sostegno per l'asilo – Easo) diffusi nei giorni scorsi, si è registrato nei primi otto mesi un aumento del 28 per cento delle domande di asilo presentate nell'Unione europea, rispetto allo stesso periodo nel 2013. Uno su cinque dei richiedenti asilo è siriano, infatti la Siria è tra i primi tre Paesi di origine dei richiedenti in diciannove Stati dell'Unione europea;
    secondo i dati del Ministero dell'interno, nei mesi gennaio-settembre 2014 il numero dei richiedenti asilo si attestava a circa 44.000, con un aumento del 153 per cento a fronte dei dati del 2013 negli stessi mesi, pari a circa 17.387;
    in seguito al tragico naufragio di oltre trecento migranti del 3 ottobre 2013, l'operazione militare ed umanitaria italiana Mare Nostrum, iniziata il successivo 18 ottobre 2013, ha costituito un esempio efficace per affrontare e gestire in modo consapevole lo stato di emergenza umanitaria nello stretto di Sicilia, dovuto dall'afflusso eccezionale di migranti. L'operazione Mare Nostrum, operando congiuntamente ed in sinergia con le attività previste dall'europea Frontex, ha contribuito fattivamente a salvare vite umane in pericolo in mare, nonché a contrastare il traffico illegale di migranti. Secondo dati dell'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, le navi di Mare Nostrum hanno salvato circa il 70 per cento dei migranti e richiedenti protezione internazionale sbarcati da gennaio ad oggi in Italia;
    a partire dal prossimo mese di novembre avrà inizio la futura operazione Frontex Plus con obiettivi diversi, legati ad una maggiore vigilanza della frontiera meridionale dell'Unione. Frontex Plus sarà operativa solo nell'area marittima rientrante nella giurisdizione italiana, senza realizzare interventi di salvataggio in acque internazionali o nelle acque di altri Paesi che non riescono a gestire la propria zona di ricerca e salvataggio;
    «il successo di Frontex Plus dipende dalla partecipazione dei singoli Paesi», secondo quanto affermato dal Commissario europeo per gli affari interni Cecilia Malmström ed è necessario l'apporto dei singoli Governi per farsi carico di una gestione europea del fenomeno migratorio. Premesso ciò, le due operazioni dovrebbero essere complementari, convergendo nella promozione dell'integrazione europea delle politiche migratorie;
    negli ultimi anni si sono accentuate le differenze sostanziali tra i sistemi di protezione dei diversi Paesi, sia per quando riguarda le misure di accoglienza, sia relativamente alle percentuali di riconoscimento e alle procedure di esame della domanda;
    con il regolamento «Dublino III» si è voluto realizzare un sistema di asilo europeo basato su criteri omogenei di riconoscimento del diritto d'asilo dei richiedenti, per evitare disparità nel trattamento delle persone e nell'esame delle loro domande;
    tuttavia, l'applicazione del regolamento ha evidenziato alcune criticità, segnalate soprattutto da operatori del settore, relativamente alle procedure di gestione in generale e per la presa in carico dei minori non accompagnati, che necessitano di essere corrette,

impegna il Governo:

   a garantire una forma di protezione temporanea ai richiedenti provenienti dalla Siria, dall'Iraq e dall'Eritrea, attraverso la concessione di un permesso per motivi umanitari, in applicazione della direttiva 2001/55/CE, recepita dall'Italia con il decreto legislativo 7 aprile 2003, n. 85, relativa alla «concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati» e alla «promozione dell'equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell'accoglienza degli stessi»;
   al fine di gestire il fenomeno dei flussi migratori misti, a promuovere la creazione di un centro di accoglienza gestito in collaborazione con altri Paesi europei in Sicilia, che, in modo sperimentale, esamini le domande di protezione internazionale;
   a promuovere, in sede europea ed in collaborazione con l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, la creazione di centri di accoglienza nei Paesi di transito, quali Tunisia, Egitto, Marocco, Etiopia e Giordania, dove presentare domanda di protezione internazionale;
   ad adottare tutte le misure opportune per potenziare il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati;
   a sostenere presso le competenti sedi europee la necessità di una revisione del regolamento «Dublino III» al fine di eliminare le criticità sollevate in più sedi da personalità e istituzioni operanti nel settore, al fine di consentire ai richiedenti asilo di poter ottenere una protezione vera nei Paesi in cui hanno legami familiari o culturali e concrete prospettive di inserimento sociale e lavorativo.
(1-00604) «Santerini, Marazziti, Dellai».
(6 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    l'Europa non ha ancora mostrato di voler adottare una politica comune per la gestione dei flussi migratori e certamente non è stata capace di mostrare il volto umano della solidarietà di fronte all'emergenza umanitaria di flussi crescenti di migranti, lasciando sostanzialmente sola l'Italia, mentre ha il dovere, a fronte di questa continua richiesta di aiuto, di far sì che chi fugge dalla morte per raggiungerla, non trovi la morte nel suo cammino; si tratta di persone costrette a lasciare la propria terra per fuggire da situazioni di violenza, di degrado, di costrizione, di negazione di libertà e di privazione della dignità umana, e ad affidarsi a trafficanti criminali; il numero delle vittime e delle violazioni dei diritti umani da parte di questi ultimi, infatti, negli anni è considerevolmente aumentato (in generale, dal 2000 al 2013, sono morti migliaia di migranti nel tentativo di fuggire dai conflitti e di raggiungere l'Europa via mare o attraversando i confini del vecchio continente via terra, in media più di 1.600 l'anno);
    le ondate di sbarchi degli ultimi mesi sulle coste siciliane ha rimesso al centro del dibattito anche il diritto d'asilo facendo riemergere di nuovo la questione della normativa che lo regola a livello italiano ed europeo e degli strumenti con cui l'Unione europea può aiutare i Paesi membri sottoposti a forti pressioni migratorie alle frontiere;
    come Stato di frontiera esterna dell'Unione europea l'Italia è sottoposta a una pressione maggiore alle proprie frontiere rispetto a quanto non sarebbe se tale ingresso non coincidesse anche con l'ingresso nell'area dell'Unione europea, tuttavia ciò non può sottintendere che il Paese accogliente abbia responsabilità maggiori o speciali;
    pur tra polemiche e criticità, l'operazione di soccorso denominata Mare Nostrum ha comunque raggiunto lo scopo per il quale era stata avviata; infatti, dall'inizio del 2014, è stata salvata la vita a oltre 22.000 persone e il nostro Paese ha ancora una volta confermato la propria vocazione umanitaria che da sempre la contraddistingue in Europa; tuttavia, i sottoscrittori del presente atto di indirizzo non ritengono che Mare Nostrum possa rappresentare una soluzione permanente alla questione immigrazione, anche perché non ha impedito l'incremento dei flussi migratori illegali, garantendo, di fatto, l'arrivo in Italia a tutti coloro che si imbarcano sulle coste libiche;
    secondo il rapporto di Eurostat sul primo trimestre del 2014, sono state 435 mila le richieste di asilo in Europa nel 2013, facendo registrare un forte rialzo rispetto al 2012 quando erano state 335 mila. Secondo le stime, circa il 90 per cento sono nuove domande. Le più numerose sono state presentate da cittadini di nazionalità siriana. Emerge ancora dai dati Eurostat che il 70 per cento delle richieste si è concentrato in Germania, Francia, Svezia, Regno Unito e Italia. Nel 2013 il più alto numero di richieste d'asilo è stato registrato in Germania (127 mila, pari al 29 per cento dell'insieme delle domande), seguito da Francia (65 mila, 15 per cento), Svezia (54 mila, 13 per cento), Regno Unito (30 mila, 7 per cento) e Italia (28 mila, 6 per cento). In questi cinque Stati membri si è concentrato il 70 per cento di tutti i richiedenti asilo dell'Unione europea a 28 nel 2013;
    la gestione dell'accoglienza, identificazione, assistenza da parte di molti Paesi dell'Unione europea presenta numerose criticità data la consistenza del fenomeno e considerate talvolta le difficili condizioni sociali ed economiche dei Paesi riceventi, difficoltà che si riflettono sia sulle popolazioni accoglienti che sui rifugiati e richiedenti asilo;
    il 29 giugno 2013 sono stati pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea gli atti legislativi mancanti per completare la «revisione» di tutte le principali norme del Sistema europeo comune di asilo; in particolare, l'adozione del regolamento (UE) n. 604/2013, cosiddetto «Dublino III», entrato in vigore il 19 luglio 2013, in sostituzione del regolamento (CE) n. 343/2003, cosiddetto «Dublino II», ma la cui applicazione è stata prevista solo a partire dal 1o gennaio 2014;
    il regolamento «Dublino III» intende assicurare il pieno rispetto del diritto d'asilo garantito dall'articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, nonché dei diritti riconosciuti ai sensi degli articoli 1, 4, 7, 24 e 47 della Carta medesima (diritto alla dignità umana, proibizione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, rispetto della vita privata e familiare, diritto del bambino e diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale); inoltre, contiene i criteri e i meccanismi per individuare lo Stato membro competente al fine di garantire l'effettivo accesso alle procedure volte al riconoscimento della protezione internazionale, non pregiudicando l'obiettivo di un rapido espletamento delle domande di protezione internazionale;
    il regolamento «Dublino III» è senza dubbio la parte del Sistema europeo comune di asilo più discusso e criticato, non solo dal punto di vista delle conseguenze negative sulla vita dei richiedenti asilo; infatti, il principio generale su cui si basa è lo stesso della vecchia convenzione di Dublino del 1990 e di «Dublino II»: ogni domanda di asilo deve essere esaminata da un solo Stato membro e la competenza per l'esame di una domanda di protezione internazionale ricade in primis sullo Stato che ha svolto il maggior ruolo in relazione all'ingresso e al soggiorno del richiedente nel territorio degli Stati membri, salvo eccezioni; insomma, sono state apportati pochi aggiustamenti;
    tuttavia, malgrado l'Unione europea si sia dotata di un proprio sistema di asilo (basato sulla nozione di protezione internazionale, articolata nelle tre forme dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione temporanea, volte a consentire a chiunque di vedersi riconosciuto lo status appropriato alla propria situazione), faticosamente completato dopo 12 anni di lavori nel giugno 2013, come già detto, il cammino verso il raggiungimento di un sistema comune europeo di asilo giusto ed efficace appare ancora lungo; la realizzazione di tale sistema costituisce, in ogni caso, l'esito ultimo di un processo di progressivo avvicinamento delle legislazioni nazionali in materia le cui tappe sono state delineate nei programmi pluriennali per lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia;
    tra l'altro, con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, le materie concernenti il diritto d'asilo, la protezione sussidiaria e la protezione temporanea hanno acquisito la qualifica di politica comune dell'Unione europea (articolo 78 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea); pertanto, la concreta regolamentazione di tali materie risulta un'applicazione del Trattato;
    l'applicazione del regolamento in questione è di difficile gestione e il principio generale in esso stabilito, secondo cui i Paesi responsabili dell'esame di una domanda di protezione internazionale «anche di coloro che hanno varcato illegalmente le frontiere di uno Stato membro» sono quelli di prima accoglienza, presenta notevoli criticità a causa del numero sempre crescente di migranti, tra le quali la gestione nazionale, ossia in carico ai singoli Stati delle richieste d'asilo, che induce in numerosi migranti il rifiuto di farsi identificare e il loro incontrollato movimento tra i Paesi europei;
    sia il Consiglio europeo per i rifugiati e gli esuli sia l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati ritengono criticamente che tale sistema non riesca a fornire una protezione equa, efficiente ed efficace, impedisca l'esercizio dei diritti legali e del benessere personale dei richiedenti asilo, compreso il diritto a un equo esame della loro domanda d'asilo e, ove riconosciuto, a una protezione effettiva e conduca a una distribuzione ineguale delle richieste d'asilo tra gli Stati membri;
    la seconda fase del processo, attualmente in corso e recante la definitiva realizzazione di un Sistema europeo comune di asilo, prevede la revisione della citata normativa vigente; a più riprese l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, da sempre particolarmente attenta al tema dei rifugiati e dei richiedenti asilo e, in generale, del rispetto dei diritti umani dei più deboli, ha raccomandato, da ultimo nella risoluzione 2047 (2014), una profonda revisione del sopracitato regolamento;
    il Consiglio europeo del 26 e 27 giugno 2014, nel definire gli orientamenti strategici della programmazione legislativa e operativa nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia per gli anni a venire, ha chiesto alle istituzioni dell'Unione europea e agli Stati membri: di dotarsi di una politica efficace in materia di migrazione, asilo e frontiere, guidata dai principi di solidarietà ed equa condivisione delle responsabilità; di recepire e attuare efficacemente, quale priorità assoluta, il Sistema europeo comune di asilo (Ceas), adottando norme comuni di livello elevato e istituendo una maggiore cooperazione per creare condizioni di parità che assicurino ai richiedenti asilo le stesse garanzie di carattere procedurale e la stessa protezione in tutta l'Unione europea; di rafforzare il ruolo svolto dall'Ufficio europeo di sostegno per l'asilo (Easo), in particolare promuovendo l'applicazione uniforme dell’acquis; di intensificare la cooperazione con i Paesi di origine e di transito, anche attraverso l'assistenza volta a rafforzare le loro capacità di gestione della migrazione e delle frontiere; di potenziare ed espandere i programmi di protezione regionale, in particolare nelle vicinanze delle regioni di origine;
    il Governo italiano si è impegnato a chiedere nelle sedi appropriate una risposta europea più adeguata e a inserire la questione di una più efficace gestione in comune delle politiche migratorie fra le priorità del semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea;
    occorre, a questo punto, che a livello europeo si predisponga al più presto almeno un canale umanitario affinché chi fugge dalla guerra possa chiedere asilo alle istituzioni europee nei Paesi che affacciano sul Mediterraneo o lì dove è necessario (presso i consolati o altri uffici) senza doversi imbarcare, con ciò alimentando il traffico di essere umani e il bollettino dei tragici naufragi, per poi accogliere sul suolo europeo chi fugge ed esaminare qui la domanda dei richiedenti;
    la Costituzione italiana, attraverso il terzo comma dell'articolo 10, recita chiaramente: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge», ovvero sussiste l'obbligo dell'accoglienza dei richiedenti asilo;
    è nel pieno della sua attività il semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea (e anche in vista del prossimo Consiglio europeo del 23 e 24 ottobre 2014) ed è, dunque, opportuno che il nostro Paese ponga la necessità di mettere al centro dell'agenda europea la definizione di una politica solida e condivisa, improntata su solidarietà e responsabilità, in materia di immigrazione e diritto d'asilo,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative per adottare un testo unico di tutte le disposizioni di attuazione degli atti dell'Unione europea in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione internazionale e temporanea, in attuazione anche dell'articolo 10 della Costituzione, e per rivedere tutta la normativa esistente in tema di regolamentazione organica dell'intera materia dell'immigrazione dall'estero;
   ad attivarsi in ogni sede dell'Unione europea, soprattutto in occasione del semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea, al fine di realizzare il superamento dell'attuale quadro normativo (così detto sistema di «Dublino III») attraverso una sua revisione per favorire: l'inserimento dei richiedenti asilo già dal momento dell'avvio della procedura di protezione, nei Paesi dell'Unione dove già vivono propri parenti, prima ancora che acquisiscano lo status di apolide; il rispetto e la protezione dei diritti umani dei rifugiati e dei richiedenti asilo, al fine di garantire un ambiente più favorevole a una loro accoglienza, compatibilmente con le possibilità dei Paesi ospitanti e di provvedere efficacemente a una loro identificazione per evitare che finiscano vittime del traffico clandestino, fornendo loro un'adeguata assistenza;
   ad assumere iniziative, in sede di Unione europea, per una più efficace azione nei confronti dei Paesi di origine e di transito, impegnando e incentivando i rispettivi Governi in una seria e solidale politica di gestione dei flussi, soprattutto nella lotta alle organizzazioni criminali che lucrano sul traffico di esseri umani;
   a favorire l'avvio di un sistema europeo di accoglienza che si basi sulla solidarietà tra i Paesi membri e che distribuisca la presenza dei rifugiati per quote definite sulla base degli indici demografici ed economici, favorendo le logiche di ricongiungimento familiare, etnico, religioso e linguistico;
   a promuovere l'adozione di:
    a) un omogeneo sistema europeo che regoli la concessione del diritto di asilo secondo standard e procedure comuni e il coordinamento nella raccolta delle domande dei richiedenti, anche al di fuori del territorio dei Paesi membri e in collaborazione con l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, per permettere agli aventi diritto di raggiungere i Paesi di accoglienza in modo sicuro e prevenire ogni abuso del sistema con la presentazione di domande di asilo multiple da parte di una sola persona;
    b) un sistema di mutuo riconoscimento tra gli Stati membri della concessione del diritto di asilo, tale da garantire la libertà di stabilimento del beneficiario in ogni Stato membro, per cui il riconoscimento della protezione internazionale a un richiedente asilo all'interno di un determinato Stato sia valido nell'intero territorio dell'Unione europea;
   a favorire l'istituzione di un'agenzia europea per l'asilo e l'immigrazione al di fuori del territorio dell'Unione europea attraverso la creazione di basi europee direttamente finanziate dall'Unione europea o l'utilizzazione delle sedi diplomatiche già esistenti in alcuni Paesi africani, quali sedi operative nelle zone di maggior transito dei rifugiati, in grado di gestire le domande di protezione internazionale e di contenere il numero dei flussi migratori indistinti;
   a rivedere tutte le note del Ministero dell'interno che concernono i finanziamenti dei bandi interministeriali destinati alla prima accoglienza e alla gestione dei servizi connessi, con particolare riguardo ai criteri di spesa ad essi inerenti;
   a verificare la possibilità di promuovere interventi per assicurare beni e servizi per le famiglie italiane meno abbienti con il fine di evitare tensioni tra italiani e richiedenti asilo all'interno della comunità.
(1-00605)
«Manlio Di Stefano, Spadoni, Grande, Scagliusi, Del Grosso, Di Battista, Sibilia, Currò, Artini, Carinelli, Silvia Giordano, Rostellato, Brescia, Frusone, Colonnese, Lorefice, Sorial, Mantero, Grillo, D'Incà, Spessotto, L'Abbate, Benedetti, Liuzzi, Dall'Osso, De Lorenzis».
(7 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    i dati forniti da Eurostat sulle richieste di asilo presentate in Europa fotografano un fenomeno, quello dei rifugiati e richiedenti asilo, di imponenti dimensioni e che necessita di una forte politica comune dell'Unione europea;
    secondo il rapporto fornito dall'istituto europeo di statistica, le persone che nei primi tre mesi del 2014 hanno chiesto asilo sul territorio dell'Unione europea sono state circa 108.300, con un aumento di circa il 30 per cento rispetto al dato dello stesso periodo del 2013, che ha registrato nell'anno circa 450 mila richieste di asilo presentate ai 28 Stati dell'Unione europea, con un aumento di circa 100 mila richieste rispetto al 2012;
    l'Italia nel 2013 ha ricevuto 27.800 domande di asilo. Erano state 31.723 nel 2008, 19.090 nel 2009, 12.121 nel 2010, 37.350 nel 2011 e 17.323 nel 2012;
    nel 2013 il più alto numero di richieste d'asilo è stato registrato in Germania (127 mila), seguito da Francia (6 5 mila), Svezia (54 mila), Regno Unito (30 mila). Complessivamente, sommato al dato italiano, questi numeri compongono il circa il 70 per cento del totale delle richieste d'asilo presentate nell'Unione europea;
    tra i Paesi di provenienza, la Siria occupa il primo posto (16.770 richieste), seguita da Afghanistan (7.895) e Serbia (5.960);
    secondo l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, il numero totale di persone arrivate via mare in Italia, sempre nei primi mesi del 2014, è di oltre 18.500 e quasi 43.000 persone sono arrivate via mare nel 2013;
    l'operazione di soccorso in mare denominata Mare Nostrum ha salvato in mare, in questi mesi, migliaia di vite umane. Tuttavia, ha dimostrato più volte i suoi limiti, come, ad esempio, nella tragedia del 12 maggio 2014 al largo di Lampedusa e nelle centinaia di morti nei pressi delle coste libiche;
    Mare Nostrum è stata una risposta emergenziale ad una questione strutturale, quale è quella relativa ai flussi migratori. Inadeguata e insufficiente e che, in ogni caso, non previene in alcun modo l'esposizione dei potenziali rifugiati ai rischi delle traversate per mare e che, se pure ha permesso di fermare molti dei cosiddetti scafisti, certo non è in grado di intervenire sull'emergenza della tratta di esseri umani, che ha luogo principalmente in Libia e che vede negli scafisti solo l'ultimo anello della catena;
    le navi dell'operazione Mare Nostrum, se, da un lato, svolgono un'importante opera di pattugliamento e di soccorso, come prescritto dalle convenzioni internazionali in vigore, dall'altro, tuttavia, nulla può rispetto all'altra grande emergenza che l'Unione europea si trova ad affrontare: la gestione dell'accoglienza e l'assistenza ai richiedenti asilo negli Stati europei e, in particolare, nel nostro Paese, specificatamente interessato dalla pressione migratoria;
    la gestione dell'accoglienza, la «presa in carico» e l'assistenza da parte di molti Paesi dell'Unione europea presenta numerose criticità, data la consistenza del fenomeno e considerate le talvolta difficili condizioni sociali ed economiche dei Paesi riceventi, difficoltà che si riflettono sia sulle popolazioni accoglienti che sui rifugiati e richiedenti asilo;
    con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, le materie concernenti l'asilo, la protezione sussidiaria e la protezione temporanea hanno acquisito la qualifica di politica comune dell'Unione europea (articolo 78 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea); pertanto, la concreta regolamentazione di tali materie risulta un'applicazione del Trattato;
    la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, che con il Trattato di Lisbona ha acquisito la stessa portata e rilevanza giuridica del Trattato stesso, riconosce e garantisce il diritto di asilo nel rispetto delle norme stabilite dalla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e dal Protocollo del 31 gennaio 1967, relativi allo status dei rifugiati, del Trattato sull'Unione europea e del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (articolo 18); vieta le espulsioni collettive e le espulsioni ed estradizioni verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti (articolo 19);
    le richieste di asilo nei Paesi dell'Unione europea sono disciplinate dal regolamento n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 (cosiddetto regolamento «Dublino III»), che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l'esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di Paese terzo o da un apolide;
    il regolamento «Dublino III» intende assicurare il pieno rispetto del diritto d'asilo garantito dall'articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, nonché dei diritti riconosciuti ai sensi degli articoli 1, 4, 7, 24 e 47 della Carta medesima (diritto alla dignità umana, proibizione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, rispetto della vita privata e familiare, diritto del bambino e diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale);
    l'obiettivo del regolamento «Dublino III» è quello di realizzare un sistema di asilo europeo basato su criteri omogenei di riconoscimento del diritto d'asilo dei richiedenti, sul rispetto dei diritti umani nei Paesi d'accoglienza e sulla solidarietà tra gli Stati membri e di consentire la rapida determinazione ed identificazione dello Stato membro competente, al fine di garantire l'effettivo accesso alle procedure volte al riconoscimento della protezione internazionale, non pregiudicando l'obiettivo di un rapido espletamento delle domande di protezione internazionale;
    rispetto al precedente regolamento denominato «Dublino II», in particolare, sono state modificate le definizioni di familiari; è stato introdotto l'effetto sospensivo del ricorso; sono stati inseriti i termini anche per la procedura di ripresa in carico; è possibile il trattenimento del richiedente per pericolo di fuga; è introdotto lo scambio di informazioni sanitarie a tutela del richiedente;
    studi effettuati negli ultimi anni mostravano ancora differenze sostanziali tra i sistemi di protezione dei diversi Paesi, sia per quando riguarda le misure di accoglienza, sia relativamente alle percentuali di riconoscimento, sia rispetto alle procedure di esame della domanda; pertanto, l'Unione europea ha riformato il complesso della normativa in materia, ponendolo, nelle intenzioni, come base uniforme al fine di evitare disparità nel trattamento delle persone e nell'esame delle loro domande, proprio come premessa delle misure previste dal regolamento «Dublino», nella sua versione modificata;
    tuttavia, al di là dei buoni propositi sopra richiamati, diverse disposizioni del regolamento «Dublino III» stanno determinando seri problemi di interpretazione e applicazione negli Stati membri;
    l'obiettivo iniziale di tale sistema era quello di garantire che almeno uno degli Stati membri prendesse in carico il richiedente. Tuttavia, è ormai evidente come in realtà l'applicazione di tale insieme di regole sia diventata un insensato percorso a ostacoli per chi cerca protezione: famiglie separate, persone lasciate senza mezzi di sostentamento o addirittura detenute, lungaggini burocratiche e rimpalli tra Stati e uffici che rendono il diritto d'asilo inesigibile;
    in particolare, il regolamento «Dublino III» limita oltremodo la mobilità dei richiedenti asilo nell'Unione europea, con un impatto fortemente negativo sulla vita dei rifugiati;
    per quanto concerne l'Italia, il regolamento di Dublino interessa, in particolare, due categorie di migranti: quelli che sono stati rimandati in Italia, in quanto individuata come Stato responsabile per esaminare la loro domanda d'asilo («dublinati») e quelli che devono essere trasferiti dall'Italia a un altro Stato europeo, dove precedentemente sono stati identificati attraverso le impronte digitali (in attesa di trasferimento);
    il rilievo delle impronte digitali assume un'importanza poiché il regolamento prescrive che il migrante sia «preso in carico» dal Paese di primo accesso. Essendo l'Italia un Paese di transito per la maggior parte dei migranti e vista la diffusione delle notizie sulla lentezza delle procedure del nostro Paese nell'evasione delle richieste d'asilo e sulle limitazioni – pur se illegittime – poste alla libera circolazione in territorio europeo anche successivamente al riconoscimento dello status di rifugiato, sono molti i migranti che si oppongono al rilevamento;
    il regolamento (UE) n. 604/2013, nato per contrastare il fenomeno del cosiddetto asylum shopping (la presentazione della richiesta di protezione in più Paesi), appare del tutto inadeguato a gestire i flussi migratori attuali; esso impedisce, di fatto, la necessaria solidarietà europea nella gestione delle domande di protezione e incentiva fenomeni di fughe collettive dai centri di prima accoglienza e, quindi, di «clandestinizzazione» dei migranti;
    un'altra criticità particolarmente vistosa riguarda l'accoglienza. Occorre segnalare come non sia stato organizzato nel nostro Paese un sistema di prima accoglienza idoneo alla portata del fenomeno delle migrazioni e, in particolare con riferimento ai richiedenti asilo, siano state spesso utilizzate strutture di accoglienza del tutto improprie e al limite della dignità umana;
    un ulteriore elemento critico è la mancanza di un'effettiva ed esigibile tutela legale da parte dei migranti, e ciò ha un forte impatto sull'equità della procedura di asilo. La procedura «Dublino», infatti, può durare molto e il migrante non ha la possibilità di essere aggiornato su come procede il suo caso, né attraverso un apposito ufficio informazioni, né accedendo a un sistema on line o agli sportelli di altri uffici delle autorità competenti, come quelli territoriali dell'immigrazione;
    questo produce frustrazione, depressione e un profondo senso di precarietà, che coinvolge anche le popolazioni locali interessate dalla pressione migratoria;
    la rigidità del «sistema di Dublino», infatti, spinge i richiedenti asilo a muoversi continuamente in Europa in cerca di protezione, piuttosto che fermarsi in un posto solo, nel tentativo di aggirare un sistema percepito come poco sicuro;
    nonostante le criticità del sistema siano note da tempo, l'Unione europea non sembra voler porre rimedio, anzi pare prendere misure che vanno nella direzione opposta a quella della risoluzione dei problemi;
    ne è l'esempio la gigantesca operazione di polizia appena partita in tutta Europa volta a fermare, controllare e identificare tutti i migranti che verranno intercettati sul territorio continentale;
    l'Italia guiderà tale operazione di polizia europea, denominata «Mos Maiorum», un intervento coordinato dalla direzione centrale per l'immigrazione e la polizia di frontiera del Ministero dell'interno italiano, in collaborazione con l'agenzia Frontex, volto a perseguire l’«attraversamento illegale dei confini»; un'operazione più repressiva che di tutela nei confronti di quella moltitudine di individui che approdati in Europa stanno cercando di realizzare un loro nuovo progetto di vita, lontano da guerre, miseria e persecuzioni;
    di fatto, l'identificazione, già dal prelevamento delle impronte digitali, rappresenta oggi per il migrante non una garanzia di tutela dei diritti connessi al proprio status, ma una limitazione della propria libertà di movimento all'interno dell'Unione europea, anche al fine di proporre istanza di protezione in un Paese diverso da quello di primo accesso. Doversi nascondere dall'autorità statuale del Paese di primo accesso rappresenta, in molti casi, l'inizio di un percorso di emarginazione;
    ventuno parlamentari di Italia, Francia, Spagna, Grecia, Croazia, Serbia, San Marino, appartenenti a gruppi politici diversi (Pse, Ppe, Alde – tra gli italiani Pd, Fi, Popolari, Sel, 5Stelle) hanno depositato presso l'Ufficio di Presidenza dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa la richiesta di un rapporto ad hoc sull'applicazione del regolamento «Dublino III», che possa contenere analisi fattuali dei dati e proposte ai Governi per un suo miglioramento, come più volte richiesto dall'Assemblea di Strasburgo;
    sempre l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa ha raccomandato, nella sua ultima risoluzione, la 2047/2014, una profonda revisione del regolamento «Dublino III»;
    riveste particolare importanza la circostanza che l'Italia è presidente di turno dell'Unione europea ed appare qui opportuno che l'Italia ponga la necessità di aggiungere anche tale punto all'ordine del giorno del Consiglio europeo del 23 e 24 ottobre 2014,

impegna il Governo:

   a proporre nelle competenti sedi europee un'iniziativa tesa a sospendere l'applicazione del regolamento cosiddetto «Dublino III» e a sostenere la necessità di una sua revisione, che ponga al centro:
    a) il rispetto e la protezione dei diritti umani dei rifugiati e dei richiedenti asilo, al fine di garantire un ambiente più favorevole a una loro accoglienza, fornendo loro un'adeguata assistenza fisica, psicologia e legale, nonché un adeguato percorso di integrazione;
    b) un sistema di mutuo riconoscimento tra gli Stati membri della concessione del diritto di asilo, che estenda ai richiedenti asilo ed ai rifugiati i diritti previsti per i cittadini europei dal Trattato di Schengen, permettendo così un'allocazione libera e, dunque, più razionale dei flussi migratori;
    c) l'istituzione di un'agenzia europea per l'asilo e l'immigrazione, favorendo l'utilizzazione delle sedi diplomatiche già esistenti in alcuni Paesi africani, quali sedi operative nelle zone di maggior transito dei rifugiati;
    d) a prendere tutti i provvedimenti necessari affinché il tempo richiesto per l'esame delle richieste di asilo in Italia si allinei alla media europea;
    e) ad operare per ottenere le modifiche al regolamento di Dublino III idonee a rendere l'identificazione del migrante non un limite alla propria libertà di circolazione e al pieno godimento dei diritti connessi al proprio status, ma una garanzia del rispetto degli stessi diritti;
   a farsi portatore in sede europea di un'iniziativa che porti al definitivo superamento del sistema Frontex, affinché quelle risorse siano finalizzate in primis ad organizzare un efficiente sistema di monitoraggio e soccorso;
   ad interrompere la prassi di rimpatri cosiddetti «immediati», effettuati prima che sia data ai migranti la possibilità di proporre istanza di protezione, posto che tali provvedimenti, anche se presi in forza di accordi bilaterali, sono illegittimi in quanto costituiscono rimpatri collettivi non motivati singolarmente ed in quanto negano al migrante la possibilità, riconosciuta da numerose convenzioni internazionali, di proporre istanza di protezione;
   a porre in sede europea la questione dell'indifferibilità dell'apertura di canali di «accesso protetto», che tramite corridoi umanitari garantiscano la possibilità ai migranti di fare richiesta di asilo direttamente nei Paesi di transito, come l'Egitto, per poi poter entrare in Europa in sicurezza.
(1-00616)
(Nuova formulazione) «Palazzotto, Fratoianni, Scotto, Nicchi, Costantino, Pannarale, Duranti, Piras, Kronbichler, Zaratti».
(13 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    il tema dell'immigrazione, di per sé particolarmente complesso e delicato, assume un particolare rilievo in questo momento storico a causa della grave instabilità politica dei Paesi africani del Mediterraneo e di quelli dell'Africa subsahariana. Si sta assistendo, infatti, ad una mutazione delle cause storiche del fenomeno migratorio. Se prima povertà e scarsezza dei mezzi economici rappresentavano il motivo principale della spinta alla migrazione, oggi la causa prioritaria e più significativa è costituita dalle guerre e dalle persecuzioni;
    infatti, la ciclicità delle crisi che attraversano quei Paesi, segnati da fragili equilibri politici interni e debolezza degli apparati statuali, determina spesso tumulti, sommosse e vere e proprie rivoluzioni che rendono impossibile ogni forma di civile convivenza;
    ciò cambia il profilo dei flussi migratori che, inizialmente originati dal desiderio di fuggire dalla povertà e da condizioni sociali allarmanti, oggi, per i motivi esposti, sono soprattutto determinati dal desiderio di sfuggire da guerre e devastazioni e spingono i migranti a richiedere all'Europa asilo politico;
    i cosiddetti «viaggi della speranza» partono da Eritrea, Mali, Siria, Libia, Gambia, Somalia, Senegal, Pakistan, Nigeria, Egitto ed altri;
    secondo il rapporto Eurostat sul primo quadrimestre del 2014, le persone che, tra gennaio e marzo 2014, hanno richiesto asilo sul territorio dei 28 Paesi dell'Unione europea sono state circa 108.300, quasi 25.000 in più rispetto allo stesso periodo del 2013, con un aumento del 30 per cento. In particolare, l'Italia ha ricevuto 10.700 domande, risalendo così al quarto posto tra i Paesi dell'Unione europea come meta dei richiedenti asilo;
    per quanto attiene alla politica europea di asilo, si ricorda che il tema è già stato oggetto, da parte delle istituzioni comunitarie, di dibattito e di specifiche valutazioni in relazione anche ai complessi e difficili percorsi di integrazione nei Paesi dell'Unione europea;
    con il Trattato di Amsterdam, la politica migratoria compie un passo decisivo verso la «comunitarizzazione», diventando oggetto di competenza concorrente tra Unione europea e Stati membri;
    nel 2009 il Trattato di Lisbona, confermando l'impegno dell'Europa verso una comune politica migratoria, ha reso vincolante la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea: pertanto, con il Trattato di Lisbona, le materie concernenti l'asilo, la protezione sussidiaria e la protezione temporanea hanno acquisito la qualifica di politica comune dell'Unione europea (articolo 78 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea);
    con il regolamento «Dublino III» (regolamento (UE) n. 604/2013) si stabiliscono i criteri ed i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente ad esaminare le domande di protezione internazionale presentate da cittadini di un Paese terzo o da un apolide;
    il nuovo regolamento, che abroga il regolamento (CE) n. 343/2003, detto «Dublino II», modifica alcune disposizioni previste per la determinazione dello Stato membro dell'Unione europea competente per l'esame della domanda di protezione internazionale e le modalità e le tempistiche ad esso correlate. Il nucleo fondamentale di tale regolamento è costituito dai criteri che determinano quale sia lo Stato membro dell'Unione europea competente;
    altro obiettivo del regolamento «Dublino III» è quello di realizzare un sistema di asilo europeo basato su criteri omogenei di riconoscimento del diritto di asilo dei richiedenti: nel pieno rispetto dei diritti umani da parte dei Paesi di accoglienza, della solidarietà degli Stati membri e con l'impegno di pervenire ad una rapida e sicura identificazione;
    il regolamento «Dublino III» (in base al quale lo Stato membro responsabile dell'esame dell'istanza è quello in cui è avvenuto il primo ingresso del richiedente protezione internazionale) risulta ormai superato, essendo già mutato il quadro di riferimento e le stesse condizioni nelle quali esso è stato definito;
    il nostro Paese, ad esempio, risulta essere di gran lunga il primo punto di approdo dei migranti: ma la maggior parte di questi desiderano raggiungere familiari inseriti in comunità già insediate in altre nazioni e rifiutano, pertanto, il riconoscimento considerando l'Italia come un mero Paese di transito;
    il superamento del regolamento «Dublino III» consentirebbe, quindi, il trasferimento legale di questi migranti, ma fino a quando non verrà permesso al richiedente asilo o al rifugiato di muoversi legalmente all'interno dell'Europa, si continuerà ad assistere all'aumento dei flussi migratori considerati illegali verso altri Stati membri, a cui seguono, normalmente, nuovi e costosi trasferimenti nel nostro Paese, punto di prima accoglienza;
    il regolamento «Dublino III» ha, quindi, un grande limite, perché non risponde più alle esigenze attuali e scarica sul nostro Paese, normalmente meta di primo ingresso, l'intero peso dei flussi migratori, con le drammatiche conseguenze economico sociali che tutti possono valutare;
    occorre, pertanto, porre in essere una strategia di ampio respiro che deve potere agire sulle cause e sulla gestione di un tale fenomeno epocale, essendo evidente che non può incombere solo sull'Italia l'immenso peso di questo immane flusso migratorio verso l'Occidente europeo;
    il Consiglio europeo ha presentato il 26 e 27 giugno 2014 il proprio documento programmatico. Nell'agenda strategica trovano spazio le priorità chiave per i prossimi cinque anni, tra cui quelle inerenti alla gestione dei flussi migratori, alla tutela del diritto di asilo e alla libertà di circolazione. Il Consiglio ha, quindi, invitato le istituzioni dell'Unione europea e gli Stati membri ad attuare pienamente tali indicazioni prioritarie;
    l'Unione europea, ad avviso del Consiglio europeo, deve, infatti, dotarsi di una politica efficace e ben gestita in materia di migrazione, asilo e frontiere, guidata dai principi di solidarietà ed equa condivisione delle responsabilità in conformità all'articolo 80 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea e garantendone l'effettiva attuazione;
    il pieno recepimento e l'attuazione del sistema europeo costituiscono una priorità assoluta. In particolare, occorre che ci si avvii verso «norme comuni di livello elevato ed in una maggiore cooperazione, creando condizioni di parità che assicurino ai richiedenti asilo le stesse garanzie di carattere procedurale e la stessa protezione in tutta l'Unione europea»;
    il Governo è già intervenuto incrementando, anche con l'intervento degli enti locali, il sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) e le commissioni territoriali;
    la questione va considerata nel semestre di presidenza italiana del Consiglio dell'Unione europea ed in vista del prossimo Consiglio europeo del 23 e 24 ottobre 2014,

impegna il Governo:

   a proporre, nelle sedi europee competenti, la necessità di una revisione del regolamento «Dublino III» che riguardi:
    a) compatibilmente con le possibilità dei Paesi ospitanti, l'impegno a provvedere in modo efficace ad una loro identificazione per evitare che possano finire vittime del traffico clandestino;
    b) un sistema europeo di accoglienza che si basi sulla solidarietà tra i Paesi membri e che distribuisca la presenza dei rifugiati per quote sulla base degli indici demografici ed economici;
    c) un sistema di mutuo riconoscimento tra gli Stati membri per la concessione del diritto di asilo in modo tale da garantire che il riconoscimento della protezione internazionale ad un richiedente asilo sia valido per l'intero territorio dell'Unione europea;
   a valutare, insieme ai partner europei, i possibili vantaggi dell'istituzione di un'agenzia europea per l'asilo e l'immigrazione che utilizzi le sedi diplomatiche presenti nei Paesi di origine dei flussi migratori, al fine di analizzare e valutare le richieste di protezione internazionale, anche per arginare la consistenza dei flussi migratori.
(1-00617)
«Dorina Bianchi, Misuraca, Bosco, Garofalo, Minardo».
(13 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    con il termine «immigrazione» si tende ad indicare fenomeni tra loro molto diversi da un punto di vista sociologico ma, soprattutto, e di conseguenza, normativo e che l'ormai diffuso utilizzo dell'espressione «migranti», senza la necessaria distinzione tra immigrazione regolare, irregolare e asilo, è una palese discriminazione tra chi ha un titolo legittimo e chi invece viola le leggi;
    l'asilo e l'immigrazione, per le loro implicazioni sul governo e controllo delle frontiere e del territorio, è sempre stata di competenza esclusiva dei singoli Stati, finché l'Unione Europea, a partire dagli anni 2000 e poi con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ne ha eroso la potestà, avocando a sé parte sempre più considerevole della disciplina;
    con riguardo all'immigrazione clandestina, la direttiva 2008/115/CE, cosiddetta «rimpatri» pone in capo agli Stati l'obbligo di procedere all'espulsione di chi entra clandestinamente entro lo spazio europeo e la legittimità del trattenimento amministrativo, onde procedere non solo all'identificazione ma ad un effettivo allontanamento del clandestino, anche ricorrendo a misure coercitive;
    attualmente, secondo anche quanto riportato nel rapporto del luglio 2014 sui centri di identificazione ed espulsione (istituti dalla cosiddetta legge Turco-Napolitano e poi ridisciplinati nel 2011) in Italia: degli 11 centri di identificazione ed espulsione solo 5 sono funzionanti, mentre gli altri sono chiusi a causa dei danneggiamenti provocati dagli ospiti ed altri ancora, snaturandone la funzione, sono stati convertiti in centri di accoglienza per richiedenti asilo; al 4 febbraio 2014, su una capienza complessiva di 1.791 posti, risultava una capienza effettiva di 842 posti e 460 presenze, mentre a luglio 2014 il Ministro dell'interno Alfano dichiarò che i posti disponibili erano già scesi a 500;
    le espulsioni sono drasticamente diminuite di numero, come riporta il rapporto appena citato, il che appare una logica ed inevitabile conseguenza della chiusura dei centri a ciò adibiti e della attuale politica di incentivo all'immigrazione;
    della direttiva cosiddetta «rimpatri», l'articolo 2 ha costituito fonte normativa per legittimamente formulare il cosiddetto reato di clandestinità, mentre l'articolo 15, al comma 6, prevede il trattenimento fino a 18 mesi al fine di procedere all’ «allontanamento»;
    invece, in materia di protezione internazionale le direttive comunitarie attualmente di riferimento sono la direttiva 2013/33/UE cosiddetta «accoglienza», la direttiva 2013/32/UE cosiddetta «procedure», direttiva 2011/95/UE cosiddetta «qualifiche»; tuttavia, nonostante le nuove disposizioni in materia di accoglienza e procedure l'obiettivo di creare un sistema europeo comune di asilo (Ceas) è ormai palesemente fallito per le prassi e le legislazioni ancora molto differenziate tra i diversi Stati membri;
    proprio in virtù di tali obblighi di controllo dei confini e di una crescente legislazione comunitaria in materia è in vigore il cosiddetto regolamento «Dublino III» (riformulato nel 2013): nato come convenzione ma diventato regolamento, pone il principio del Paese di ingresso quale criterio per la gestione degli arrivi anche per «responsabilizzare» gli Stati membri e obbligarli al controllo dei confini nazionali facenti parte di quelli comunitari;
    tali direttive, in forza dei Trattati europei, pongono dei vincoli in materia, tuttavia, come da consolidata giurisprudenza, la regolamentazione dell'ingresso e del soggiorno degli stranieri nel territorio dello Stato è «collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali, ad esempio, la sicurezza e la sanità pubblica, l'ordine pubblico» (sentenze n. 148 del 2008, n. 206 del 2006 e n. 62 del 1994 della Corte costituzionale), cui lo Stato non può rinunciare nell'assicurare la pacifica convivenza sociale;
    mancando un'azione comune a livello comunitario, occorre, infatti, da parte dei Governi una rigorosa legislazione di contrasto all'immigrazione clandestina, una continua cooperazione internazionale con i Paesi di origine per la stipula o il rinnovo di accordi sia con riguardo alle operazioni di controllo dei confini, soprattutto di quelli costieri, sia per velocizzare e agevolare le operazioni di rimpatrio dei clandestini; anche in questo caso, sono i numeri a dimostrare la validità di tale sistema: ad esempio, dal maggio 2009, a seguito dell'accordo stipulato dal Ministro dell'interno pro tempore Maroni tra l'Italia e la Libia, prima della guerra, il flusso di sbarchi di immigrati era quasi cessato, passando da 39.000 persone nel 2008 a 450 nel 2009;
    sicuramente il regolamento «Dublino III» ha particolarmente penalizzato l'Italia, quale Paese di confine marittimo; tuttavia l'Italia è ancora più penalizzata, rispetto agli altri Stati nelle medesime condizioni geografiche, quali, ad esempio, Spagna o Grecia, dalle politiche dell'attuale e del precedente Governo in materia di immigrazione, in totale controtendenza rispetto a quelle degli altri Paesi europei: l'abrogazione del reato di immigrazione clandestina e la missione Mare Nostrum hanno costituito un incentivo per un flusso incontrollato di ingressi nel nostro Paese e per la tratta degli esseri umani;
    in particolare, il fallimento della missione «militare-umanitaria» denominata Mare Nostrum, autorizzata dal Governo italiano ad ottobre 2013, è attestato dai più di 130.000 arrivi attraverso il Mediterraneo solo dall'inizio del 2014, da 2.600 persone annegate o disperse e da un costo complessivo di 1,2 miliardi di euro in anno;
    per il momento di grave crisi economica che stanno attraversando i nostri cittadini è impossibile farsi carico degli ingenti costi diretti e conseguenti all'operazione Mare Nostrum, stante i numeri degli sbarchi, i continui arrivi e il numero di immigrati in attesa di salpare dalle coste libiche e africane (pare 800.000);
    secondo gli ultimi dati pubblicati sul sito del Ministero dell'interno in merito alle richieste di asilo, tra le principali nazionalità dei richiedenti asilo, sia per il 2013 che per il 2014, non compare né la Siria né l'Eritrea, mentre da agosto 2013 a settembre 2014 le variazioni percentuali più consistenti, ossia l'aumento delle richieste di asilo, sono state registrate da Bangladesh (+615 per cento), Senegal (+556 per cento), Gambia (+508 per cento), mentre la Siria ha avuto un calo delle domande del 17 per cento e l'Eritrea del 76 per cento; con riguardo agli esiti delle domande, a luglio 2014, su 4.135 domande esaminate a 376 è stato riconosciuto lo status di rifugiato;
    a fronte dell'emergenza del virus Ebola, ormai arrivato in Europa, e del grave problema costituito dal rischio di infiltrazioni terroristiche, confermato dal Ministro dell'interno e aggravato anche dalle continue dichiarazioni dell'Isis, mentre gli altri Stati europei stanno attuando misure di controllo sempre più stringenti sugli ingressi nel proprio territorio, l'Italia è in totale controtendenza, poiché addirittura va a prendere in acque territoriali di altri Stati chiunque tenti di raggiungere l'Europa via mare e non ha più alcun controllo sul proprio territorio per le continue fughe dai centri di accoglienza e le tendopoli abusive che stanno sorgendo in numerose città;
    la Marina militare e le forze dell'ordine dovrebbero essere impiegate per proteggere i confini italiani e garantire il necessario controllo del territorio, e i cittadini devono essere tutelati dai rischi sanitari a cui vengono oggi esposti;
    anche il Ministro della salute, Beatrice Lorenzin, a fronte dei dati riportati dall'Organizzazione mondiale della sanità (secondo cui «dal dicembre 2013, quando l'epidemia è iniziata alla data di ieri 8 ottobre, sono 8.011 casi probabili, confermati e sospetti, e 3.877 decessi, con un tasso di letalità del 46 per cento nei Paesi dell'africa occidentale») ha dichiarato che «sono necessari più controlli alle frontiere»,

impegna il Governo:

   nelle more o in assenza di un intervento strutturale e strategico, coordinato a livello dell'Unione europea o a livello internazionale, per far fronte a condizioni di pericolo per la sicurezza del territorio nazionale, dovute all'eccezionale pressione migratoria verso l'Italia, anche attraverso l'utilizzo della normativa d'urgenza, ad adottare qualsiasi provvedimento o iniziativa idonea a:
    a) cessare immediatamente l'operazione cosiddetta Mare Nostrum, garantire il pattugliamento e il controllo dei confini, in particolare marittimi, anche mediante il rifiuto a partecipare alla missione Triton o a qualsiasi operazione o missione se non aventi tali finalità di disincentivo e divieto all'ingresso illegale nel nostro Paese;
    b) farsi promotore nelle più opportune sedi comunitarie della revisione del regolamento «Dublino III», senza rinunciare al principio di responsabilità degli Stati in materia di controllo dei flussi di ingresso, e contestualmente ripristinare le politiche di controllo dei confini, anche marittimi, e di contrasto all'immigrazione clandestina adottati dal Ministro dell'interno pro tempore Maroni, nonché, con riguardo al reato di cui all'articolo 10-bis del decreto legislativo n. 286 del 1998, assicurare per quanto di competenza la piena applicazione;
    c) assicurare la piena e immediata operatività dei già esistenti 13 centri di identificazione ed espulsione, prevedendone, nel caso, uno in ogni regione, e l'effettivo allontanamento o rimpatrio dei clandestini dal territorio nazionale, utilizzando le risorse del fondo per i rimpatri solo ed esclusivamente per le finalità stabilite dalla legge;
    d) tutela della sicurezza e della salute dei cittadini, adottare qualsiasi altra iniziativa o promuovere l'adozione di norme speciali per contrastare la pressione migratoria verso il nostro Paese anche in deroga ai trattati comunitari, internazionali e ad ogni disposizione vigente;
    e) concordare strategie comuni con i Paesi dell'Unione europea che si affacciano nel Mediterraneo, impiegando gli stessi strumenti di disincentivo dei flussi migratori via mare;
    f) farsi promotore in tutte le sedi competenti di una strategia europea comune per il contrasto del fenomeno emergenziale degli sbarchi di immigrati sulle coste del Mediterraneo europeo e, altresì, per la gestione di emergenze dovute ad eventi bellici, in coordinamento con le organizzazioni internazionali al fine di predisporre gli interventi più idonei e tempestivi nelle aree confinanti alle zone colpite dai conflitti armati.
(1-00618)
«Matteo Bragantini, Molteni, Invernizzi, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Busin, Caon, Caparini, Fedriga, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Marcolin, Gianluca Pini, Prataviera, Rondini, Simonetti».
(13 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    secondo i dati Eurostat, 108.300 persone hanno chiesto asilo nei 28 Paesi dell'Unione europea nel primo trimestre del 2014, 24.320 in più rispetto allo stesso periodo del 2013 (+ 29 per cento). Nei primi 3 mesi del 2014, l'Italia ha avuto 10.700 richieste d'asilo, un dato molto superiore (+ 129 per cento) alle richieste registrate nel primo semestre del 2013;
    in particolare, secondo gli ultimi dati elaborati dall'Ufficio europeo di sostegno all'asilo (Easo, ottobre 2014), riguardanti i richiedenti asilo nel territorio dell’«UE+», cioè nei 28 Paesi dell'Unione europea più Svizzera e Norvegia, si conterebbero circa 50 mila richieste di asilo a giugno 2014, 60 mila a luglio 2014 e 58.500 ad agosto 2014, essendo Germania, Svezia, Italia e Francia, i Paesi che registrano il maggior numero di richiedenti (tali Paesi totalizzando insieme, ad agosto, il 62 per cento delle domande di protezione, praticamente due sue tre);
    solo ad agosto 2014, i richiedenti asilo siriani (circa 12.800) sono aumentati del 6 per cento rispetto a luglio 2014, quelli eritrei (6.350) del 21 per cento, mentre quelli ucraini (1.700 persone) del 32 per cento, con l'aumento percentualmente più elevato, i richiedenti fuggiti da questo Paese in Polonia, avendo per la prima volta dall'inizio della crisi in Ucraina superato quelli in Italia;
    secondo il rapporto annuale Global trends pubblicato dall'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), si assiste per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale ad un enorme aumento di rifugiati, richiedenti asilo e sfollati interni, che in tutto il mondo sono circa 51 milioni di persone. E solo nel 2013 sono aumentati di sei milioni, passando dai 45,2 milioni del 2012 ai 51,2 milioni del 2013; sempre secondo lo stesso Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, questo rapido e significativo aumento è stato causato in larga misura dalla guerra civile in Siria, un disastro umanitario che da solo ha prodotto 6,5 milioni di sfollati interni e 2,5 milioni di rifugiati all'estero, e in secondo luogo dagli esodi forzati avvenuti nella Repubblica Centrafricana e in Sud Sudan;
    del totale di 51,2 milioni di persone sradicate a forza a livello globale, ci sono circa 33,3 milioni di sfollati interni, 16,7 milioni di rifugiati (i principali Paesi che li hanno accolti e se ne fanno carico come possono sono il Pakistan, 1,6 milioni, l'Iran, 857.000, e il Libano, 856.000) e infine 1,2 milioni di richiedenti asilo (il Paese che ha ricevuto il maggior numero di nuove domande d'asilo è la Germania);
    secondo stime dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, nel mondo sono circa un milione i rifugiati che avrebbero bisogno di reinsediamento, perché nei Paesi ospitanti, in genere confinanti con quelli d'origine, non trovano condizioni che rispettino il loro diritto a ricostruirsi una vita accettabile, o sono sopravvissuti a torture e violenze;
    l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, pur non costituendo obbligo internazionale, incoraggia fortemente i Paesi ricchi e le democrazie occidentali a farsi carico stabilmente di queste situazioni con quote annuali di reinsediati, ad oggi, su scala globale, trovando posto in questi programmi di accoglienza solo un decimo dei rifugiati che ne avrebbero diritto;
    attualmente l'Europa non riveste un ruolo significativo tra i Paesi attivi nei programmi di reinsediamento dei rifugiati. In particolare, l'Unione europea, per parte sua, offre appena cinquemila posti l'anno, l'8 per cento del totale mondiale; gli sforzi maggiori in questo campo sono compiuti da parte di Paesi, come Stati Uniti, Canada e Australia, che reinsediano annualmente nel proprio territorio circa 60 mila rifugiati, a fronte di un numero di soggetti in Europa che sfiora a malapena le cinquemila unità;
    il regolamento «Dublino III» – che sostituisce il cosiddetto regolamento «Dublino II» (regolamento n. 343 del 2003), che a sua volta innovava la Convenzione di Dublino del 1990 – contiene i criteri e i meccanismi per individuare lo Stato membro che è competente per l'esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un Paese terzo o apolide;
    all'interno del sistema europeo comune di asilo, il regolamento «Dublino III» è stato ampiamente discusso e criticato, non solo dal punto di vista delle conseguenze negative sulla vita dei richiedenti asilo, ma anche per la scarsa efficienza del sistema (COM 2008/820, 3 dicembre 2008); sono state evidenziate una serie di carenze per lo più connesse con il livello di protezione garantito ai richiedenti protezione internazionale soggetti alla «procedura Dublino», e con l'efficienza del sistema istituito dall'attuale quadro normativo, dal momento che appena il 25 per cento circa delle richieste di trasferimento in un altro Stato è stato poi seguito da un trasferimento effettivo;
    il principio generale alla base del regolamento «Dublino III» è lo stesso della vecchia Convenzione di Dublino del 1990 e di «Dublino II»: ogni domanda di asilo deve essere esaminata da un solo Stato membro e la competenza per l'esame di una domanda di protezione internazionale ricade in primis sullo Stato che ha svolto il maggior ruolo in relazione all'ingresso e al soggiorno del richiedente nel territorio degli Stati membri, salvo eccezioni (COM 2008/820, 3 dicembre 2008); la competenza è individuata attraverso i criteri «obiettivi» del regolamento, che lasciano uno spazio ridottissimo alle preferenze dei singoli e, quindi, molti dubbi in merito alla tutela dei diritti umani dei richiedenti asilo, laddove l'esercizio di un loro diritto fondamentale – quello a fare domanda di protezione internazionale – è subordinato ad un regolamento, che, in questo caso, non terrebbe pienamente conto di un principio generale universalmente garantito e sovraordinato nella gerarchia delle fonti del diritto, quale quello del rispetto dei diritti umani;
    pur non intaccando tale principio, «Dublino III» apporta comunque una serie di novità importanti e certamente apprezzabili (molte derivanti in realtà dalla giurisprudenza), in quanto in grado di attenuare parzialmente gli effetti negativi del sistema; è necessario, però, porre rimedio ai problemi alla base del «sistema Dublino», il cui impianto si regge su un presupposto non corrispondente al vero, ovvero che gli Stati membri costituiscano un'area con un livello di protezione omogeneo; le condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo e i tassi di accoglimento di domande di protezione cambiano drammaticamente da un Paese all'altro;
    chi ottiene la protezione internazionale non ha poi la possibilità di lavorare regolarmente in un altro Stato dell'Unione europea; ciò significa che, salvo eccezioni, lo Stato che viene individuato dal «sistema Dublino» come competente ad esaminare la domanda, sarà poi anche lo Stato in cui l'interessato dovrà rimanere una volta ottenuta la protezione, non tenendo conto né delle aspirazioni dei singoli, né delle concrete prospettive di trovare un'occupazione nei diversi Paesi europei;
    il Governo italiano, per fronteggiare l'eccezionale afflusso di migranti, ha avviato nel 2013 l'operazione Mare Nostrum per il controllo e il pattugliamento del Canale di Sicilia;
    negli ultimi tempi si è verificata una consistente ripresa degli sbarchi di cittadini stranieri nelle coste italiane, nonché diversi incidenti culminati in tragici naufragi con centinaia di vittime tra i migranti;
    l'attuazione di Mare Nostrum comporta una spesa di oltre 9 milioni di euro al mese, con l'evidente necessità di un interessamento dell'Unione europea, per farsi carico in maniera più decisa della questione migratoria, sia ampliando e rafforzando il ruolo di Frontex, sia intervenendo affinché si assuma un impegno più diretto nelle operazioni volte al controllo della frontiera marittima;
    il 16 aprile 2014 il Ministro dell'interno ha svolto un'informativa urgente sull'ingente incremento del flusso di migranti e sulle misure da adottare per farvi fronte, evidenziando che l'azione di Frontex, l'agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne, costituirà un tema centrale nel semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea (luglio-dicembre 2014);
    l'intenzione è quella di fare in modo che l'agenzia Frontex assuma la regia ed il coordinamento non solo delle attività di pattugliamento del Mediterraneo, ma anche delle attività di cooperazione operativa con i Paesi di origine e di transito dei flussi;
    è evidente la necessità di rendere più efficace il sistema di accoglienza, che ha comportato l'incremento da dieci a venti del numero delle commissioni territoriali destinate alla funzione di velocizzazione dell'esame della decisione delle istanze di protezione internazionale;
    è stato di recente annunciato l'avvio dell'operazione Triton, che avrà inizio a novembre 2014 e che avrà un budget iniziale di 2,9 milioni di euro al mese (a fronte dei 9 milioni mensili spesi per Mare Nostrum);
    la Commissaria per gli affari interni Cecilia Malmström ha lanciato l'appello affinché gli altri Stati membri ascoltino la richiesta di Frontex per avere più attrezzature e ufficiali stranieri, dal momento che l'operazione Triton si estenderà 30 miglia oltre le acque territoriali, coprendo 18 miglia di acque internazionali, con l'obiettivo di unire le due operazioni di Frontex (l'agenzia dell'Unione europea per il controllo delle frontiere con sede a Varsavia) nel Mediterraneo, denominate Hermes (area di intervento: il Canale di Sicilia) e Aeneas (che interviene sul Mar Jonio davanti alle coste di Calabria e Puglia);
    il decreto-legge n. 119 del 2014, da ultimo approvato dalla Camera dei deputati e ora all'esame del Senato della Repubblica, sembra, tuttavia, seguire l'ottica di una prosecuzione dell'operazione italiana, dal momento che dispone nuovi finanziamenti per fronteggiare l’«eccezionale afflusso di stranieri sul territorio nazionale»;
    il decreto-legge n. 119 del 2014 provvede ad incrementare il fondo per i richiedenti asilo di 51 milioni di euro, mentre 9 milioni vengono destinati alle commissioni che devono vigilare sulle richieste d'asilo. Viene, inoltre, istituito ex novo un fondo di 62 milioni di euro per «fronteggiare la nuova emergenza», cioè, si suppone, rifinanziare Mare Nostrum o Frontex. I soldi vengono prelevati dal fondo per i rimpatri, ovvero quel capitolo di spesa creato per rimpatriare gli stranieri giunti illegalmente nel nostro territorio, rendendo, quindi, ancora più difficile espellere dal nostro Paese i clandestini;
    non è credibile la sostituzione di Mare Nostrum da parte di Triton, ma è evidente che questa svolgerà piuttosto un intervento di supporto all'operazione italiana, in quanto dispone di un numero più esiguo di mezzi navali rispetto alla Marina militare italiana e la sua «autonomia» si ferma a 30 miglia dalle coste italiane; non potranno, quindi, essere garantite le operazioni di salvataggio come fino ad ora gestite da Mare Nostrum, considerando, inoltre, che il personale della Marina militare italiana opera anche screening sanitari a bordo, che rappresentano un valido deterrente contro la diffusione delle epidemie (ebola e tubercolosi);
    il 23 ottobre 2013 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione sui flussi migratori diretta a realizzare un approccio coordinato basato sulla solidarietà e sulla responsabilità e sostenuto da strumenti comuni a livello di Unione europea, anche al fine di evitare il ripetersi dei tragici eventi di Lampedusa;
    in vista del prossimo Consiglio europeo del 23 e 24 ottobre 2014, è opportuno che il nostro Paese metta in evidenza l'urgenza di definire una politica condivisa in materia di immigrazione e diritto d'asilo;
    l'individuazione di misure auspicabili volte a migliorare il sistema dell'accoglienza e di gestione dei richiedenti asilo in arrivo non può essere disgiunta dall'obiettivo ultimo di garantire agli stessi condizioni di vita dignitose, nell'auspicio che essi possano costruire in Europa un futuro alternativo in tutta sicurezza rispetto alle realtà da cui fuggono;
    in tal senso, vi è la ferma convinzione che si debba separare il problema dell'asilo da quello dell'immigrazione economica, per evitare che il sistema costruito dagli Stati membri per proteggere chi chiede asilo crolli sotto la pressione, comprensibile, di persone in cerca di accettabili livelli di benessere, ma non bisognose, in senso stretto, di protezione;
    alla luce del «sistema Dublino», per il quale, come già ricordato, risulta competente lo Stato membro attraverso il quale il richiedente ha fatto ingresso nel territorio dell'Unione europea, si pone con forza l'esigenza di equilibrare gli sforzi da parte di tutti i Paesi membri proprio nell'accoglienza dei profughi, cioè di coloro che fuggono da situazioni di violenza, auspicando, in tal senso, una revisione dei criteri per la determinazione dello Stato competente per l'esame della domanda di asilo, che non necessariamente coincide con quello nel cui territorio la domanda è stata presentata;
    alla prova dei fatti, tale sistema presenta almeno due innegabili difetti, rischiando, da un lato, di sovraccaricare gli Stati membri geograficamente più esposti al flusso di profughi (al momento, gli Stati meridionali dell'Unione europea), dall'altro, di ostacolare un'allocazione efficiente dei profughi, quale quella che invece si otterrebbe selezionando lo Stato membro competente in base alla ricettività del suo mercato del lavoro o delle reti di sostegno (parenti, amici) di cui un dato profugo potrebbe soggettivamente godere, nonché dell'effettiva volontà di integrarsi del rifugiato in un Paese che sia stato da lui/lei scelto e non imposto;
    ogni tentativo di riforma che intendesse correggere questi difetti dovrebbe essere accompagnato da una periodica determinazione della percentuale di profughi che ciascuno Stato membro sarebbe tenuto ad accogliere in base alla propria situazione economica e da meccanismi di compensazione (burden sharing) per quegli Stati membri che si trovino ad accogliere una percentuale di profughi superiore a quella loro spettante;
    secondo l'esperienza che in primis l'Italia continua a vivere, appare non più procrastinabile da parte dell'Unione europea la necessità di un cambio di strategia nel rispondere ai fenomeni in atto, caratterizzati da afflussi contingenti di profughi di intensità straordinaria, che seppure generalmente associati a situazioni di guerra o violenza generalizzata, chiamano in causa la capacità di intervento e di mobilitare risorse da parte di tutta l'Unione europea, non solo dei territori più esposti come Lampedusa o Malta;
    rispetto a questo obiettivo, la normativa europea già prevede, con la direttiva 2001/55/CE, che il Consiglio dell'Unione europea possa concedere protezione temporanea a determinati gruppi di persone, con distribuzione dei profughi tra i vari Stati membri in base alla disponibilità accordata da ciascuno Stato;
    l'istituzione di un regime di questo tipo potrebbe essere accompagnata (anche in base alle disposizioni della direttiva stessa) dalla creazione di corridoi umanitari, ossia da misure di evacuazione dei destinatari della protezione, senza che essi debbano affidarsi a trafficanti e scafisti per raggiungere il territorio dell'Unione europea;
    l'istituzione del regime di protezione temporanea non si pone affatto come una modalità emergenziale per il riconoscimento del diritto alla protezione, che resta invece regolato dalle norme a regime, essendo piuttosto da considerarsi come una misura complementare a quanto già previsto in relazione al riconoscimento del diritto a ottenere protezione quando si fugge da un conflitto o da una situazione di violenza generalizzata, un elemento fondamentale della normativa dell'Unione europea, la quale riconosce tale diritto come soggettivamente esigibile (senza che, quindi, gli Stati membri possano opporre alle corrispondenti richieste dinieghi fondati su considerazioni di sostenibilità economica), prevedendo che la richiesta di protezione possa essere presentata solo sul territorio di uno Stato membro;
    drammatiche notizie giungono dal continente africano riguardo all'espandesi del virus ebola, in considerazione del flusso continuo di decine di profughi i quali, raccolti in mare in condizioni disperate mediante operazioni di salvataggio, vengono, quindi, accolti sul territorio senza che i tempi e i mezzi a disposizione permettano uno screening efficace per accertare la presenza o meno del virus;
    la tutela della salute verso i nostri concittadini è da porre su un piano che non può essere considerato di livello inferiore rispetto a quello teso a garantire la tutela e l'accoglienza dei soggetti migranti in arrivo, e quindi debbono espletarsi tutte le procedure, gli sforzi e le iniziative necessarie a garantire che il territorio nazionale possa essere protetto dal rischio di un'epidemia del virus per via dell'accoglienza prestata ai migranti accolti, che attualmente risulta priva di garanzie in tal senso,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative a livello europeo per una rapida revisione del regolamento «Dublino III» affinché si preveda la compartecipazione di tutti gli Stati membri nelle attività di accoglienza e di identificazione dei migranti, superando l'attuale principio del «Paese di primo arrivo», anche al fine di garantire il diritto fondamentale dei richiedenti asilo di presentare domanda di protezione alle autorità del loro Paese di elezione;
   ad adoperarsi affinché il Consiglio europeo del 24 e 25 ottobre 2014 preveda l'applicazione di quanto previsto in caso di «afflusso massiccio di sfollati nell'Unione europea», con le modalità di concessione della protezione temporanea, secondo quanto previsto dalla direttiva 2001/55/CE, definendo quote di accoglienza per ciascuno Stato membro, anche al fine di garantire ai richiedenti asilo e protezione internazionale il diritto costituzionalmente garantito della libertà di circolazione;
   ad assumere iniziative per individuare modalità di identificazione dei beneficiari della protezione temporanea da parte dell'Unione europea anche con il concorso diretto dei Paesi di transito, per esempio, attraverso le delegazioni diplomatiche del servizio europeo per l'azione esterna e/o la rete diplomatico-consolare degli Stati membri, con il coinvolgimento delle organizzazioni internazionali e delle associazioni umanitarie;
   ad assumere iniziative per prevedere la possibilità di introdurre clausole politiche più flessibili per quel che attiene all'identificazione dello Stato membro competente per una domanda di asilo, permettendo anche ad altri Paesi membri, privi di tale competenza, di decidere di assumere comunque titolarità in tal senso, in presenza di condizioni specifiche (una clausola che è costantemente applicata dall'Italia per i minori non accompagnati richiedenti asilo provenienti da altri Paesi);
   a favorire uno sforzo europeo coordinato a beneficio di un maggior utilizzo delle politiche di reinsediamento (resettlement), nonché la promozione di strumenti volti ad assicurare meccanismi di maggiore solidarietà tra gli Stati e di migliore condivisione delle responsabilità fra tutti i Paesi membri, stante il contributo che un più diffuso utilizzo del resettlement potrebbe offrire in termini di soluzione durevole alle problematiche incontrate dai rifugiati (sia quelli presenti sul territorio dell'Unione europea, sia quelli posti al di fuori dei confini europei), garantendo loro piena libertà di circolazione e accesso a tutta l'Europa;
   ad assumere iniziative per individuare chiare modalità e costi dei trasferimenti, prevedendo l'obbligo, prima di un trasferimento, di scambiarsi dati (soprattutto sanitari) necessari a garantire assistenza adeguata, continuità della protezione e soddisfazione di esigenze specifiche, in particolare mediche;
   a promuovere un sistema che regoli la concessione del diritto di asilo secondo standard e procedure comuni in tutti i Paesi e il coordinamento nella raccolta delle domande dei richiedenti, per permettere agli aventi diritto di raggiungere i Paesi di accoglienza in modo sicuro, prevenendo ogni abuso del sistema con la presentazione di domande di asilo multiple da parte di una sola persona;
   ad assumere iniziative volte ad assicurare un sistema di mutuo riconoscimento tra gli Stati membri della concessione del diritto di asilo, tale da garantire la libertà di stabilimento del beneficiario in ogni Stato membro, prodromico all'istituzione del sistema europeo di accoglienza;
   a prevedere, al fine di garantire il diritto costituzionale alla salute dei cittadini, che non può essere certamente considerato inferiore al diritto di libertà di circolazione dei migranti, misure di controllo sanitario più stringenti nei confronti dei migranti e dei richiedenti asilo provenienti dai Paesi attualmente focolaio del virus ebola, quali Liberia, Sierra Leone e Nuova Guinea.
(1-00619)
«Brunetta, Ravetto, Bergamini, Centemero».
(13 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    il 15 giugno 1990 con la firma della Convenzione di Dublino, l'Unione europea si è dotata di un sistema di regole condivise per regolamentare e coordinare l'accoglienza e l'esame delle domande di protezione internazionale presentate negli Stati membri da cittadini di un Paese terzo o apolidi;
    in seguito la Convenzione è stata revisionata più volte, fino all'adozione dell'attuale regolamento europeo n. 604/2013, approvato il 26 giugno 2013, noto come «Dublino III» ed entrato in vigore il 1o gennaio 2014, che costituisce l'elemento portante del più ampio «sistema di Dublino» e il cui obiettivo iniziale era quello di garantire che almeno uno degli Stati membri prendesse in carico il richiedente asilo;
    il regolamento è applicato in una regione geografica che comprende i 28 Stati membri dell'Unione europea, ai quali si aggiungono la Norvegia, l'Islanda, la Svizzera e il Liechtenstein;
    l'altro pilastro del «sistema di Dublino» è l'Eurodac (European dactyloscopie), una banca dati centrale in cui vengono registrate le generalità di chiunque attraversi irregolarmente le frontiere di uno Stato membro, in particolare le impronte digitali;
    i due strumenti insieme consentono di stabilire dove è avvenuto il primo ingresso in Europa di una persona richiedente asilo e di attribuire a quel Paese l'onere dell'esame di un'eventuale domanda;
    il nuovo regolamento, che ha abrogato il precedente regolamento (CE) 343/2003, detto «Dublino II», modifica alcune delle disposizioni previste per la determinazione dello Stato membro dell'Unione europea competente all'esame della domanda di protezione internazionale e le modalità e tempistiche per la determinazione;
    come il precedente, il presente regolamento ha il duplice obiettivo di impedire che nessuno Stato si dichiari competente all'esame della domanda di protezione internazionale, privando così il rifugiato del diritto di accedere alla procedura amministrativa prevista per il riconoscimento dello status, e di impedire i movimenti interni all'Unione europea dei richiedenti protezione, dando agli Stati e non alle persone la facoltà di decidere in quale Stato la persona debba veder esaminata la domanda;
    le principali novità introdotte sono la modifica delle definizioni di familiari, al fine di agevolare i minori, l'introduzione dell'effetto sospensivo del ricorso, la possibilità di trattenere il richiedente per pericolo di fuga, nonché si chiarisce il contenuto del diritto all'informazione del richiedente;
    gli studi effettuati negli ultimi anni mostrano ancora differenze sostanziali tra i sistemi di protezione dei diversi Paesi, sia per quanto riguarda le misure di accoglienza, sia relativamente alle percentuali di riconoscimento;
    recentemente l'Eurostat ha pubblicato un dettagliato rapporto sul tema immigrazione che smentisce il luogo comune dell'Italia paese «ostile» verso gli immigrati, evidenziando che tra quelli maggiormente coinvolti nel problema immigrazione, il nostro è il Paese che respinge meno immigrati;
    alla fine del 2013, infatti, l'Italia era al quarto posto in Europa per numero di richieste di asilo pendenti, pari a 27.930, dopo Germania, Svezia e Gran Bretagna, e ne ha respinte il 36 per cento rispetto al 74 per cento della Germania, l'83 per cento della Francia, il 47 per cento della Svezia, l'82 per cento della Gran Bretagna e il 68 per cento del Belgio;
    del 64 per cento di richieste accolte nel 12 per cento dei casi è stato riconosciuto lo status di rifugiato, nel 30 per cento dei casi la protezione umanitaria e nel 22 per cento la «protezione sussidiaria», vale a dire un tipo di protezione aggiuntivo rispetto alle tipologie normate a livello internazionale, concessa dall'Italia a persone che, nel loro Paese, potrebbero subire ingiustizie;
    insieme al regolamento «Dublino III», a comporre il quadro del sistema europeo comune di asilo, che dovrebbe portare all'instaurazione di una procedura comune e a uno status uniforme valido in tutta l'Unione europea per i titolari della protezione internazionale, ai sensi dell'articolo 78 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, concorrono la cosiddetta direttiva qualifiche n. 2011/95/UE, la «direttiva procedure» n. 2013/32/UE e la nuova «direttiva accoglienza» n. dir. 2013/33/UE;
    nel 2010 è stato istituito l'Ufficio europeo di sostegno per l'asilo (Easo), che fornisce assistenza agli Stati al fine della corretta applicazione del regolamento, oltre ad un supporto informativo e un intervento rapido di supporto agli Stati in caso di afflusso massiccio di richiedenti protezione internazionale;
    con il nuovo regolamento di Dublino è rimasta invariata la gerarchia dei criteri per la determinazione dello Stato competente, che prevedono che:
     a) quando è accertato, sulla base degli elementi di prova e delle circostanze indiziarie, che il richiedente ha varcato illegalmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da un Paese terzo, la frontiera di uno Stato membro, lo Stato membro in questione è competente per l'esame della domanda di protezione internazionale; detta responsabilità cessa 12 mesi dopo la data di attraversamento clandestino della frontiera;
     b) quando uno Stato membro non può o non può più essere ritenuto responsabile dell'ingresso irregolare e quando è accertato, sulla base degli elementi di prova e delle circostanze indiziarie, che il richiedente – entrato illegalmente nei territori degli Stati membri o del quale non si possano accertare le circostanze dell'ingresso – ha soggiornato per un periodo continuato di almeno cinque mesi in uno Stato membro prima di presentare domanda di protezione internazionale, detto Stato membro è competente per l'esame della domanda di protezione internazionale;
     c) nei termini previsti lo Stato membro competente è obbligato a prendere o riprendere in carico il richiedente, a meno che non dimostri che il richiedente aveva lasciato il territorio degli Stati membri conformemente a una decisione di rimpatrio o di un provvedimento di allontanamento emessi da quello Stato membro a seguito del ritiro o del rigetto della domanda;
    inoltre, in caso di situazioni particolari, come l'afflusso di numerose persone in un Paese membro, che possa mettere in crisi l'applicazione del regolamento, la Commissione europea può chiedere allo Stato di presentare ed attuare un piano d'azione per fronteggiare la crisi, chiedendo allo stesso la garanzia che non si verifichino deroghe ai diritti dei richiedenti protezione;
    l'11 settembre 2014 ventuno parlamentari di Italia, Francia, Spagna, Grecia, Croazia, Serbia, San Marino, appartenenti a gruppi politici diversi hanno depositato presso l'Ufficio di presidenza dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa la richiesta di un rapporto ad hoc sull'applicazione del regolamento «Dublino III», che possa contenere analisi fattuali dei dati e proposte ai Governi per un suo miglioramento, come più volte richiesto dall'Assemblea di Strasburgo;
    il 9 settembre 2014 è stato pubblicato il rapporto «Mind the gap: una prospettiva delle organizzazioni non governative sulle sfide dell'accesso alla protezione nel sistema comune d'asilo», dal quale emerge che degli immigrati arrivati in Italia solo una percentuale minoritaria presenta la richiesta d'asilo nel nostro Paese, mentre la maggior parte di essi tenta di evitare l'identificazione per andare in altri Paesi europei a richiedere protezione;
    questo essenzialmente perché altri Paesi hanno sistemi di welfare migliori e, soprattutto, al fine di ricongiungersi ai propri familiari;
    in una ricerca recentemente condotta è emerso che il regolamento di Dublino nella sua concreta applicazione impedisce, almeno nella metà dei casi, che chi arriva in Italia possa ricongiungersi ai propri parenti che vivono in altro Stato europeo;
    inoltre, il regolamento presenta oneri e difficoltà per gli Stati: i trasferimenti necessitano di risorse economiche e umane e non sembrano portare particolari benefici, se non agli Stati interni dell'Unione europea che possono avere interesse a contenere il numero delle richieste d'asilo;
    le problematiche derivanti dall'applicazione del regolamento di Dublino nel nostro Paese sono anche legate alle gravi carenze del sistema di accoglienza italiano: posti insufficienti, frammentarietà causata dall'esistenza di diversi tipi di strutture, incoerenza e disomogeneità degli standard;
    manca un sistema di accoglienza unico, integrato, capace di rispondere a bisogni variabili e di offrire la stessa qualità di protezione in tutta Italia, che possa far riferimento a chiare linee guida nazionali e sia dotato di monitoraggio indipendente;
    la capacità della rete Sprar (il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), anche se da gennaio 2014 è passata da tremila a sedicimila posti, rimane non proporzionata agli attuali bisogni;
    questi elementi, uniti all'assenza di misure di integrazione efficaci per i titolari di protezione internazionale, stanno creando un serio rischio di violazione dei diritti umani in Italia;
    la principale finalità del regolamento era e rimane quella di prevenire i movimenti secondari di richiedenti asilo all'interno dell'Unione europea, ma le persone continuano a spostarsi in percentuali allarmanti;
    nell'ambito del progetto Diasp-impatto del regolamento di Dublino sulla protezione dei richiedenti asilo, finanziato dal fondo europeo per i rifugiati, gli intervistati, in media, avevano alle spalle già tre o quattro viaggi;
    la rigidità del «sistema di Dublino», infatti, spinge i richiedenti asilo a muoversi continuamente in Europa in cerca di protezione, piuttosto che fermarsi in un posto solo, nel tentativo di aggirare un sistema percepito come poco sicuro;
    inoltre, allo stato attuale chi ottiene la protezione internazionale non ha poi la possibilità di lavorare regolarmente in un altro Stato dell'Unione europea e, quindi, salvo eccezioni, lo Stato che viene individuato dal «sistema Dublino» come competente ad esaminare la domanda sarà poi anche lo Stato in cui l'interessato dovrà rimanere una volta ottenuta la protezione;
    questo, tuttavia, non tiene conto né delle aspirazioni dei singoli, né dei loro legami familiari o culturali con alcuni Paesi, né delle concrete prospettive di trovare un'occupazione nei diversi Paesi europei, come se Malta, la Grecia, la Germania, la Svezia fossero la stessa cosa;
    anche la terza revisione del regolamento di Dublino, pur introducendo qualche cambiamento potenzialmente positivo, non ha modificato la sostanzialmente l'impianto del «sistema di Dublino», ma continua a impedire – o quanto meno a limitare pesantemente – la mobilità dei richiedenti asilo nell'Unione europea, con un impatto fortemente negativo sulla vita dei rifugiati;
    in realtà l'applicazione di tale insieme di regole è diventata un insensato percorso a ostacoli per chi cerca protezione,

impegna il Governo:

   nell'ambito della presidenza di turno dell'Unione europea a svolgere un ruolo di impulso per la revisione dei criteri del «sistema di Dublino» affinché ai migranti sia garantita la libertà di scegliere in quale Paese presentare la propria richiesta di protezione internazionale, eliminando l'obbligo di avanzarla nel Paese di primo ingresso, con particolare attenzione ai minori e alle loro possibilità di ricongiungimento familiare;
   nel medesimo ambito sovranazionale, a promuovere l'adozione di un sistema di gestione delle spese di accoglienza che ponga questi oneri in carico alla totalità degli Stati, non lasciando soli quei Paesi, come l'Italia, esposti per la loro semplice posizione geografica ai maggiori flussi d'ingresso;
   ad attivarsi in ambito europeo al fine di elaborare standard di accoglienza condivisi e maggiormente uniformi che possano consentire una migliore gestione dei richiedenti asilo;
   a valutare l'istituzione, in collaborazione con i Paesi membri dell'Unione europea, di appositi presidi nei Paesi dai quali partono i maggiori flussi migratori, che siano in grado di effettuare una valutazione preventiva delle possibilità dei soggetti migranti di ottenere lo status di rifugiato nell'ambito dell'Unione europea;
   ad informare preventivamente il Parlamento in merito alla stipula di ogni accordo internazionale in materia di immigrazione e di asilo.
(1-00654)
«Rampelli, Cirielli, Corsaro, La Russa, Maietta, Giorgia Meloni, Nastri, Taglialatela, Totaro».
(3 novembre 2014)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE PER L'IMPIEGO DI PARTE DEL RISPARMIO PREVIDENZIALE PER INTERVENTI A SOSTEGNO DELL'ECONOMIA

   La Camera,
   premesso che:
    la Commissione parlamentare di controllo sull'attività degli enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza sociale ha approvato il 9 luglio 2014 una relazione intitolata «Iniziative per l'utilizzo del risparmio previdenziale complementare a sostegno dello sviluppo dell'economia reale del Paese»;
    la relazione è stata trasmessa alle Presidenze della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica in data 10 luglio 2014;
    la Commissione ha svolto un approfondito lavoro, nell'ambito dell'ampliamento delle competenze che il legislatore ha previsto, con l'ultima modifica approvata con la legge di stabilità per il 2014, affidando ad essa non solo le tradizionali funzioni di controllo sugli istituti di previdenza, ma un quadro esteso di funzioni di vigilanza: sull'efficienza del servizio in relazione alle esigenze degli utenti, sull'equilibrio delle gestioni e sull'utilizzo dei fondi disponibili, anche con finalità di finanziamento e sostegno del settore pubblico e con riferimento all'intero settore previdenziale ed assistenziale; sulla programmazione dell'attività degli enti e sui risultati di gestione in relazione alle esigenze dell'utenza; sull'operatività delle leggi in materia previdenziale e sulla coerenza del sistema previdenziale allargato con le linee di sviluppo dell'economia nazionale;
    in tale quadro la Commissione sta svolgendo un'approfondita indagine conoscitiva su «Funzionalità del sistema previdenziale pubblico e privato, alla luce della recente evoluzione normativa ed organizzativa, anche con riferimento alla strutturazione della previdenza complementare», che sinora ha contato 37 audizioni a partire dal gennaio 2014, con la partecipazione di tutte le istituzioni rappresentative ed istituzionali interessate al settore previdenziale (Corte dei conti, Banca d'Italia, Consob, Covip, Mefop, Inps, Inail, casse private e privatizzate, fondi pensioni dei settori della previdenza complementare, organizzazioni sindacali e datoriali), nonché esperti del settore, consulenti della Commissione;
    la Commissione europea si è fatta promotrice di una modifica della direttiva 2003/41/CE Iorp (Institutions for occupational retirement provision) – proposta COM(2014) 167 final 2014/0091 (COD) del 27 marzo 2014 (c.d. Iorp 2) di revisione della cosiddetta direttiva Iorp, relativa alle attività e alla vigilanza degli enti pensionistici aziendali o professionali – approvata il 27 marzo 2014, varando un pacchetto complessivo che prevede un piano della Commissione europea per soddisfare le esigenze di finanziamento a lungo termine dell'economia europea del 27 marzo 2014 e una comunicazione in tema di crowdfunding (finanziamento collettivo) per offrire possibilità di finanziamento alternative per le piccole e medie impresse (MEMO/14/240); il pacchetto si basa sulle risposte ricevute nel corso dell'esame del libro verde del 2013 e sulle discussioni avvenute in vari consessi internazionali, come il G20 e l'Ocse ed identifica una serie di misure specifiche che l'Unione europea deve adottare per promuovere il finanziamento a lungo termine dell'economia europea;
    il tema centrale proposto dalla Commissione europea è quello di favorire l'istituzione di fondi comuni europei specializzati nell'investimento di lungo termine in determinate attività produttive in tutto il territorio dell'Unione europea, in quanto «l'Europa ha notevoli esigenze di finanziamento a lungo termine per favorire la crescita sostenibile, il tipo di crescita che aumenta la competitività e crea occupazione in modo intelligente, sostenibile e inclusivo»; «occorre diversificare le fonti di finanziamento in Europa e migliorare l'accesso ai finanziamenti per le piccole e medie imprese, che rappresentano la spina dorsale dell'economia europea»; con riferimento specifico alle norme sulle pensioni aziendali o professionali, si rileva che: «Tutte le società europee devono affrontare una duplice sfida: si tratta di approntare un quadro pensionistico che tenga conto dell'invecchiamento della popolazione e, nel contempo, di realizzare investimenti a lungo termine che favoriscano la crescita. I fondi pensionistici aziendali o professionali sono doppiamente coinvolti nella questione: dispongono di oltre 2.500 miliardi di euro di attivi da gestire con prospettive a lungo termine, mentre 75 milioni di europei dipendono in gran parte da loro per la propria pensione. La proposta legislativa di oggi permetterà di migliorare la governance e la trasparenza di tali fondi in Europa, migliorando, quindi, la stabilità finanziaria e promuovendo le attività transfrontaliere, per sviluppare ulteriormente i fondi pensionistici aziendali e professionali come imprescindibili investitori a lungo termine»;
    tra le azioni previste nella Iorp 2 vi sono la finalizzazione dei dettagli del quadro prudenziale per banche e imprese di assicurazione che sostengono i finanziamenti a lungo termine all'economia reale, una maggiore mobilitazione di risparmi pensionistici personali e la valutazione delle modalità per incoraggiare maggiori flussi transfrontalieri di risparmio; la proposta di direttiva Iorp 2 si propone complessivamente di tutelare gli aderenti alle forme di previdenza complementare adeguatamente dai rischi di gestione, di incentivare i benefici derivanti da un mercato unico delle pensioni aziendali o professionali, rafforzando la capacità dei fondi pensionistici aziendali o professionali di investire in attività finanziarie con un profilo economico a lungo termine e sostenendo, quindi, il finanziamento della crescita nell'economia reale; si tratta in sostanza di favorire l'uso dei finanziamenti privati, aggiuntivi rispetto a quelli pubblici, per investimenti in infrastrutture e migliorare il quadro complessivo del finanziamento sostenibile a lungo termine;
    tali prospettive sono state oggetto di un importante confronto tra il Vicepresidente della Commissione europea e Commissario per il mercato interno e i servizi Michel Barnier e i componenti della Commissione bicamerale nel corso dell'audizione svoltasi alla Camera dei deputati il 3 luglio 2014; Barnier ha illustrato i contenuti del pacchetto di misure riguardanti l'incentivazione dell'uso del risparmio previdenziale per il finanziamento a medio e lungo termine dell'economia reale in Europa, nel quadro del complesso delle iniziative assunte dalla competente direzione generale per lo sviluppo dell'economia e la liberalizzazione delle attività economiche;
    sulla necessità di utilizzare il risparmio previdenziale per operazioni di finanziamento dell'economia reale si ricordano anche gli orientamenti emersi nel corso delle audizioni svolte: la Corte dei conti, nel corso dell'audizione del 27 febbraio 2014, ha rilevato che «un significativo contributo al finanziamento delle imprese può essere assolto dalle casse privatizzate e dalla previdenza complementare, nella peculiare funzione di intermediazione del risparmio previdenziale di lungo periodo»; la Consob, in audizione presso la VI Commissione finanze della Camera dei deputati, ha sottolineato come il mondo della previdenza complementare-domestico mostri una ridotta propensione all'investimento in titoli di capitale, ivi compresi quelli italiani; la Banca d'Italia, nell'audizione dell'11 giugno 2014, ha evidenziato che le attività dei fondi pensioni in Italia rappresentano il 5,6 per cento del prodotto interno lordo, a fronte di percentuali pari al 96 per cento nel Regno Unito, al 75 per cento in USA e alla media dei Paesi europei pari al 21 per cento, e che il criterio che deve orientare gli organi di governo dei fondi pensione è quello dell'ottimizzazione delle scelte di investimento e che «a condizione che i fondi si dotino di competenze e assetti organizzativi adeguati, potrebbero esistere margini per una composizione dei portafogli meno tradizionale»;
    nella relazione approvata la Commissione bicamerale, allineandosi alle proposte formulate dalla Commissione europea, tenendo conto anche degli orientamenti nell'ambito di un tavolo tecnico di confronto al quale hanno partecipato rappresentanti del Governo e dei dicasteri interessati (Ministero dell'economia e delle finanze, Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e Ministero dello sviluppo economico), nonché molti delle istituzioni audite in Commissione, ha valutato la percorribilità di iniziative istituzionali volte a far sì che l'impiego di parte dei patrimoni gestiti dai fondi pensione e dalle casse professionali possa concorrere a destinare rilevanti risorse finanziarie a sostegno di programmi strategici per lo sviluppo del sistema Paese, quali l'innovazione tecnologica, le fonti di energia sostenibili, la ricerca, il rilancio di aree industriali in crisi, il salvataggio e la ristrutturazione di piccole e medie imprese in difficoltà, i programmi di edilizia abitativa e scolastica e altro;
    occorre sottolineare che sia per la previdenza complementare che per le forme di previdenza obbligatoria degli iscritti negli ordini professionali, in assenza di una forte iniziativa politica, decine e decine di miliardi del risparmio previdenziale, per un totale di quasi 200 miliardi di euro complessivi, continueranno ad essere investiti in strumenti finanziari, per lo più all'estero, in una misura che oggi è pari a circa il 70 per cento del totale degli impieghi; il restante 30 per cento degli impieghi è sostanzialmente investito in titoli di Stato;
    tale andamento determina oggi, di fatto, l'impossibilità di finanziare le imprese italiane e le iniziative di sviluppo infrastrutturale del nostro Paese, in un momento in cui il tema delle risorse finanziarie da recuperare per lo sviluppo dell'economia reale dell'Italia è assolutamente rilevante;
    nella relazione approvata dalla Commissione, che qui si intende integralmente richiamata, sono ipotizzate una serie di misure volte a conseguire tale obiettivo, secondo tre principali linee di intervento:
     a) interventi fiscali per stimolare gli investimenti della previdenza complementare in iniziative di sviluppo del Paese, con misure di equiparazione del regime di tassazione ovvero di agevolazione fiscale in rapporto alla partecipazione ad investimenti in iniziative a sostegno dell'economia reale del Paese; l'idea di fondo è che lo strumento fiscale non deve rispondere solo all'esigenza contingente di ripristinare o mantenere la tenuta dei conti pubblici, ma anche costituire una leva di politica economica a disposizione del Governo e del Parlamento per una politica di sviluppo, così come avviene in altri Paesi europei che utilizzano le agevolazioni fiscali per incentivare l'economia e per operare in senso competitivo con gli altri Stati, dal momento che gli strumenti di politica monetaria sono ormai devoluti alla Banca centrale europea;
    nella relazione si analizzano le normative estere esistenti in materia di tassazione dei fondi pensione e delle Casse previdenziali degli ordini professionali;
    il sistema prevalente in Europa, ad esempio nel Regno Unito, è il cosiddetto sistema «eet» (esente, esente, tassato), con riferimento, rispettivamente alla fase dell'accumulazione, alla tassazione dei rendimenti maturati in ciascun anno da parte dei soggetti gestori del risparmio previdenziale e della tassazione delle prestazioni pensionistiche complementari erogate in forma di rendita;
    in Italia la fase di accumulazione è sostanzialmente esente, in quanto l'articolo 8, comma 4, del decreto legislativo n. 252 del 2005 prevede che i contributi versati dal lavoratore e dal datore di lavoro, sia volontari sia dovuti in base a contratti o accordi collettivi, alle forme di previdenza complementare sono deducibili dal reddito complessivo per un importo non superiore ad euro 5.164,57;
    i contributi versati dal datore di lavoro usufruiscono, altresì, delle medesime agevolazioni contributive;
    ai fini del computo del predetto limite si tiene conto anche delle quote accantonate dal datore di lavoro ai fondi di previdenza di cui all'articolo 105, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi;
    la tassazione dei rendimenti maturati in ciascun anno è stata elevata per il 2014 all'11,5 per cento (prima del decreto-legge n. 66 del 2014, che ha ulteriormente incrementato la pressione fiscale in materia, era, infatti, dell'11 per cento);
    la tassazione delle prestazioni pensionistiche complementari erogate in forma di rendita, infine, ai sensi dell'articolo 11, comma 6, del citato decreto legislativo n. 252 del 2005, sono imponibili per il loro ammontare complessivo al netto della parte corrispondente ai redditi già assoggettati ad imposta e a quelli di cui alla lettera g-quinquies del comma 1 dell'articolo 44 del testo unico delle imposte sui redditi: sulla parte imponibile delle prestazioni pensionistiche erogate è, pertanto, operata una ritenuta a titolo d'imposta con l'aliquota del 15 per cento ridotta di una quota pari a 0,30 punti percentuali per ogni anno eccedente il quindicesimo anno di partecipazione a forme pensionistiche complementari con un limite massimo di riduzione di 6 punti percentuali (sino al 9 per cento, quindi, nell'ipotesi di un'anzianità contributiva di 35 anni); le prestazioni pensionistiche complementari erogate in forma di capitale sono imponibili per il loro ammontare complessivo al netto della parte corrispondente ai redditi già assoggettati ad imposta; per le casse private rispetto alle tre fasi della tassazione (accantonamento dei contributi, accumulo dei rendimenti, percezione della rendita), si ha una situazione del tipo «eet», ma più gravosa rispetto a quello previsto per i fondi pensione, in quanto se i contributi versati dagli iscritti sono esenti da tassazione fiscale (articolo 38, comma 11, del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, che ha esteso anche all'esercizio di attività previdenziali e assistenziali da parte di enti privati di previdenza obbligatoria la disciplina dell'articolo 74 del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, per gli enti pubblici), il trattamento fiscale dei rendimenti mobiliari è tassato al 20 per cento (articolo 2, comma 6, del decreto-legge n. 138 del 2011, a partire dal 2012), mentre le prestazioni sono assoggettate alle aliquote irpef: la relativa base imponibile è data dal valore della prestazione pensionistica al lordo dei rendimenti conseguiti dall'ente previdenziale, con una sorta di doppia tassazione quindi;
     b) interventi ordinamentali concernenti la normativa della previdenza complementare, sia per i fondi pensione che per le casse previdenziali, per stimolare il settore e favorire l'impiego, in condizioni di sicurezza del risparmio, di parte delle risorse ottenute per la promozione di interventi a sostegno dell'economia del Paese; in particolare, nella relazione si ipotizzano: revisione dei meccanismi di adesione alla previdenza complementare; forme di compensazione o garanzia pubblica per le imprese derivante dall'eventuale incremento dell'impiego del trattamento di fine rapporto in forme di previdenza complementare, in rapporto alla mancata disponibilità dello stesso come forma di autofinanziamento delle imprese; revisione dei limiti quantitativi e tipologici agli impieghi oggetto di definizione per i fondi pensione con il decreto del Ministero dell'economia e delle finanze n. 703 del 1996 e successiva revisione; definizione dello status giuridico delle casse professionali, che la legge ha previsto come private ma che sia in sede amministrativa – per esempio: dell'inclusione nell'elenco consolidato delle pubbliche amministrazione gestito dall'Istat; dei controlli; della sottoposizione al regime della spending review; dei regimi autorizzatori per gli impieghi del patrimonio; delle modalità di redazione dei bilanci, anche in sede giurisdizionale, sono state, di fatto, ricondotte ad un ambito pubblicistico; altre misure possono riguardare lo sblocco di parte delle risorse degli enti previdenziali pubblici, segnatamente l'Inail, attualmente immobilizzati nel conto di tesoreria unica;
     c) definizione delle modalità per la destinazione del risparmio previdenziale a sostegno di investimenti nell'economia reale, attraverso investimenti diretti a sostegno delle imprese, ovvero ampliando il ruolo di raccolta del risparmio della Cassa depositi e prestiti, estendendolo anche al risparmio previdenziale, al fine di favorire l'impiego di interventi strutturali a sostegno dell'economia, in connessione con lo sviluppo dell'impiego di risorse a sostegno del Paese derivanti dalla previdenza complementare;
    altro tema importante è quello dello sviluppo delle campagne informative per la sensibilizzazione dei lavoratori, specie i giovani, sulla rilevanza della previdenza complementare per un positivo futuro pensionistico;
    per la realizzazione di tale iniziativa dovranno essere assicurate importanti condizioni tecniche, quali acquisire il consenso degli enti interessati, prevedere forme di garanzia dello Stato atte ad assicurare la certezza degli investimenti e la loro adeguata remuneratività, in modo comunque da garantire l'equilibrio della gestione finanziaria degli enti interessati e il rispetto delle normative comunitarie in tema di aiuti di Stato,

impegna il Governo:

   ad attuare le linee direttive contenute nella relazione della Commissione parlamentare di controllo sull'attività degli enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza sociale per l'Assemblea, doc. XVI-bis n. 1 del 9 luglio 2014 e trasmesse alle Presidenze delle Camere in data 12 luglio 2014, al fine di favorire l'impiego di parte del risparmio previdenziale, su base consensuale e garantendo la tutela del risparmio previdenziale, risorse ottenute per la promozione di interventi a sostegno dell'economia del Paese, intervenendo per introdurre misure:
    a) per armonizzare il trattamento fiscale delle forme di previdenza complementare e della previdenza riguardante gli ordini professionali, definendo una tassazione a livello inferiore rispetto a quella attualmente prevista per i fondi pensione e valutando, altresì, l'introduzione di un sistema «eet» anche nel nostro Paese;
    b) per definire lo status giuridico delle casse degli ordini professionali o enti previdenziali privatizzati ai sensi del decreto legislativo n. 509 del 1994 e del decreto legislativo n. 103 del 1996, anche alla luce delle recenti e ripetute decisioni in sede di giustizia amministrativa che hanno richiamato il carattere pubblicistico di tali enti;
    c) per valutare forme eventuali di accorpamento delle casse degli ordini professionali al fine di realizzare economie di gestione e modalità di impiego delle risorse più efficienti, fatta salva la separazione delle gestioni relative agli specifici ordini professionali;
    d) per prevedere modifiche alla disciplina ordinamentale dei fondi pensione volti a stimolare l'accesso alla previdenza complementare; in particolare nella relazione si ipotizzano: revisione dei meccanismi di adesione alla previdenza complementare; forme di compensazione o garanzia pubblica per le imprese derivante dall'eventuale incremento dell'impiego del trattamento di fine rapporto in forme di previdenza complementare, in rapporto alla mancata disponibilità dello stesso come forma di autofinanziamento delle imprese; la revisione dei limiti quantitativi e tipologici agli impieghi oggetto di definizione per i fondi pensione con il decreto del Ministero dell'economia e delle finanze n. 703 del 1996, e successiva revisione;
    e) per avviare campagne di informazione per tutti i lavoratori, anche per i dipendenti pubblici, sulle opportunità offerte dalla previdenza complementare, atteso che la piena entrata a regime del sistema contributivo per la previdenza pubblica determinerà la necessità di pensioni complementari anche nel settore pubblico;
    f) per valutare l'adozione di altre misure finalizzate a aumentare le risorse finanziarie a disposizione di investimenti di rilevanza pubblica, quali lo sblocco di parte delle risorse degli enti previdenziali pubblici, segnatamente l'Inail, attualmente immobilizzati nel conto di tesoreria unica;
    g) per promuovere, d'intesa con i fondi pensione e le casse professionali, un patto per l'Italia per prevedere che, a fronte di interventi di agevolazioni, anche fiscali, e di miglioramento del quadro normativo complessivo del settore, sia verificata la disponibilità di effettuare investimenti di parte dei patrimoni gestiti a favore di iniziative per lo sviluppo infrastrutturale dell'Italia, garantendo la remuneratività degli investimenti, nel quadro della salvaguardia dell'equilibrio finanziario degli enti del secondo e del terzo pilastro e del diritto dei lavoratori a percepire le prestazioni previdenziali.
(1-00602)
(Nuova formulazione) «Di Gioia, Morassut, Di Salvo, Di Lello, Dorina Bianchi, Piazzoni, Palese, Distaso, Aiello, Galati, Fucci, Caruso, Lacquaniti, Capelli, Fava, Adornato, D'Alia, Formisano, Gebhard, Lauricella, Ginoble, Melilla, Piepoli, Zoggia, Ginefra, Pastorelli, Meta, Marzano, Carella, Rostan, Scanu, Pilozzi, Rubinato, Pelillo, Sannicandro, Migliore, Carbone, Francesco Sanna, Grassi, Fioroni, Catania, Bosco».
(3 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    l'indirizzo politico adottato dal Governo e dalla maggioranza parlamentare che lo sostiene è quello di utilizzare il risparmio previdenziale per operazioni di finanziamento dell'economia reale;
    tale orientamento trova conferma nel disegno di legge di stabilità per il 2015 e nella relazione intitolata «Iniziative per l'utilizzo del risparmio previdenziale complementare a sostegno dello sviluppo dell'economia reale del Paese», approvata dalla Commissione parlamentare di controllo sulle attività degli enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza sociale il 9 luglio 2014 e trasmessa alle Presidenze della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica in data 10 luglio 2014;
    in particolare, per quanto riguarda la legge di stabilità per il 2015, secondo le indiscrezioni di stampa, il documento prevede la possibilità per il lavoratore – anche se ha già scelto di trasferire il trattamento di fine rapporto verso i fondi pensione – di richiedere l'anticipo del trattamento di fine rapporto tramite liquidazione diretta mensile della quota maturanda in busta paga, fino al 100 per cento della somma maturata nel corso dell'anno;
    per quanto concerne le modalità operative dell'erogazione del trattamento di fine rapporto, a fronte della richiesta del dipendente, per evitare problemi di liquidità alle piccole e medie imprese, l'idea allo studio sembrerebbe quella che l'azienda si faccia rilasciare dall'Inps una certificazione al diritto alla prestazione, che sarà trasmessa alle banche per ottenere l'erogazione di un finanziamento destinato all'anticipo del trattamento di fine rapporto; allo scadere del finanziamento, in caso di mancata restituzione delle somme da parte dell'azienda, la banca si rivolgerà all'Inps per recuperare il credito vantato verso l'azienda;
    sempre il documento della legge di stabilità per il 2015 prevederebbe poi, per recuperare risorse, un aumento della pressione fiscale sulla previdenza integrativa e complementare, con l'elevazione dell'aliquota oggi all'11,5 per cento tra il 20 ed il 26 per cento;
    pur comprendendo lo sforzo compiuto dal Governo per reperire le risorse necessarie a far ripartire l'economia italiana, tali decisioni sembrano essere caratterizzate da una logica emergenziale priva di una visione lungimirante; esse, infatti, non sembrano considerare i rischi a cui si espone nel medio-lungo periodo il sistema pensionistico italiano, né tantomeno sembrano tener conto del progressivo invecchiamento della popolazione e, quindi, della necessità di garantire pensioni sicure ed adeguate;
    non è, peraltro, la prima volta che un Governo di centrosinistra utilizza soldi dei lavoratori per «fare cassa»; si ricorda a tal proposito la legge finanziaria per il 2007 (articolo 1, commi 755 e seguenti, della legge n. 296 del 2007), con cui il Governo Prodi ha operato un vero e proprio «scippo» del trattamento di fine rapporto nell'intento di recuperare risorse per circa 5 miliardi di euro o il decreto-legge cosiddetto «salva-Italia» (articolo 24 del decreto-legge n.201/2011), con il quale il Governo Monti e la Ministra Fornero hanno tentato di risanare i conti pubblici elevando d'emblée i requisiti pensionistici;
    dalla costituzione del fondo presso l'Inps del trattamento di fine rapporto inoptato, con l'entrata in vigore appunto della legge finanziaria per il 2007, si sta utilizzando in maniera secondo i firmatari del presente atto di indirizzo illegittima quella che costituisce una retribuzione indiretta dei lavoratori per spese correnti, come addirittura il finanziamento di lavori socialmente utili o di comuni e province in dissesto finanziario;
    la stessa Corte dei conti ha rilevato che «a partire dal 2010, sulla base della legislazione sopravveniente (...) sembra cessare l'impiego ad investimenti delle somme prelevate (...) a seguito di tale fenomeno può concludersi che il prelievo stesso diviene un'entrata indifferenziata dello Stato, senza alcun vincolo di destinazione e senza l'istituzione di correlate poste passive, destinate alla reintegrazione del fondo», sottolineando il rischio di equità intergenerazionale nonché di pareggio di bilancio derivante dall'utilizzo degli accantonamenti di trattamento di fine rapporto presso il fondo per mere spese correnti,

impegna il Governo:

   ad adottare le opportune iniziative, anche di carattere normativo, per il superamento delle previsioni normative di cui ai commi 755 e seguenti dell'articolo 1 della legge n.296 del 2006, affinché il trattamento di fine rapporto inoptato rimanga in azienda e possa così rappresentare per le imprese stesse, come in passato, una forma di autofinanziamento per ristrutturarsi, investire e ritornare competitive, salvaguardando ed incrementando l'occupazione;
   a favorire, in termini fiscali, lo sviluppo della previdenza complementare al fine di garantire al lavoratore la possibilità di costituirsi una previdenza integrativa che compensi la riduzione delle prestazioni del sistema previdenziale pubblico;
   ad attuare tutte le opportune iniziative per garantire alle future generazioni pensioni certe e dignitose, considerato che la media dei trattamenti pensionistici italiani è tra le più basse d'Europa.
(1-00639)
«Prataviera, Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Busin, Caon, Caparini, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Rondini, Simonetti».
(21 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    la previdenza complementare nasce come sistema regolamentare autonomo e strutturato all'inizio degli anni Novanta (articolo 2, comma 1, lettera v), della legge delega 23 ottobre 1992, n. 421 e decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124), in corrispondenza di una revisione complessiva dell'ordinamento pensionistico obbligatorio culminata nella legge n. 335 del 1995. L'obiettivo è quello di introdurre un secondo livello di tutela previdenziale che funga da strumento di compensazione per le riduzioni dei trattamenti pensionistici obbligatori e che concorra a soddisfare gli obiettivi di adeguatezza pensionistica (articolo 38 della Costituzione), ovvero a garantire ai lavoratori più elevati livelli di copertura;
    la normativa sui fondi pensione poi è stata riformata dalla legge delega 23 agosto 2004, n. 243, (articolo 1, commi 1, lettera c) e 2, lettera e) e seguenti) e dal decreto legislativo di attuazione 5 dicembre 2005, n. 252, (entrato in vigore il 1o gennaio 2007), con l'intento di aumentare il tasso di adesione dei lavoratori alle forme complementari e i flussi di finanziamento dei fondi pensione. La previdenza di secondo livello interessa tutte le forme di lavoro, autonomo, subordinato, professionale, ma è stata progressivamente estesa anche a soggetti che si trovano al di fuori del perimetro costituito dalle varie tipologie di lavoro;
    i fondi pensione vanno oggi considerati anche alla luce delle altre forme di previdenza contrattuale, introdotte nell'ordinamento dalla legislazione più recente, quale ad esempio la legge n. 92 del 2012, che all'articolo 3 disciplina nuovi sistemi di ammortizzazione sociale di fonte contrattuale collettiva;
    a livello di normativa europea due sono i principali interventi regolatori in materia e cioè la direttiva n. 49 del 1998 e la direttiva n. 41 del 2003 (cosiddetta direttiva sugli Epap – Enti pensionistici aziendali o professionali), quest'ultima recepita con l'introduzione di apposite disposizioni all'interno del decreto legislativo n. 252 del 2005;
    la prima regolamentazione organica della previdenza complementare è stata realizzata con la legge delega 23 ottobre 1992, n. 421, (articolo 2, comma 1, lettera v) e il decreto legislativo attuativo 21 aprile 1993, n. 124;
    tale regolamentazione, come detto, è stata sottoposta a revisione nel 2004-2005 con la legge delega 23 agosto 2004, n. 243, (articolo 1, commi 1, lettera c) e 2, lettera e) e seguenti) alla quale si è dato attuazione con il decreto legislativo 5 dicembre 2005 n. 252 (entrato in vigore il 1o gennaio 2007) sul presupposto di una più efficace messa a punto della strumentazione necessaria, anche a livello di flussi di finanziamento, per assicurare l'effettività della diffusione del secondo pilastro previdenziale;
    secondo la relazione annuale della Covip del 2013 (dati 2012), tale obiettivo è ancora lontano: alla fine del 2012 le forme pensionistiche complementari contavano su 5,8 milioni di iscritti con un tasso di adesioni, rispetto al totale dei lavoratori occupati (pubblici, privati e autonomi), pari a 25,5 per cento. È solo leggermente più alto il tasso di adesione per il lavoro dipendente privato: supera il 30 per cento se si tiene conto dei soli dipendenti occupati, mentre si riscende sotto tale soglia (circa 27 per cento) se si tiene anche conto dei dipendenti disoccupati (pari all'incirca a 3 milioni);
    sul fronte dell'impianto normativo si ritiene poi che talune scelte «tecniche» aumentino le remore dei lavoratori a dare la propria adesione ai fondi pensione. In tal senso, si è posto l'interrogativo se l'attuale situazione di irreversibilità del conferimento del trattamento di fine rapporto – forse discordante con le premesse di un sistema fondato sulla libertà di adesione – non abbia finito per fungere da deterrente per le conseguenze drastiche e definitive che determina;
    infatti, subito dopo la riforma del 2005 e alla luce dei dati deludenti sulla conseguente destinazione esplicita o tacita del trattamento di fine rapporto alla previdenza complementare, si è quindi ragionato in ordine all'opportunità di prevedere, a certe condizioni, il «diritto di ripensamento» del lavoratore (senza arrivare ad alcun «approdo» normativo);
    va comunque sempre tenuto in considerazione come la previdenza complementare trovi il suo fondamento nell'articolo 38, comma 2, della Costituzione: ciò significa che essa condivide l'obiettivo di garantire l'adeguatezza delle prestazioni pensionistiche;
    la previdenza complementare, dunque, per espressa indicazione normativa (articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 252 del 2005) deve concorrere a assicurare ai lavoratori «più elevati livelli di copertura previdenziale», anche in funzione della corrispondente contrazione dei livelli di copertura della previdenza pubblica, in una prospettiva costituzionale di adeguatezza del reddito pensionistico;
    occorre certamente una revisione dei meccanismi di adesione alla previdenza complementare. In merito, risulta necessario tenere in considerazione la limitata entità dell'attuale tasso di adesione, a fronte dell'ampia platea di potenziali contribuenti. Ciò è indice della scarsa propensione del lavoratore medio alla ricerca di forme di risparmio in funzione della garanzia di adeguati trattamenti di quiescenza, nonostante gli effetti prodotti dalle recenti riforme previdenziali;
    l'adozione di soluzioni complementari ed integrative della previdenza obbligatoria è attenuata dalla sussistenza di una forte diffidenza nel contribuente medio derivante anche dalla presupposta ed avvertita scarsa tutela, dalla necessaria ed insoddisfatta esigenza di garantire la sorte contributiva e una sufficiente remunerazione del risparmio, oltre che dall'inadeguata convenienza fiscale;
    in tale situazione il ventilato ricorso ad un sistema di adesione obbligatoria cagionerebbe un'ulteriore e fisiologica forma di chiusura, acuendo nel contempo la resistenza dei potenziali contribuenti e il contrasto sociale. Una soluzione praticabile è riconducibile alla commistione tra il mantenimento del sistema dell'adesione volontaria, la predisposizione di adeguate agevolazioni fiscali con la previsione di ampi margini di deducibilità e la realizzazione di un solido sistema di garanzie;
    in tale ottica – ed in considerazione della perseguita finalità di rendere conveniente per i contribuenti l'adesione ai fondi – appare sì praticabile l'attuazione dell'armonizzazione del trattamento fiscale ma non certamente alcuna soluzione riferibile a forme di adesione obbligatoria che risulterebbe invece del tutto improduttiva;
    certamente fruttuoso sarebbe invece provvedere, tra le altre cose, alla realizzazione di un accorpamento delle casse previdenziali;
    risulta, infatti, improcrastinabile un intervento di riorganizzazione del sistema delle casse – non circoscritto alla sola forma dell'accorpamento – con la necessaria esigenza di mantenere distinte le evidenze contabili riferibili alle singole casse private o privatizzate;
    tale intervento, oltre a consentire l'eliminazione o riduzione delle diseconomie esistenti, renderebbe più agevole l'attuazione dei prescritti controlli di gestione e contabili;
    la stessa predisposizione e ridefinizione del sistema di governance – oltre a realizzare evidenti ed immediati risparmi – attuerebbe una lineare e meno variegata azione amministrativa e gestionale, con conseguenti e auspicabili benefici sulla valorizzazione del patrimonio e sulla deflazione del contenzioso;
    nel caso di fondi pensione negoziali, la gestione dei singoli fondi è demandata a un consiglio di amministrazione paritetico al 50 per cento designato dagli imprenditori e al 50 per cento dai lavoratori. La percentuale designata dai lavoratori viene nella maggioranza dei casi eletta con liste prestabilite dalle organizzazioni cosiddette «associate» – di fatto Cgil-Cisl-Uil di categoria – e quindi nel consiglio di amministrazione entrano quasi esclusivamente i rappresentanti dei tre sindacati sopra citati;
    quello che si vuole sottolineare è che dette organizzazioni sindacali stipulanti gli accordi istitutivi di ciascun fondo poggiano la loro rappresentanza su quella che ai firmatari del presente atto di indirizzo appare un'iniqua posizione di rendita e di vantaggio, non suffragata da alcuna raccolta di firme con cui si devono invece misurare altre organizzazioni sindacali o associazioni di lavoratori;
    tale discriminazione, oltre alle difficoltà tecniche richieste alle liste che si vogliono presentare ex novo o che vogliono rinnovare la loro presenza ma non facenti parti dell'accordo costitutivo del fondo, fa sì che nei fatti siano ben pochi i delegati eletti fuori dell'ambito Cgil, Cisl E Uil, fuori della già citata «corsia privilegiata»;
    a giudizio dei firmatari del presente atto di indirizzo questo alimenta un senso di sfiducia del lavoratore (contribuente del fondo) ed elettore verso un'istituzione che presenta delle asimmetrie così forti nella propria rappresentanza e potenziali opacità nella gestione del fondo stesso, a causa del fatto che i propri rappresentanti non sono direttamente responsabili di fronte ai lavoratori ma sono «mediati» da un'organizzazione che decide i nominativi nelle liste;
    una maggiore iniezione di democrazia partecipata, con posizione paritetica di tutte le liste e con formazione di liste provenienti dal basso ed autonomamente formate, contribuirebbe non poco ad aumentare la platea dei lavoratori aderenti;
    l'articolo 1, comma 1, del decreto legislativo n. 252 del 2005 disciplina le forme di previdenza per l'erogazione di trattamenti pensionistici complementari del sistema obbligatorio, ivi compresi quelli gestiti dagli enti di diritto privato di cui ai decreti legislativi 30 giugno 1994, n. 509, e 10 febbraio 1996, n. 104, al fine di assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale;
    l'azione del Governo ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo non può che essere improntata al perseguimento della tutela degli interessi degli iscritti alle forme di previdenza che deve risultare primario,

impegna il Governo:

   a garantire la massima trasparenza della gestione dei risparmi dei lavoratori, ponendo in essere ogni iniziativa utile a garantire, con ampia certezza, il rendimento e la sicurezza del diritto alla pensione da parte del fondo pensione;
   a valutare l'adeguatezza dei fondi pensione e la loro aderenza alle previsioni di cui all'articolo 38 della Costituzione, posto che la previdenza complementare, dunque, per espressa indicazione normativa (articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 252 del 2005) deve concorrere ad assicurare ai lavoratori «più elevati livelli di copertura previdenziale», anche in funzione della corrispondente contrazione dei livelli di copertura della previdenza pubblica;
   ad assumere iniziative per rivedere l'attuale sistema del silenzio assenso nel conferimento del trattamento di fine rapporto ai fondi pensione;
   a promuovere iniziative normative volte ad avviare serie campagne di informazione sui diritti dei lavoratori e sui modi di impiego del proprio trattamento di fine rapporto;
   a promuovere l'accorpamento delle casse degli ordini professionali al fine di realizzare economie di gestione e modalità di impiego delle risorse più efficienti, fatta salva la separazione delle gestioni relative agli specifici ordini professionali;
   ad assumere iniziative per superare l'attuale sistema di elezione dei rappresentanti dei lavoratori in seno al fondo negoziale (assemblea dei delegati e/o consiglio d'amministrazione) al fine di eliminare meccanismi elettivi che possano penalizzare l'eterogeneità delle rappresentanze;
   a prevedere un metodo elettivo dei rappresentanti dei lavoratori unico ed omogeneo a livello nazionale, valido per ogni fondo ed in ogni azienda;
   ad assumere iniziative per definire lo status giuridico delle casse degli ordini professionali o enti previdenziali privatizzati ai sensi del decreto legislativo n. 509 del 1994 e del decreto legislativo n. 104 del 1996, richiamando il carattere pubblicistico di tali enti già previsto nell'articolo 2 di quest'ultimo decreto;
   ad assumere iniziative per prevedere audit annuali sui bilanci di tutti i fondi pensione e gli enti previdenziali pubblici e privatizzati, eseguiti da un collegio valutatore indipendente internazionale, al fine di stabilire in quale misura i criteri di investimento prefissati siano stati soddisfatti o meno in relazione alla preservazione del patrimonio, al «rendimento target» e alla sostenibilità dell'erogazione pensionistica.
(1-00650)
«Ciprini, Baldassarre, Lombardi, Tripiedi, Rizzetto, Chimienti, Bechis, Rostellato, Cominardi, Currò».
(29 ottobre 2014)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE VOLTE ALLA NOMINA DI UN MINISTRO SENZA PORTAFOGLIO COMPETENTE IN MATERIA DI PARI OPPORTUNITÀ

   La Camera,
   premesso che:
    le minacce all'uguaglianza di genere, alla parità di trattamento in campo lavorativo, alla riduzione della povertà, al raggiungimento dell'istruzione e al miglioramento della salute delle donne – in poche parole, a tutti gli Obiettivi di sviluppo del Millennio – sono estremamente serie. A seguito della crisi, la qualità della vita delle donne in Italia si sta deteriorando notevolmente, obbligandole ad una retrocessione in tutti i campi e gli ambiti sociali. Ma la difficile situazione finanziaria ed economica sia nazionale che internazionale non può essere una scusante per non applicare anche nel nostro Paese una reale parità di genere e un possibile modello di convivenza globale secondo i dettami ed i principi emersi ormai quasi vent'anni fa nel forum e nella IV Conferenza Onu sulle donne di Pechino del 1995;
    anche gli abusi e la violenza nei confronti delle donne aumentano in tempo di crisi. Dal 1o agosto 2014, proprio durante il semestre europeo presieduto dall'Italia, entra in vigore la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, meglio nota come Convenzione di Istanbul, la prima dedicata agli abusi e ai maltrattamenti domestici contro la popolazione femminile che specifica uno standard sulla prevenzione, la protezione e i servizi dedicati alle vittime. Gli Stati che la ratificano, tra i quali anche il nostro Paese che ha provveduto nel giugno del 2013, sono vincolati a mettere in atto servizi e politiche volti all'eradicazione del fenomeno;
    nonostante questo, l'Italia non si è ancora dotata del fondamentale interlocutore istituzionale qual è il Ministro per le pari opportunità;
    nel 2011, sotto il Governo Monti, la delega per le pari opportunità è stata conferita fino all'aprile 2013 a Elsa Fornero, Ministro del lavoro e delle politiche sociali, manifestando una scarsa e poco approfondita conoscenza delle diverse tematiche delicate e complesse e non solo attinenti al mondo del lavoro ma ai rapporti e alle politiche di parità;
    dal 28 aprile 2013 al 24 giugno 2013 Josefa Idem è stata Ministro per le pari opportunità, lo sport e le politiche giovanili nel Governo Letta. Il Ministro per le pari opportunità, lo sport e le politiche giovanili in tal modo ricopriva più incarichi, quali sport e politiche giovanili. Con le sue dimissioni, due mesi dopo il conferimento del mandato, la guida del dipartimento per le pari opportunità è stata affidata a Maria Cecilia Guerra, già Viceministro del lavoro e delle politiche sociali. Come noto, il Viceministro esercita una delega ma non partecipa al Consiglio dei Ministri: ciò è stato ancora una volta chiaro indice di un secondario interesse del Governo pro tempore sulle questioni relative alle donne, mentre veniva perpetrata la frammentazione e, quindi, il mancato coordinamento delle politiche di genere dando mandato ad altri Ministeri di occuparsi in maniera isolata di alcuni aspetti, come accaduto per la gestione di questioni relative alle politiche per la prevenzione e il contrasto alla violenza, nel caso del Ministero dell'interno per la formulazione del decreto-legge n. 93 del 2013, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 119 del 2013 sul cosiddetto «femminicidio»;
    l'attuale Governo, in carica dal 22 febbraio 2014, non ha nominato un Ministro per le pari opportunità e le deleghe sono rimaste nelle mani del Presidente del Consiglio dei ministri. Il decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali dell'8 maggio 2014 (decreto ministeriale n. 11814 del 2014), all'articolo 1, lettera c), attribuisce al Sottosegretario di Stato, onorevole Bellanova, «le funzioni di indirizzo politico-amministrativo concernenti le competenze istituzionali relative alle Direzioni generali per le politiche dei servizi per il lavoro, ivi comprese le attività di promozione delle pari opportunità»: considerata la situazione più volte segnalata che riguarda la componente femminile del mercato del lavoro delle donne italiane, si potrebbe anche apprezzare lo sforzo, ma risulta chiaro a tutti che le stringate deleghe attribuite coprono solo in minima parte, ed in particolare solo sul versante lavorativo e comunque non in modo esaustivo, le problematiche, le criticità e, in generale le questioni attinenti la condizione delle pari opportunità, senza dunque creare realmente un interlocutore istituzionale valido, sotto ogni sfaccettatura, ad affrontare la condizione di genere in cui versa il nostro Paese;
    non è sufficiente nominare una squadra di Governo per metà «al femminile» per risolvere le questioni di genere in Italia: l'attuale Governo non ha mai ritenuto opportuno effettuare una nuova nomina che prenda in carico un dipartimento che, non avendo alcun indirizzo politico ed istituzionale dedicato, si limita a portare avanti l'ordinaria gestione amministrativa;
    presso il dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri operano infatti diversi organismi collegiali e diverse segreterie tecniche che, senza un indirizzo politico, sono in una situazione di stallo. Si ricorda, ad esempio, la commissione per le pari opportunità tra uomo e donna: la commissione si è riunita per l'ultima volta il 12 luglio 2011 e non è stata mai più riconvocata. Restano senza convocazione e in alcuni casi senza nemmeno rinnovo, la Commissione interministeriale per il sostegno alle vittime di tratta, violenza e grave sfruttamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 14 maggio 2007, n. 102; la commissione per la prevenzione e il contrasto delle pratiche di mutilazione genitale femminile; l'Osservatorio per il contrasto della pedofilia e della pornografia minorile;
    senza alcuni indirizzo politico si trova anche l'Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali), nonostante l'importante funzione di garantire, in piena autonomia di giudizio e in condizioni di imparzialità, l'effettività del principio di parità di trattamento fra le persone, anche in un'ottica che tenga conto del diverso impatto che le stesse discriminazioni possono avere su donne e uomini, nonché dell'esistenza di forme di razzismo a carattere culturale e religioso, ai sensi dell'articolo 7, comma 2, del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215 e del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri dell'11 dicembre 2003;
    i lavori avviati dalla «Task Force interministeriale contro la violenza», istituita dal Governo del Premier Enrico Letta non sono mai stati completati né mai ripresi dall'attuale Governo. Mancando l'autorità politica per convocare i gruppi di lavoro, si attende con urgenza un indirizzo sulla predisposizione del nuovo piano nazionale antiviolenza la cui prima e ultima stesura risale al febbraio 2011. A tal fine si ricorda che, secondo i dettami dell'articolo 10 della Convenzione di Istanbul, lo Stato ratificante è tenuto all'istituzione o almeno alla designazione di uno o più organismi ufficiali responsabili del coordinamento, dell'attuazione, del monitoraggio e della valutazione delle politiche e delle misure destinate a prevenire e contrastare ogni forma di violenza oggetto della Convenzione, con il compito di coordinare la raccolta dei dati statistici disaggregati pertinenti su questioni relative a qualsiasi forma di violenza al fine di studiarne le cause profonde e gli effetti, la frequenza e le percentuali delle condanne, come pure l'efficacia delle misure adottate ai fini dell'applicazione della Convenzione;
    l'articolo 5 del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, recante «Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province», convertito, con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, demanda al Ministro delegato per le pari opportunità il compito di elaborare un piano d'azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere, in sinergia con la nuova programmazione dell'Unione europea per il periodo 2014-2020 e prevede, inoltre, un finanziamento di 17 milioni di euro per la realizzazione di azioni a sostegno delle donne vittime di violenza. Tralasciando il dato per cui il carattere straordinario del piano non è coerente con la natura strutturale della questione delle violenze, si registra che, nell'attesa di un interlocutore istituzionale, sono numerosissimi i centri antiviolenza, specialmente di natura indipendente, che chiedono spiegazioni senza ottenere risposta in merito alle modalità, ai criteri di mappatura, alla definizione dei requisiti e standard minimi per la gestione dei centri e per la distribuzione dei fondi, nella paura che di fatto si tratti di finanziamenti «a pioggia» aperti anche a soggetti che non hanno maturato alcuna esperienza specifica sul fenomeno;
    senza un adeguato controllo politico e senza un adeguato coordinamento, si rischia non solo lo stallo sulle politiche di pari opportunità, ma si sfiora la possibilità di incorrere in pericolosi passi indietro, come recentemente accaduto nel decreto-legge n. 92 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 117 del 2014, recante «disposizioni urgenti in materia di rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in violazione dell'articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, nonché di modifiche al codice di procedura penale e alle disposizioni di attuazione, all'ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria e all'ordinamento penitenziario, anche minorile» (A.C. 2496), ove solo grazie alla tempestiva attività emendativa di alcuni parlamentari si è statuito che rimangano esclusi i delitti di maltrattamenti in famiglia (articolo 572 del codice penale) e di stalking (articolo 612-bis codice penale) dalla nuova normativa (articolo 275, comma 2-bis, del codice di procedura penale), la quale dispone che non si possa applicare la misura cautelare in carcere o quella degli arresti domiciliari se il giudice ritiene che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena o se la pena detentiva da eseguire non sia superiore a tre anni di reclusione;
    altro esempio di totale mancanza di coordinamento è stato inoltre quello, relativo alla possibilità, fornita dall'articolo 4, comma 24, lettera b), della legge 92 del 2012, per il triennio 2013-2015 per le madri lavoratrici di richiedere un contributo di 300 euro mensili per l'acquisto di voucher e per i servizi di babysitting e asilo nido pubblici o privati, al termine del congedo di maternità e in alternativa al congedo parentale. La legge istitutiva della misura aveva garantito 20 milioni di euro a copertura dell'operazione per il triennio sopra indicato che, secondo la relazione tecnica, avrebbe dovuto soddisfare per l'anno 2013 la domanda di 11.111 beneficiari. Tuttavia, all'avvio della misura il contributo ha riscosso pochissimo successo, come testimoniano le poche richieste pervenute: a fronte di potenziali 11.111 beneficiari, solo 3.762 lavoratrici, secondo dati Inps, sono state ammesse al beneficio, mentre dal punto di vista delle strutture accreditate per il servizio, meno di un terzo degli asili pubblici o privati nazionali si sono convenzionati con lo Stato. Tra le principali cause si deve sicuramente annoverare la scarsa pubblicizzazione dell'iniziativa lasciata soltanto a comunicati stampa, senza un'adeguata promozione sui luoghi di lavoro e senza coinvolgimento di sindacati e associazioni datoriali e, dunque, in definitiva, una totale assenza di politiche di coordinamento che un'istituzione dedicata avrebbe garantito;
    per continuare gli esempi di totale disattenzione del Governo sulle politiche di genere, si ricorda ancora che a fine maggio 2014 il dipartimento per le pari opportunità ha invitato le associazioni della società civile impegnate sulle «questioni di genere» a dare un loro contributo alla relazione sull'attuazione del programma d'azione sulle donne di Pechino (rilevazione quinquennale: 2009-2014), così come richiesto dall'Onu, e in vista della presentazione che il Governo italiano dovrà tenere sul tema a Ginevra nel mese di novembre 2014. Si è a tal fine riunita una rete di organizzazioni per la promozione dei diritti umani, associazioni delle donne, organizzazioni non governative, coordinamenti sindacali e singole esperte di genere, per la redazione del contributo da inviare al governo. A sorpresa, però, nel giugno 2014 il Governo ha inviato autonomamente un proprio rapporto senza attendere né avvisare le associazioni che stavano lavorando al contributo, di fatto escludendo la lettura della società civile sullo stato di applicazione delle politiche di pari opportunità attuate dal nostro Paese;
    senza alcun monitoraggio a livello politico-istituzionale, si segnala inoltre che con la cosiddetta legge di stabilità 2014 i compensi a carico dello Stato per i difensori sono stati ridotti di un terzo: anche questa riduzione, passata in silenzio, avrà ripercussioni su tutte le donne vittime di violenza sessuale, maltrattamenti e stalking che hanno diritto ad accedere al gratuito patrocinio, a prescindere dal reddito, e non sono stati ancora erogati i fondi destinati alla copertura integrale dell'attività difensiva prestata;
    persiste la carenza di una formazione sistematica e specializzata in materia di violenza contro le donne degli operatori nei diversi settori: dalla magistratura alle forze dell'ordine agli operatori sanitari. In questa maniera non si favorisce un cambiamento culturale verso di stereotipi di genere e i pregiudizi che sminuiscono e giustificano le violenze e non si favorisce la diffusione di prassi a tutela delle vittime e a prevenzione della violenza;
    anche nell'ambito dell'istruzione scolastica e della formazione universitaria persiste la carenza di una formazione sistematica e specializzata sulle questioni attinenti la parità di genere. Non si può eradicare la violenza se non si eradicano gli stereotipi di genere fin dai banchi di scuola. È necessario un atto forte d'indirizzo per promuovere un'adeguata formazione del personale della scuola, un'adeguata valorizzazione della tematica nei libri di testo, un'adeguata programmazione didattica curricolare ed extracurricolare delle scuole di ogni ordine e grado atta a promuovere la sensibilizzazione, l'informazione e la formazione degli studenti al fine di prevenire la violenza nei confronti delle donne e la discriminazione di genere: è un messaggio che non può che passare attraverso la scuola che, tra le istituzioni, è quella in cui i giovani crescono, maturano e definiscono, attraverso il percorso educativo, il loro essere cittadini e membri della società civile;
    a tal fine, è necessario intervenire, nell'ambito delle indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell'infanzia e del primo ciclo di istruzione, per i licei e per gli istituti tecnici e professionali, con interventi che abbiano il fine preciso di educare le nuove generazioni al rispetto dell'altro, al rifiuto di ogni forma di violenza o discriminazione, al valore civico dell'inclusione sociale, ritenendo questa attività un sicuro investimento per il futuro, nel rispetto delle scelte educative delle famiglie. Così come avvenne con esperienze positive quali l'istituzione della «settimana nazionale contro le violenze nelle scuole», la cui prima edizione risale al protocollo d'intesa ministeriale siglato nel 2010, o come s'intervenne, nell'ambito delle università, con i percorsi formativi tematici dedicati all'educazione all'affettività o alla partecipazione delle donne alla vita attiva del Paese, come avvenne con i percorsi didattici «Donne, politica e Istituzioni», per la promozione della cultura di genere e per le pari opportunità, dedicata ad una platea di giovani che avrebbero fatto tesoro, nel successivo passaggio al mondo del lavoro, dei valori culturali e sociali appresi nei percorsi universitari;
    sul versante della partecipazione femminile, l'ultimo grande passo risale alla riforma attuata nel 2003 con la modifica dell'articolo 51 della Costituzione per il riconoscimento delle pari opportunità per uomini e donne nell'accesso alle cariche elettive nei pubblici uffici, passo storico con cui si è rafforzato il principio dell'uguaglianza sostanziale. Su tale scia è avvenuta l'approvazione della legge n. 120 del 2011, recante «Modifiche al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, concernenti la parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate in mercati regolamentati» ed il successivo regolamento;
    allo stato attuale, ci vorranno circa 30 anni per raggiungere l'obiettivo dell'Unione europea del 75 per cento di donne occupate, 70 anni affinché la parità retributiva diventi realtà e 20 anni per una pari rappresentanza nei parlamenti nazionali. È quanto emerge dalla relazione annuale della Commissione europea sulle pari opportunità negli Stati membri, pubblicata ad aprile 2014;
    manca un interlocutore istituzionale unico dedicato ad una concreta e seria azione di Governo volta a promuovere e coordinare le azioni per assicurare l'attuazione delle politiche concernenti la materia dei diritti e delle pari opportunità di genere con riferimento ai temi della salute, della ricerca, della scuola e della formazione, dell'ambiente, della famiglia, del lavoro, delle cariche elettive e della rappresentanza di genere;
    manca un interlocutore istituzionale unico dedicato ad una concreta, coordinata e seria azione di Governo volta a promuovere la cultura dei diritti e delle pari opportunità nel settore dell'informazione e della comunicazione, con particolare riferimento al diritto alla salute delle donne, alla prevenzione sanitaria, alla maternità ed alla procreazione assistita;
    manca un interlocutore istituzionale unico dedicato ad una concreta e seria azione di Governo volta a promuovere e coordinare i provvedimenti atti ad assicurare la piena attuazione delle politiche in materia di pari opportunità tra uomo e donna sul tema dell'imprenditoria e del lavoro, con particolare riferimento alle materie dei congedi parentali e della carriera, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali;
    manca un interlocutore istituzionale unico dedicato ad una concreta e seria azione di Governo volta a promuovere e coordinare le azioni in tema di diritti umani delle donne e diritti delle persone, nonché volte a prevenire e rimuovere le discriminazioni per cause direttamente o indirettamente fondate, in particolare, sul sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale;
    manca un interlocutore istituzionale unico dedicato ad una concreta e seria azione di Governo volta a promuovere e coordinare le politiche per la famiglia e le politiche governative per sostenere la conciliazione dei tempi di lavoro e dei tempi di cura della famiglia;
    manca un interlocutore istituzionale unico dedicato ad una concreta e seria azione di Governo volta ad adottare le iniziative necessarie per la programmazione, l'indirizzo, il coordinamento ed il monitoraggio dei fondi strutturali europei in materia di pari opportunità, comprese la compartecipazione al gruppo di alto livello per il gender mainstreaming nei fondi strutturali dell'Unione europea e la partecipazione all'attività di integrazione delle pari opportunità nelle politiche comunitarie;
    manca un interlocutore istituzionale unico dedicato ad una concreta e seria azione di Governo volta a promuovere la verifica dell'impatto di genere in tutte le iniziative governative, nonché l'evidenziazione del genere nei dati di bilancio delle pubbliche amministrazioni, anche non statali, e in quelli attinenti alla ricerca e alle indagini statistiche;
    manca un interlocutore istituzionale unico dedicato ad una concreta e seria azione di Governo volta a coordinare, anche in sede internazionale, le politiche relative alla tutela dei diritti umani delle donne, con particolare riferimento agli obiettivi indicati nella piattaforma di azione adottata dalla IV Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulle donne, svoltasi a Pechino nel settembre del 1995, in relazione alla povertà femminile ed alla facilitazione del loro accesso ai circuiti economici-produttivi, all'istruzione, formazione e salute delle donne, alla lotta alla violenza contro le donne, anche in riferimento e in occasione di conflitti armati, all'accesso delle donne ai mezzi di informazione ed alla tutela dell'infanzia femminile in tutte le forme;
    manca un interlocutore istituzionale unico dedicato ad una concreta e seria azione di Governo volta a promuovere e coordinare le azioni in materia di sfruttamento e tratta delle persone, di violenza contro le donne, nonché di violazione dei diritti fondamentali all'integrità della persona e alla salute delle donne e delle bambine, anche alla luce della ratifica e conseguente applicazione della Convenzione di Istanbul,

impegna il Governo

a sostenere e proporre nel più breve tempo possibile la nomina di un Ministro senza portafoglio cui affidare ampia delega relativa alle politiche delle pari opportunità.
(1-00572)
«Centemero, Bergamini, Carfagna, Prestigiacomo, Brunetta, Calabria, Castiello, Giammanco, Petrenga, Polverini».
(7 agosto 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    ogni anno dal 2006 il World Economic Forum predispone il Global gender gap report, che fornisce un quadro delle disuguaglianze di genere in 136 Paesi, stilando una graduatoria che fotografa lo stato delle disparità in ogni realtà nazionale;
    i criteri per la compilazione della graduatoria prendono in considerazione indici che si riferiscono a quattro ambiti: l'economia, la presenza nelle istituzioni, l'educazione e la salute; per ogni ambito viene compilata una graduatoria; a loro volta le quattro graduatorie costituiscono la base per un quadro di sintesi che fotografa la realtà mondiale in ordine decrescente di disparità;
    il rapporto del 2013 indica che l'Italia è al settantunesimo posto della graduatoria generale e ventiduesima tra i Paesi membri dell'Unione europea – dopo l'Italia si collocano quasi esclusivamente Paesi di recente adesione: Slovacchia, Cipro, Grecia, Repubblica Ceca, Malta e Ungheria;
    mentre la nuova composizione di Parlamento e Governo colloca l'Italia in posizione dignitosa per rappresentanza politico-istituzionale, il nostro Paese continua ad essere fanalino di coda in molti altri campi, in particolare nel mondo del lavoro e in generale dell’empowerment economico;
    significativi sono i ritardi nelle attuazioni delle politiche per prevenire e combattere la violenza contro le donne e la violenza domestica, nonostante nella XVII legislatura siano state a approvate leggi come quella contro il femminicidio o quelle di ratifica della Convenzione di Istanbul;
    anche le tematiche dei diritti civili ad oggi non hanno ricevuto l'attenzione dovuta: la legge sull'omofobia è da mesi bloccata al Senato della Repubblica; la legge sulle unioni civili non è ancora stata calendarizzata nonostante numerose siano le proposte depositate;
    con l'eccezione dell'attuale Governo, dal 1996 gli Esecutivi hanno sempre previsto nella loro composizione o il Ministro per le pari opportunità o una figura che ne avesse le deleghe;
    le esperienze di questi ultimi mesi sembrano indicare che senza un dicastero dedicato non ci possano essere l'attenzione e l'impegno necessari a portare avanti tempestivamente efficaci politiche di genere e delle pari opportunità,

impegna il Governo:

   a proporre la nomina di un Ministro senza portafoglio cui affidare la delega in materia di pari opportunità;
   in alternativa, ad individuare presso la Presidenza del Consiglio dei ministri una figura cui assegnare le stesse deleghe e che abbia anche il compito di valutare prima e verificare poi l'impatto di genere di tutti i provvedimenti assunti.
(1-00569)
«Locatelli, Di Salvo, Di Lello, Pastorelli, Di Gioia, Labriola, Nardi, Piazzoni, Migliore, Lacquaniti, Zan, Fava, Pilozzi, Lavagno, Nesi, Schirò, Capua, Formisano, Tacconi, Petrini, Malpezzi, Marzano, Ricciatti».
(4 agosto 2014)

MOZIONE CONCERNENTE INTERVENTI A FAVORE DEL MEZZOGIORNO

   La Camera,
   premesso che:
    il quadro già grave e complesso evidenziato dalla Svimez, (Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno), nell'anticipazione del rapporto 2014 sull'economia del Mezzogiorno, presentato a fine luglio 2014, si è ulteriormente aggravato in sede di presentazione del rapporto Svimez 2014 e delle proiezioni elaborate dal medesimo istituto per l'anno 2015, al punto che apertamente si parla di un «Sud a rischio desertificazione umana e industriale»;
    la riduzione del prodotto interno lordo nel 2014, quantificata dal Governo in -0,4 per cento, è la risultante tra la stazionarietà del Centro-Nord (0 per cento) e la flessione del Sud (-1,5 per cento); il quadro risulta ancora più divergente nel 2015: il prodotto interno lordo nazionale secondo le stime Svimez è previsto a +0,8 per cento, quale risultato tra il positivo +1,3 per cento del Centro-Nord e il negativo -0,7 per cento del Sud;
    a livello regionale, nel 2013, il calo del prodotto interno lordo è compreso tra il -1,8 per cento dell'Abruzzo e il -6,1 per cento della Basilicata, fanalino di coda nazionale, che ha così registrato un segno negativo per la crisi dell`industria meccanica e dei mezzi di trasporto. In posizione intermedia la Campania (-2,1 per cento), la Sicilia (-2,7 per cento), il Molise (-3,2 per cento). Giù anche Sardegna (-4,4 per cento), Calabria (-5 per cento) e Puglia (-5,6 per cento). Tra il 2008 e il 2013 difficoltà, soprattutto in Basilicata e Molise, che segnano cali cumulati superiori al 16 per cento, accanto alla Puglia (-14,3 per cento), la Sicilia (-14,6 per cento) e la Calabria (-13,3 per cento). Ha perso oltre il 13 per cento di prodotto anche la Sardegna, mentre cali superiori al 12 per cento si registrano in Campania, Marche e Umbria;
    dal 2008 al 2013 il settore manifatturiero al Sud ha perso il 27 per cento del proprio prodotto e ha più che dimezzato gli investimenti (-53 per cento). Nello stesso periodo al Centro-Nord il manifatturiero ha perso circa il 16 per cento del proprio prodotto e oltre il 24 per cento degli investimenti;
    i consumi delle famiglie meridionali sono ancora scesi, arrivando a ridursi nel 2013 del 2,4 per cento, a fronte del -2 per cento delle regioni del Centro-Nord. Dal 2008 al 2013 la caduta cumulata dei consumi delle famiglie ha sfiorato nel Sud i 13 punti percentuali (-12,7 per cento), risultando di oltre due volte maggiore di quella registrata nel resto del Paese (-5,7 per cento);
    tra il 2008 ed il 2013 delle 985mila persone che in Italia hanno perso il posto di lavoro, ben 583 mila sono residenti nel Mezzogiorno. Nel Sud, pur essendo presente appena il 26 per cento degli occupati italiani si concentra il 60 per cento delle perdite determinate dalla crisi. Nel solo 2013 in Italia sono andati persi 478 mila posti di lavoro, di cui 282 mila al Sud. La nuova flessione riporta il numero degli occupati del Sud per la prima volta nella storia a 5,8 milioni, sotto la soglia psicologica dei 6 milioni, il livello più basso dal 1977, anno da cui è possibile disporre della serie storica dei dati;
    tra il 2008 ed il 2013 si registra al Sud una caduta dell'occupazione del 9 per cento, a fronte del -2,4 per cento del Centro-Nord. Negli anni Settanta il tasso di occupazione al Sud era del 49 per cento; nel 2013 è sceso al 42 per cento; al Centro-Nord invece si è passati dal 56 per cento degli anni Settanta al 63 per cento del 2013; Sud e Centro-Nord sono lontani dal target del 75 per cento di Europa 2020, ma per il Meridione l'obiettivo si allontana e continua ad allontanarsi. In calo soprattutto l'occupazione giovanile: al Sud nel 2013 fra gli under 34 flette del 12 per cento, contro il -6,9 per cento del Centro-Nord;
    al Sud appena il 21,6 per cento (1 su cinque) delle donne sotto i 34 anni ha un lavoro contro il 43 per cento del Centro-Nord ed una media nazionale del 34,7 per cento; il confronto con la media dell'Unione europea è impietoso: nell'Europa a 27 le donne sotto i 34 anni che lavorano sono il 50,9 per cento. Considerando tutte le classi di età, l'occupazione femminile meridionale si ferma al 33 per cento; al Centro-Nord la percentuale di donne che lavorano non è lontana dalla media europea (59,2 per cento rispetto al 62,6 per cento dell'Unione europea). Anche la nuova occupazione che si crea per le donne perde di qualità: dal 2008 al 2013 le professioni qualificate femminili sono scese dell`11,7 per cento, mentre sono aumentati del 15 per cento i posti di lavoro nelle professioni poco qualificate. Indicativo anche il dato sul part-time: le donne che lo scelgono, circa il 30 per cento del totale in Italia, non lo fa per scelta: al Sud addirittura il 75 per cento dei part-time femminili è involontario;
    i consumi delle famiglie meridionali sono ancora scesi, arrivando a ridursi nel 2013 del 2,4 per cento, a fronte del -2 per cento delle regioni del Centro-Nord. Dal 2008 al 2013 la caduta cumulata dei consumi delle famiglie ha sfiorato nel Sud i 13 punti percentuali (-12,7 per cento), risultando di oltre due volte maggiore di quella registrata nel resto del Paese (-5,7 per cento);
    al di là delle aride cifre riferite a prodotto interno lordo, produzione e occupazione, la questione che riveste assoluta gravità è quella sociale: nel 2007 la povertà assoluta interessava il 4,1 per cento delle famiglie italiane (3,3 per cento al Centro-Nord e 5,8 per cento al Sud), mentre a fine 2013 si è arrivati al 7,9 per cento a livello nazionale, con il 5,8 per cento di nuclei familiari in povertà assoluta al Centro-Nord e il 12,6 per cento al Sud; in termini assoluti, nel periodo 2007-2013 al Sud le famiglie assolutamente povere sono cresciute oltre due volte e mezzo, da 443 mila a 1 milione 14 mila, con un incremento del 40 per cento solo nell'ultimo anno della serie. Nel 2012 il 9,5 per cento delle famiglie meridionali guadagna meno di mille euro al mese, mentre per il Centro-Nord tale dato si attesta al 3,8 per cento; si tratta, in particolare, del 9,2 per cento delle famiglie lucane, del 9,3 per cento delle calabresi, del 10,9 per cento delle molisane e del 14,1 per cento di quelle siciliane;
    secondo stime Svimez, anche nel 2013, come nel 2012, nel Meridione i decessi hanno superato le nascite: un risultato negativo che si era verificato solo nel 1867 e nel 1918. Proseguendo questo trend, il Sud avrebbe una perdita di 4,2 milioni di abitanti nei prossimi 50 anni, arrivando così ad una consistenza del 27 per cento sul totale nazionale a fronte dell'attuale 34,3 per cento; la situazione è aggravata dall'emigrazione: negli ultimi venti anni sono emigrati dal Sud al Centro-Nord circa 2,3 milioni di persone. Nel 2013 secondo Svimez si sono trasferiti dal Mezzogiorno al Centro-Nord circa 116 mila abitanti; altro elemento da valutare è che anche gli stranieri rifuggono dal Sud: a dicembre 2013 i residenti stranieri nel nostro Paese sono circa 5 milioni, di cui solo 717 mila al Sud e 4 milioni e 200mila nel Centro-Nord;
    i giovani meridionali si trovano di fronte ad una drammatica realtà sociale e culturale: secondo una recente ricerca l'80 per cento dei giovani meridionali maschi sotto i 30 anni vive ancora in casa con i propri genitori, mentre oltre tre quinti delle giovani del Sud intravedono per sé un futuro di casalinga: una situazione simile a quella dei primi anni del dopo guerra. Le abitazioni non mancano: mancano le risorse per potersi stabilire;
    annualmente il Sole 24 Ore pubblica un'indagine sulla qualità della vita condotta nelle 107 città italiane capoluogo di provincia. L'indagine è piuttosto approfondita e complessa e si basa su 36 parametri, raggruppati in sei macro-aree (tenore di vita, affari e lavoro, servizi ambiente e salute, popolazione, ordine pubblico e tempo libero), fino alla compilazione di una classifica generale. Anche per il 2014 il Sud continua a essere fanalino di coda della classifica e Napoli in particolare si conferma la città dove si vive peggio, mentre Palermo è la penultima; a salire si trovano: Reggio Calabria; Taranto; Caserta; Vibo Valentia; Catania; Caltanissetta, Foggia, Trapani, Bari, Agrigento e Cosenza; la prima città non meridionale è Frosinone all'87esimo posto;
    in termini di ricchezza prodotta la città che ne produce di meno è Crotone (12.930 euro; Milano 37.642 euro), seguita da Agrigento, Enna e Caserta; la prima città non meridionale è Isernia al 78esimo posto;
    in termini di propensione al risparmio la provincia peggiore è Carbonia-Iglesias (7.903 euro, Trieste 43.228 euro), seguita da Crotone, Trapani e Siracusa; la prima città non meridionale è Rieti all'82esimo posto;
    in termini di assegno pensionistico medio la città in cui la media è più bassa è Catanzaro (485 euro, Milano 1.100 euro), seguita da Agrigento, Campobasso, Benevento ed Enna;
    in termini di ambiente favorevole agli affari e al lavoro, la città meno attraente è Reggio Calabria, seguita da Caltanissetta, Caserta, Napoli e Cosenza;
    in termini di servizi, ambiente e salute, la città nelle peggiori condizioni è Crotone, seguita da Vibo Valentia, Foggia, Caltanissetta e Agrigento;
    le risorse inizialmente programmate nel quadro strategico nazionale 2007-2013 ammontavano originariamente a oltre 60 miliardi di euro, di cui circa 28,8 miliardi di euro di fondi strutturali provenienti dall'Unione europea e circa 31,6 miliardi di euro di risorse di cofinanziamento nazionale (iscritti sul fondo di rotazione per l'attuazione delle politiche comunitarie previsto dalla legge n. 183 del 1987); la gran parte di tali risorse, 43,6 miliardi di euro (all'incirca il 75 per cento del totale), risultava destinata all'obiettivo «convergenza», che interessa le regioni Calabria, Campania, Puglia, Sicilia e Basilicata;
    a seguito del Piano di azione per la coesione, l'ammontare complessivo delle risorse destinate ai programmi operativi (quota comunitaria più cofinanziamento nazionale) si è ridotto da 60,1 miliardi di euro (28,5 miliardi di euro di fondi comunitari e 31,6 miliardi di euro di cofinanziamento) a circa 48,5 miliardi di euro. Sulla base delle informazioni disponibili (fornite dalla Ragioneria generale dello Stato), alla data del 30 giugno 2014 le risorse ancora da spendere entro il 31 dicembre 2015 (termine ultimo per effettuare pagamenti) ammontano a circa 20 miliardi di euro, la maggior parte dei quali (15 miliardi di euro) nell'area dell'obiettivo «convergenza»;
    secondo le indicazioni offerte dal Governo nei primi giorni del mese di ottobre 2014, la programmazione 2014-2020 potrà contare su 32 miliardi di euro di fondi strutturali europei, cui ne andrebbero aggiunti altrettanti di cofinanziamenti nazionali (24 miliardi di euro a carico dello Stato, il resto a carico delle regioni). È stata avanzata anche la proposta di ridurre, nelle regioni «convergenza», la quota di cofinanziamento regionale e sono state indicate tre priorità per questo nuovo programma: competitività delle imprese, occupazione e istruzione/formazione. Nel decreto-legge «sblocca Italia» (n. 133 del 2014) si affidano nuove funzioni al Presidente del Consiglio dei ministri al fine di accelerare l'impiego delle risorse comunitarie nelle regioni «convergenza»; il Presidente del Consiglio dei ministri avrà la facoltà di proporre al Cipe il definanziamento e la riprogrammazione delle risorse non impegnate;
    ma, a seguito della presentazione della legge di stabilità 2015, è intervenuto un richiamo comunitario che ha richiesto un ulteriore aggiustamento di bilancio; il Governo ha pertanto provveduto riducendo, tra l'altro, di 500 milioni di euro la quota delle risorse nazionali dai fondi di cofinanziamento di coesione dell'Unione europea; inoltre l'articolo 12 della legge di stabilità per finanziare gli sgravi contributivi per assunzioni a tempo indeterminato ha ridotto di un miliardo di euro per ciascuno degli anni 2015, 2016 e 2017 e a 500 milioni di euro per l'anno 2018 le risorse del fondo di rotazione di cui all'articolo 5 della legge 16 aprile 1987, n. 183, già destinate agli interventi del Piano di azione per la coesione;
    se è vero che i dati di per sé risultano aridi e che, comunque, vanno integrati, si può convenire che dagli elementi presentati emerge una realtà drammatica e fortemente preoccupante per l'intero Mezzogiorno d'Italia;
    una parte fondamentale del Paese ha nella storia, nella cultura, nell'economia un bacino di potenzialità a sua disposizione e gli strumenti per crescere svilupparsi, integrare e sostenere con vigore lo sforzo dell'esecutivo per risanare e rilanciare il Paese;
    il quadro macroeconomico che emerge dalle considerazioni effettuate suscita timori sotto diversi profili. Ma ciò che risalta soprattutto è l'allarmante crisi sociale che impedisce il formarsi di nuove famiglie, la crescita delle famiglie esistenti e la stessa natalità. Una preoccupazione forte che ha sollecitato il Ministro della salute a dar vita al piano nazionale per la fertilità, nel quale sono coinvolti esperti di natalità, pediatri, sociologi, esperti di economia sanitaria ed altri. Un'operazione questa che, se risulta indubbiamente utile al Paese intero, lo è ancor di più per il Sud che, nelle condizioni attuali, non è di sicuro sostenuto e assecondato sul piano della crescita demografica: una questione, quest'ultima, che è strettamente collegata ora e di più lo sarà nel futuro al tema della sostenibilità del sistema sanitario e previdenziale,

impegna il Governo:

   ad adottare ogni iniziativa, anche attraverso ulteriori interventi normativi, volta ad attribuire adeguate quote di cofinanziamento e comunque adeguate risorse comunitarie e nazionali alle regioni meridionali ed individuando la sede idonea in cui Governo, regioni ed i competenti organi parlamentari, a seguito di un naturale, approfondito confronto, siano in grado di definire un insieme coordinato di opere strategiche di importanza prioritaria, la cui realizzazione favorisca la crescita economica complessiva delle regioni meridionali;
   ad assicurare, attraverso una specifica programmazione infrastrutturale, forti politiche di investimento da parte dello Stato a favore delle regioni meridionali ed impegnandosi, altresì, a riconsiderare le regole del patto di stabilità per gli enti territoriali;
   a perseguire con decisione, in sede di Unione europea e quale obiettivo del semestre di Presidenza italiana, l'obiettivo della riduzione delle quote di partecipazione nazionale ed in particolare regionale, con specifico riferimento alle regioni meridionali, da erogare a titolo di concorso al cofinanziamento del Fondo europeo per lo sviluppo regionale e del Fondo sociale europeo;
   con riferimento alla programmazione 2014-2020, a prevedere l'utilizzo di parte significativa delle risorse del Fondo sociale europeo per realizzare politiche attive di lavoro e inserimento professionale nei confronti dei giovani disoccupati meridionali;
    ad avviare politiche a sostegno della natalità e della genitorialità, con particolare riferimento alle zone socialmente ed economicamente più disagiate;
   ad assicurare tempestiva e rigida applicazione dei poteri sostitutivi del Governo in materia di utilizzo delle risorse comunitarie, previsti dall'articolo 9 del decreto-legge n. 69 del 2013, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 98 del 2013, e dall'articolo 12 del decreto-legge n. 133 del 2014 in caso di ritardo delle regioni nelle assegnazioni ed erogazioni;
   ad adoperarsi al fine di consentire all'Agenzia per la coesione territoriale di operare da subito e con poteri rafforzati negli ambiti di sua competenza.
(1-00653)
«De Girolamo, Pagano, Garofalo, Calabrò, Dorina Bianchi, Pizzolante, Bosco, Minardo, Misuraca, Scopelliti, Cicchitto, Alli, Bernardo, Piccone, Piso, Roccella, Saltamartini, Sammarco, Tancredi, Vignali».
(31 ottobre 2014)