TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 311 di Giovedì 16 ottobre 2014

 
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MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE PER IL RILANCIO ECONOMICO E OCCUPAZIONALE DEL MEZZOGIORNO, CON PARTICOLARE ATTENZIONE ALLA SITUAZIONE DELLA CAMPANIA

   La Camera,
   premesso che:
    i dati emersi dall'ultima rilevazione del primo trimestre 2014 di Unioncamere Campania segnalano il rafforzarsi di una tendenza pesantemente negativa. Tra cessazioni di imprese, procedure fallimentari e aziende avviate alla liquidazione il saldo è di nuovo fortemente negativo nell'immediato ma con una pesante tendenziale conferma. Dati impressionanti che portano al 28 per cento (4 per cento in più della media nazionale) le procedure fallimentari e un aumento di oltre il 50 per cento di aziende in procedura di liquidazione e/o di scioglimento. Il dato ancor più negativo che colpisce è la tendenza fortemente incrementata di cessazione di attività nelle società di persone e i fallimenti nelle società di capitale;
    analogo indicatore giunge dalla relazione sull'economia campana per il 2013 realizzata da Banca d'Italia. Indicatori che confermano una tendenza all'accentuarsi dei profili di negatività delle dinamiche occupazionali ed economiche in Campania. La relazione di Banca d'Italia consente di cogliere in profondità gli elementi di regressività ormai strutturalmente indotti nel sistema economico campano e i riflessi sulle condizioni di povertà di larghissimi strati della popolazione;
    caratteristiche più puntuali sul tema dell'occupazione ovvero della disoccupazione strutturale, in netto e tendenziale aumento, pervengono dalla relazione Istat relativa al primo trimestre del 2014. Il tasso di disoccupazione sale dal 22,2 per cento del primo trimestre 2013 al 23,5 per cento del primo trimestre 2014;
    gli indicatori economici della Campania si rivelano essere drammatici;
    a questa tendenza si associano i dati sulla dinamica occupazionale, sulla cessazione dei rapporti di lavoro e sul costante aumento del livello di disoccupazione. Un tasso di occupazione stimato al 40 per cento che fa della Campania la regione al livello più basso ed inferiore di 17 punti della media nazionale;
    non servirà certo ad invertire questa tendenza consolidata il programma Youth Guarantee, che, presentato anche in Campania dall'attuale assessore regionale al lavoro, rischia di diventare, per come è stato costruito e per come sono orientate le modalità di spesa, non un'occasione di rilancio per le politiche pubbliche per il lavoro, ma un'occasione per imprese e agenzie private, che riceveranno gran parte dei finanziamenti. Il rischio reale è che sia, soprattutto in Campania e nel Mezzogiorno, un meccanismo per finanziare le agenzie private, in crisi per la caduta della domanda, piuttosto che uno strumento di orientamento e per favorire il reddito e l'occupazione dei disoccupati, in questo caso giovani;
    l'insieme di questi profili negativi porta la regione Campania a caratterizzarsi, nella vicenda economica e sociale del Paese, al punto più basso della sua storia produttiva, economica e sociale;
    eppure la Campania – e con essa l'attuale Governo regionale ormai prossimo alla scadenza naturale – possedeva tutte le condizioni per affrontare le dinamiche della crisi economica e soprattutto evitare un declino che appare oggi difficilmente recuperabile;
    come già aveva rilevato la Banca d'Italia nel suo rapporto congiunturale sulla Campania del 2013 «nuove opere previste dal Piano di azione per la coesione e un più rapido avanzamento nell'utilizzo dei fondi dell'Unione europea, concentrati in misura significativa nella realizzazione di grandi progetti infrastrutturali, potrebbero contrastare il calo degli investimenti pubblici»;
    la regione Campania nel marzo 2010, con il ricambio alla guida di Palazzo Santa Lucia da parte dell'attuale presidente, Stefano Caldoro, disponeva di una dotazione finanziaria enorme, di varia provenienza;
    non era stato approvato, per scelte politiche dell'allora maggioranza di Governo e del Ministro dell'economia e delle finanze pro tempore Tremonti, dal Cipe nell'anno precedente il programma attuativo regionale dei vecchi fondi Fas, oggi Fondo per lo sviluppo e la coesione, con una dotazione finanziaria di circa 4,3 miliardi di euro. Una dotazione finanziaria, quindi, pressoché intatta, se si esclude l'allora previsione, contenuta nel decreto-legge relativo alla chiusura dell'emergenza rifiuti, di coprire, per 350 milioni di euro, i costi di realizzazione dell'impianto di Acerra. Erogazione poi avvenuta direttamente da parte del Ministero dello sviluppo economico a valere su queste risorse;
    la dotazione finanziaria complessiva (Fondo europeo di sviluppo regionale, Fondo sociale europeo e Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale) della programmazione 2007-2013, per l'insieme dei programmi, si attestava in circa 10 miliardi di euro, comprensiva del cofinanziamento e si trovava di fatto solo allo stadio iniziale, in buona parte programmata ed impegnata su attività e progetti per la gran parte condivisa con gli attori locali. Tra di essa trovava spicco la dotazione infrastrutturale sui trasporti e alcuni programmi come il «Più Europa» e il programma per la città di Napoli;
    vi era ancora una dotazione finanziaria cospicua risalente alla programmazione 2000-2006 e fatta di risorse cosiddette liberate per l'utilizzo nell'ambito di quella programmazione dei cosiddetti progetti coerenti su cui erano finanziati, in parte, lavori che non si erano conclusi al 30 giugno 2009, data di conclusione della certificazione del programma 2000-2006;
    si tratta di una regione che veniva certamente da una fase estremamente difficile, passata attraverso la gravissima situazione dei rifiuti;
    la scelta compiuta nel 2010, con le norme contenute nel decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, per affrontare le procedure conseguenti allo sforamento del patto di stabilità del 2009, di fatto, hanno reso impraticabile qualsiasi utilizzo delle risorse disponibili come strumento anticiclico nella gravissima situazione economica che stava raggiungendo il suo culmine. Una scelta, quella imposta dalle norme ed applicata rigidamente dal governo regionale, che ha prodotto un disastro nell'intero territorio regionale. Sono stati bloccati, di fatto, tutti i cantieri avviati negli anni precedenti, impianti di depurazione, reti fognarie, reti ferroviarie e reti stradali, opere pubbliche dei comuni e l'intero programma dei fondi europei. Investimenti di grande impatto e si citano a titolo di esempio il blocco della commessa per la realizzazione di nuovi treni in appalto alla Firema o la costruzione nella penisola sorrentina di un modernissimo impianto di depurazione. Nello stesso tempo nuovi investimenti, come quelli che importanti gruppi industriali pensavano di realizzare, come i gruppi Ferrarelle e Doria, a cui la precedente amministrazione regionale aveva approvato, con lo strumento del contratto di programma regionale, le proposte presentate, venivano bloccati per poi essere riavviati solo nell'ultimo anno;
    è la stessa Banca d'Italia nella sua ultima relazione che coglie questo aspetto e ne segnala le conseguenze: «Un più tempestivo utilizzo delle disponibilità finanziarie provenienti dai fondi strutturali dell'Unione europea avrebbe potuto attenuare gli effetti del calo della domanda interna. Il rispetto degli ambiziosi obiettivi di potenziamento della competitività dell'economia regionale, programmati all'avvio del ciclo 2007-2013, ne avrebbe oggi rafforzato le prospettive di ripresa»; del resto, l'evidenza del blocco assoluto delle risorse europee a partire dal 2010 la si ritrova nella contrazione del prodotto interno lordo regionale che, proprio in questi anni, assume un dato che tracima, pari al 5 per cento superiore alla media nazionale;
    per non citare l'assoluta assenza di peso politico ed amministrativo in vicende come quelle che in questi anni hanno coinvolto le realtà d'impresa collegate al gruppo Finmeccanica, oltre che le polemiche nei confronti di aziende come Ansaldo, per ritardi sui lavori in corso e/o su problemi manutentivi del materiale rotabile consegnato nell'area napoletana, come puro elemento di discolpa per il dramma in cui è stato fatto precipitare l'intero sistema dei trasporti regionale. Una così pesante dinamica negativa nel settore del trasporto pubblico che diventa un ulteriore elemento aggiuntivo per i cittadini per gli elevati costi connessi all'utilizzo dei mezzi di trasporto in questa regione (mediamente il 3 per cento in più della media nazionale). Nel 2013 sono, inoltre, peggiorati i giudizi sul servizio di trasporto pubblico locale. In Campania, la quota di popolazione che ha utilizzato i trasporti pubblici locali è diminuita rispetto all'anno precedente per tutte le tipologie di mezzo: autobus (-1,7 per cento), pullman extraurbano (-2,9 per cento), treno (-1,9 per cento);
    con la sostanziale soppressione della bigliettazione integrata e il ritorno a quella di azienda, è venuta meno l'idea e la possibilità che l'integrazione tra le aziende fosse un elemento che consentiva ai cittadini e utenti di disporre di un servizio collettivo ed unitario;
    del resto, è lo stesso meccanismo che recentemente la giunta regionale ha approvato, deliberando di indire procedure di gara per l'affidamento dei servizi di trasporto, su gomma, su ferro e su mare, procedendo ad uno spacchettamento dell'offerta. Una proposta inaccettabile, che collide con ogni idea di integrazione e di riduzione delle strutture societarie ed in assoluta controtendenza con ogni ipotesi di riorganizzazione del sistema del trasporto pubblico che è in corso di realizzazione nel Paese. Si tratta di una proposta priva, inoltre, di ogni meccanismo di salvaguardia per i lavoratori e con una dotazione finanziaria assolutamente insufficiente;
    il blocco ha operato, di fatto, su lavori e sugli investimenti in corso di realizzazione, con impegni giuridicamente vincolanti assunti prevalentemente o dalla precedente amministrazione regionale e/o da una duplicità di soggetti attuatori (enti locali, Asi, strutture straordinarie di Governo ed altri). La conseguenza ulteriore è che questa decisione ha alimentato un contenzioso amministrativo e giuridico tra istituzioni e con le imprese. I costi legali che si sopporteranno per la ripresa di queste attività, come è già evidente nel settore dei trasporti, rischiano di superare, in molte occasioni, il valore degli investimenti che dovevano essere realizzati;
    nel corso di questi anni, il blocco totale degli investimenti pubblici in conto capitale ha intensificato un processo di deindustrializzazione, già presente in Campania, né è possibile ipotizzare che la politica industriale sia sinonimo di privatizzazioni, in un quadro in cui da oltre 15 anni non c’è nessuna politica industriale e pubblica che riguardi il nostro Paese, senza contare che con la crisi economica si è ulteriormente accentuato il divario tra l'industria campana e il resto del Paese. Il valore aggiunto industriale (dati Istat) è diminuito del 20 per cento, il doppio della media nazionale che è del 10,8 per cento;
    è praticamente scomparso tutto il settore degli appalti ferroviari, presenza industriale significativa a livello regionale, che invece, a ridosso degli investimenti attivati nel decennio precedente, era riuscita a tenere un suo livello di occupazione e di attività produttiva; così come, per l'assenza di politiche nazionali e regionali di sostegno, lo stesso settore del termalismo vive serie e profonde difficoltà;
    come segnala anche l'ultimo rapporto della Banca d'Italia sulla Campania, tra le realtà produttive che nel 2007 contavano almeno mille addetti, sono praticamente nulli i segnali di ripresa del settore automotive e cantieristica (che ha perduto oltre il 70 per cento dell’export). Sono crollate tutte le attività di produzione non metallifere, conseguenti al crollo dell'edilizia e nell'area della provincia di Caserta è praticamente scomparsa quasi interamente l'industria di produzione elettronica;
    paradossale, se non drammatica, appare invece tutta la vicenda collegata al porto di Napoli e alle attività collegate a questo settore. Mentre prosegue la perdita di peso commerciale delle realtà portuali campane e la costante perdita di flussi di viaggiatori, le vicende collegate alla decisione di destinare attraverso lo strumento del grande progetto risorse europee per l'adeguamento dello stesso sono inesorabilmente bloccate. Come bloccata è tutta la struttura di governo dell'autorità portuale, commissariata. Come bloccata è rimasta la stessa necessità di realizzare nell'area di Castellammare il nuovo bacino per Fincantieri. Occorre una vera politica di sostegno alla cantieristica, cosa che altre amministrazioni regionali praticano costantemente, e non sporadici spot;
    in questo quadro i segnali positivi che vengono o dall'agroalimentare (produzioni casearie, ortofrutticole e cerealicole), da preservare ed incrementare come filiera a partire dalla valorizzazione e diffusione della cultura e delle pratiche gastro-economiche connesse alla «dieta mediterranea», o dall'abbigliamento, soprattutto quello di alta gamma, incidono poco dato il numero non elevato di addetti sul totale della regione. Mentre fa storia a sé il settore aerospaziale (Alenia in particolare), sul quale pesano le scelte del gruppo dirigente uscente di Finmeccanica e di quello costretto ad uscire a seguito di inchieste giudiziarie. Scelte segnate, in Campania come in altre parti del Paese, dall'indebolimento progressivo delle componenti industriali nel settore ferroviario;
    perfino quando con l'intervento del Ministro per la coesione territoriale pro tempore, Fabrizio Barca, nel 2012 venivano resi liberi spazi finanziari consistenti fuori al patto di stabilità e si ridefinivano e riprogrammavano le risorse europee e si riallocavano le risorse ex Fas nel Fondo per lo sviluppo e la coesione, quelle somme non sono poi state concretamente erogate ed immesse nel circuito economico regionale. Vi è un dato che segnala ulteriormente questa incapacità ed è rilevabile dall'allegato al recentissimo Documento di economia e finanza del Governo Renzi sugli interventi nelle aree sottoutilizzate. La Campania raggiunge appena l'1,22 per cento di attuazione della programmazione;
    si tratta di una regione che si è caratterizzata per un livello di inefficienza clamorosa. Basti pensare a come si è operato sul versante rifiuti. Al presidente della regione Campania, con il decreto-legge n. 196 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 277 del 2010, sono stati conferiti i poteri per nominare commissari per realizzare discariche, impianti di compostaggio e termovalorizzatori. Sono stati nominati circa 15 commissari. In quasi quattro anni non solo non è stato avviato un lavoro, ma, tranne in un caso, non sono state neanche aggiudicate o bandite gare e individuate aree. Si è solo prodotto un conflitto insanabile con le popolazioni e le comunità locali su annunci di possibili interventi;
    la Campania, le amministrazioni locali ed i cittadini hanno visto cumularsi agli effetti della crisi economica internazionale – con un governo regionale, detentore delle leve finanziarie pubbliche, travolto da inconsistenza ed incapacità amministrativa – faide intestine al ceto politico di centrodestra ed una vergognosa assemblea elettiva coinvolta in decine di provvedimenti giudiziari,

impegna il Governo:

   a intraprendere le opportune iniziative affinché il Dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica verifichi ed esegua con continuità il monitoraggio dei programmi di attuazione e spesa della programmazione 2007-2013 della regione Campania, per evitare, nelle more dell'effettiva funzionalità dell'Agenzia per la coesione territoriale, qualsiasi possibilità di disimpegno delle risorse già assegnate;
   ad assicurare che l'istituita Agenzia per la coesione territoriale, per la programmazione 2014-2020, operi, anche con le nuove risorse umane assegnate dalle disposizioni di legge, al di fuori di ogni forma di condizionamento e nell'autonomia operativa necessaria ad assumere le funzioni previste, stabilendo che l'intero costo della tecno-struttura che i contribuenti pagano sia legato al valore che essa produce, stimabile attraverso la definizione di un sistema di indicatori che consenta di rendere realmente misurabili i risultati, al fine di evitare ulteriore spreco di danaro pubblico;
   ad assumere iniziative per predisporre un apposito documento di programmazione e finanza sul Mezzogiorno e sulla Campania che, alla luce della nuova programmazione 2014-2020 dei fondi strutturali e della programmazione 2014-2020 del Fondo per lo sviluppo e la coesione e di quanto delineato con la legge di stabilità per il 2014, dia unitarietà e coerenza a nuove politiche di sviluppo e di lavoro;
   a predisporre, nel citato documento di programmazione e finanza sul Mezzogiorno, le linee guida di salvaguardia dell'apparato produttivo ancora esistente e una nuova politica industriale nel Mezzogiorno e in Campania su cui orientare risorse ed investimenti per il prossimo decennio;
   a definire negli strumenti della programmazione 2014-2020 l'utilizzo di parte delle risorse del Fondo sociale europeo per realizzare politiche attive di lavoro e inserimento professionale nei confronti dei giovani disoccupati meridionali nei campi del turismo sostenibile, dei beni culturali e della fruizione degli stessi, dell'innovazione tecnologica e dei servizi sociali, che devono essere volti ad incrementare e ammodernare i sistemi di welfare nel rispetto della cittadinanza di genere, escludendo meccanismi di intermediazione formativa;
   a riservare in ogni caso alla regione Campania parte della dotazione disponibile nella programmazione 2014-2020 sia dei fondi strutturali che del Fondo per lo sviluppo e la coesione per le politiche per il riassetto ambientale, alla luce dell'eventuale emergenza connessa al cosiddetto rischio Vesuvio ed alle conseguenze prevedibili non soltanto sul versante della protezione civile.
(1-00537)
«Scotto, Giancarlo Giordano, Ferrara, Fratoianni, Bossa».
(11 luglio 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    come rilevato a più riprese anche da parte dei più alti vertici istituzionali, tra le incompiutezze dell'unificazione perpetuatesi fino ai nostri giorni è il divario tra Nord e Sud e dunque la condizione del Mezzogiorno, che si colloca al centro delle preoccupazioni e responsabilità nazionali. Rispetto a questa questione, che tarda a ricevere risposte adeguate, pesa certamente l'esperienza dei tentativi e degli sforzi portati avanti a più riprese nei decenni dell'Italia repubblicana e rimasti senza risultati risolutivi, ma pesa anche l'oscurarsi della consapevolezza delle potenzialità che il Mezzogiorno offre per un nuovo sviluppo complessivo del Paese e che sarebbe fatale per tutti non saper valorizzare;
    purtroppo il Mezzogiorno, a pochi mesi dalla fine del 2014, è ancora il cuore del problema per la soluzione della «questione Italia»;
    nelle anticipazioni del rapporto 2014 sull'economia del Mezzogiorno, presentato a luglio 2014 alla Camera dei deputati, la Svimez, Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno, disegna ancora una volta un Paese diviso e diseguale, dove il Sud scivola sempre più nell'arretratezza;
    nel 2013, infatti, il divario di prodotto interno lordo pro capite è tornato ai livelli di dieci anni fa: 16.888 euro nel 2013 contro i 16.511 del 2005. Ciò è da attribuire non tanto ai livelli di produttività dell'area, che nel periodo di crisi 2008-2013 mostrano una sostanziale stazionarietà, quanto ad una preoccupante diminuzione del tasso lordo di occupazione. Negli anni di crisi 2008-2013 i consumi delle famiglie sono crollati quasi del 13 per cento, gli investimenti nell'industria addirittura del 53 per cento, i tassi di iscrizione all'università tornano ai primi anni 2.000 e per la prima volta il numero di occupati ha sfondato al ribasso la soglia dei 6 milioni, il livello più basso dal 1977. Nel Mezzogiorno si continua a emigrare, non fare figli e impoverirsi: in cinque anni le famiglie assolutamente povere sono aumentate di due volte e mezzo, da 443 mila a 1 milione e 14 mila nuclei;
    in base alle valutazioni Svimez, nel 2013 il prodotto interno lordo è crollato nel Mezzogiorno del 3,5 per cento, approfondendo la flessione del 2015 (-3,2 per cento), con un calo superiore di quasi due punti percentuali rispetto al Centro-Nord (-1,4 per cento). Si tratta del sesto anno consecutivo in cui il prodotto interno lordo del Mezzogiorno registra segno negativo. Il peggior andamento del prodotto interno lordo meridionale è dovuto, soprattutto, ad una più sfavorevole dinamica della domanda interna, sia per i consumi che per gli investimenti;
    a livello regionale nel 2013 si è registrato un segno negativo per tutte le regioni italiane, a eccezione del Trentino-Alto Adige (+1,3 per cento) e della stazionaria Toscana (0 per cento). Anche le regioni del Centro-Nord sono tornate a segnare cali significativi, come l'Emilia-Romagna (-1,5 per cento), il Piemonte (-2,6 per cento), il Veneto (-3,6 per cento), fino alla Valle d'Aosta (-4,4 per cento). Nel Mezzogiorno la forbice resta compresa tra il -1,8 per cento dell'Abruzzo e il -6,1 per cento della Basilicata, fanalino di coda azionale. In posizione intermedia la Campania (-2,1 per cento), la Sicilia (-2,7 per cento), il Molise (-3,2 per cento). Giù anche Sardegna (-4,4 per cento), Calabria (-5 per cento) e Puglia (-5,6 per cento). Guardando agli anni della crisi, dal 2008 al 2013, profonde difficoltà restano soprattutto in Basilicata e Molise, che segnano cali cumulati superiori al 16 per cento, accanto alla Puglia (-14,3 per cento), la Sicilia (-14,6 per cento) e la Calabria (-13,3 per cento). Il divario tra la regione più ricca e la più povera è stato nel 2013 pari a 18.453 euro: in altri termini, un valdostano ha prodotto nel 2013 oltre 18 mila euro in più di un calabrese;
    il rapporto 2014 Svimez, commentando i dati negativi anche del Centro-Nord, ritiene che «sicuramente non è in crisi per colpa del Sud ma rischia di non uscirne finché non si affronta e non si risolve il problema del Mezzogiorno, in quanto una domanda meridionale così depressa ha inevitabili effetti negativi sull'economia delle regioni centrali e settentrionali»;
    le due aree del Paese sono strettamente connesse; del resto, è ampiamente testimoniato dagli andamenti demografici, il Centro-Nord continua ad attrarre significativi flussi di popolazione che si spostano dalle regioni meridionali. I dati del 2013 confermano la grave crisi demografica del Sud; nel 2013 la popolazione meridionale è calata di circa 20 mila unità a causa della ripresa delle emigrazioni verso il Centro-Nord e verso l'estero, oltre al calo delle nascite che anch'esso risulta essere particolarmente rilevante. Tra il 2001 e il 2013 sono emigrati dal Sud verso il Centro-Nord oltre 1.559.100 meridionali, a fronte di un rientro di 851 mila persone, con un saldo migratorio netto di 708 mila unità. Tali flussi migratori acquistano ancora più importanza se si pensa agli effetti che avranno sulla capacità del Sud di riprendersi e di intraprendere un nuovo percorso di sviluppo e di crescita. Si allontanano dalle regioni di origine i giovani in età riproduttiva e dotati di elevate conoscenze e competenze professionali e intellettuali, quindi le conseguenze negative si rivelano su due fronti: da una parte si pregiudica l'evoluzione demografica dell'area meridionale, dall'altro il Sud viene privato di quelle competenze indispensabili per la crescita economica;
    nel 2013 il Mezzogiorno ha toccato il suo minimo storico per quanto riguarda il numero dei nati: 177 mila, il valore più basso dall'Unità d'Italia. Purtroppo il Sud perde progressivamente popolazione, anno dopo anno. La fecondità femminile si attesta a quota 1,36 figli per donna, cifra lontana dal 2,1 nati per coppia che garantirebbe la stabilità demografica. Il Centro-Nord, invece, ha visto una crescita a quota 1,46 figli per donna, grazie anche all'apporto riproduttivo elevato delle donne straniere;
    per la Svimez nel 2013 la povertà assoluta è aumentata al Sud rispetto al 2012 del 2,8 per cento contro lo 0,5 per cento del Centro-Nord. Anche per questo i consumi delle famiglie meridionali sono ancora scesi, arrivando a ridursi, nel 2013, del 2,4 per cento, a fronte del -2 per cento delle regioni del Centro-Nord. Dal 2008 al 2013 la caduta cumulata ha sfiorato nel Mezzogiorno i 13 punti percentuali (-12,7 per cento), risultando di oltre due volte maggiore di quella registrata nel resto del Paese (-5,7 per cento). Particolarmente colpiti i consumi alimentari (-14,6 per cento contro il -10,7 per cento del Centro-Nord) e le spese per vestiario e calzature, cadute del 23,7 per cento, quasi il doppio che nel resto del Paese (-13,8 per cento);
    tutti i settori economici del Meridione hanno risentito della crisi, toccando il picco nel settore delle costruzioni, che ha ridotto il prodotto del 35,3 per cento contro il 23,8 per cento del Centro-Nord. Nel comparto terziario la perdita è stata nel 2013 del 2,3 per cento nel Sud, a fronte di una sola leggera flessione (-0,4 per cento) al Centro-Nord. L'agricoltura perde lo 0,2 per cento al Sud, mentre il Centro-Nord guadagna +0,6 per cento; l'industria crolla del 7,6 per cento al Sud e del 3,2 per cento al Centro-Nord. Dal 2008 al 2013 il settore manifatturiero al Sud ha perso il 27 per cento del proprio prodotto e ha più che dimezzato gli investimenti (-53 per cento);
    «il Sud è ormai a forte rischio di desertificazione industriale – è scritto nel rapporto Svimez – con la conseguenza che l'assenza di risorse umane, imprenditoriali e finanziarie potrebbe impedire all'area meridionale di agganciare la possibile ripresa e trasformare la crisi ciclica in un sottosviluppo permanente»;
    il Fondo per lo sviluppo e la coesione ha assunto la sua denominazione in forza del decreto legislativo 31 maggio 2011, n. 88, che detta disposizioni in materia di risorse aggiuntive e interventi speciali per la rimozione di squilibri economici e sociali. Il fondo ha la finalità di dare unità programmatica e finanziaria all'insieme degli interventi aggiuntivi a finanziamento nazionale rivolti al riequilibrio economico e sociale tra le diverse aree del Paese;
    in tale quadro, le risorse del fondo sono destinate al finanziamento di progetti infrastrutturali strategici – sia di carattere materiale sia di carattere immateriale – di rilievo nazionale, interregionale e regionale, che si inquadrano nell'ambito di una strategia nazionale che individua i principali interventi di interesse, in termini di miglioramento infrastrutturale, del sistema Paese, aventi natura di grandi progetti o di investimenti articolati in singoli interventi, funzionalmente connessi per consistenza progettuale ovvero realizzativa, in relazione a obiettivi e risultati quantificabili e misurabili, anche per quanto attiene al profilo temporale;
    l'articolazione pluriennale del fondo, coerente con quella dei fondi europei, è volta a garantire l'unitarietà e la complementarietà dei processi di programmazione e attivazione delle relative risorse, tenendo conto delle programmazioni. L'articolo 1, commi 6 e seguenti, della legge n. 147 del 2013 (legge di stabilità per il 2014) ha determinato in 54,810 miliardi di euro la dotazione aggiuntiva del Fondo per lo sviluppo e la coesione per il periodo di programmazione 2014-2020, disponendone l'iscrizione in bilancio per l'80 per cento di tale importo, pari a 43,848 miliardi di euro. La medesima disposizione, nel contempo, ha indicato la nuova chiave di riparto delle risorse tra le aree territoriali del Paese, assegnando al Mezzogiorno l'80 per cento dell'importo complessivo, per un valore iscritto in bilancio conseguentemente pari a 35,078 miliardi di euro e la restante quota, pari a 8,770 miliardi di euro, al Centro-Nord;
    la norma di legge non dispone, invece, in ordine al riparto tra le amministrazioni centrali e le amministrazioni regionali, né definisce più puntualmente le quote di destinazione del fondo medesimo tra diversi ambiti tematici, salvo indicare che una quota pari al 5 per cento del fondo possa essere destinata a interventi di emergenza con finalità di sviluppo (corrispondente a 2,192 miliardi di euro);
    la legge, infine, ha iscritto in bilancio, a fronte del complessivo importo, gli stanziamenti per il primo triennio, determinandoli in 50 milioni per il 2014, 500 milioni per il 2015 e 1.000 milioni per il 2016; per gli anni successivi, la quota annuale sarà determinata dalla tabella E delle singole leggi di stabilità;
    il comma 8 dell'articolo 1 della legge n. 147 del 2013 ha disposto che entro il 1o marzo 2014 il Cipe avrebbe dovuto effettuare la ripartizione programmatica tra le amministrazioni interessate della quota relativa all'80 per cento delle risorse. Adempimento che non risulta ancora attuato;
    con delibera n. 21 del 2014 è stata disposta, a valere sulla programmazione 2014-2020, una preallocazione pari a 1.143 milioni di euro, destinata alle regioni del Mezzogiorno per compensare le medesime regioni della sottrazione di disponibilità delle risorse del Fondo per lo sviluppo e la coesione per la programmazione 2007-2013, ad esse sottratte in relazione ai ritardi nell'assunzione delle obbligazioni giuridicamente vincolanti. Le assegnazioni di legge di cui sopra e questa assegnazione assorbono la quasi totalità delle dotazioni dei fondi assegnati in bilancio nel triennio;
    i contratti istituzionali di sviluppo sono stati introdotti dall'articolo 6 del decreto legislativo 31 maggio 2011, n. 88, quale strumento generale di attuazione della programmazione del Fondo per lo sviluppo e la coesione 2014-2020 e sono stati utilizzati anticipatamente anche nella programmazione in corso (2007-2013), in forza della delibera del Cipe n. 1 dell'11 gennaio 2011. Destinati a regolare i rapporti tra le amministrazioni centrali (con poteri di coordinamento attribuiti all'autorità politica delegata per la coesione territoriale), le regioni e i grandi concessionari nazionali (Ferrovie dello Stato italiane-Rete ferroviaria italiana ed Anas), per la realizzazione di grandi infrastrutture di rilievo strategico, essi stabiliscono: tempi e modalità di attuazione, impegni reciproci per garantire il rispetto del cronoprogramma, sanzioni e poteri sostitutivi per le ipotesi di inadempienza;
    la normativa impone che i contratti istituzionali di sviluppo siano sottoscritti, per la parte pubblica, dalle autorità politiche (Ministri e presidenti di regione), in uno con apposite intese preliminari. Nell'esperienza sin qui fatta, l'intesa che ha preceduto ciascun contratto istituzionale di sviluppo è stata sottoscritto dai Ministri per la coesione territoriale, dell'economia e delle finanze, delle infrastrutture e dei trasporti, dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e dei beni e delle attività culturali e del turismo; mentre i contratti istituzionali di sviluppo veri e propri (articolato e allegati tecnici) sono stati firmati da: Ministro per la coesione territoriale, Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, presidenti di regione (di volta in volta interessati) e concessionari nazionali (Ferrovie dello Stato italiane-Rete ferroviaria italiana, per le ferrovie; Anas, per le strade);
    allo stato, sono stati sottoscritti 4 contratti istituzionali di sviluppo, previsti dalla delibera Cipe n. 62 del 3 agosto 2011: tre per opere ferroviarie (Napoli-Bari-Lecce-Taranto; Salerno-Reggio Calabria e Messina-Catania-Palermo) ed uno per un'infrastruttura stradale (Sassari-Olbia). Soltanto per la «Salerno-Reggio Calabria» (ferroviaria) e la «strada statale Sassari-Olbia» (stradale) il fabbisogno finanziario risulta integralmente coperto;
    il 2 agosto 2012 il Ministro per la coesione territoriale, il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, le regioni Campania, Basilicata e Puglia, Ferrovie dello Stato italiane e Rete ferroviaria italiana hanno sottoscritto il contratto istituzionale di sviluppo, che riguarda l'esecuzione di lavori sull'intera tratta ferroviaria Napoli-Bari-Lecce-Taranto, il cui costo è pari a 7.116 milioni di euro per 22 interventi. Le disponibilità ammontano a 3.532 milioni di euro,

impegna il Governo:

   ad affrontare con determinazione tutte le problematiche rilevate nel Mezzogiorno e ad assumere ogni opportuna iniziativa per porre in essere azioni incisive di politica economica per sostenere e rilanciare la crescita e l'occupazione del Sud dell'Italia, che appare evidente essere l'unica strada concreta per una vera ripresa che interessi tutta l'Italia;
   a confermare nel disegno di legge di stabilità per il 2015 un congruo stanziamento del Fondo per lo sviluppo e coesione che permetta di completare il finanziamento necessario a realizzare il contratto istituzionale di sviluppo che riguarda l'intera tratta ferroviaria Napoli-Bari-Lecce-Taranto;
   a sollecitare la rapida adozione da parte del Cipe della ripartizione programmatica tra le amministrazioni interessate delle risorse aggiuntive del Fondo per lo sviluppo e la coesione.
(1-00609) «Pisicchio».
(9 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    con lettera della Commissione europea al Governo italiano, del 20 dicembre 2013, le risorse comunitarie assegnate all'Italia per i Fondi strutturali ammontano, per la politica di coesione relativa al periodo 2014-2020, a circa 32, 2 miliardi di euro, di cui oltre il 95 per cento dell'intero ammontare sono destinati in favore dell'obiettivo crescita e occupazione;
    quasi il 73 per cento di queste risorse è destinato alle regioni del Mezzogiorno anche se con modulazione differente;
    i fondi strutturali rappresentano quasi il 20 per cento di tutti gli investimenti pubblici, considerato il ridimensionamento della quota degli investimenti che le politiche di contenimento della spesa pubblica hanno determinato nel corso di questi anni;
    nel Mezzogiorno vive circa il 30 per cento dell'intera popolazione italiana e nella stessa area vive oltre il 50 per cento dell'intera platea dei disoccupati di questo Paese e, in tale grave contesto, alcune realtà territoriali, quali la Campania e la Calabria, rivestono i tratti di una vera e propria emergenza sociale;
    dal 2008 il prodotto interno lordo del Sud è calato di quasi 14 punti percentuali, contro un 5 per cento del resto del Paese;
    il prodotto interno lordo pro capite meridionale rappresenta appena il 56 per cento di quello del resto del Paese, riportando l'Italia ad una condizione quale quella degli anni Cinquanta;
    gli investimenti fissi lordi meridionali sono caduti, da inizio crisi, di oltre trenta punti percentuali, con punte di quasi il 50 per cento, in particolare, nel settore industriale con una forbice che è tornata ad allargarsi con tutto ciò che ne consegue in termini di coesione;
    attualmente, la spesa in conto capitale nel Mezzogiorno è tornata indietro di ben diciotto anni ed è allo stesso livello del 1996;
    secondo dati Svimez, il volume di risorse teoricamente disponibili con riferimento ai fondi strutturali per i prossimi due anni (13,5 miliardi di euro nel 2014 e 17,5 miliardi di euro nel 2015) potrebbe garantire un impatto macroeconomico che sarebbe molto significativo; l'impatto aggiuntivo sul prodotto interno lordo meridionale sarebbe di oltre un punto percentuale (1,3 per cento); nel 2015, l'incremento addizionale di prodotto interno lordo sarebbe pari a otto decimi di punto percentuale;
    tali investimenti, sempre secondo Svimez, potrebbero attivare nel Mezzogiorno un incremento occupazionale pari a 34 mila unità nel 2014 e ad oltre 82 mila unità nel 2015;
    fino ad oggi, come richiamato anche dalla stessa Commissione europea, la dispersione delle risorse in un numero eccessivo di progetti, la mancanza delle condizionalità ex ante, che mirano a garantire efficacia ed efficienza, la scarsa capacità amministrativa e l'assenza di piani specifici settoriali sono state le criticità che hanno caratterizzato la gestione dei fondi europei nel nostro Paese;
    nei prossimi sette anni, come ha avuto modo di esplicitare il Governo per voce del Sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio dei ministri, Graziano Delrio, nel corso dell'informativa urgente svolta alla Camera dei deputati in data 7 ottobre 2014, la gestione dei fondi poggerà su tre pilastri: il Fondo per lo sviluppo e la coesione, il Piano di azione per la coesione e i fondi strutturali veri e propri;
    circa il 65 per cento dei comuni meridionali ha realizzato almeno un progetto finanziato dai fondi strutturali. Infatti, i fondi strutturali sono andati sempre più sostituendosi a quelli ordinari (spesso bloccati dal Patto di stabilità interno o da altre esigenze di finanza pubblica) e si sono dispersi in mille rivoli perdendo la loro caratteristica di risorse aggiuntive in grado di imprimere una spinta al processo di sviluppo;
    come ricordato dalla stessa Commissione europea, anche per superare i precedenti limiti programmatori, appare fondamentale rafforzare una struttura centrale di coordinamento in tema di audit e controllo (con personale tecnicamente adeguato nelle autorità di gestione e negli organismi intermedi) e che, più in generale, costituisca un «presidio» forte capace di rimuovere le inefficienze della pubblica amministrazione;
    un contributo molto importante al superamento del passato può e deve arrivare dall'Agenzia per la coesione territoriale che deve essere chiamata a svolgere la sua funzione di semplificazione e deve avere anche un ruolo di coordinamento e di pungolo all'impiego di tutte le risorse a disposizione;
    occorre un rilancio delle politiche industriali nel Mezzogiorno partendo dal monitoraggio delle risorse già stanziate e non ancora impiegate legate a strumenti della programmazione negoziata, ivi compresi i contratti d'area e i contratti di localizzazione;
    è indispensabile un rilancio delle politiche di infrastrutturazione, partendo dalle importanti opere inserite nell'ambito del decreto-legge n. 133 del 2014, non trascurando le potenzialità della macroregione adriatico-jonica;
    prioritario deve essere il contrasto alle marginalità e alla povertà diffusa che al Sud riguarda un quarto della popolazione; in alcune regioni come Calabria, Basilicata e Sicilia, il 30 per cento della popolazione è al di sotto della soglia di povertà;
    va affrontata definitivamente la questione relativa agli effetti negativi della «spesa storica» che in materia di welfare incidono in maniera penalizzante sul Mezzogiorno,

impegna il Governo:

   a velocizzare l’iter per rendere pienamente operativa l'Agenzia per la coesione territoriale con adeguata dotazione di personale, al fine di migliorare la capacità di impiego dei fondi strutturali sia per quanto riguarda la parte rimanente della programmazione 2010-2013, sia in relazione alla prossima programmazione;
   a proporre al Cipe, entro 30 giorni dall'approvazione della presente mozione, l'adozione di un'apposita delibera per la formalizzazione delle questioni legate al cofinanziamento, assicurando che tutte le risorse nazionali destinate al cofinanziamento rimangano comunque a disposizione delle regioni a cui erano originariamente destinate;
   a relazionare al Parlamento semestralmente circa l'impiego delle citate risorse;
   ad attivare una procedura concertativa con le regioni volta ad individuare i meccanismi correttivi e perequativi che consentano al Mezzogiorno di superare le criticità della «spesa storica» in materia di welfare;
   a procedere rapidamente ad un censimento delle risorse ancora disponibili e non ancora utilizzate nell'ambito degli strumenti della programmazione negoziata, finalizzato alla predisposizione di un piano di rilancio industriale, improntato sulle specificità e le eccellenze produttive presenti nel Mezzogiorno, avviando una nuova stagione di utilizzo degli strumenti della programmazione negoziata, ivi compresi i contratti d'area, i patti territoriali, i contratti di programma e i contratti di localizzazione, sulla base delle migliori pratiche e delle esperienze di successo del passato;
   a rafforzare, ulteriormente, i progetti in materia di sicurezza e legalità per contrastare la presenza dei fenomeni criminali, prima vera condizione per il rilancio delle politiche di sviluppo;
   a creare un apposito osservatorio sulle infrastrutture del Mezzogiorno con l'obiettivo di velocizzare gli investimenti in atto e individuare le priorità per la connessione del Sud ai principali corridoi di comunicazione europei;
   a potenziare i progetti concernenti il contrasto alla povertà come previsto dall'Obiettivo Tematico n. 9, mettendoli in relazione agli strumenti per la realizzazione di politiche attive di lavoro ed inserimento professionale per la creazione di un nuovo welfare;
   a concentrare la dovuta attenzione, nell'ambito della prossima programmazione, nei confronti di progetti legati alla messa in sicurezza del territorio e al contrasto dei fenomeni di dissesto idrogeologico che caratterizzano il Mezzogiorno;
   a valorizzare il patrimonio culturale e paesaggistico del Sud, riservando parte della dotazione disponibile a partire dal residuo della programmazione 2007-2013 per le politiche di recupero e promozione, mettendo in rete i grandi poli di attrazione e i siti Unesco;
   a riservare alle regioni del Sud parte della dotazione disponibile per quanto riguarda la programmazione 2014-2020 per le politiche ambientali nonché per il prosieguo dei processi di bonifica e messa in sicurezza dei siti di interesse nazionale e dei siti caratterizzati da particolari lavorazioni.
(1-00612)
«Covello, Famiglietti, Tartaglione, Magorno, Raciti, Palma, Manfredi, Bonavitacola, Giorgio Piccolo, Oliverio, Tino Iannuzzi, Ragosta, Valeria Valente, Valiante, Salvatore Piccolo, Rostan, Bossa, Sgambato, Stumpo, Venittelli, Cardinale, Capone, Grassi, Schirò, Taranto, Mongiello, Albanella, Iacono, Massa, Antezza, Capodicasa».
(13 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    il periodo di crisi economica avviatosi nel 2008 e tuttora ancora non concluso ha provocato un duro impatto sull'economia meridionale: tra il 2007 e il 2012, il Mezzogiorno ha perso il 10 per cento del prodotto interno lordo per un valore di circa 35 miliardi di euro: in base alle stime tale perdita dovrebbe aumentare a 47,7 miliardi di euro (-13,5 per cento), considerando il periodo 2007-2013; si stima una riduzione ancora più intensa (-34,3 per cento con una perdita di circa 28 miliardi di euro) nel medesimo periodo per quanto riguarda gli investimenti fissi lordi;
    in tale ambito, le analisi che emergono dal Rapporto Svimez per il 2014 sullo stato dell'economia del Mezzogiorno, ribadiscono una situazione di estrema gravità, in cui si evidenzia un quadro nazionale diviso e disuguale tra le due aree del Paese, ove la parte meridionale scivola sempre più nell'arretratezza: nel 2013 il divario del prodotto interno lordo pro capite è tornato ai livelli di dieci anni fa, negli anni di crisi 2008-2013 i consumi delle famiglie sono crollati quasi del 13 per cento, gli investimenti nell'industria addirittura del 53 per cento, i tassi d'iscrizione all'università sono tornanti ai primi anni del 2000 e, per la prima volta, il numero di occupati ha sfondato al ribasso la soglia psicologica dei 6 milioni, il livello più basso dal 1977;
    al rischio di desertificazione industriale e umana per intere aree meridionali (dalla Campania alla Sicilia), connesso al processo emigratorio che risulta essere inarrestabile (dal 2001 al 2011, 1,5 milioni di individui sono emigrati verso il Centro-Nord, di cui 188 mila laureati), si associano elementi socioeconomici di evidente debolezza, determinati dal calo delle nascite (nel 2013 si sono registrate solo 180 mila nascite, un livello che riporta al minimo storico registrato oltre 150 anni fa, durante l'Unità d'Italia), dall'aumento della povertà assoluta (2,3 milioni di individui, pari a circa il 50 per cento del totale delle persone che vivono nella povertà assoluta in Italia, le cui conseguenze hanno determinato un calo generale della domanda interna con ulteriori effetti negativi sull'attività economica delle imprese) nonché dal persistente calo della spesa pubblica e degli investimenti, in particolare quelli infrastrutturali;
    le manovre di finanza pubblica e di politica economica, effettuate in particolare dai Governi Monti e Letta, rapportate al prodotto interno lordo, hanno pesato più nel Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord, (secondo le stime contenute nel medesimo documento di previsione territoriale), considerato che nel 2015 il valore cumulato della spesa pubblica nel Meridione sarà ridotto del doppio rispetto al Centro-Nord: ovvero il 6,2 per cento contro il 2,9 per cento, penalizzando le aree territoriali interessate, in particolare per quanto riguarda le spese in conto capitale, che rappresentano una delle poche variabili in grado di stimolare la crescita dell'economia meridionale, già strutturalmente meno capace di agganciare la ripresa;
    le difficoltà economiche e finanziarie determinate in particolare dagli effetti del credit crunch del sistema delle imprese e delle famiglie meridionali e la stretta dei bilanci pubblici hanno avuto riflessi sulla dinamica occupazionale;
    l'emorragia di posti di lavoro rilevata trimestralmente dai principali organismi di rilevazione statistica e di ricerca, evidenzia, nel complesso, che tra il 2007 e il 2013 il Mezzogiorno ha registrato la perdita di 617 mila occupati: un calo del numero di occupati che conferma un quadro allarmante e con pochi precedenti, proseguito anche nel corso del primo trimestre del 2014, quando sono stati registrati oltre 100 mila occupati in meno rispetto alla media del 2013 e addirittura 170 mila occupati in meno rispetto all'anno precedente;
    il tasso di disoccupazione nel Mezzogiorno cresciuto al 19,7 per cento (all'11 per cento nel 2007), superiore sia al valore medio italiano (12,2 per cento) sia a quello dell'Unione Europea a 28 (10,8 per cento), nel corso dei primi tre mesi del 2014 ha fatto segnare un ulteriore peggioramento (21,7 per cento nel Mezzogiorno e 13,6 per cento in Italia); in tale ambito la fascia della popolazione maggiormente colpita dalla crisi occupazionale risulta essere quella giovanile (nel 2007, il tasso di disoccupazione giovanile nel Mezzogiorno era pari al 32,3 per cento e, a differenza del 2013, è aumentato al 51,6 per cento, interessando un giovane su due) e, considerando i dati relativi al primo trimestre dell'anno che mostrano un ulteriore peggioramento (60,9 per cento per il Mezzogiorno e 46 per cento per l'Italia), emerge nel complesso uno scenario di estrema preoccupazione sia economica, sia relativa ai rischi di destabilizzazione di ogni forma di coesione e tenuta sociale per le aree territoriali del Mezzogiorno;
    il drastico calo di investimenti pubblici, manifestati dall'alleggerimento della spesa in conto capitale ridotta nel Mezzogiorno a 5 miliardi di euro (periodo 2009-2013), tornata ai livelli del 1996, che ha contribuito ad una diminuzione sia degli appalti pubblici che di quelli privati, di oltre il 34 per cento, dal 2007 al 2013, con punte superiori al 45 per cento nell'industria in senso stretto (periodo 2007-2012) secondo il check up di Confindustria-Srm (Studi e ricerche per il Mezzogiorno) sullo stato di salute dell'economia meridionale, configura una situazione paradossale, se si considerano le difficoltà economiche che suggerirebbero l'opportunità di una azione pubblica decisamente anticiclica;
    a tal fine, risulta ancor più grave il ritardo nell'utilizzo delle risorse del complesso della politica di coesione e della mancata incisività dell'Agenzia per la coesione territoriale, la cui leva tecnica utilizzata per monitorare la spesa ed intervenire in casi di inerzia, avviata dal Governo Letta e proseguita dal presente Esecutivo Renzi, prosegue con estrema lentezza ed inefficienza;
    le problematiche concernenti le risorse del Piano d'azione per la coesione e del Fondo per lo sviluppo e la coesione, che ammontano a circa 20 miliardi di euro relative al ciclo dei fondi strutturali 2007-2013 da utilizzare entro il 31 dicembre 2015, di cui 5 miliardi di euro in capo alle amministrazioni centrali, che su alcuni programmi segnano il passo al pari delle regioni Campania, Sicilia e Calabria, rendono evidenti sia le persistenti difficoltà nelle procedure di utilizzo dei fondi, sia, al contempo, l'esigenza e la necessità di introdurre in tempi rapidi misure di accelerazione volte ad utilizzare le risorse non spese a favore dell'economia del Mezzogiorno e del tessuto imprenditoriale e sociale investito da una crisi senza precedenti dopo la seconda guerra mondiale;
    il rischio della perdita di circa 6-7 miliardi di euro, secondo le recenti affermazioni del Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri con delega ai fondi comunitari, evidenzia, infatti, come nell'attuale stagione di crescita mancata, la restituzione in sede europea dei fondi non utilizzati comprometterebbe fortemente la credibilità dell'azione del Governo e dell'intero Paese, aumentando il gap di competitività con l'Europa;
    nello scenario consolidato in cui si muove il Mezzogiorno – ampiamente caratterizzato da risultati negativi: ridimensionamento della struttura imprenditoriale; perdita di occupati; ridotta capacità di produrre; ripresa dell'emigrazione (con conseguente invecchiamento della popolazione); peggioramento della qualità della vita, in un'area nella quale la spesa corrente ha ripreso a crescere e quella pubblica per gli investimenti ha proseguito il suo andamento declinante, la politica di coesione riveste un ruolo decisivo e fondamentale, in grado di invertire addirittura la tendenza da negativa a positiva;
    le elaborazioni predisposte dalla Svimez e da altri organismi di ricerca e di analisi delle politiche sociali ed economiche per il Mezzogiorno confermano, infatti, che se, per ipotesi, si riuscissero a spendere tutte le risorse tecnicamente disponibili, l'impatto potenziale sul prodotto interno lordo nelle intere macro-aree del meridione sarebbe pari all'1,3 per cento, determinando 34 mila nuovi posti di lavoro nel 2014, 82.400 nel 2015;
    un utilizzo pieno ed efficace delle risorse per la politica di coesione, comunitarie e nazionali, rappresenta a tal fine, un'occasione unica per promuovere la ripresa degli investimenti, anche e soprattutto nella prospettiva della programmazione 2014-2020, per rilanciare l'economia del Mezzogiorno, le cui regioni sono strutturalmente più legate ai flussi di domanda interna, sia pubblica (investimenti della pubblica amministrazione e consumi collettivi), sia ai consumi delle famiglie, come dimostrato i dati decrescenti in Campania e Sicilia;
    a tal fine, per favorirne l'utilizzo, appare necessario una decisione in ambito europeo, connessa alle criticità derivanti dal vincolo del Patto di stabilità, che escluda il cofinanziamento nazionale dei fondi strutturali e del Fondo per lo sviluppo e la coesione dal calcolo del Patto di stabilità interno, non conteggiando la spesa per investimenti, almeno quelli cofinanziati, nella spesa considerata per gli obiettivi di deficit;
    le pressioni e le titubanze dimostrate dal Governo Renzi, sia in ambito europeo che nazionale, sulla definizione concreta dei meccanismi di flessibilità nell'attuazione del Patto di stabilità e di una più rigorosa programmazione delle risorse del fondo sviluppo e coesione, impongono una più marcata attenzione da parte del Parlamento, affinché non si disperdano le ingenti risorse a disposizione, al fine di garantire che ogni euro speso costituisca un effettivo volano di sviluppo per l'auspicata ripresa economica delle regioni del Mezzogiorno;
    interventi da parte delle amministrazioni centrali e regionali volti ad accelerare la spesa delle risorse residue della programmazione 2007-2013, a cui affiancare, in parallelo, azioni per un rapido avvio della nuova programmazione 2014-2020 che può mobilitare risorse per oltre 60 miliardi di euro, di cui una rilevante parte per le macro-aree meridionali, risultano a tal fine urgenti e prioritari, in considerazione peraltro del semestre italiano di Presidenza del Consiglio europeo, come peraltro ribadito dall'Agenda strategica per l'Unione europea;
    il monitoraggio volto a definire la conclusione dell'accordo di partenariato con la Commissione europea unitamente a tutti i programmi operativi presentati, da parte delle regioni e delle amministrazioni centrali, al fine di avviare, concretamente, la spesa già dal 1o gennaio 2015, appare altresì indifferibile, per rivedere le strategie d'indirizzo e utilizzare il potenziale della politica di coesione in favore delle aree interessate;
    iniziative amministrative e finanziarie, per accelerare l'utilizzo delle risorse vecchie e nuove del Fondo per lo sviluppo e la coesione e del Piano d'azione per la coesione, che integrano e completano, anche dal punto di vista tematico, le risorse dei fondi strutturali, per favorire la competitività del tessuto produttivo e migliorare la dotazione infrastrutturale e di servizi, nonché per sostenere l'istruzione e le competenze dei cittadini meridionali non potranno a tal fine che innescare un processo favorevole, sebbene graduale, in termini di ripresa sociale ed economica dell'Abruzzo, della Campania, del Molise, della Puglia, della Basilicata, della Calabria, della Sicilia e della Sardegna e favorire il recupero e la valorizzazione di un patrimonio naturale, turistico e culturale che costituisce nell'insieme la maggiore risorsa inutilizzata;
    l'azione di intervento dell'Agenzia per la coesione territoriale, attualmente inefficace e ritardata, come in precedenza richiamato, necessita di essere sollecitata, non solo per assicurare la spesa dei fondi non utilizzati, necessari per il riequilibrio territoriale degli investimenti pubblici, ma per favorire la ripresa dell'intero Mezzogiorno;
    il proseguimento della ridefinizione dei programmi comunitari avviato con il Piano di azione per la coesione, concordato negli anni precedenti con la Commissione europea, dal Ministro per gli affari regionali e la coesione territoriale pro tempore, Raffaele Fitto, e proseguito dal Ministro pro tempore Fabrizio Barca, all'interno del quale indicare le priorità d'intervento e soprattutto di revisione dei meccanismi di attribuzione dei fondi, nonché di accorciare i tempi che intercorrono tra decisioni programmatiche ed attuazione degli interventi, rappresenta una linea di continuazione indispensabile per l'impatto che l'utilizzo che i fondi strutturali avrà sull'economia del Mezzogiorno,

impegna il Governo:

   ad intervenire in tempi rapidi al fine di accelerare le procedure di utilizzo dei fondi europei del ciclo 2007-2013, con specifico riferimento ai residui di spesa non utilizzati delle regioni del Mezzogiorno;
   a porre in essere misure più incisive in grado di migliorare l'attività dell'Agenzia per la coesione territoriale, le cui difficoltà operative e di monitoraggio, nell'attività di spesa e soprattutto di esercizio dei poteri sostituivi in caso di inoperosità, si sono dimostrate nel corso del 2014 evidenti;
   ad intervenire in sede comunitaria, affinché nell'ambito del pacchetto legislativo sulla coesione 2014-2020 si confermi l'esclusione dal calcolo del Patto di stabilità e crescita del cofinanziamento nazionale alla politica di coesione, in coerenza peraltro con la risoluzione approvata dal Parlamento europeo dell'8 ottobre 2013, «sugli effetti dei vincoli di bilancio per le autorità regionali e locali con riferimento alla spesa di Fondi strutturali dell'Ue negli Stati membri»;
   ad intervenire altresì in sede comunitaria, al fine di introdurre in favore della Campania e delle altre regioni del Mezzogiorno una serie di misure, anche in via temporanea, di carattere eccezionale, sia di alleggerimento fiscale e contributivo, che finanziarie in grado di rilanciare l'economia reale del meridione, in considerazione della fase socioeconomica di estrema emergenza che investe le macro-aree delle regioni interessate;
   ad adottare ulteriori iniziative, per quanto di competenza, volte a tutelare il tessuto socioeconomico delle famiglie e delle imprese, specie nel Mezzogiorno, dagli effetti del credit crunch, la cui contrazione creditizia ha contribuito a determinare un impatto sul prodotto interno lordo fortemente negativo;
   ad invertire le linee di indirizzo e di programmazione nei confronti del Mezzogiorno, ribadite peraltro dall'assenza di interventi degni d'importanza all'interno della nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza, la cui politica economica e industriale, a distanza di quasi nove mesi dall'insediamento del Governo, si sta dimostrando estremamente deludente ed inefficace come dimostrato dai principali indicatori statistici ed economici;
   a prevedere infine interventi ad hoc nell'ambito del disegno di legge di stabilità per il 2015, in coerenza con le disposizioni comunitarie in materia di aiuti di Stato, in favore della Campania e delle altre regioni del Mezzogiorno, per sostenere le famiglie e le imprese, ed evitare che gli effetti derivanti dalle manovre di finanza pubblica degli anni precedenti, che hanno concorso a penalizzare in maniera significativa l'economia meridionale, possano configurarsi anche in questa occasione.
(1-00614) «Palese, Russo».
(13 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    la crisi economica ha inciso e sta incidendo in misura significativa sulla produzione, sui consumi, sull'attività delle piccole e medie imprese, soprattutto allocate nel Mezzogiorno d'Italia;
    la crisi economica evidenzia ogni giorno di più l'esigenza di una rinnovata e prioritaria attenzione in particolare per il Sud ai problemi dell'occupazione, del lavoro, dei redditi e dell'impresa;
    ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, l'attuale politica governativa, per molti aspetti sembra non abbia ancora una strategia indirizzata al miglioramento e all'innovazione del contesto, con un evidente vuoto d'iniziativa che emerge come grave di fronte ad una crisi che colpisce particolarmente l'economia meridionale dispiegando effetti drammatici, anche se talvolta meno visibili a causa della frammentazione del tessuto imprenditoriale e del peso dell'economia cosiddetta a-legale, sospesa tra sommerso e illegalità;
    a fronte di questa situazione disastrosa l'impegno del Governo per il Mezzogiorno sembrerebbe racchiuso nell'unica promessa del raccordo dei fondi strutturali, cosa di per sé positiva ma del tutto insufficiente a risolvere l'enorme problema;
    v’è sovente inefficienza o vero e proprio spreco, nel mancato utilizzo delle risorse europee per le regioni del Sud. Ma è noto anche che non basta mettere in elenco le risorse dei fondi europei per risolvere la questione perché i dati che sono sotto i nostri occhi non possono essere modificati con le semplici buone intenzioni, né con la sola stigmatizzazione delle regioni inadempienti. Occorre viceversa comprendere che la crisi del Mezzogiorno è la crisi dell'intero Paese e occorre agire di conseguenza con interventi urgenti e prioritari;
    al Sud vi è un gap infrastrutturale, in termini di trasporti, logistica, ricerca e innovazione, rispetto al resto del Paese; le conseguenze della presenza delle associazioni mafiose nel Mezzogiorno si intrecciano in modo complesso con l'economia del Sud, stravolgendo le regole del «fare impresa» e scoraggiando gli investimenti stranieri, oltre che creando un grave e indiscusso disagio sociale. Tutto ciò appare paradossale se solo si pensa che ogni iniziativa di carattere pubblico adottata nella storia repubblicana in favore del Sud va regolarmente a patire gli effetti della corruzione e dello sperpero. A tal proposito è opportuno fare appena cenno a quanto accaduto negli ultimi decenni: il Sud ha fruito, infatti, dapprima dei fondi della Cassa per il Mezzogiorno, durata dal 1950 al 1992, la quale dal 1957 in avanti erogò contributi a fondo perduto e crediti agevolati. Nel primo ventennio circa di attività la Cassa per il Mezzogiorno sembrò funzionare, ma la qualità del suo servizio andò progressivamente declinando mano a mano che i partiti invadevano e inquinavano la vita pubblica. La Cassa per il Mezzogiorno tramontò malinconicamente, abbandonata agli scandali e rappresentò uno dei più gravi esempi di corruzione e di interrelazione fra affari, politica e malavita nel Sud;
    poi fu la volta dei fondi della legge n. 488 del 1992, oggetto di frodi e di truffe fino alla sua conclusione avvenuta nel 2008. La legge n. 488 del 1992 è stata lo strumento attraverso il quale il Ministero delle attività produttive aveva messo a disposizione delle imprese che intendevano promuovere programmi di investimento, nelle aree depresse, agevolazioni sotto forma di contributi in conto capitale («a fondo perduto»);
    nel frattempo si erano aggiunti i fondi europei, destinati dall'Unione europea alle politiche di coesione, ma anche questi non hanno fatto una fine migliore. La sintesi migliore la offrì il Governatore della Banca d'Italia pro tempore Draghi nelle «considerazioni finali» di una delle sue relazioni in Banca d'Italia: «Il Mezzogiorno ha goduto in questo decennio (1998-2008) di fondi paragonabili per entità a quelli dell'intervento straordinario e che equivalevano a circa 45 miliardi di euro o a quasi tre punti di PIL». E tuttavia non esiste evidenza di vantaggi visibili;
    un esempio su tutti è quello legato al capitolo di spesa privilegiato dalla riprogrammazione dei programmi della convergenza, ossia dell'Agenda digitale europea: 1.140 milioni di euro destinati agli investimenti nel Sud per la banda ultralarga, 118,9 milioni di euro per la banda larga fino a 2 mega, 320 milioni di euro per i data center;
    allo stesso modo si rammentano i 1.242 milioni di euro destinati esclusivamente alle quattro regioni obiettivo convergenza (Calabria, Campania, Puglia e Sicilia), o i 142 milioni di euro per il credito di imposta per l'occupazione, o ancora le risorse per la rete dei trasporti, cui erano stati assegnati 1,2 miliardi di euro: per strade (866 milioni di euro) e aeroporti (28 milioni di euro);
    ma la sequenza di interventi che tardano a dispiegare effetti non finisce qui: si pensi alla legge n. 191 del 2009 che ha previsto la nascita di una banca con l'obiettivo di finanziare progetti di investimento nel Mezzogiorno, di erogare credito alle piccole e medie imprese, di favorire la nascita di nuove imprese e l'imprenditorialità giovanile e femminile, nonché di promuovere l'aumento dimensionale e l'internazionalizzazione di tali imprese, di finanziare attività di ricerca e innovazione, il tutto come detto, nelle regioni del Sud Italia. Per questo motivo, il 1o agosto 2011 Poste Italiane spa aveva acquisito, per 136 milioni di euro, il 100 per cento di Unicredit Mediocredito Centrale e, pertanto, da settembre 2011, la nuova denominazione societaria è Banca del Mezzogiorno – Mediocredito Centrale spa operativa dal 2 febbraio 2012;
    tuttavia anche in questo caso, nonostante siano i soldi pubblici a sostenere l'impresa, non pare che detto strumento abbia dato respiro alle piccole e medie imprese del Sud. Nel corso della XVII legislatura sono state già presentate diversi atti di sindacato ispettivo nei quali vengono richiesti i dettagli delle erogazioni della Banca del Mezzogiorno perché sovente destinati a gruppi industriali estranei alla «mission» meridionalista dell'istituto finanziario;
    da tali esperienze consegue che, per uscire dall'angolino dove la storia lo ha confinato, il Mezzogiorno ha bisogno di buona amministrazione, di correttezza, di lungimiranza e non di farsesche vicende di comuni, di municipalizzate e di privilegi regionali;
    è fondamentale che lo Stato rafforzi la propria presenza in tali territori, consolidando i tribunali, presidio di legalità e freno alla criminalità; occorre un intervento capace di promuovere sviluppo ed occupazione nel Mezzogiorno, al fine di favorire la ripresa dell'economia meridionale, come base per la crescita e lo sviluppo dell'intero Paese anche favorendo, sin dall'età scolare, percorsi educativi volti a stimolare un cambio culturale che determini già in età giovanile l'educazione all'impresa. In questo momento di crisi molte imprese sono costrette alla chiusura, non rientrando nei parametri degli studi di settore e il complesso scenario economico italiano, aggravato dalle conseguenze della crisi finanziaria, pone ancora una volta in primo piano la questione di un Paese con due differenti velocità di sviluppo: nel Mezzogiorno si produce solo un quarto del prodotto interno e si genera soltanto un decimo delle esportazioni italiane;
    il Mezzogiorno italiano è ancora privo di quella rete di infrastrutture essenziale per lo sviluppo e negli ultimi anni si è avvertita l'assenza, nei programmi di Governo, di un respiro strategico, volto a ridurre il gap economico, infrastrutturale e sociale del Sud;
    come già descritto nel presente atto di indirizzo, per lungo tempo si è assistito alla distorsione delle risorse destinate al Sud perché oggetto ora di dissennati tagli operati sulla dotazione del fondo per aree sottoutilizzate per finanziare interventi di diversa natura o fatti oggetto di corruttela o non sempre corrispondenti a finalità di sviluppo e quasi sempre non localizzati nel Mezzogiorno. Ed invece il Meridione, grazie alla posizione geografica ed alla dotazione di porti e aeroporti, potrebbe svolgere un ruolo di cerniera negli scambi commerciali tra Europa, Mediterraneo e Paesi del far east e raccogliere le nuove opportunità del contesto competitivo internazionale;
    altresì si consideri che oltre un terzo dei laureati del Mezzogiorno under 34 è inattivo e la differenza con le regioni settentrionali diventa enorme se si considera il tasso di inattività dei diplomati under 34; i tassi di scolarizzazione in Italia presentano divari sfavorevoli al Meridione e sono accompagnati da un parallelo aumento del tasso di abbandono, dovuto alle condizioni di degrado sociale e familiare. Negative sono anche le evidenze in termini di «qualità» della formazione, dal momento che gli studenti meridionali che terminano la loro carriera accademica hanno maggiori difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro. Si genera così un ampio fenomeno migratorio dei «cervelli» che lasciano le regioni del Sud, provocando un depauperamento del capitale umano disponibile;
    il sistema produttivo del Mezzogiorno è legato a fattori strutturali di debolezza che riguardano le dimensioni piccole o piccolissime delle imprese di quest'area, spesso a gestione familiare, operanti prevalentemente in settori a basso valore aggiunto e con una conseguente scarsa propensione a investire nell'innovazione e in ricerca e sviluppo; inoltre, come già detto, permane una forte presenza della criminalità organizzata, che tenta di infiltrarsi nei grandi appalti per opere pubbliche e tenta di condizionare l'attività di impresa, e della microcriminalità che peggiora la qualità della vita nei centri urbani, aumentando il disagio sociale;
    eppure il Sud avrebbe modo di risollevare le sorti occupazionali già solo attraverso l'industria del turismo, tuttavia i dati relativi al turismo nel Meridione sono paradossali: su 100 stranieri che visitano l'Italia, meno di 1 va in Calabria (0,9 per cento per chi ama l'esattezza), ancora meno in Molise. In Basilicata si raggiunge lo 0,1 per cento e in Abruzzo lo 0,6 per cento. Sommando le otto regioni meridionali, includendo Sicilia e Sardegna, si arriva al 13,2 per cento. Fa di più il solo Trentino Alto Adige, con il 14,2 per cento. Le politiche del turismo sono pertanto fallimentari;
    vari studi hanno tentato di quantificare, in termini di ritorno economico e occupazionale, lo sviluppo turistico del Sud anche per sollecitare un cambiamento culturale in tal senso ma nulla sembra essersi modificato in questi anni e la causa non è la mancanza di fondi (le recenti difficoltà del Programma operativo interregionale «Attrattori culturali, naturali e turismo» confermano che le criticità sono spesso politiche): i contributi europei arrivati al Sud non hanno generato virtuose sinergie tra destinazioni, operatori e investitori esterni, né hanno dato vita a poli di eccellenza che potessero «contaminare» positivamente i territori;
    è necessario promuovere lo sviluppo sostenibile del territorio e coniugare il tutto alle imprescindibili logiche di mercato del turismo che impongono prodotti, servizi e infrastrutture in grado di far fronte a una domanda che ha sempre più alternative a disposizione. Occorre selezionare, previa individuazione, le strutture, i siti, i beni di più grande interesse siti nel Meridione e abbandonati a sé stessi – ve ne sono di innumerevoli – e procedere per la loro valorizzazione sul piano nazionale,

impegna il Governo:

   ad assegnare al tema dello sviluppo economico e sociale del Mezzogiorno una valenza prioritaria nell'ambito della politica economica nazionale e di quella comunitaria di coesione;
   ad assumere politiche in grado di favorire la localizzazione delle attività produttive nelle aree del Sud, rafforzando così il tessuto produttivo e favorendo i processi di agglomerazione produttiva, i cui benefici ricadranno anche sulle imprese del Centro-Nord che non riescono a reperire aree industriali e manodopera qualificata;
   a portare la dotazione infrastrutturale del Mezzogiorno ai livelli del resto del Paese;
   a promuovere una politica di sviluppo che, sulla base della rilevata inefficacia degli interventi effettuati per il Mezzogiorno nell'ultimo decennio, tenda a privilegiare interventi infrastrutturali in una logica di concentrazione settoriale delle risorse;
   ad assumere un impegno straordinario per sconfiggere la criminalità organizzata e tutti quei fenomeni di illegalità, dal lavoro sommerso alla microcriminalità, che determinano un ambiente sfavorevole agli investimenti ed allo sviluppo;
   a favorire lo sviluppo nelle regioni meridionali di un sistema creditizio e finanziario che sia in grado di accompagnare e promuovere la crescita dimensionale, l'innovazione e l'internazionalizzazione delle imprese, anche con particolare riferimento alle iniziative in essere, quali quelle della Banca del Mezzogiorno, attraverso un chiaro utilizzo delle risorse, espressamente diretto al soccorso delle piccole e medie imprese meridionali;
   a valutare l'opportunità di definire progetti finalizzati al rientro nelle regioni di provenienza dei giovani ad alta e altissima qualificazione universitaria e post-universitaria, contribuendo in tal modo ad invertire i consistenti flussi di emigrazione che coinvolgono in modo preoccupante le migliori energie intellettuali del Mezzogiorno;
   a valutare l'opportunità di porre in essere iniziative che favoriscano e incentivino il consolidamento di un tessuto imprenditoriale meridionale, creando un contesto favorevole allo sviluppo economico ed alla crescita dell'occupazione;
   a valutare l'opportunità di operare, partendo dall'esigenza di tutelare e valorizzare le produzioni tipiche del Mezzogiorno, per l'affermazione di una filiera agricola tutta italiana, che parta proprio dalla specifica vocazione del territorio e che voglia investire sulle positività, per garantire i livelli occupazionali e dare ai produttori la giusta remunerazione;
   ad avviare con estrema urgenza un piano di interventi strutturali e infrastrutturali a sostegno della crescita e dello sviluppo dell'intera regione meridionale incentivando e promuovendo le tematiche ambientali;
   ad avviare ogni iniziativa utile a promuovere la raccolta differenziata, il riciclo e la trasformazione dei rifiuti, cogliendo tali opportunità anche a fini occupazionali;
   a valorizzare, d'intesa con le regioni, processi di infrastrutturazione sociale che stimolino – in particolare nel Mezzogiorno – il protagonismo dei soggetti locali, forme di cooperazione tra soggetti privati e pubblici, la mutualità, il microcredito, prestiti d'onore ai giovani, la realizzazione di imprese no profit e di cooperative di produzione e lavoro, l'espansione delle forme di economia civile, anche sostenendo la realizzazione di fondazioni di comunità o istituendo fondi di distretto, con una particolare attenzione alla piccola e media impresa;
   a promuovere iniziative volte a selezionare, previa individuazione, le strutture, i siti, i beni di più grande interesse ubicati nel Meridione e abbandonati e procedere alla loro valorizzazione sul piano nazionale;
   a promuovere iniziative volte a favorire, sin dall'età scolare, percorsi educativi finalizzati a stimolare un cambio culturale che determini già in età giovanile l'educazione all'impresa con particolare riferimento a quella legata alle risorse dei luoghi;
   a promuovere interventi urgenti di contrasto al lavoro nero attraverso controlli stratificati sul territorio e, nello specifico, nelle aree meridionali;
   ad utilizzare, nell'ambito delle politiche nazionali, la leva fiscale e contributiva in favore delle piccole imprese e della famiglia;
   a definire un piano nazionale di contrasto alla povertà che presti una particolare attenzione alle regioni del Mezzogiorno.
(1-00621)
«Baldassarre, Currò, Rostellato, Barbanti, Tripiedi, Bechis, Chimienti, Ciprini, Cominardi, Rizzetto».
(13 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    la Svimez, Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno, nell'anticipazione del rapporto 2014 sull'economia del Mezzogiorno, presentato a fine luglio 2014, ha sostenuto che il sud Italia sta scivolando verso il deserto industriale sociale;
    la dimensione di quello che pare un inarrestabile declino è evidenziata dalle seguenti cifre:
     a) per il settimo anno consecutivo il prodotto interno lordo del Mezzogiorno registra segno negativo: nel 2013 il prodotto interno lordo è sceso nel Mezzogiorno del 3,5 per cento, in misura maggiore rispetto all'anno precedente (-3,2 per cento); il prodotto interno lordo pro capite è tornato ai livelli di dieci anni fa: 16.888 euro nel 2013 contro i 16.511 euro del 2005;
     b) sono paralizzate le opere pubbliche: nel 2012 fatta pari a 100 la spesa in titolo al Centro-Nord, la spesa nelle regioni meridionali è pari a 67; si spende un quinto di quando si spendeva negli anni Settanta;
     c) negli anni 2008-2013 il settore manifatturiero al Sud ha perso il 27 per cento del proprio prodotto e gli investimenti nell'industria sono diminuiti del 53 per cento. Il settore delle costruzioni si è contratto del 35,3 per cento, contro il 23,8 per cento del Centro-Nord. Nel solo 2013 l'industria si è contratta del 7,6 per cento (-3,2 per cento al Centro-Nord). L'agricoltura dello 0,2 per cento al Sud (+0,6 per cento al Centro-Nord);
     d) gli occupati sono scesi sotto i 6 milioni (5,8 milioni) per la prima volta dal 1977;
     e) negli anni 2008-2013 i consumi delle famiglie si sono ridotti del 13 per cento; nel solo 2013, del 2,4 per cento, risultando, tale percentuale, di oltre due volte maggiore di quella registrata nel resto del Paese (-5,7 per cento nel periodo considerato);
     f) nel 2013 la povertà assoluta è aumentata del 2,8 per cento contro lo 0,5 per cento del Centro-Nord; in cinque anni le famiglie meridionali in stato di assoluta indigenza sono cresciute da 443 mila a 1 milione e 14 mila nuclei;
    in questo ambito, particolarmente grave risulta la situazione della Campania dove, nel periodo di crisi:
     a) gli investimenti pubblici sono crollati del 44,7 per cento;
     b) i consumi delle famiglie sono diminuiti del 14,2 per cento;
     c) il saldo occupazionale (dati Unioncamere) nel 2014-2014 registrerà un valore negativo di 33.500 unità, con un crollo dell'occupazione nelle piccole e medie imprese;
     d) il tasso di occupazione è stimato al 40 per cento, inferiore di 17 punti della media nazionale; il tasso di disoccupazione è aumentato dal 22,2 del primo trimestre 2013 al 23,5 del primo trimestre 2014;
    le famiglie campane pagano imposte locali più alte del 20 per cento rispetto alla media nazionale;
    i servizi di welfare sono ridotti al minimo, in quanto i dai dati diffusi a maggio 2014 dal Ministero della salute, la Campania è al di sotto del punteggio minimo di 130, totalizzando invece 117, ultima tra le regioni; peraltro, la vita media dei campani è di 18 mesi più bassa di quella del resto degli italiani;
    le politiche di sviluppo basate sull'utilizzo dei fondi comunitari, molto spesso sostitutivi delle risorse statali per gli investimenti, registrano dati fortemente negativi per tutte le regioni meridionali; anche in questo caso i dati diffusi dall'Eurispes ad agosto 2014 parlano di un Paese a 2 velocità; da una parte il Nord dove sono stati spesi circa il 75 per cento dei finanziamenti; dall'altra il Sud nel quale si registrano stati di attuazione dei programmi operativi particolarmente modesti;
    per quanto riguarda il fondo europeo per lo sviluppo regionale (Fers, per il quale il tasso di utilizzo dell'Unione europea è del 61 per cento), la Campania si ferma al 33,3 per cento, la Calabria al 36,5 per cento, la Sicilia al 40,5 per cento. Quanto al fondo sociale europeo (Fse, per il quale il tasso di utilizzo dell'Unione europea è del 58,6 per cento), l'utilizzo è bloccato al 56,4 per cento in Sicilia, al 59,1 per cento in Campania, al 62 per cento in Puglia; complessivamente tra fondi europei per lo sviluppo regionale e fondo sociale europeo gli stanziamenti non spesi sono: 2,52 su 3,99 miliardi di euro in Campania, 2,4 su 4,3 miliardi di euro in Sicilia; 1,3 su 3,25 miliardi di euro in Puglia; 1,12 su 1,92 miliardi di euro in Calabria, 146 milioni di euro su 429 in Basilicata;
    le risorse originariamente programmate nel quadro strategico nazionale 2007-2013 ammontavano originariamente a oltre 60 miliardi di euro, di cui circa 28,8 miliardi di euro di fondi strutturali provenienti dall'Unione europea e circa 31,6 miliardi di euro di risorse di cofinanziamento nazionale (iscritti sul fondo di rotazione per l'attuazione delle politiche comunitarie previsto dalla legge n. 183 del 1987), destinati a finanziare tre obiettivi prioritari di sviluppo;
    la gran parte di tali risorse, 43,6 miliardi di euro, all'incirca il 75 per cento del totale, risultava destinate all'obiettivo «convergenza», che interessa le regioni Calabria, Campania, Puglia, Sicilia, cui si aggiunge la Basilicata (considerata in regime di phasing-out dall'obiettivo «convergenza»). All'obiettivo «competitività», che interessa tutto il Centro-Nord, l'Abruzzo e il Molise, nonché la Sardegna (in regime di phasing-in) erano assegnati 15,8 miliardi di euro (circa il 22 per cento delle risorse complessivamente destinate all'Italia). La quota residua, 0,8 milioni di euro, interessa i programmi dell'obiettivo «cooperazione territoriale»;
    a seguito del piano di azione per la coesione, l'ammontare complessivo delle risorse destinate ai programmi operativi (quota comunitaria più cofinanziamento nazionale) si è ridotto da 60,1 miliardi di euro (28,5 miliardi di euro di fondi comunitari e 31,6 miliardi di euro di cofinanziamento) a circa 48,5 miliardi di euro. Sulla base delle informazioni disponibili (fornite dalla Ragioneria generale dello Stato), alla data del 30 giugno 2014 le risorse ancora da spendere entro il 31 dicembre 2015 (termine ultimo per effettuare pagamenti) ammontano a circa 20 miliardi di euro, la maggior parte dei quali (15 miliardi di euro) nell'area dell'obiettivo «convergenza»;
    nelle sedi parlamentari il Sottosegretario di Stato Delrio ha denunciato come «nonostante gli sforzi enormi fatti dai miei predecessori nel cercare di recuperare il tempo perduto, la programmazione 2007-2013 è la peggiore in termini di risultato nella spesa.». Ad aprile 2014 il Governo ha effettuato una nuova riprogrammazione dei fondi dell'Unione europea 2007-2013 per evitare di perdere 5 miliardi di euro;
    il Sottosegretario di Stato Delrio ha infine annunciato che, salvo modifica delle quote di cofinanziamento, la programmazione 2014-2020 potrà contare su 32 miliardi di euro di fondi strutturali europei cui ne vanno aggiunti altrettanti di cofinanziamenti nazionali (24 miliardi di euro a carico dello Stato, il resto a carico delle regioni). Il Sottosegretario di Stato Delrio ha anche indicato tre priorità per questo nuovo programma: competitività delle imprese, occupazione e istruzione/formazione;
    nel corso degli ultimi quattro anni numerosi sono stati i tentativi di approvare norme di accelerazione di spesa dei fondi comunitari:
     a) la delibera del Cipe n. 1 del 2011 redatta dal Governo Berlusconi ha definito le linee operative del «piano per il Sud», individuando un percorso per l'accelerazione e la riprogrammazione delle risorse destinate alle aree sottoutilizzate, sia quelle di carattere aggiuntivo, previste dal Fondo per lo sviluppo e la coesione (ex Fondo per le aree sottoutilizzate), sia quelle definite dai fondi strutturali dell'Unione europea, mediante la fissazione di target di impegno e di spesa certificata alla Commissione europea, che tuttavia non ottenne risultati significativi;
     b) la legge finanziaria per il 2012 (l'ultima legge approvata dal Governo Berlusconi) esclude dal patto di stabilità «le spese correnti e in conto capitale per interventi cofinanziati correlati ai finanziamenti dell'Unione europea», tuttavia il mancato conteggio opera «con esclusione delle quote di finanziamento statale e regionale»;
     c) nel novembre 2011, preso atto degli insoddisfacenti esiti del «piano per il Sud», è stato adottato il «piano di azione per la coesione», con lo scopo di superare i ritardi che si sono registrati, a cinque anni dall'avvio dell'operatività dei fondi strutturali 2007-2013. Il piano definiva un'azione strategica di concentrazione degli investimenti in quattro ambiti prioritari di interesse strategico nazionale (istruzione, Agenda digitale, occupazione e infrastrutture ferroviarie), attingendo ai fondi che si rendono disponibili, anche attraverso una riduzione del tasso di cofinanziamento nazionale degli interventi dei fondi strutturali;
    il decreto-legge n. 201 del 2011 (il cosiddetto «salva Italia» del Governo Monti), convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011, prevede (articolo 3, comma 1) di escludere 1.000 milioni di euro per l'anno 2012, 1.800 milioni di euro per l'anno 2013 e 1.000 milioni di euro per l'anno 2014 «delle spese effettuate a valere sulle risorse dei cofinanziamenti nazionali dei fondi strutturali comunitari»;
    l'articolo 4 del decreto-legge n. 76 del 2013, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 99 del 2013, al fine di rendere disponibili le risorse derivanti dalla riprogrammazione dei programmi nazionali cofinanziati dai fondi strutturali 2007-2013, disponeva per le amministrazioni titolari dei programmi operativi interessati di avviare entro il 28 luglio 2013 le necessarie procedure atte a modificare i pertinenti programmi, sulla base della vigente normativa europea;
    l'articolo 9 del decreto-legge n. 69 del 2013 (cosiddetto «destinazione Italia»), convertito, con modificazioni, dalla legge n. 98 del 2013, riguarda l'accelerazione nell'utilizzazione dei fondi strutturali europei e ha disposto che le amministrazioni pubbliche debbono dare la precedenza, nella trattazione degli affari di competenza «(...) alle attività in qualsiasi modo connesse all'utilizzazione dei fondi strutturali europei (...)»; inoltre «(...) per non incorrere nelle sanzioni previste dall'ordinamento dell'Unione europea per i casi di mancata attuazione dei programmi e dei progetti cofinanziati con fondi strutturali europei e di sottoutilizzazione dei relativi finanziamenti, relativamente alla programmazione 2007-2013, in caso di inerzia o inadempimento delle amministrazioni pubbliche responsabili degli interventi, lo Stato esercita il potere sostitutivo di cui all'articolo 120 della Costituzione» (violazione di norme o di trattati internazionali);
    l'articolo 9-bis dello stesso decreto-legge n. 69 del 2013 prevede la stipula di un contratto istituzionale di sviluppo, promosso dal Ministro per la coesione territoriale o dalle amministrazioni titolari dei nuovi progetti strategici, finanziati con risorse nazionali, dell'Unione europea e del fondo per lo sviluppo e la coesione;
    l'articolo 12 del decreto-legge n. 133 del 2014, cosiddetto «sblocca Italia», interviene di nuovo sulla materia della spesa dei fondi comunitari. Si affidano nuove funzioni al Presidente del Consiglio dei ministri al fine di accelerare l'impiego delle relative risorse ed evitare il rischio di incorrere nell'attivazione delle sanzioni comunitarie; sentita la Conferenza unificata, avrà la facoltà di proporre al Cipe il definanziamento e la riprogrammazione delle risorse non impegnate. Sono poi richiamati i poteri già previsti dall'articolo 9 del decreto-legge n. 135 del 2013 (cosiddetto «destinazione Italia»), convertito, con modificazioni, dalla legge n. 9 del 2014;
    gli uffici della Commissione europea hanno studiato questa «difficoltà strutturale». La diagnosi è stata impietosa: inadeguatezza a realizzare politiche pubbliche per incapacità amministrativa. Agli enti che gestiscono i fondi europei è stato dunque imposto uno strumento, il piano di rafforzamento amministrativo, che potrebbe creare l'indispensabile discontinuità;
    tuttavia, una ragione rilevante dell'incapacità di spesa consiste nel patto di stabilità comunitario. La quota dell'Unione europea non si riesce a spendere perché le regioni, in particolare quelle del Sud, non possono mettere a bilancio le risorse di cofinanziamento, altrimenti sforerebbero il patto di stabilità. Le regioni del Nord che hanno bilanci più corposi riescono meglio nella spesa;
    nel vertice sul lavoro del 9-10 ottobre 2014 l'Italia, sostenuta dalla Francia, ha avanzato la proposta, da formalizzare per il previsto vertice del 23 ottobre 2014, di escludere dal calcolo del deficit il cofinanziamento nazionale dei fondi europei. Per cofinanziare i progetti da attivare fino al 2020, l'Italia intende proporre un proprio apporto per 24 miliardi di euro. Una somma che, divisa per i sette anni del programma (2014-2020), assegna 3,5 miliardi di euro in più l'anno da spendere senza sfondare il tetto del rapporto deficit/prodotto interno lordo del 3 per cento. In cambio, l'Italia si impegnerebbe a concentrare la spesa sugli obiettivi indicati da Bruxelles e potenziare i controlli preventivi;
    la risposta della Germania, nonostante il fatto che la crisi cominci a mordere anche l'economia tedesca, che abbisogna quindi di manovre più espansive, si è limitata a valutare la possibilità di escludere dal patto di stabilità 1,5 miliardi di euro di spese cofinanziate dagli Stati per il programma «Garanzia giovani»,

impegna il Governo:

   a rafforzare le attività in sede europea affinché vengano assicurati adeguati spazi finanziari di agibilità della spesa a titolo di concorso al cofinanziamento del fondo europeo per lo sviluppo regionale e del fondo sociale europeo, anche in concorso con altri Stati, con i quali individuare piattaforme comuni;
   ad assumere iniziative volte a rafforzare i poteri di accelerazione dell'impiego delle risorse, di controllo e sostitutivi previsti dall'articolo 9 del decreto-legge n. 69 del 2013, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 98 del 2013, e dall'articolo 12 del decreto-legge n. 133 del 2014 e, in tale ambito, a rendere pienamente operativa l'Agenzia per la coesione territoriale eventualmente rafforzandone i poteri sostitutivi;
   a garantire che la programmazione infrastrutturale per le regioni meridionali rappresenti l'elemento centrale dei programmi dei fondi strutturali europei 2007-2013 e 2014-2020 e, in tale ambito, nel disegno di legge di stabilità per il 2015, a promuovere una politica di investimento degli enti locali, accompagnata da una revisione delle regole del patto di stabilità per gli enti territoriali;
   a prevedere, nell'ambito della disegno di legge di stabilità per il 2015, l'adozione di iniziative specifiche per la regione Campania, in particolare per quel che riguarda il lavoro giovanile, il riassetto idrogeologico e la dotazione infrastrutturale.
(1-00624)
«De Girolamo, Dorina Bianchi, Calabrò, Alli, Bernardo, Bosco, Garofalo, Minardo, Misuraca, Pagano, Piccone, Piso, Saltamartini, Sammarco, Scopelliti, Tancredi, Vignali, Cicchitto».
(14 ottobre 2014)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE A SOSTEGNO DELLE POLITICHE DI GENERE

   La Camera,
   premesso che:
    non si può non sottolineare come – secondo quanto sostenuto anche dai più alti vertici istituzionali – valorizzare le donne non sia solo una questione etica, ma comporti anche importanti effetti sul piano economico, come dimostra la capacità delle donne di affermarsi e di dare il proprio contributo in tutti i campi, una volta che siano liberate da vincoli giuridici e da pregiudizi sociali;
    secondo il Global Gender Gap Report 2013 del World Economic Forum che ha esaminato il problema delle pari opportunità in diversi ambiti, dalla sanità, alle possibilità di sopravvivenza, all'accesso all'istruzione, alla partecipazione alla vita lavorativa, sociale e politica, l'Italia è all'ultimo posto tra Paesi europei e 71esima sui 136 Paesi analizzati;
    nonostante l'aumento dell'occupazione femminile riscontrato dal rapporto Istat 2013 e ascrivibile, in parte alla crescita delle occupate straniere, in parte alla concentrazione della forza lavoro femminile nel part-time involontario e nelle mansioni a bassa specializzazione, la quota di donne occupate in Italia rimane di gran lunga inferiore a quella dell'Unione europea (47,1 per cento contro 58,6 per cento). Inoltre, le donne continuano a essere pagate meno rispetto agli uomini. Il differenziale di genere italiano nelle retribuzioni è stato misurato dall'Unione europea di 5,8 per cento in Italia, come evidenziato dalla relazione pubblicata nella primavera 2013 sulla parità di genere. Svantaggio che si ritrova anche nelle retribuzioni di chi ha una laurea: gli uomini che hanno un titolo di studio elevato guadagnano in media il 19,6 per cento in più rispetto a chi ha il diploma, per le donne lo scarto tra i diversi livelli di istruzione si riduce al 14,9 per cento;
    la minore partecipazione delle donne al mondo del lavoro, soprattutto in questa fase prolungata di crisi economica, è una perdita di opportunità per l'economia e la società. Come già evidenziato nel 2010 da uno studio condotto dalla Banca d'Italia «l'aumento del tasso di occupazione femminile influenzerebbe positivamente il Pil. Nel nostro Paese, ad esempio, il conseguimento dell'obiettivo del Trattato di Lisbona di un tasso di occupazione femminile al 60 per cento comporterebbe un aumento del Pil fino al 7 per cento, che toccherebbe i 12 punti se l'occupazione femminile eguagliasse quello maschile in ciascuna ripartizione geografica»;
    la difficoltà di inserimento delle donne nel mondo del lavoro è legata anche a problemi di conciliazione tra lavoro e famiglia e al fatto che, rispetto agli uomini, le donne impiegano una parte maggiore del loro tempo in attività di cura non retribuite. Secondo recenti dati dell'Ocse, una donna italiana lavora in media 58,6 ore a settimana, contro le 47,7 di un uomo. Di queste, quasi i due terzi (36,1 ore) sono però di lavoro non retribuito – cura di bambini e anziani, pulizie domestiche, cucina e altri lavori legati alla casa e alla famiglia – mentre solo poco più di 22 ore sono retribuite. Una situazione nettamente opposta rispetto a quella degli uomini, per cui il lavoro retribuito rappresenta oltre 33 ore su 47 (quasi undici in più delle donne), mentre quello non retribuito è di sole 14,5 ore, oltre 21 in meno rispetto alla parte femminile;
    questo gap colloca l'Italia al primo posto tra i 34 Paesi Ocse per differenza tra uomini e donne nella distribuzione del lavoro non pagato, nettamente davanti a Francia (12,6 ore non retribuite in più per le donne), Gran Bretagna (12,2 ore), Usa (9,5 ore) e Germania (6,6 ore);
    i divari nella partecipazione femminile al mercato del lavoro possono essere ridotti considerevolmente attraverso politiche mirate di welfare, con efficaci servizi all'infanzia e alla famiglia, come dimostrano esperienze di altri Paesi europei. Tuttavia, dati Istat evidenziano come l'offerta pubblica sul territorio di asili nido sia non solo mediamente insufficiente, ma abbia visto nel 2012 anche enormi disparità geografiche, andando dall'80 per cento di comuni coperti dal servizio in regioni come l'Emilia-Romagna, il Friuli Venezia Giulia e la Valle d'Aosta al 13 per cento della Calabria, che presenta il livello regionale più basso di copertura;
    flessibilità degli orari di lavoro ed imprenditorialità sono due strumenti fondamentali per l'inclusione delle donne nel mercato del lavoro, la loro affermazione professionale e la crescita complessiva dell'economia. Tuttavia, sul fronte dei programmi di flessibilità, si rileva un forte ritardo italiano: se nei Paesi europei più avanzati il 36 per cento può accedere a strumenti di flessibilità, in Italia solo il 10 per cento ha questa possibilità;
    con la legge di stabilità per il 2013 (articolo 1, comma 339, legge 24 dicembre 2012, n. 228) è stata introdotta, dando attuazione alla direttiva dell'Unione europea n. 2010/18/UE, la possibilità di frazionare ad ore la fruizione del congedo parentale. In merito alle modalità di fruizione del congedo su base oraria, ai criteri di calcolo e all'equiparazione di un determinato monte ore alla singola giornata lavorativa, è stato demandato il tutto alla contrattazione collettiva di settore;
    sul fronte imprenditoriale si rilevano alcuni passi in avanti, anche grazie a numerose iniziative e a incentivi per l'imprenditorialità femminile: secondo dati Unioncamere tra marzo 2012 e marzo 2013 le imprese al femminile hanno allungato il passo, aumentando il loro numero di oltre 10 mila unità. Tuttavia, gli stessi dati evidenziano una maggiore fragilità finanziaria delle imprese femminili rispetto alla media: il 72 per cento di esse, infatti, opera con un capitale sociale di meno di 10 mila euro, contro il 67 per cento della media delle imprese;
    la necessità di un maggior supporto all'imprenditoria femminile è legata non solo e non tanto ad esigenze di parità, ma soprattutto ad esigenze di rafforzamento del tessuto economico e produttivo del Paese. Un'indagine McKinsey nei Paesi dell'Unione europea ha rilevato come le performance economiche delle imprese dove ci sono molte donne in azienda è migliore rispetto alle altre: il ritorno sul capitale investito è superiore del 10 per cento alla media e l'utile, prima di togliere le tasse, quasi raddoppia;
    una maggiore integrazione delle donne nel mercato del lavoro e l'eliminazione delle differenze di genere sono, inoltre, uno degli obiettivi chiave dell'Unione europea, che ha attivato numerosi strumenti in tale direzione. Il Trattato sul funzionamento dell'Unione europea nell'articolo 8 pone come obiettivo della sua azione l'eliminazione di discriminazioni e la promozione della parità tra uomini e donne: con gli articoli 21 e 23 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, la parità fra uomini e donne in tutti i settori viene considerata a pieno titolo quale principio fondamentale del diritto comunitario, principio da applicarsi ovviamente anche in materia di occupazione e di impiego;
    tra i programmi comunitari per il periodo 2014-2020, l'Unione europea ha deciso di stanziare 439 milioni di euro per progetti legati alla lotta contro la discriminazione e la parità fra donne e uomini e le priorità sono: pari indipendenza economica, pari retribuzione, parità nel processo decisionale e contrasto alla violenza di genere;
    nella raccomandazione specifica per Paese rivolta nel 2012 dalla Commissione europea all'Italia si legge l'invito ad «Adottare ulteriori provvedimenti per incentivare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, in particolare fornendo servizi per l'infanzia e l'assistenza agli anziani (...)»; nella raccomandazione del 2013 sul programma di stabilità dell'Italia 2012-2017 la Commissione europea afferma che: «La partecipazione delle donne al mercato del lavoro resta modesta e l'Italia presenta uno dei maggiori divari di genere nell'occupazione a livello di UE»;
    anche nelle previsioni di stanziamento per il quadro finanziario pluriennale 2014-2020 per l'erogazione dei fondi comunitari del quadro strategico comune, la Commissione europea ha proposto un nuovo approccio per l'utilizzo dei fondi stessi, in linea con le priorità politiche dell'Agenda Europa 2020, suggerendo in particolare all'Italia di porre tra gli obiettivi di priorità di finanziamento la parità tra uomini e donne e la conciliazione tra vita professionale e vita privata/familiare;
    nel nostro Paese la definizione di politiche per le pari opportunità è stata avviata con consistente ritardo rispetto ad altri Paesi europei: solo negli anni Settanta i legislatori hanno riconosciuto il principio della parità nelle diverse sfere della vita sociale; è poi con la legge n. 125 del 1991, che dispone di «rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità», che prendono il via alcune importanti disposizioni che mirano a creare le condizioni per il riequilibrio dei ruoli sociali e familiari di uomini e donne: sul lavoro a tempo parziale (decreto legislativo n. 61 del 2000), sulla conciliazione (legge n. 53 del 2000) e quote rose nei consigli di amministrazione delle società per azioni quotate (legge n. 120 del 2011);
    con decreto del Ministro per le pari opportunità del 12 maggio 2009, furono erogati 40 milioni di euro, da distribuire alle regioni, per la realizzazione di «un sistema di interventi per favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro» inerente alla ripartizione delle risorse del fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità per l'anno 2009. Sulla base dell'esperienza maturata nell'ambito di tale piano d'intesa 2010, il 25 ottobre 2012 la Conferenza unificata Stato-regioni ha approvato l'intesa relativa alla «Conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per il 2012». Le regioni, con il coordinamento del dipartimento per le pari opportunità e grazie alle risorse stanziate dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, hanno avuto l'opportunità di realizzare un sistema di interventi per favorire la conciliazione tra tempi di vita e di lavoro e per consolidare, estendere e rafforzare sui territori regionali iniziative volte a promuovere l'equilibrio tra vita familiare e partecipazione delle donne e degli uomini all'interno del mercato del lavoro, favorendo le pari opportunità e contribuendo ad accrescere la produttività delle imprese;
    l'articolo 4, comma 24, lettera b), della legge n. 92 del 2012, ha previsto, per il triennio 2013-2015, la possibilità per le madri lavoratrici di richiedere, al termine del congedo di maternità e in alternativa al congedo parentale, un contributo di 300 euro mensili per l'acquisto di voucher e per i servizi di babysitting e asili nido pubblici o privati. La legge istitutiva della misura ha garantito 20 milioni di euro a copertura dell'operazione per il triennio sopra indicato che, secondo la relazione tecnica, avrebbe dovuto soddisfare per l'anno 2013 la domanda di 11.111 beneficiari. Tuttavia, all'avvio della misura il contributo ha riscosso pochissimo successo, come testimoniano le poche richieste pervenute: a fronte di potenziali 11.111 beneficiari, solo 3.762 lavoratrici, secondo dati Inps, sono state ammesse al beneficio, mentre dal punto di vista delle strutture accreditate per il servizio, meno di un terzo degli asili pubblici o privati nazionali si sono convenzionati con lo Stato. Tra le principali cause si deve sicuramente annoverare la scarsa pubblicizzazione dell'iniziativa lasciata soltanto a comunicati stampa, senza un'adeguata promozione sui luoghi di lavoro e senza coinvolgimento di sindacati e associazioni datoriali;
    l'Ufficio nazionale della consigliera di parità del Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha stanziato e usato il piccolo fondo a disposizione per organizzare e realizzare ben 20 incontri territoriali per donne disoccupate e inoccupate su varie città in tutta Italia, 12 seminari informativi sempre territoriali anche in collaborazione con gli ispettori del lavoro, i consulenti del lavoro e le consigliere di parità, 23 incontri nelle scuole medie superiori e distribuzione di piccole guide per gli studenti per affrontare il mercato del lavoro;
    nonostante l'impegno di molti soggetti ed operatori e le numerose iniziative messe in campo negli ultimi anni, i dati sulla partecipazione delle donne al mercato del lavoro, sulla loro opportunità di crescita professionale e di conciliazione tra vita e lavoro restano ancora molto bassi, come testimoniato dalla percentuale crescente di donne che non tornano più a lavoro a due anni dal parto: 22,3 per cento nel 2012 contro il 18,4 per cento del 2005 secondo dati Istat. Un dato che si ripercuote sulle donne, rendendole più fragili, più soggette a pressioni economiche, psicologica e purtroppo anche di violenza, ma che, soprattutto, si ripercuote sulle possibilità di crescita, di tenuta economica e sociale del nostro Paese,

impegna il Governo:

   a sostenere, nel contesto del semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea, le politiche di genere quale priorità per la crescita sostenibile e l'occupazione, supportando gli investimenti in capitale umano e strumentale;
   ad effettuare, entro il primo semestre del 2015, un puntuale monitoraggio sullo stato effettivo delle risorse attualmente impiegabili e disponibili in un'ottica di genere;
   ad applicare una prospettiva di genere nella programmazione e nelle politiche di bilancio, a partire dai futuri esercizi di bilancio e comunque dai prossimi provvedimenti utili di allocazione di risorse e di programmazione di attività;
   ad assumere ogni iniziativa di competenza affinché le parti sociali procedano a una rapida definizione delle modalità di fruizione del congedo parentale su base oraria;
   ad assumere iniziative per una razionalizzazione e valorizzazione degli organismi di parità italiani come indicato dalle direttive europee;
   a sensibilizzare, anche in sede di rinnovo del contratto Rai, il servizio pubblico radiotelevisivo ad una maggiore attenzione in merito alla diffusione e alla promozione delle buone pratiche e delle iniziative, anche normative, intraprese sia dallo Stato sia dall'Unione europea a favore dell'occupazione femminile, in collaborazione con gli organismi di pari opportunità;
   a mettere in campo tutti gli strumenti necessari per incentivare le politiche di conciliazione attraverso il potenziamento delle politiche attive per l'occupabilità femminile e dei servizi per il welfare, con particolare attenzione alla realizzazione di un numero adeguato di asili nido su tutto il territorio nazionale, al telelavoro, al part-time e alla promozione degli orari di lavoro flessibili;
   a sostenere lo sviluppo dell'imprenditoria femminile attraverso il sostegno all'accesso al credito delle imprese femminili e una valutazione attenta delle politiche economiche attuate e dei loro risultati, nell'ottica di un costante miglioramento e potenziamento della loro efficacia.
(1-00272)
(Nuova formulazione) «Tinagli, Carfagna, Giuliani, Dorina Bianchi, Binetti, Di Salvo, Amendola, Bergamini, Biffoni, Calabria, Capua, Centemero, Antimo Cesaro, Cimmino, D'Agostino, D'Alessandro, De Maria, Faenzi, Ferranti, Gasparini, Gelmini, Giammanco, Giulietti, Gribaudo, Laffranco, Locatelli, Martelli, Mattiello, Marzano, Milanato, Moretti, Nesi, Oliaro, Paris, Piccoli Nardelli, Polverini, Prestigiacomo, Andrea Romano, Rossomando, Rotta, Sandra Savino, Tartaglione, Vargiu, Vecchio, Venittelli, Verini, Vezzali, Iori, Raciti, Cominelli, De Micheli, La Marca, Gregori, Marchetti, Malpezzi, Lodolini, Tidei, Sbrollini, Scuvera, Carlo Galli, Giampaolo Galli, Chaouki, Saltamartini, Gebhard».
(2 dicembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    tra le varie forme di violenza e discriminazione vi sono sovente attacchi alla donna. Suscita allarme il fatto che gli episodi di abuso e violenza contro le donne siano in perdurante crescita, nonostante siano state introdotte fondamentali leggi, come quella per il contrasto della violenza di genere (decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119) o la ratifica della Convenzione del Consiglio d'Europa per la prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, meglio nota come Convenzione di Istanbul; in particolare, occorre rilevare che l'articolo 7 della suddetta Convenzione prevede che lo Stato ratificante adotti misure legislative, e di altro tipo, necessarie per predisporre e attuare politiche nazionali efficaci, globali e coordinate, comprendenti tutte le misure adeguate destinate a prevenire e combattere ogni forma di violenza che rientri nel campo di applicazione della predetta Convenzione ed a fornire una risposta globale al problema della violenza contro le donne. In buona sostanza, gli Stati che hanno ratificato la Convenzione di Istanbul devono mettere in campo adeguate risorse finanziarie ed umane tali da realizzare i programmi e le politiche volte a combattere il fenomeno della violenza sulle donne, essendo altresì tenuti ad istituire un organismo che coordini e monitori tutte le misure destinate allo scopo in quanto previste della Convenzione medesima;
    fatta questa dovuta premessa appare chiaro che il terreno di coltura della violenza e del sopruso affondi le radici sul piano culturale e alla luce di ciò vada pertanto aggredito e sconfitto attraverso la definitiva emancipazione della donna in tutti gli ambiti del vivere comune e sociale, con specifico riferimento non solo alla famiglia, ma anche e sopratutto al lavoro. Le pari opportunità nel mondo del lavoro costituiscono, tra le altre cose, l’humus necessario a contrastare ogni forma di violenza a danno della donna, in quanto trattasi di violenza psicologica finalizzata alla subordinazione e alla prevaricazione, che nella maggior parte dei casi costituisce l'incubatore della violenza fisica vera e propria;
    si tenga conto che la violenza psicologica a danno della donna attecchisce in primis in ambito familiare con comportamenti del partner, solitamente l'uomo, caratterizzati da una sottile, ripetuta e perversa forma di violenza, appunto, psicologica, che, protratta nel tempo, tende ad annullare la personalità della vittima sino al suo annientamento; si tratta di una fattispecie poco esplorata sia dalla sociologia che dalla giurisprudenza, a cui non si è prestata sufficiente attenzione, ma che riveste, sotto il profilo della incidenza sociale, significativo rilievo e che deve essere urgentemente affrontata con tutti i mezzi a disposizione. Di più, tale tipologia di violenza si interseca con quella perpetrata sui luoghi di lavoro dove la figura della donna appare ancora in molti casi posta in una posizione di fragilità e/o subordinazione rispetto all'uomo. La normativa giuslavoristica non pare sia riuscita ad oggi a valicare i vari problemi legati alle ipotesi di mobbing, talora basate sul ricatto, che ruotano attorno alla figura femminile e sarebbe pertanto opportuno determinare delle fattispecie normative ad hoc, tanto in relazione alla violenza psicologica endofamiliare quanto rispetto a quella che si perpetra nei luoghi di lavoro;
    anche sulla base dei sopraddetti retaggi sociologici e culturali, proliferano le criticità legate alle opportunità occupazionali nell'universo femminile che risultano palesemente più limitate rispetto a quelle offerte alle figure maschili. Si consideri che in Italia sono donne soltanto il 6,5 per cento degli ambasciatori, il 31,3 per cento dei prefetti, il 14,6 per cento dei primari, il 20,3 per cento dei professori ordinari e – nei ministeri – il 33,8 per cento dei dirigenti di prima fascia. Sempre in Italia, più di 5 donne su 10 sono senza reddito da lavoro e, per quelle che il reddito lo hanno, la retribuzione media pro capite (calcolata tra impiegate e operaie) si ferma sotto i 25 mila euro annui, mentre quella di un uomo sfonda il tetto dei 31 mila euro. Peraltro, ostacoli e pregiudizi, talora inconsapevoli, condizionano le scelte formative delle ragazze e, di conseguenza, il loro inserimento nel mercato del lavoro. Pure la ricerca di un lavoro coerente con il proprio percorso di studi è molto più ardua per le donne: a fronte di un 18 per cento dei maschi che non ha trovato un impiego coerente con il proprio ambito di studi, la percentuale sale di oltre dieci punti percentuali nel caso delle donne. V’è da sottolineare che gli indirizzi scolastici universitari privilegiati dalle donne risultano essere spesso disallineati rispetto alle opportunità offerte dal mondo del lavoro. Un problema serio è anche quello relativo all'orientamento scolastico e universitario laddove gli indirizzi scolastici e universitari privilegiati dalle donne presentano tassi di occupazione ridotti e salari modesti (circa 1.200 euro netti al mese a 5 anni dalla laurea), mentre solo il 20-30 per cento opta per una formazione tecnico scientifica (1.500 euro netti mensili a 5 anni dalla laurea) che attualmente schiude in misura maggiore le opportunità occupazionali;
    in questo quadro, già di per sé tutt'altro che confortante, si inseriscono discriminazioni nelle discriminazioni che colpiscono le donne residenti nel Sud d'Italia: basti pensare che quasi la metà (il 48 per cento) dei residenti nel Mezzogiorno è a rischio di povertà. Nel Meridione e nelle Isole il 50 per cento delle famiglie percepisce meno di 20.129 euro (circa 1.677 euro mensili), il reddito medio delle famiglie che vivono nel Mezzogiorno è pari al 73 per cento di quello delle famiglie residenti al Nord. Da varie indagini si evince che la situazione lavorativa del Sud Italia è molto più difficile rispetto a quella del Centro e del Nord Italia, sia dal punto di vista occupazionale sia da quello retributivo; in particolare, si registra un elevato differenziale tra la disoccupazione del Sud e del Nord, un aumento del flusso migratorio dalle regioni del Sud verso Nord ed una significativa disparità retributiva, atteso che, per chi lavorava al Nord, la retribuzione risulta superiore dell'8,2 per cento rispetto a chi lavorava nel Meridione;
    ancora con riferimento alla principio di parità di genere nel mondo del lavoro, si osserva che la perdurante carenza di effettive politiche di conciliazione tra vita familiare e lavoro ha concorso all'aumento della disoccupazione femminile, con effetti negativi per lo sviluppo e la competitività del nostro Paese;
    i dati illustrati nel rapporto Save the children del 2012 evidenziano che, già nel biennio 2008-2010, l'occupazione femminile è fortemente diminuita a fronte di un incremento dell'occupazione non qualificata rispetto a quella qualificata; in particolare:
     a) il dato dell'occupazione delle donne e mamme nel 2010 si attesta al 50,6 per cento per le donne senza figli – ben al di sotto della media europea pari al 62,1 per cento – ma scende al 45,5 per cento già al primo figlio (di età inferiore ai 15 anni), per perdere quasi 10 punti (35,9 per cento) se i figli sono 2 e toccare quota 31,3 per cento nel caso di 3 o più figli;
     b) se l'interruzione del rapporto di lavoro per nascita di un figlio è tra le ragioni principali della fuoriuscita dal mercato del lavoro delle donne, bisogna considerare che spesso non si tratta di una loro libera scelta: nel solo periodo tra il 2008 e il 2009 ben 800.000 mamme hanno dichiarato di essere state licenziate o di aver subito pressioni in tal senso in occasione o a seguito di una gravidanza, anche grazie all'odioso strumento delle «dimissioni in bianco»;
     c) le interruzioni del lavoro poste in essere in concomitanza della nascita di un figlio, che erano il 2 per cento nel 2003, sono quadruplicate nel 2009, diventando l'8,7 per cento del totale delle interruzioni di lavoro;
    i predetti allarmanti dati trovano triste continuità nei recenti dati forniti da Istat e riferiti al primo trimestre del 2014, che confermano il progressivo aumento della disoccupazione delle donne: a fronte di un impercettibile rialzo dell'occupazione maschile si registra, difatti, una significativa diminuzione di quella femminile (rispettivamente più 0,6 e meno 0,3 su base congiunturale; più 0,3 e meno 1,0 su base annua). Ad aprile 2014 le donne occupate erano 9.311.000, a maggio 9.263.000. Mentre il tasso di occupazione maschile sale al 64,8 per cento, quello femminile scende al 46,3 per cento: il tasso di disoccupazione femminile dal 13,3 per cento sale al 13,8 per cento. Oltre al dato disoccupazionale deve considerarsi un'altra anomalia della partecipazione delle donne al mercato del lavoro ovvero la presenza di una forte segregazione orizzontale. Da un'indagine condotta dall'Isfol nel 2012, recante «Analisi di genere del mercato del lavoro», risulta che le donne sono presenti massicciamente in specifici settori di servizi ritenuti «naturalmente femminili», che le confinano nelle qualifiche contrattuali più basse oltretutto con tipologie contrattuali non standard, quali il contratto a termine, l'associazione in partecipazione e la collaborazione continuata e continuativa. Inoltre, l'elevata presenza femminile nei lavori non standard presenta effetti di medio periodo differenti tra lavoratore e lavoratrice, in termini di prospettive di «stabilizzazione». L'Isfol rileva, difatti, che, tra gli uomini che nel 2008 avevano un contratto di lavoro atipico, il 59,4 per cento dopo due anni ha visto una trasformazione in contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato, mentre lo stesso fenomeno ha riguardato solo il 48,4 per cento delle donne. La cosiddetta trappola dell'atipicità risulta più gravosa per le donne che per gli uomini. Sempre l'Isfol sottolinea che le cause della disoccupazione femminile risiedono, oltre che in una diseguale divisione tra i partner dei carichi di lavoro familiari, nell'inadeguatezza dell'attuale modello di welfare, connotato dalla carenza di servizi pubblici per l'infanzia, oltreché di reti informali di supporto, e con un'organizzazione del lavoro poco conciliante e caratterizzata dalla rigidità dei tempi e degli orari, specie in relazione al periodo successivo al parto; in questo contesto di evidente criticità, le misure varate dal Governo non hanno dedicato spazio alcuno alle politiche finalizzate a rimuovere gli ostacoli strutturali alla realizzazione di pari opportunità e di effettiva conciliazione tra cura della famiglia e lavoro, ma, all'opposto, hanno finito per incrementare il trend involutivo sopra evidenziato;
    in ordine alle politiche di incentivo alle assunzioni – ivi comprese quelle delle donne – le misure introdotte dalla cosiddetta riforma Giovannini si sono rilevate fallimentari, a causa delle notevoli restrizioni agli sgravi fiscali previsti, che ne hanno, di fatto, reso impossibile l'utilizzo; anche il successivo intervento dell'attuale Governo, messo a punto con l'iniziativa «Garanzia giovani», non ha sortito alcun effetto positivo sull'occupazione delle donne: oltre ad una scarsa informazione sul contenuto dei piani attuativi regionali e sulla data di avvio del programma, va detto che l'offerta di posti di lavoro è disomogenea, frammentata e disorganica, in quanto ogni regione decide, in autonomia ed in base allo stanziamento di sua competenza, quali azioni finanziare tra quelle previste dal piano nazionale. Sul piano del diritto sostanziale, le modifiche introdotte dal Jobs act sulla disciplina del contratto a termine reso «acasuale» hanno solo incrementato il lavoro precario ed introdotto minori garanzie in caso di interruzione del rapporto per maternità: la flessibilità così concepita è unicamente finalizzata ad incrementare le performance aziendali e non tiene conto delle esigenze delle lavoratrici madri;
    le entrate dei comuni hanno subito una drastica diminuzione per effetto di tagli che hanno indotto molti comuni a ridurre drasticamente, se non addirittura ad eliminare l'offerta di servizi pubblici, quali asili nido, scuole a tempo pieno e centri di assistenza di supporto alle donne e alle mamme. Tale perdurante riduzione dei fondi da destinare alle spese nel settore dei servizi alla famiglia reca effetti negativi sull'occupazione femminile, a causa delle evidenti difficoltà di conciliare famiglia e lavoro, nonché effetti diretti sul personale impiegato nel settore dell'assistenza educativa;
    a fronte del quadro descritto, non sembra che abbia fornito risposte risolutive la misura del voucher, prevista dalla cosiddetta riforma Fornero, ovvero la possibilità per le madri lavoratrici di utilizzare, in alternativa al congedo parentale, «buoni» per l'acquisto di servizi di baby sitting per fare fronte agli oneri della rete pubblica dei servizi per l'infanzia o dei servizi privati accreditati; lo strumento del voucher non è risultato in grado di compensare la diminuzione di offerta di servizi pubblici oggi in atto in considerazione dell'esiguità delle risorse stanziate, pari a soli venti milioni di euro l'anno, della farraginosità della procedura di assegnazione del «buono» e della circostanza che si tratta di un intervento sperimentale, destinato a concludersi nel 2015, non promosso a sufficienza;
    questa assenza di serie e concrete politiche per la crescita, la disoccupazione dei giovani che sono costretti a vivere in famiglia imporranno ancora più carico di lavoro alle donne «anziane», che, con l'incremento dell'età pensionabile prevista dalla cosiddetta «legge Fornero», dovranno conciliare lavoro e famiglia per un numero maggiore di anni: un vero e proprio cortocircuito che deve essere arrestato;
    le dimensioni e la gravità del fenomeno analizzato impongono l'adozione di interventi normativi strutturali ed idonei ad invertire rapidamente la tendenza in atto, in maniera tale da aumentare la presenza delle donne sul mercato del lavoro ed eliminare i descritti divari di genere;
    il Jobs act contiene cinque deleghe che spaziano dalla revisione degli ammortizzatori sociali, alle politiche attive, alla semplificazione nella gestione dei contratti, al riordino delle forme contrattuali, alle tutele per la maternità: è questa la sede per introdurre in via definitiva concrete misure di promozione dell'occupazione femminile, anche attraverso nuovi strumenti di conciliazione tra attività di cura e lavoro, tra le misure «flessibili», in funzione conciliativa delle esigenze delle lavoratrici, non potranno non considerarsi le opportunità che riserva il telelavoro, il quale, grazie all'uso della tecnologia, permette un elevato grado di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi e nei tempi. L'invocata flessibilità, finalizzata alla conciliazione dei bisogni familiari con i tempi di lavoro, deve riguardare anche l'attuale disciplina del congedo obbligatorio, introducendo la possibilità di utilizzare i congedi a tempo pieno per un certo numero di mesi e per la parte restante in modalità a tempo parziale, affinché si pervenga ad un bilanciamento tra l'esigenza della lavoratrice di conservare il proprio patrimonio professionale, evitando periodi troppo lunghi di assenza dal lavoro, e la volontà di dedicarsi ai figli per una certa parte della giornata o della settimana. Bisogna, altresì, provvedere ad una rivisitazione dell'istituto degli assegni per il nucleo familiare perché venga concesso anche alle lavoratrici autonome, così come risulta opportuno introdurre ogni misura utile ad incentivare il lavoro a tempo parziale ed il lavoro autonomo;
    a ciò deve affiancarsi il rafforzamento di adeguati incentivi fiscali e sgravi contributivi sia per i genitori che assumono direttamente personale specializzato per la cura dei bambini e delle persone adulte non autosufficienti, sia per i datori che assumono personale in sostituzione dei lavoratori in congedo; politiche ad hoc e risorse devono, inoltre, prevedersi per i datori di lavoro che investono nella realizzazione di asili o baby parking aziendali ovvero che stipulano convenzioni con ludoteche o asili privati;
    in questo quadro desolante, nonostante gli impegni sottoscritti dall'Italia con la ratifica della Convenzione di Istanbul contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, il perdurare di situazioni di discriminazione e disuguaglianza originate da un'ampia gamma di motivi, i descritti divari di genere che penalizzano le donne sul mercato del lavoro, il Governo non ha nominato un Ministro delle pari opportunità e le deleghe sono rimaste nelle mani del Presidente del Consiglio dei ministri, mentre invece «le funzioni di indirizzo politico-amministrativo concernenti le competenze istituzionali relative alle direzioni generali per le politiche dei servizi per il lavoro, ivi comprese le attività di promozione delle pari opportunità» necessitano di un impulso e di un'azione che non può che essere propria di un apposito Ministro. La complessità e l'attualità delle problematiche emarginate, oltreché il rilievo istituzionale e sociale che esse posseggono, devono essere urgentemente rimesse all'attenzione di un Ministro appositamente dedicato, ovvero ad una figura che ne abbia le deleghe: perché discriminazioni ed ostacoli di fatto alla parità di opportunità sono ancora ampiamente presenti; perché la partecipazione al processo di integrazione comunitaria impone all'Italia un vincolo a sviluppare le politiche antidiscriminatorie e di pari opportunità, particolarmente sentite dall'Unione europea. Inoltre, l'effettività della tutela contro le discriminazioni poggia sulla corretta intelaiatura istituzionale opportunamente individuata dal legislatore allo scopo di sostenere e realizzare le politiche di pari opportunità. Le istituzioni rilevanti in tale settore sono identificabili nel Comitato nazionale per l'attuazione dei principi di parità (articoli 8-11 del decreto legislativo n. 198 del 2006) e nei consiglieri di parità, nazionale, regionali e provinciali, disciplinati dagli articoli 12-19 del decreto legislativo n. 198 del 2006; in particolare, con il decreto legislativo n. 196 del 2000 si è cercato di rafforzare il ruolo dei consiglieri di parità attraverso la delega di molteplici funzioni in tale materia, nonché grazie all'istituzione di un fondo nazionale destinato a finanziare anche le spese per il funzionamento e le attività della rete nazionale dei consiglieri di parità;
    tuttavia, l'aggravarsi della condizione della situazione occupazionale, specie con riferimento alla presenza delle donne nel mercato del lavoro, richiede un'ottimizzazione del lavoro e del contributo prodotto, in ambito nazionale, dalla Consigliera nazionale di parità e dalle consigliere presenti nei territori, anche attraverso un'attività di razionalizzazione, indirizzo e coordinamento degli organismi di pari opportunità e degli altri attori istituzionali, che, ciascuno per la competenza attribuita, sono chiamati ad intervenire nella materia in esame, nella specie: il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, il Comitato per l'imprenditoria femminile, le commissioni per le pari opportunità regionali e provinciali, istituite presso i consigli regionali e provinciali, il Comitato unico di garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni (CUG) istituito nelle pubbliche amministrazioni, introdotto dall'articolo 21 della legge 4 novembre 2010, n. 183;
    si sottolinea, altresì, come nel giugno 2012 sia stato approvato il primo piano nazionale di politiche familiari, previsto dall'articolo 1, comma 1251, della legge finanziaria per il 2007. Per quanto riguarda le priorità, il suddetto piano individua tre aree di intervento urgente: le famiglie con minori, in particolare le famiglie numerose; le famiglie con disabili o anziani non autosufficienti; le famiglie con disagi conclamati sia nella coppia, sia nelle relazioni genitori-figli, e bisognose di sostegni urgenti. Le azioni previste, fra cui si ricordano la revisione dell'Isee, il potenziamento dei servizi per la prima infanzia, dei congedi e dei tempi di cura, nonché interventi sulla disabilità e non autosufficienza, devono essere adottate all'interno dei piani e programmi regionali e locali per la famiglia, secondo le risorse disponibili,

impegna il Governo:

   a prevedere un coordinamento operativo a livello centrale e nazionale, al fine di una razionalizzazione e valorizzazione degli organismi nazionali e territoriali preposti, a vario titolo, al monitoraggio delle politiche di pari opportunità e alla rimozione delle discriminazioni e degli ostacoli che minano l'effettiva realizzazione della parità di genere;
   ad assumere ogni iniziativa di competenza per introdurre misure volte a contrastare le molteplici forme di diseguaglianza, con particolare riguardo a quelle che si presentano tra cittadini del Nord e cittadini del Sud Italia, che risultano in sensibile aumento per effetto della crisi economica in atto e che si riverberano in misura amplificata sulle donne;
   ad assumere, in tempi rapidi, ogni iniziativa di competenza per introdurre misure volte a contrastare la violenza psicologica endofamiliare e quella sul posto di lavoro, anche attraverso l'individuazione di fattispecie di reato ad hoc;
   ad introdurre nuove e concrete politiche per la conciliazione tra la cura della famiglia e l'attività lavorativa, incentivando particolari forme di flessibilità degli orari e dell'organizzazione del lavoro, quali il part-time, il telelavoro, il lavoro autonomo e imprenditoriale, introducendo la possibilità di un uso flessibile e personalizzato dei congedi obbligatori e facoltativi unitamente alla previsione di sgravi contributivi ed agevolazioni fiscali per il genitore lavoratore che assuma alle proprie dipendenze baby-sitter ovvero professionisti dei servizi di cura ed assistenza della persona;
   ad adottare iniziative volte a incoraggiare le donne a scegliere professioni «non tradizionali», per esempio in settori verdi e innovativi;
   ad adottare iniziative volte allo sviluppo dell'autoimprenditorialità femminile, con particolare riferimento all'agevolazione dell'accesso al credito.
(1-00611)
«Mucci, Rostellato, Di Vita, Rizzetto, Bechis, Chimienti, Ciprini, Tripiedi, Cominardi, Prodani, Spadoni, Da Villa, Vallascas, Baldassarre».
(10 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    il più significativo cambiamento sociale dei nostri tempi è rappresentato dalla volontà e dal desiderio delle donne di affermare la loro autonomia e indipendenza;
    tale cambiamento sollecita la responsabilità pubblica a realizzare indispensabili misure volte a: riconoscere la libertà femminile, creare più lavoro per tutte e tutti, superare la tradizionale divisione dei ruoli in tutti i campi, prefigurare un welfare universale, per donne e uomini che lavorano e si adoperano per fare in modo di garantire a tutti i soggetti la libertà di dare il loro contributo alla vita e all'economia secondo diverse strategie personali e familiari;
    indirizzi su cui l'Unione europea è impegnata e su cui, però, emergono nel nostro Paese ritardi e arretratezze da affrontare con rapidità in occasione del semestre italiano della Presidenza del Consiglio dell'Unione europea;
    la Strategia per la parità tra donne e uomini 2010-2015 nell'Unione europea, presentata dalla Commissione europea nel settembre 2010, ha previsto specifiche priorità: pari indipendenza economica; pari retribuzione per lo stesso lavoro e lavoro di pari valore; parità nel processo decisionale; dignità, integrità e fine della violenza nei confronti delle donne. Sotto quest'ultimo aspetto il 2013 ha visto da parte dell'Unione europea l'adozione di leggi e azioni volte contrastare la violenza basata sul genere, con un bilancio di circa 15 milioni di euro per finanziare apposite campagne;
    secondo una relazione annuale dell'Unione europea, pubblicata nell'aprile 2014, le disparità uomo-donna stanno diminuendo in Europa, ma i progressi sono ancora lenti. Persistono ancora evidenti disparità fra i due sessi a livello di occupazione, retribuzione e rappresentanza, mentre la violenza contro le donne continua a essere un grave problema;
    nell'ambito dell'Unione europea, malgrado il 60 per cento dei laureati siano donne, le retribuzioni femminili sono ancora del 16 per cento inferiori rispetto a quelle degli uomini per ora lavorata. Inoltre, le donne tendono più spesso a lavorare a tempo parziale (il 32 per cento contro l'8,2 per cento degli uomini) e interrompono la carriera per occuparsi di altri membri della famiglia. Con tutto quello che ciò comporta in termini di divario pensionistico (che si attesta al 39 per cento);
    il tasso di occupazione femminile dell'Unione europea si attesta al 63 per cento contro il 75 per cento per gli uomini;
    la sopradetta relazione dell'Unione europea ricorda, inoltre, che sulle donne incide sensibilmente il lavoro non retribuito in casa e in famiglia e che la presenza femminile ai posti di comando è ancora poco diffusa. Per quanto riguarda, infine, la violenza contro le donne, un'indagine svolta dall'Agenzia dell'Unione europea per i diritti fondamentali mostra come circa il 33 per cento ha subito violenza fisica e/o sessuale dall'età di 15 anni;
    il 13 giugno 2013, l'Istituto europeo per l'uguaglianza di genere (Eige) ha presentato il primo rapporto sull'indice dell'uguaglianza di genere. Un rapporto che rappresenta un indicatore delle disparità di genere nell'Unione europea e nei singoli Stati membri, nei settori del lavoro, del denaro, della conoscenza, del tempo, del potere e della salute;
    il rapporto mostra come le disparità di genere risultino ancora prevalenti nell'Unione europea, nonostante decenni di politiche volte a sostenere l'uguaglianza di genere a livello europeo;
    l'indice dell'uguaglianza di genere, riportato dal sopradetto rapporto dell'Istituto europeo per l'uguaglianza di genere, ha un valore tra 1 e 100, dove 1 indica un'assoluta disparità di genere e 100 segna il raggiungimento della piena uguaglianza di genere. Ebbene, l'Unione europea ha un indice medio pari a 54, ossia è ancora a metà strada rispetto all'obiettivo della piena uguaglianza fra donne e uomini;
    se si esaminano gli indici dei vari Stati membri, emerge una forte differenza. Assolutamente negativa è la posizione dell'Italia, a cui il rapporto assegna un indice pari a 40,9, collocandosi al ventitreesimo posto su un totale di 27 Paesi. In testa alla graduatoria si trovano i Paesi scandinavi, con valori superiori a 70. Il Regno Unito ha un indice pari a 60,4; la Francia di 57,1; la Spagna di 54 e la Germania di 51,6;
    peraltro, il medesimo rapporto mostra come il nostro Paese sia quello più ricco tra i tredici Paesi che hanno un indice inferiore a 45;
    a livello mondiale, secondo l'analisi annuale del World economic forum sul Global gender gap, nella graduatoria diffusa nel 2013, l'Italia si colloca al settantunesimo posto su 136 Paesi. Per quanto riguarda altri Paesi europei, il Belgio si colloca all'undicesimo posto, la Germania al quattordicesimo, il Regno Unito al diciottesimo e la Francia al quarantacinquesimo posto. L'indice tiene conto delle disparità di genere esistenti nel campo della politica, dell'economia, dell'istruzione e della salute;
    l'Italia si conferma uno dei Paesi europei a più bassa occupazione femminile. E qui la crisi mostra il suo volto nell'impoverimento dei redditi e delle opportunità e, infine, nella sempre maggiore difficoltà di determinare il proprio progetto di vita;
    per quanto riguarda il nostro Paese, il rapporto annuale 2013 dell'Istat riporta i dati 2012 relativi al tasso di occupazione, che confermano – se mai ve ne fosse bisogno – il sensibile divario tra uomini e donne, laddove l'occupazione maschile si attesta al 66,5 per cento, contro il 47,1 per cento femminile. Nel confronto con il resto d'Europa, sempre l'Istat evidenzia come il tasso di occupazione femminile al 47,1 per cento si «scontra» con un 58,6 per cento della media dell'Unione europea a 27 Stati (59,8 Unione europea a 15 Stati);
    il medesimo rapporto Istat ricorda come «la bassa valorizzazione delle competenze, la segregazione occupazionale e la maggiore presenza nel lavoro non standard, sono elementi che concorrono a spiegare la disparità salariale femminile. In media, la retribuzione netta mensile delle dipendenti resta inferiore di circa il 20 per cento a quella degli uomini (nel 2012, 1.103 contro 1.396 euro)», così come la retribuzione oraria delle donne è dell’ 11,5 per cento inferiore rispetto ai maschi;
    i dati regionali indicano un'occupazione femminile al 56,5 per cento nelle regioni del Nord e al 30 per cento nelle regioni del Sud, con un divario molto più alto con l'occupazione maschile;
    in Italia, quindi, più di 5 donne su 10 sono senza reddito da lavoro e, per quelle che lo hanno, la retribuzione media pro capite (calcolata tra impiegate e operaie) si ferma sotto i 25 mila euro annui, mentre quella di un uomo sfiora il tetto dei 31 mila. Un divario che incide non solo sul quotidiano, ma che si ripercuote anche sulla consistenza della futura pensione;
    una delle vie maestre per risolvere il problema della diversa incidenza della disoccupazione femminile sta certamente nell'investire nelle politiche sociali;
    le donne sono ancora le uniche interpreti del lavoro di cura, con margini di tempo per loro stesse estremamente ristretti e con evidenti minori possibilità di occupazione e crescita professionale, e spesso costrette a lasciare il proprio lavoro dopo la nascita dei figli;
    l'autonomia delle donne è ancora ostacolata da condizioni svantaggiate: precarietà; insufficienza dei servizi di welfare quali strumenti di sostegno nella gestione del lavoro di cura e della vita professionale; dimissioni in bianco; mancato riconoscimento sociale della maternità e dei congedi di paternità; carenza di strutture per l'infanzia; un welfare con alti costi e forti disparità nell'offerta tra le diverse aree del Paese; assenza di politiche organiche e attive di sostegno al lavoro femminile. Questa è la fotografia del nostro Paese in materia di politiche di sostegno alle responsabilità familiari e alle scelte delle donne;
    nella relazione al Parlamento dell'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza del 2012, l'Autorità aveva sollevato la problematica relativa all'impatto negativo della mancanza di investimenti, da parte dello Stato, a favore dell'infanzia e dell'adolescenza;
    il dossier 2012 di Cittadinanza attiva ha sottolineato come le strutture comunali su cui possono contare le famiglie superano di poco quota 3.600 e sono in grado di soddisfare circa 147 mila richieste di iscrizione. Il 23,5 per cento dei bambini restano in lista d'attesa e i genitori sono costretti a rivolgersi altrove;
    è inevitabile che l'insufficienza nell'offerta dei servizi socio-educativi per l'infanzia aggravi la fatica delle donne alla loro partecipazione al mercato del lavoro;
    un importante ambito che condiziona fortemente e incide sulle opportunità e sulle prospettive di accesso al lavoro, di carriera, di tempo dedicato alla persona, è certamente quello relativo al depotenziamento dei servizi territoriali socio-assistenziali. I tagli di questi anni al sistema del welfare e, più in generale, alle regioni e agli enti locali, hanno visto indebolirsi la rete dei servizi territoriali e l'assistenza socio-sanitaria;
    insomma, se si vuole promuovere una buona e stabile occupazione femminile nel nostro Paese, vanno avviate efficaci politiche per incrementare l'offerta qualitativa e quantitativa della scuola, del tempo pieno, dei servizi socio-educativi per l'infanzia e dell'assistenza socio-sanitaria;
    riguardo al mercato del lavoro va sottolineata la pratica delle «dimissioni in bianco» del lavoratore o della lavoratrice, una delle piaghe più sommerse in questo ambito, una clausola nascosta nel 15 per cento dei contratti di lavoro a tempo indeterminato che costituisce un ricatto che vede coinvolto circa il 60 per cento delle lavoratrici donne e il 40 per cento dei lavoratori maschi;
    secondo i dati forniti dagli uffici vertenza della Cgil, ogni anno circa 2 mila donne chiedono assistenza legale per estorsione di finte dimissioni volontarie. Si può essere dimissionati con molti pretesti, ma i motivi più frequenti sono la nascita di un figlio, una malattia, il rapporto con il sindacato ed altro;
    il Governo ha deciso di non porre fine immediatamente a questa pratica, ma piuttosto di rinviare il necessario intervento normativo alla delega del cosiddetto «Jobs act», appena approvato dal Senato della Repubblica, e dunque di «annullare» così, di fatto, la proposta di legge in materia, già approvata in prima lettura alla Camera dei deputati;
    si ricorda che detta proposta di legge approvata dalla Camera dei deputati vincola la validità della dichiarazione di dimissioni volontarie all'utilizzo di appositi moduli usufruibili solo attraverso gli uffici provinciali del lavoro e le amministrazioni comunali, assicurando che gli stessi siano contrassegnati da codici alfanumerici progressivi e da una data di emissione che garantiscano la loro non contraffazione, e, al tempo stesso, la loro utilizzabilità solo in prossimità dell'effettiva manifestazione della volontà del lavoratore di porre termine al rapporto di lavoro in essere. Viene così meno la possibilità di estorcere al momento dell'assunzione la contestuale sottoscrizione di una possibile, postuma lettera di dimissioni volontarie;
    è inoltre necessario intervenire per aumentare gli sgravi fiscali, in particolare per le micro e piccole imprese, sulle quali incidono in misura proporzionalmente maggiore i costi delle misure a favore della maternità delle lavoratrici;
    per favorire le madri lavoratrici occorre intervenire con incentivi a favore della destandardizzazione degli orari, sotto forma di orari flessibili e riduzioni volontarie temporanee o durature dell'impegno lavorativo;
    in considerazione del costo che la maternità ha in termini di salute e di dedizione totale del proprio tempo a favore dei figli, andrebbe riconosciuta a tutte le donne madri la contribuzione figurativa di almeno un anno per ogni figlio, indipendentemente dallo svolgimento di attività lavorativa al momento della gestazione e un'ulteriore integrazione contributiva per i periodi di lavoro part-time legati alla maternità;
    così come andrebbero rivisti i congedi parentali, ancora troppo poco utilizzati dai padri, estendendoli a tutte le tipologie contrattuali;
    l'articolo 24 della legge n. 92 del 2012, cosiddetta legge Fornero, ha introdotto alcune disposizioni volte a sostenere la genitorialità e la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro;
    in particolare, si prevede la possibilità, in via sperimentale per gli anni 2013-2015, di concedere alla madre lavoratrice, al termine del periodo di congedo di maternità, per gli undici mesi successivi e in alternativa al congedo parentale, la corresponsione di voucher di 300 euro, per l'acquisto di servizi di baby-sitting, ovvero per fare fronte agli oneri della rete pubblica dei servizi per l'infanzia o dei servizi privati accreditati, da richiedere al datore di lavoro;
    in risposta all'interrogazione n. 5-03085 del 25 giugno 2014, in Commissione XII (Affari sociali), a prima firma dell'onorevole. Nicchi, vertente sul suddetto bonus, il Sottosegretario di Stato Franca Biondelli dichiarava che «si sta valutando l'opportunità di aumentare l'importo del voucher da 300 a 600 euro. Tale aumento sembra, infatti, compatibile con lo stanziamento finanziario disponibile e mira a rendere più conveniente tali voucher rispetto ai congedi parentali»,

impegna il Governo:

   a rafforzare, di concerto con le regioni, sia in termini di incremento quantitativo che di crescita qualitativa, le politiche a favore dei servizi socio-educativi, attraverso la previsione di maggiori e più adeguate risorse finanziarie per la messa in sicurezza e l'incremento delle strutture e dei servizi socio-educativi per l'infanzia e, in particolare, per la fascia neonatale e pre-scolastica, con particolare attenzione alla riduzione delle attuali forti disomogeneità territoriali nell'offerta di detti servizi;
   ad assumere iniziative, per quanto di competenza, per valorizzare, nel contesto sopraindicato, la rete dei nidi intesi non più come «servizi a domanda individuale»;
   a sostenere politiche attive e misure efficaci per ripensare il rapporto tra tempi di lavoro e di cura al fine di promuovere una maggiore condivisione della cura da parte degli uomini, e favorire la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, valorizzandone la differente soggettività e rimuovendo la disparità economica ancora persistente;
   ad assumere iniziative per incrementare, già dal prossimo disegno di legge di stabilità per il 2015, le risorse attualmente assegnate al Fondo per le politiche sociali e al Fondo nazionale per l'infanzia e l'adolescenza;
   ad assumere iniziative, per quanto di competenza, per potenziare – anche attraverso adeguate risorse – la rete dei servizi territoriali e l'assistenza socio-sanitaria;
   ad assumere iniziative per incrementare il bonus attualmente previsto in 300 euro, e introdotto dall'articolo 4 della legge n. 92 del 2012, per l'acquisto di servizi di baby-sitting ovvero per far fronte agli oneri della rete pubblica dei servizi per l'infanzia o dei servizi privati accreditati, dando così seguito all'impegno preso dal Governo in risposta all'interrogazione in Commissione XII (Affari sociali) n. 5-03085 del 25 giugno 2014, a prima firma l'onorevole Nicchi;
   ad adottare iniziative per introdurre incentivi a favore della destandardizzazione degli orari, sotto forma di orari flessibili e riduzioni volontarie temporanee o durature dell'impegno lavorativo, per favorire le madri lavoratrici;
   ad adottare iniziative per stanziare adeguate risorse finanziarie volte ad aumentare gli sgravi fiscali delle misure a favore della maternità delle donne lavoratrici che ricadono sui datori di lavoro, con particolare riguardo alle piccole e micro imprese, sulle quali i costi incidono in misura proporzionalmente maggiore;
   ad assumere iniziative per elevare a diciotto mesi la durata dei congedi parentali incentivandone il ricorso da parte dei padri, con un aumento della quota indennizzata (almeno al 60 per cento), e prevedendone una maggiore flessibilità e l'estensione graduale a tutte le tipologie contrattuali;
   a considerare le fasi della vita dedicate alla cura, come crediti ai fini pensionistici con il riconoscimento di: contributi figurativi legati al numero dei figli o ad eventuali altri impegni di cura; integrazioni contributive per i periodi di lavoro part-time per ragioni di cura, possibilità di anticipo della pensione per necessità di accudimento di persone non autosufficienti nel quadro di una revisione del sistema pensionistico che contempli flessibilità e libertà di scelta;
   ad adottare, nell'ambito delle proprie competenze, le opportune iniziative volte a favorire la conclusione dell’iter parlamentare della proposta di legge sulle «dimissioni in bianco», già approvata dalla Camera dei deputati.
(1-00613)
«Nicchi, Pannarale, Matarrelli, Scotto, Duranti, Costantino, Ricciatti, Pellegrino, Airaudo, Placido».
(13 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    il consolidamento e l'affermazione della cultura di parità, delle pari opportunità e dei diritti delle donne sono entrati, negli ultimi anni, di diritto tra le priorità e tra gli obiettivi strategici per l'azione del Governo italiano e delle istituzioni internazionali ed europee, affermandosi come importante principio trasversale delle politiche pubbliche;
    nel marzo 2011 il Consiglio diritti umani ha approvato all'unanimità la Dichiarazione delle Nazioni Unite sulla educazione ai diritti umani: un risultato di grande rilievo, per il quale l'Italia ha svolto un ruolo propulsore di primo piano. La dichiarazione costituisce un riferimento importante, poiché fissa in modo chiaro le definizioni, i principi, gli strumenti e gli obiettivi dell'educazione ai diritti umani: il precipitare degli eventi nel quadro internazionale al quale si sta assistendo richiama però, con forza, a rimettere al centro della discussione pubblica, anche in occasione del semestre europeo, la necessità che il nostro Paese si faccia promotore dello sviluppo, da parte dell'Unione europea, di una strategia complessiva sui diritti umani, strategia che può essere meglio applicata attraverso l'azione sinergica di tutti gli attori dell'Unione europea;
    il Consiglio dell'Unione europea, in attuazione della strategia comunitaria «Europa 2020», ha approvato, il 21 ottobre 2010, il cosiddetto «pacchetto occupazione» (decisione sugli orientamenti per le politiche degli Stati membri a favore dell'occupazione, 2010/707/UE), con il quale l'Unione europea invita gli Stati membri ad adottare misure in grado di «aumentare la partecipazione al mercato del lavoro e combattere la segmentazione, l'inattività e la disuguaglianza di genere, riducendo nel contempo la disoccupazione strutturale»;
    il Parlamento europeo, il 19 febbraio 2013, ha inoltre approvato una risoluzione sull'impatto della crisi economica sull'uguaglianza di genere e i diritti della donna (2012/2301(INI)), con la quale si invitano gli Stati membri ad «esaminare con grande serietà la dimensione della parità di genere» nel «gestire la crisi e nell'elaborare soluzioni», nonché «a rivedere e a focalizzarsi sull'impatto immediato e a lungo termine della crisi economica sulle donne, esaminando in particolare se, e in che modo, essa accentua le disuguaglianze di genere esistenti e le relative conseguenze»;
    la risoluzione del Parlamento europeo mette, inoltre, in evidenza il doppio impatto negativo che la crisi sta producendo sulle donne europee: un effetto «diretto», «con la perdita del posto di lavoro, i tagli salariali o la precarizzazione del lavoro» ed un effetto «indiretto», quale conseguenza «dei tagli di bilancio ai servizi pubblici e agli aiuti sociali»;
    il 5 marzo 2010 la Commissione europea ha presentato la «Carta delle donne», un documento con il quale rafforza il suo impegno a favore della parità fra uomini e donne entro i successivi cinque anni;
    è necessario registrare e apprezzare un cambiamento che, nel nostro Paese, ha visto le donne protagoniste di significativi passi in avanti in termini di una sempre maggiore presenza nelle istituzioni, nella vita economica e in quella sociale e politica: tale partecipazione, pur offrendo uno straordinario contributo alla crescita del Paese, è ancora, però, distante dagli obiettivi europei;
    è per questo che appare fondamentale e strategico «approfittare» di questo movimento positivo per contrassegnare il semestre europeo a Presidenza italiana come centrale per il tema della parità e dell'occupazione femminile;
    il programma della Presidenza italiana del Consiglio dell'Unione europea prevede, infatti, in materia di pari opportunità, in vista del XX anniversario dell'adozione della Dichiarazione di Pechino e della relativa piattaforma d'azione, una valutazione approfondita dell'attuazione dal 2010 del lavoro volto a conseguire gli obiettivi nelle dodici «aree critiche» della piattaforma d'azione, nel contesto delle priorità e degli obiettivi politici dell'Unione europea, al fine di presentare una situazione aggiornata e indicare i risultati, le lacune e le sfide future per ciascun settore a livello sia europeo che nazionale: da tale valutazione dovrebbero derivare raccomandazioni per ulteriori azioni volte a promuovere la parità di genere nell'Unione europea, che serviranno come base utile per la definizione degli obiettivi per lo sviluppo post-2015;
    per affrontare l'impegnativa sfida ad incrementare l'occupazione femminile è necessaria una valutazione attenta dell'impatto che la crisi economica e sociale in atto sta producendo sulla situazione occupazionale e sulla qualità della vita delle donne italiane: è da tempo noto, infatti, che il sistema economico italiano è caratterizzato da un basso grado di coinvolgimento della popolazione femminile in età attiva nel mercato del lavoro, un dato molto distante da quello dei Paesi dell'Unione europea comparabili all'Italia per livello di sviluppo economico, e gli effetti prodotti dall'andamento marcatamente negativo del ciclo economico, guidato dalla caduta della domanda, si sono riflessi in un peggioramento diffuso delle grandezze più rilevanti del mercato del lavoro: il tasso di disoccupazione ha toccato il 12,6, con un incremento dello 0,5 per cento nei 12 mesi, e si sono anche fortemente ridotte le possibilità quantitative e qualitative di accesso al mercato del lavoro per gli inattivi, in larga parte giovani e donne;
    secondo il Global gender gap report 2013 stilato dal World economic forum, l'Italia si attesterebbe al 71esimo posto per quanto riguarda la partirà di genere: tale graduatoria, stilata ogni anno, valuta la disparità di genere di ogni Paese in base a quattro criteri principali: partecipazione economica, livello di istruzione, politiche di empowerment e rappresentanza nelle strutture decisionali, salute e sopravvivenza. L'Italia, sebbene abbia ottenuto un miglioramento rispetto al 2012, si attesta ad un livello inferiore rispetto ai principali Paesi europei, come Germania, Francia, Inghilterra ed altri;
    il rapporto 2014 dell'Istat, pubblicato a marzo 2014, inoltre, ha restituito una fotografia a dir poco inquietante dello stato dell'occupazione femminile in Italia: i dati riportati sono, infatti, decisamente allarmanti. Nel 2013 il tasso di occupazione femminile si attesta al 46,5 per cento, segnando un ulteriore calo rispetto al dato 2012 (47,1 per cento), contro il 58,7 per cento della media Ue28 (59,8 Ue15). Il 2013, a differenza della ripresa dell'occupazione femminile registrata nel 2012 rispetto al 2011, evidenzia un calo dell'1,4 per cento rispetto al 2012;
    il tasso di occupazione delle madri è pari al 54,3 per cento, mentre sale al 68,8 per cento per le donne in coppia senza figli. Particolarmente accentuati sono i divari territoriali: nel Mezzogiorno le madri occupate sono il 35,3 per cento contro il 66,4 per cento del Nord e il 61,5 del Centro;
    seppure sia stata rilevata una lieve crescita del tasso complessivo di occupazione femminile, il dato suggerisce preoccupanti dinamiche negative, quali fenomeni di isolamento professionale, incremento di posizioni a bassa qualifica, una ricomposizione a favore di età più anziane quale conseguenza delle riforme pensionistiche: la quota di donne occupate in Italia rimane ancora di gran lunga inferiore a quella dell'Unione europea, si concentra in poche professioni e si associa a fenomeni di sovraistruzione crescenti e più accentuati rispetto agli uomini, anche l'aumento dell'offerta di lavoro femminile che si sta producendo nel periodo più recente è, più che un cambiamento profondo dei modelli di partecipazione, il risultato di nuove e diffuse strategie familiari volte ad affrontare le difficoltà economiche indotte dalla crisi;
    sia dal rapporto Istat 2014 che dal rapporto Bes (Benessere equo e sostenibile) 2014 presentato il 26 giugno 2014, emergono le gravi difficoltà di conciliazione che incontrano le donne, in particolare quelle che continuano a lavorare dopo il parto, così come le laureate, le donne in età più avanzata, le dirigenti, le imprenditrici e le libere professioniste: la quantità di ore di lavoro, la presenza di turni o di orari disagiati (pomeridiano o serale o nel fine settimana) e la rigidità dell'orario sono indicati da più di un terzo delle occupate come gli ostacoli prevalenti alla conciliazione. Per le donne meno istruite risulta un impedimento anche l'eccessiva fatica fisica, mentre sulle più istruite gravano anche l'eccessiva distanza da casa, l'elevato coinvolgimento e le frequenti riunioni o trasferte. La disponibilità di persone o servizi cui affidare i bambini è un requisito imprescindibile per entrare o restare occupate. Le lavoratrici con figli di circa 2 anni si avvalgono principalmente dell'aiuto dei nonni (poco più della metà nel 2005 e nel 2012) o ricorrono al nido, pubblico o privato, con un deciso incremento rispetto al 2005 (35,2 per cento, contro il 27,4 per cento);
    inoltre, nel 2013, le famiglie sostenute da una sola fonte di reddito da lavoro (famiglie monoreddito) sono in tutto 7 milioni 311 mila (+11,7 per cento rispetto al 2008; di cui 50 mila in più nell'ultimo anno). Nel 2013, quelle sostenute dal solo reddito femminile sono il 12,2 per cento, contro il 9,4 per cento del 2008. Sebbene in due casi su tre l'unico reddito da lavoro provenga ancora da un uomo, nell'ultimo quinquennio la crescita delle famiglie con un solo occupato è imputabile quasi esclusivamente all'aumento delle famiglie in cui l'unica persona occupata è una donna;
    dall'inizio della crisi economica e finanziaria, il ritmo di crescita dell'occupazione femminile nelle professioni non qualificate è più che doppio rispetto a quello degli uomini e più che triplo nell'ambito delle professioni che riguardano le attività commerciali e i servizi: le professioni a cui hanno accesso sono, soprattutto, quelle di commesse alla vendita al minuto, colf e segretarie (1 milione 737 mila unità, 18 per cento del totale dell'occupazione femminile);
    il nostro Paese risulta tra quelli maggiormente segnati da tale «doppio impatto negativo», soprattutto con riferimento alle ripercussioni della riduzione della spesa per i servizi alla persona: solo il 12,7 per cento circa dei bambini italiani frequenta gli asili nido (a fronte di una media superiore al 40 per cento di Belgio, Norvegia, Danimarca, Svezia, Francia, Paesi Bassi); la percentuale di donne che dichiara di lavorare part-time per conciliare lavoro e responsabilità familiari risulta del 33 per cento contro una media Ocse del 24 per cento (dati Ocde); il 40,8 per cento delle lavoratrici donne dichiara di aver abbandonato il lavoro dopo la nascita del primogenito, mentre il 5,6 per cento ammette di aver rinunciato alla propria vita professionale per dedicarsi alla famiglia o alla cura di parenti non autosufficienti (dati Isfol);
    va considerata, inoltre, un'elevata sperequazione salariale legata alla differenza di genere: in media, la retribuzione netta mensile delle dipendenti resta inferiore di circa il 20 per cento di quella degli uomini (nel 2012, 1.103 contro 1.396 euro). In una carriera spesso contraddistinta, oltre che dalla maggiore presenza dei fenomeni di sovraistruzione, anche da episodi di discontinuità dovuti alla nascita dei figli, il differenziale salariale a sfavore delle donne aumenta con l'età, soprattutto per le laureate, svantaggio che si riduce solo nei casi di istruzione post laurea fino a rendere la differenza retributiva tra donne e uomini non più significativa;
    il riconoscimento della parità di genere non è solo una questione diritti, ma soprattutto un investimento per il sistema Paese: l'occupazione femminile rappresenta un fattore produttivo che può fortemente contribuire alla crescita e allo sviluppo economico del Paese. Infatti, le ultime proiezioni della Banca d'Italia confermano che se fosse possibile aumentare il tasso di occupazione femminile al 60 per cento ciò comporterebbe un aumento del 9,2 per cento del prodotto interno lordo, a produttività invariata, e del 6,5 per cento se si considera l'effetto depressivo sulla produttività (minore qualificazione forza lavoro, rendimenti decrescenti): sulla stessa linea sono i dati pubblicati da Goldman Sachs, che evidenziano come il raggiungimento della parità di genere porterebbe a un aumento del prodotto interno lordo del 13 per cento nell'Eurozona e del 22 per cento in Italia; nella relazione della Commissione europea, pubblicata ad aprile 2012, sulla parità di genere, si asserisce che un maturo progresso verso la parità tra uomini e donne stimola la crescita economica: «per raggiungere l'obiettivo Europa 2020, di un tasso occupazionale del 75 per cento della popolazione adulta entro il 2020, i Paesi membri devono promuovere maggiormente la presenza delle donne nel mercato del lavoro. Un modo per accrescere la competitività dell'Europa consiste nel conseguire un migliore equilibrio tra uomini e donne nei posti di responsabilità in ambito economico. Vari studi hanno dimostrato che la diversità di genere apporta notevoli benefici e le aziende con una percentuale più alta di donne nei consigli di amministrazione sono più performanti rispetto a quelle guidate da soli uomini»;
    è necessario che il nostro Paese si doti al più presto delle misure necessarie in materia di conciliazione familiare: asili nido, servizi per gli anziani, incentivi per lo sviluppo del settore privato dei servizi alla famiglia, promuovendo un'offerta di qualità a prezzi contenuti (il modello dei voucher sperimentato in Francia, Belgio e Regno Unito), incentivi al lavoro femminile, superamento delle discriminazioni e degli ostacoli, sia per quanto concerne l'accesso al mondo del lavoro delle donne, sia per quanto riguarda la loro crescita professionale e l'avanzamento in carriera;
    con il decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, «Codice delle pari opportunità tra uomo e donna», venivano istituite le consigliere di parità, con qualificazione di pubblici ufficiali nell'esercizio delle proprie funzioni e con il ruolo esclusivo di contrasto e rimozione delle discriminazioni di genere nell'ambito lavorativo, attraverso la ricerca di una conciliazione tra le parti in via stragiudiziale o anche attraverso l'azione in giudizio, ai sensi degli articoli 36 e 37 del medesimo codice: nel corso degli ultimi anni si è registrata una forte riduzione degli stanziamenti per il fondo nazionale destinato all'attività delle consigliere di parità;
    i 27 Paesi dell'Unione europea hanno approvato, a Bruxelles il 28 giugno 2013, un pacchetto di sostegno all'economia a favore dell'occupazione giovanile, che prevede otto miliardi di euro nei prossimi sette anni, di cui sei nel solo biennio 2014-2015, in modo da offrire alle persone con meno di 25 anni un lavoro, uno stage o un periodo di apprendistato entro quattro mesi dalla fine degli studi o dalla perdita del lavoro. La strategia è una risposta all'elevata disoccupazione di alcune regioni europee e all'emergere di partiti estremisti in numerosi Paesi membri;
    l'Italia è stato il primo Paese europeo a dotarsi di una legislazione intervenuta per conciliare i tempi di vita con i tempi del lavoro, contribuendo così in modo sostanziale ad alimentare il dibattito europeo intorno alle politiche temporali, sia in ambito accademico sia in ambito politico ed amministrativo, avvenuto nel nostro Paese con un notevole anticipo rispetto alle altre realtà europee,

impegna il Governo:

   a promuovere l'istituzione presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, di concerto con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, il Ministero dell'economia e delle finanze, il Ministero dello sviluppo economico e il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, di una task force con l'obiettivo di rendere coerenti e coordinati tutti gli strumenti vigenti, anche supportando il lavoro di attuazione delle legge delega (jobs act), oltre che di programmare interventi per l'occupazione femminile e misure in favore della conciliazione vita-lavoro per uomini e donne;
   a promuovere, nell'ambito del programma del Governo, la realizzazione di una conferenza nazionale finalizzata ad individuare gli obiettivi e le azioni che il Governo, le amministrazioni pubbliche, gli attori economici e sociali devono condividere e realizzare per la crescita dell'occupazione femminile, tenendo conto dei seguenti concetti chiave:
    a) analisi della realtà anche attraverso la messa a punto di indagini che supportino la valutazione dell'impatto delle politiche sulle reali condizioni di vita di donne e di uomini, sapendo che tra loro sono diverse e disuguali;
    b) empowerment, inteso nel senso della promozione delle donne nei centri decisionali della società, della politica e dell'economia, posto che la consapevolezza dell'aver maggior potere è uno stimolo per le donne per aumentare la propria autostima, autovalorizzarsi e far crescere le competenze e le abilità;
    c) prospettiva di genere intesa come promozione della persona per tutto il ciclo della vita, tenendo conto delle differenze di ogni fase dell'esistenza e della naturale diversità tra i sessi e del fatto che praticare la prospettiva di genere richiede a tutti un grande cambiamento culturale che metta al centro dell'agenda politica i temi della valorizzazione delle risorse umane, del contrasto alle disuguaglianze, delle grandi riforme sociali;
   a realizzare azioni di cooperazione internazionale per promuovere la tutela dei diritti delle donne nei Paesi del sud del mondo ed in via di sviluppo, con il fine di contribuire ad una crescita equa e sostenibile;
   a promuovere un approfondimento sulla strategia a sostegno dell'occupazione femminile nell'ambito dell'azione di lungo periodo dell'Unione europea in materia di pari opportunità, che vada nella direzione di rafforzare la convinzione che il necessario rinnovo del modello socio-economico europeo in un'ottica di genere è fondamentale per il futuro dell'Unione europea;
   ad assumere iniziative per prevedere incentivi per le imprese che assumono a tempo indeterminato manodopera femminile, per mezzo, anche, di una detassazione del lavoro femminile, misura di immediato impatto sul mercato del lavoro, poiché domanda e offerta di lavoro femminile risultano molto più elastiche, mediamente, di domanda e offerta di lavoro maschile, nonché incentivi fiscali per facilitare l'instaurazione di nuovi rapporti di lavoro per l'assunzione delle lavoratrici divenute madri che rientrano, almeno nei tre anni successivi al parto, al fine di controbilanciare la minore spendibilità nel mercato del lavoro delle neo mamme, aumentandone le possibilità di occupabilità, nonché l'implementazione degli incentivi fiscali, oltre alla riduzione del 50 per cento sui contributi previdenziali già in vigore, per le imprese che fanno assunzioni in sostituzione di personale in astensione dal lavoro per maternità obbligatoria e facoltativa nonché per malattia del bambino;
   ad incoraggiare le iniziative, pubbliche e private, volte all'innovazione di modelli sociali, economici, culturali e organizzativi per rendere compatibili sfera privata e sfera lavorativa, così da migliorare la qualità della vita, consentire alle lavoratrici ed ai lavoratori di conciliare le proprie responsabilità professionali con quelle familiari, di educazione e cura dei figli e consolidare la sperimentazione di azioni positive per la conciliazione famiglia-lavoro, come stabilito dall'articolo 9 della legge 8 marzo 2000, n. 53, in modo tale da intercettare i nuovi bisogni di conciliazione emersi, ampliando la platea dei potenziali beneficiari ed aggiornando il novero degli interventi meritevoli di accesso ai finanziamenti, ottimizzandone l'investimento in termini di progettualità, evitando un eccessivo gap tra progetti candidati ed ammessi, e rendendone le regole semplici e chiare anche attraverso un raccordo con altri strumenti di supporto alle imprese, quali gli incentivi ai contratti di rete, e ad incentivare fiscalmente le imprese ad attivare e/o implementare nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori, iniziative innovative di organizzazione del lavoro family friendly e di welfare aziendale ed interaziendale e la conciliazione famiglia-lavoro, anche prevedendo incentivi fiscali per rafforzare il ricorso al congedo di maternità-paternità nella gestione aziendale delle imprese;
   a prevedere, in sede di semplificazione della normativa sul lavoro, la possibilità di adottare modalità di flessibilità organizzativa che consentano una più elastica articolazione spazio-temporale della prestazione lavorativa, prevedendone la contrattazione e la regolazione a livello di contrattazione sia nazionale che territoriale o aziendale e che includano una semplificazione del ricorso all'utilizzo del telelavoro, coerentemente con quanto previsto dal disegno di legge sul cosiddetto smart working;
   a promuovere il fondo nazionale per lo sviluppo dell'imprenditoria femminile istituito dall'articolo 3 della legge n. 215 del 1992, adesso disciplinato dall'articolo 54 del decreto legislativo n. 198 del 2006;
   a monitorare la piena attuazione del decreto del Presidente della Repubblica 30 novembre 2012, n. 251, sulla parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo nelle società pubbliche, affinché sia garantita la presenza delle donne nella pubblica amministrazione e nelle società pubbliche.
(1-00615)
«Speranza, De Micheli, Pollastrini, Martella, Roberta Agostini, Fregolent, Garavini, Martelli, Gnecchi, Valeria Valente, Gregori, Villecco Calipari, Iacono, Pes, Cimbro, Iori, Campana, Albanella, Narduolo, Marzano, Cenni, Cominelli, Coscia, D'Incecco, Murer, Carocci, Scuvera, Carnevali, Morani, Sgambato, Giacobbe, Amoddio, Malpezzi, Coccia, Giuliani, Cinzia Maria Fontana, Manzi, Malisani, Maestri, Ascani, Paola Bragantini, Schirò, Sbrollini, Zampa, Miotto, Capone, Gullo, Palma, Sereni, Piccione, Carrozza, Casellato, Rossomando, Blazina, Simoni, Bargero».
(13 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo evidenzia come è indispensabile promuovere l'uguaglianza dei diritti dell'uomo e della donna;
    la Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1979, ratificata dall'Italia nel 1985, rappresenta uno degli strumenti di diritto internazionale più importanti in materia di tutela dei diritti umani delle donne. La Convenzione impegna gli Stati che l'hanno sottoscritta ad eliminare tutte le forme di discriminazione contro le donne, nell'esercizio dei diritti civili, politici, economici, sociali e culturali, indicando una serie di misure cui gli Stati devono attenersi per il raggiungimento di una piena e sostanziale uguaglianza fra donne e uomini;
    i diritti delle donne costituiscono parte integrante ed inalienabile di quel patrimonio di diritti universali in cui si riconoscono le moderne società democratiche;
    nonostante la dichiarazione e il riconoscimento di fondamentali diritti civili, sociali e culturali a favore delle donne, la discriminazione sessuale, la negazione di una particolare tutela volta alla presa in carico della donna madre finalizzata a riconsiderare le politiche del lavoro, partendo dal presupposto basilare del riconoscimento del ruolo della famiglia nella società, la violenza fisica e sessuale rappresentano ancora oggi le forme di violazione dei diritti umani più grave e diffusa nel mondo;
    la violenza contro le donne è il primo problema da affrontare per il raggiungimento degli obiettivi di libertà, eguaglianza, non discriminazione e difesa dei diritti umani delle donne;
    la violenza contro le donne, quale risulta caratterizzata a seconda della sua dislocazione geo-politica, assume molteplici manifestazioni, quali la violenza domestica, non solo fisica ma anche intesa come forma di coercizione della libertà personale; la violenza sulla salute, che vede le donne quali soggetti più esposti ai rischi di contagio o alla morte per parto a causa della mancanza di assistenza medica elementare; la violenza contro le bambine, che si manifesta anche attraverso il turpe fenomeno della prostituzione minorile; la violenza nei conflitti armati, che provoca proprio tra le donne un enorme numero di vittime, anche di reati commessi in occasione di conflitti, che vedono le donne assenti ai tavoli negoziali ove si trattino i temi della guerra e della pace; la violenza nel lavoro, che si realizza attraverso le discriminazioni estreme o multiple che possono sommarsi agli ostacoli nell'accesso al mercato del lavoro ed alla disparità di trattamento nelle condizioni di occupazione; ulteriori forme di discriminazione connesse alla condizione di donna immigrata o disabile;
    la crisi economica internazionale, con l'aumento della disoccupazione e della responsabilità delle donne sul luogo di lavoro e della famiglia, induce insieme con la diminuzione del reddito un potenziale aumento della violenza domestica e sociale contro le donne ed una loro maggiore vulnerabilità nelle condizioni di mercato del lavoro;
    è necessario che gli Stati, sotto la Presidenza italiana del semestre europeo, si pongano come obiettivo la promozione della libertà della donna da ogni forma di violenza ed il rispetto della dignità umana delle donne;
    la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica dell'11 maggio 2011 ad Istanbul, per la quale è stata di recente autorizzata la ratifica dal Parlamento, si pone l'obiettivo di proteggere le donne da ogni forma di violenza e di contribuire ad eliminare ogni forma di discriminazione, promuovendo la concreta parità tra i sessi, ivi compreso il rafforzamento dell'autonomia e dell'autodeterminazione delle donne. Inoltre, la Convenzione mira a predisporre un quadro globale, politiche e misure di protezione e di assistenza a favore di tutte le donne vittime di violenza, anche sostenendo e assistendo le organizzazioni e le autorità incaricate dell'applicazione della legge in modo che possano collaborare efficacemente, al fine di adottare un approccio integrato per l'eliminazione della violenza contro le donne e la violenza domestica;
    nel nostro Paese, i primi veri accenni di libertà per le donne possono essere cronologicamente inquadrati nei primi anni Sessanta, il periodo del boom economico e, in particolare, dal Sessantotto in poi, anno celebre non solo per i movimenti studenteschi ma anche per le più aspre rivendicazioni femministe. Come in qualsiasi cambiamento radicale si assunsero presto posizioni talmente estremizzate da travisare il significato originale di quelle che nascevano come giuste rivendicazioni femminili. La libertà si trasformò in liberismo più sfrenato che sfociava, il più delle volte, nel pensiero anarchico. Il nostro tempo porta con sé retaggi non trascurabili di una libertà impropria. Oggi, infatti, le donne hanno una parvenza di maggiore libertà di scelta, ma quasi sempre si tratta di un'illusione. Ad esempio, negli anni l'attuazione della legge sull'interruzione volontaria di gravidanza ha rappresentato l'esempio lampante dell'illusione basata sulla proporzione: maggiore è il diritto di scelta, maggiore è la libertà. La donna, infatti, non è veramente libera di scegliere se le istituzioni non operano per rimuovere quelle condizioni che vincolano la sua reale libertà; Molte donne, di fronte alla mancanza di tutele da parte dello Stato, in caso di gravidanza, compiono una scelta quasi obbligata, in nome di una «libertà» che trascura il valore della vita;
    al contrario di quanto oggi sembra ispirare la linea politico programmatica dell'Esecutivo, basti pensare al disegno di legge delega sulla riforma del lavoro attualmente all'esame del Parlamento; è necessario sviluppare delle politiche a sostegno della donna capaci, da un lato, di creare le stesse condizioni di parità con gli uomini per l'accesso al mondo del lavoro e, dall'altro lato, in grado di valorizzare il ruolo della donna madre all'interno del nucleo familiare, sviluppando, di conseguenza, interventi atti a migliorare i servizi a sostegno della famiglia, a riconsiderare l'imposizione fiscale tenendo conto del fattore famiglia e a sviluppare progetti volti alla ricollocazione nel mondo del lavoro delle donne madri;
    l'introduzione del federalismo fiscale rappresenta un cambiamento epocale che segna finalmente una netta inversione di rotta in merito alle politiche a tutela della famiglia. I firmatari della presente mozione sono convinti, infatti, che l'autonomia impositiva regionale e locale disegnata dalla legge delega sul federalismo fiscale, che tarda ingiustificatamente a trovare la sua piena applicazione, diretta a superare la logica dei trasferimenti vincolati ad alto tasso di burocrazia e a basso tasso d'incidenza sullo sviluppo reale, apra una nuova stagione anche per le politiche fiscali a tutela della famiglia. Questa nuova autonomia regionale e locale sarà, infatti, guidata in base ai principi di coordinamento che sono elencati nella legge delega. Tra questi, quello del favor familiae: «individuazione di strumenti idonei a favorire la piena attuazione degli articoli 29, 30 e 31 della Costituzione, con riguardo ai diritti e alla formazione della famiglia e all'adempimento dei relativi compiti». Si tratta di principi altamente innovativi che connotano la riforma del federalismo fiscale nella direzione di un maggiore riconoscimento fiscale dei carichi familiari e, quindi, nella direzione di una maggiore attuazione di quel favor familiae che orienta il dettato costituzionale;
    in Italia, il sistema fiscale si ostina ad operare come se la capacità contributiva delle famiglie non sia influenzata dalla presenza di figli e dall'eventuale scelta di uno dei due coniugi di dedicare parte del proprio tempo a curare, crescere ed educare i figli. Mentre di norma in tutti gli altri Paesi europei a parità di reddito la differenza tra chi ha e chi non ha figli a carico è consistente. Il sistema di tassazione deve essere riformulato in modo tale da lasciare a disposizione del nucleo familiare una maggiore disponibilità di reddito, ponendo fine all'iniqua penalizzazione a cui è sottoposta dall'attuale sistema fiscale;
    un'emancipazione matura trova compimento nella sinergia tra la donna madre, sostegno alla crescita dei figli e punto di riferimento nel cammino della vita e della famiglia e la donna lavoratrice, impegnata in tutti gli ambiti della vita sociale, economica, culturale, artistica e politica. Oggi, più che nel passato, le donne sono chiamate ad affrontare nuove sfide. La presenza sociale delle donne è indispensabile per contribuire a far esplodere le contraddizioni di una società organizzata quasi esclusivamente su criteri di produttività;
    in questi anni l'Italia ha visto aumentare progressivamente gli ingressi legali e illegali di immigrati sul proprio territorio nazionale. Il fenomeno dell'immigrazione, inevitabilmente, ha portato il nostro paese a confrontarsi con differenti modi di pensare e stili di vita completamente alieni alle radici culturali e religiose italiane. Si deve necessariamente fare i conti anche con l'islam che, favorito dal diffuso atteggiamento multiculturale e buonista, si sta radicando anche nel nostro Paese;
    secondo i firmatari del presente atto di indirizzo, l'Islam umilia e offende la donna, la considera sottomessa all'uomo dal quale può essere ripudiata (e non viceversa), la obbliga a celare il viso e il corpo, le impone l'infibulazione;
    ma la differenza sostanziale, più che nelle caratterizzazioni esteriori, sta nella concezione stessa che la donna ha di sé. Come l'Islam in quanto sistema rifiuta ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo la mediazione, l'integrazione, la modernità, così la donna islamica, sottomessa, velata, rinchiusa, privata di potestà genitoriale e di qualsiasi autonomia, giustifica ed addirittura difende questo stato. Non può esserci alcuna evoluzione se le principali protagoniste non vogliono modificare la propria condizione;
    a tutto ciò occorre rispondere con la forza generata dall'identità e dai valori di eguaglianza del nostro Paese, che nascono da tutta la tradizione storica italiana, con la consapevolezza che dignità e diritti sono elementi su cui non è possibile scendere a patti,

impegna il Governo:

   a sostenere, nel contesto del semestre di Presidenza italiana del Consiglio dell'Unione europea, la promozione della libertà della donna da ogni forma di violenza ed il rispetto della dignità umana delle donne;
   a mettere in campo gli strumenti necessari per incentivare le politiche di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro attraverso il potenziamento delle politiche attive per l'occupabilità femminile e dei servizi per il welfare;
   a promuovere reali politiche incentrate sul riconoscimento della famiglia quale nucleo fondamentale della società, dando attuazione al favor familiae declinato nella legge delega sul federalismo fiscale;
   a promuovere un programma di educazione e formazione ai diritti umani per tutti, anche a partire da tutti gli ordini di scuole, dato che il fenomeno della violenza contro le donne rappresenta un problema culturale che investe l'intero Paese, soprattutto in ragione del fenomeno migratorio che comporta il coacervo di culture portatrici di valori profondamente diversificati rispetto alle tradizioni italiane;
   a lanciare iniziative pubbliche di sensibilizzazione e a promuovere codici etici per l'informazione riguardo all'immagine femminile, anche attraverso i siti istituzionali e il servizio di radio-diffusione pubblico nazionale;
   a lanciare iniziative pubbliche di sensibilizzazione affinché tutte le donne utilizzino le strutture pubbliche esistenti, quali i centri di ascolto preposti ad affrontare realtà di sopraffazione e violenza, anche motivate da convinzioni culturali e religiose;
   ad assumere iniziative normative dirette a definire nuove fattispecie di reato connotate da maggior rigore sanzionatorio nei confronti di chi, se pur per motivi di appartenenza culturale o religiosa, istiga a mettere in atto comportamenti compromettenti il principio della parità di genere e della libertà personale.
(1-00620)
«Rondini, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Busin, Caon, Caparini, Fedriga, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera, Simonetti».
(13 ottobre 2014)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE IN MATERIA DI DIRITTI DEI RICHIEDENTI ASILO E DEI RIFUGIATI, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALLA REVISIONE DEL REGOLAMENTO DELL'UNIONE EUROPEA NOTO COME «DUBLINO III»

   La Camera,
   premesso che:
    il fenomeno dei rifugiati e richiedenti asilo in Europa – a causa dei drammatici conflitti e delle violenze che stanno investendo l'area mediterranea e, più in generale, il continente africano – sta assumendo dimensioni terribili. Secondo il rapporto di Eurostat sul primo trimestre del 2014, le persone che, tra gennaio e marzo, hanno chiesto asilo sul territorio dei 28 Paesi dell'Unione europea sono state circa 108.300, quasi 25.000 in più rispetto allo stesso periodo del 2013, con un aumento del 30 per cento; in particolare, l'Italia ha ricevuto 10.700 domande, risalendo così al quarto posto tra i Paesi dell'Unione europea come meta dei richiedenti asilo. Tra i Paesi di provenienza, la Siria continua ad occupare il primo posto (16.770), seguita da Afghanistan (7.895) e Serbia (5.960);
    il numero delle vittime e delle violazioni dei diritti umani da parte dei trafficanti, negli anni, è considerevolmente aumentato (in generale, dal 2000 al 2013, sono morti più di 23 mila migranti nel tentativo di fuggire dai conflitti e di raggiungere l'Europa via mare o attraversando i confini del vecchio continente via terra: in media più di 1.600 l'anno);
    nonostante lo straordinario impegno del Governo italiano con l'operazione di soccorso denominata Mare Nostrum, che ha salvato migliaia di vite umane, i drammi e le violazioni dei diritti umani continuano a perpetrarsi;
    la gestione dell'accoglienza, dell'identificazione e dell'assistenza da parte di molti Paesi dell'Unione europea presenta numerose criticità, data la consistenza del fenomeno e considerate le talvolta difficili condizioni sociali ed economiche dei Paesi riceventi, difficoltà che si riflettono sia sulle popolazioni accoglienti che sui rifugiati e richiedenti asilo;
    con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, le materie concernenti l'asilo, la protezione sussidiaria e la protezione temporanea hanno acquisito la qualifica di politica comune dell'Unione europea (articolo 78 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea); pertanto, la concreta regolamentazione di tali materie risulta un'applicazione del Trattato;
    la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, che con il Trattato di Lisbona ha acquisito la stessa portata e rilevanza giuridica del Trattato stesso: riconosce e garantisce il diritto di asilo nel rispetto delle norme stabilite dalla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e dal Protocollo del 31 gennaio 1967 sullo status dei rifugiati, e a norma del Trattato sull'Unione europea e del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (articolo 18); vieta le espulsioni collettive e le espulsioni ed estradizioni verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti (articolo 19);
    le richieste di asilo nei Paesi dell'Unione europea sono disciplinate dal regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 (cosiddetto regolamento «Dublino III»), che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l'esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di Paese terzo o da un apolide;
    il regolamento «Dublino III» intende assicurare il pieno rispetto del diritto d'asilo garantito dall'articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, nonché dei diritti riconosciuti ai sensi degli articoli 1, 4, 7, 24 e 47 della Carta medesima (diritto alla dignità umana, proibizione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, rispetto della vita privata e familiare, diritto del bambino e diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale);
    l'obiettivo del regolamento «Dublino III» è quello di realizzare un sistema di asilo europeo basato su criteri omogenei di riconoscimento del diritto d'asilo dei richiedenti, sul rispetto dei diritti umani nei Paesi d'accoglienza e sulla solidarietà tra gli Stati membri e di consentire la rapida determinazione ed identificazione dello Stato membro competente al fine di garantire l'effettivo accesso alle procedure volte al riconoscimento della protezione internazionale, non pregiudicando l'obiettivo di un rapido espletamento delle domande di protezione internazionale;
    nei fatti, l'applicazione del regolamento in questione è di difficile gestione e il principio generale in esso stabilito, secondo cui i Paesi responsabili dell'esame di una domanda di protezione internazionale «anche di coloro che hanno varcato illegalmente le frontiere di uno Stato membro» sono quelli di prima accoglienza, presenta notevoli criticità a causa del numero sempre crescente di migranti;
    tra le principali criticità vi è la gestione nazionale, ossia in carico ai singoli Stati, delle richieste d'asilo, che induce in numerosi migranti il rifiuto di farsi identificare e il loro incontrollato movimento tra i Paesi europei;
    come rilevato da alcune agenzie di protezione dei rifugiati, tra cui l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, alcune disposizioni del regolamento «Dublino III», in particolare quelle relative alle procedure da adottare per la presa in carico dei minori non accompagnati, stanno determinando seri problemi di interpretazione e di implementazione;
    come rilevato da un report dell'Aida 2013, la regolamentazione sta diventando sempre più complicata e complessa e le garanzie a favore dei migranti (nell'espletamento della procedura di richiesta), tra cui il diritto all'assistenza legale, si stanno via via indebolendo;
    a più riprese l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, da sempre particolarmente attenta al tema dei rifugiati e dei richiedenti asilo e, in generale, del rispetto dei diritti umani dei più deboli, ha raccomandato, da ultimo nella risoluzione 2047 (2014), una profonda revisione del suddetto regolamento;
    il Consiglio europeo del 26 e 27 giugno 2014, nel definire gli orientamenti strategici della programmazione legislativa e operativa nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia per gli anni a venire, ha chiesto alle istituzioni dell'Unione europea e agli Stati membri: di dotarsi di una politica efficace in materia di migrazione, asilo e frontiere, guidata dai principi di solidarietà ed equa condivisione delle responsabilità; di recepire ed attuare efficacemente, quale priorità assoluta, il sistema europeo comune di asilo (Ceas), adottando norme comuni di livello elevato e istituendo una maggiore cooperazione per creare condizioni di parità che assicurino ai richiedenti asilo le stesse garanzie di carattere procedurale e la stessa protezione in tutta l'Unione europea; di rafforzare il ruolo svolto dall'Ufficio europeo di sostegno per l'asilo (Easo), in particolare promuovendo l'applicazione uniforme dell’acquis; di intensificare la cooperazione con i Paesi di origine e di transito, anche attraverso l'assistenza volta a rafforzare le loro capacità di gestione della migrazione e delle frontiere; di potenziare ed espandere i programmi di protezione regionale, in particolare nelle vicinanze delle regioni di origine;
    in considerazione del semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea e in vista del prossimo Consiglio europeo del 23 e 24 ottobre 2014, è opportuno che il nostro Paese ponga la necessità di mettere al centro dell'agenda europea la definizione di una politica solida e condivisa, improntata su solidarietà e responsabilità, in materia di immigrazione e diritto d'asilo,

impegna il Governo:

   a proporre nelle competenti sedi europee la necessità di una revisione del regolamento «Dublino III», che ponga al centro:
    a) il rispetto e la protezione dei diritti umani dei rifugiati e dei richiedenti asilo, al fine di garantire un ambiente più favorevole a una loro accoglienza, compatibilmente con le possibilità dei Paesi ospitanti, e di provvedere efficacemente a una loro identificazione per evitare che finiscano vittime del traffico clandestino, fornendo loro un'adeguata assistenza;
    b) un omogeneo sistema europeo che regoli la concessione del diritto di asilo secondo standard e procedure comuni e il coordinamento nella raccolta delle domande dei richiedenti, anche al di fuori del territorio dei Paesi membri e in collaborazione con l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, per permettere agli aventi diritto di raggiungere i Paesi di accoglienza in modo sicuro e prevenire ogni abuso del sistema con la presentazione di domande di asilo multiple da parte di una sola persona;
    c) un sistema europeo di accoglienza che si basi sulla solidarietà tra i Paesi membri e che distribuisca la presenza dei rifugiati per quote definite sulla base degli indici demografici ed economici;
    d) un sistema di mutuo riconoscimento tra gli Stati membri della concessione del diritto di asilo, tale da garantire la libertà di stabilimento del beneficiario in ogni Stato membro, per cui il riconoscimento della protezione internazionale ad un richiedente asilo all'interno di un determinato Stato sia valido nell'intero territorio dell'Unione europea, considerato che tale sistema, che presuppone la responsabilità condivisa di un piano comune europeo di protezione temporanea e di riconoscimento dell'asilo, risulta prodromico all'istituzione del sistema europeo di accoglienza;
    e) l'istituzione di un'agenzia europea per l'asilo e l'immigrazione al di fuori del territorio dell'Unione europea, favorendo l'utilizzazione delle sedi diplomatiche già esistenti in alcuni Paesi africani, quali sedi operative nelle zone di maggior transito dei rifugiati, in grado di gestire le domande di protezione internazionale e di contenere il numero dei flussi migratori indistinti.
(1-00603)
«Nicoletti, Speranza, Berlinghieri, Amendola, Giuseppe Guerini, Quartapelle Procopio, Campana, Beni, Fiano, Monaco, Chaouki, Moscatt, Iacono, Scuvera, Piazzoni, Migliore, Bruno Bossio».
(3 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    la Presidenza italiana del Consiglio dell'Unione europea, considerato che l'Unione europea è soggetta a pressioni migratorie strutturali, conseguenti a cambiamenti sociali e politici negli Stati limitrofi, è tenuta ad assolvere entro il 31 dicembre 2014 il rafforzamento della tutela dei diritti fondamentali, attraverso un'efficace promozione della migrazione, individuando strumenti operativi;
    secondo i dati dello European asylum support office (Ufficio europeo di sostegno per l'asilo – Easo) diffusi nei giorni scorsi, si è registrato nei primi otto mesi un aumento del 28 per cento delle domande di asilo presentate nell'Unione europea, rispetto allo stesso periodo nel 2013. Uno su cinque dei richiedenti asilo è siriano, infatti la Siria è tra i primi tre Paesi di origine dei richiedenti in diciannove Stati dell'Unione europea;
    secondo i dati del Ministero dell'interno, nei mesi gennaio-settembre 2014 il numero dei richiedenti asilo si attestava a circa 44.000, con un aumento del 153 per cento a fronte dei dati del 2013 negli stessi mesi, pari a circa 17.387;
    in seguito al tragico naufragio di oltre trecento migranti del 3 ottobre 2013, l'operazione militare ed umanitaria italiana Mare Nostrum, iniziata il successivo 18 ottobre 2013, ha costituito un esempio efficace per affrontare e gestire in modo consapevole lo stato di emergenza umanitaria nello stretto di Sicilia, dovuto dall'afflusso eccezionale di migranti. L'operazione Mare Nostrum, operando congiuntamente ed in sinergia con le attività previste dall'europea Frontex, ha contribuito fattivamente a salvare vite umane in pericolo in mare, nonché a contrastare il traffico illegale di migranti. Secondo dati dell'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, le navi di Mare Nostrum hanno salvato circa il 70 per cento dei migranti e richiedenti protezione internazionale sbarcati da gennaio ad oggi in Italia;
    a partire dal prossimo mese di novembre avrà inizio la futura operazione Frontex Plus con obiettivi diversi, legati ad una maggiore vigilanza della frontiera meridionale dell'Unione. Frontex Plus sarà operativa solo nell'area marittima rientrante nella giurisdizione italiana, senza realizzare interventi di salvataggio in acque internazionali o nelle acque di altri Paesi che non riescono a gestire la propria zona di ricerca e salvataggio;
    «il successo di Frontex Plus dipende dalla partecipazione dei singoli Paesi», secondo quanto affermato dal Commissario europeo per gli affari interni Cecilia Malmström ed è necessario l'apporto dei singoli Governi per farsi carico di una gestione europea del fenomeno migratorio. Premesso ciò, le due operazioni dovrebbero essere complementari, convergendo nella promozione dell'integrazione europea delle politiche migratorie;
    negli ultimi anni si sono accentuate le differenze sostanziali tra i sistemi di protezione dei diversi Paesi, sia per quando riguarda le misure di accoglienza, sia relativamente alle percentuali di riconoscimento e alle procedure di esame della domanda;
    con il regolamento «Dublino III» si è voluto realizzare un sistema di asilo europeo basato su criteri omogenei di riconoscimento del diritto d'asilo dei richiedenti, per evitare disparità nel trattamento delle persone e nell'esame delle loro domande;
    tuttavia, l'applicazione del regolamento ha evidenziato alcune criticità, segnalate soprattutto da operatori del settore, relativamente alle procedure di gestione in generale e per la presa in carico dei minori non accompagnati, che necessitano di essere corrette,

impegna il Governo:

   a garantire una forma di protezione temporanea ai richiedenti provenienti dalla Siria, dall'Iraq e dall'Eritrea, attraverso la concessione di un permesso per motivi umanitari, in applicazione della direttiva 2011/55/CE, recepita dall'Italia con il decreto legislativo 7 aprile 2003, n. 85, relativa alla «concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati» e alla «promozione dell'equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell'accoglienza degli stessi»;
   al fine di gestire il fenomeno dei flussi migratori misti, a promuovere la creazione di un centro di accoglienza gestito in collaborazione con altri Paesi europei in Sicilia, che, in modo sperimentale, esamini le domande di protezione internazionale;
   a promuovere, in sede europea ed in collaborazione con l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, la creazione di centri di accoglienza nei Paesi di transito, quali Tunisia, Egitto, Marocco, Etiopia e Giordania, dove presentare domanda di protezione internazionale;
   ad adottare tutte le misure opportune per potenziare il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati;
   a sostenere presso le competenti sedi europee la necessità di una revisione del regolamento «Dublino III» al fine di eliminare le criticità sollevate in più sedi da personalità e istituzioni operanti nel settore, al fine di consentire ai richiedenti asilo di poter ottenere una protezione vera nei Paesi in cui hanno legami familiari o culturali e concrete prospettive di inserimento sociale e lavorativo.
(1-00604) «Santerini, Marazziti, Dellai».
(6 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    l'Europa non ha ancora mostrato di voler adottare una politica comune per la gestione dei flussi migratori e certamente non è stata capace di mostrare il volto umano della solidarietà di fronte all'emergenza umanitaria di flussi crescenti di migranti, lasciando sostanzialmente sola l'Italia, mentre ha il dovere, a fronte di questa continua richiesta di aiuto, di far sì che chi fugge dalla morte per raggiungerla, non trovi la morte nel suo cammino; si tratta di persone costrette a lasciare la propria terra per fuggire da situazioni di violenza, di degrado, di costrizione, di negazione di libertà e di privazione della dignità umana, e ad affidarsi a trafficanti criminali; il numero delle vittime e delle violazioni dei diritti umani da parte di questi ultimi, infatti, negli anni è considerevolmente aumentato (in generale, dal 2000 al 2013, sono morti migliaia di migranti nel tentativo di fuggire dai conflitti e di raggiungere l'Europa via mare o attraversando i confini del vecchio continente via terra, in media più di 1.600 l'anno);
    le ondate di sbarchi degli ultimi mesi sulle coste siciliane ha rimesso al centro del dibattito anche il diritto d'asilo facendo riemergere di nuovo la questione della normativa che lo regola a livello italiano ed europeo e degli strumenti con cui l'Unione europea può aiutare i Paesi membri sottoposti a forti pressioni migratorie alle frontiere;
    come Stato di frontiera esterna dell'Unione europea l'Italia è sottoposta a una pressione maggiore alle proprie frontiere rispetto a quanto non sarebbe se tale ingresso non coincidesse anche con l'ingresso nell'area dell'Unione europea, tuttavia ciò non può sottintendere che il Paese accogliente abbia responsabilità maggiori o speciali;
    pur tra polemiche e criticità, l'operazione di soccorso denominata Mare Nostrum ha comunque raggiunto lo scopo per il quale era stata avviata; infatti, dall'inizio del 2014, è stata salvata la vita a oltre 22.000 persone e il nostro Paese ha ancora una volta confermato la propria vocazione umanitaria che da sempre la contraddistingue in Europa; tuttavia, i sottoscrittori del presente atto di indirizzo non ritengono che Mare Nostrum possa rappresentare una soluzione permanente alla questione immigrazione, anche perché non ha impedito l'incremento dei flussi migratori illegali, garantendo, di fatto, l'arrivo in Italia a tutti coloro che si imbarcano sulle coste libiche;
    secondo il rapporto di Eurostat sul primo trimestre del 2014, sono state 435 mila le richieste di asilo in Europa nel 2013, facendo registrare un forte rialzo rispetto al 2012 quando erano state 335 mila. Secondo le stime, circa il 90 per cento sono nuove domande. Le più numerose sono state presentate da cittadini di nazionalità siriana. Emerge ancora dai dati Eurostat che il 70 per cento delle richieste si è concentrato in Germania, Francia, Svezia, Regno Unito e Italia. Nel 2013 il più alto numero di richieste d'asilo è stato registrato in Germania (127 mila, pari al 29 per cento dell'insieme delle domande), seguito da Francia (65 mila, 15 per cento), Svezia (54 mila, 13 per cento), Regno Unito (30 mila, 7 per cento) e Italia (28 mila, 6 per cento). In questi cinque Stati membri si è concentrato il 70 per cento di tutti i richiedenti asilo dell'Unione europea a 28 nel 2013;
    la gestione dell'accoglienza, identificazione, assistenza da parte di molti Paesi dell'Unione europea presenta numerose criticità data la consistenza del fenomeno e considerate talvolta le difficili condizioni sociali ed economiche dei Paesi riceventi, difficoltà che si riflettono sia sulle popolazioni accoglienti che sui rifugiati e richiedenti asilo;
    il 29 giugno 2013 sono stati pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea gli atti legislativi mancanti per completare la «revisione» di tutte le principali norme del Sistema europeo comune di asilo; in particolare, l'adozione del regolamento (UE) n. 604/2013, cosiddetto «Dublino III», entrato in vigore il 19 luglio 2013, in sostituzione del regolamento (CE) n. 343/2003, cosiddetto «Dublino II», ma la cui applicazione è stata prevista solo a partire dal 1o gennaio 2014;
    il regolamento «Dublino III» intende assicurare il pieno rispetto del diritto d'asilo garantito dall'articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, nonché dei diritti riconosciuti ai sensi degli articoli 1, 4, 7, 24 e 47 della Carta medesima (diritto alla dignità umana, proibizione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, rispetto della vita privata e familiare, diritto del bambino e diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale); inoltre, contiene i criteri e i meccanismi per individuare lo Stato membro competente al fine di garantire l'effettivo accesso alle procedure volte al riconoscimento della protezione internazionale, non pregiudicando l'obiettivo di un rapido espletamento delle domande di protezione internazionale;
    il regolamento «Dublino III» è senza dubbio la parte del Sistema europeo comune di asilo più discusso e criticato, non solo dal punto di vista delle conseguenze negative sulla vita dei richiedenti asilo; infatti, il principio generale su cui si basa è lo stesso della vecchia convenzione di Dublino del 1990 e di «Dublino II»: ogni domanda di asilo deve essere esaminata da un solo Stato membro e la competenza per l'esame di una domanda di protezione internazionale ricade in primis sullo Stato che ha svolto il maggior ruolo in relazione all'ingresso e al soggiorno del richiedente nel territorio degli Stati membri, salvo eccezioni; insomma, sono state apportati pochi aggiustamenti;
    tuttavia, malgrado l'Unione europea si sia dotata di un proprio sistema di asilo (basato sulla nozione di protezione internazionale, articolata nelle tre forme dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione temporanea, volte a consentire a chiunque di vedersi riconosciuto lo status appropriato alla propria situazione), faticosamente completato dopo 12 anni di lavori nel giugno 2013, come già detto, il cammino verso il raggiungimento di un sistema comune europeo di asilo giusto ed efficace appare ancora lungo; la realizzazione di tale sistema costituisce, in ogni caso, l'esito ultimo di un processo di progressivo avvicinamento delle legislazioni nazionali in materia le cui tappe sono state delineate nei programmi pluriennali per lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia;
    tra l'altro, con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, le materie concernenti il diritto d'asilo, la protezione sussidiaria e la protezione temporanea hanno acquisito la qualifica di politica comune dell'Unione europea (articolo 78 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea); pertanto, la concreta regolamentazione di tali materie risulta un'applicazione del Trattato;
    l'applicazione del regolamento in questione è di difficile gestione e il principio generale in esso stabilito, secondo cui i Paesi responsabili dell'esame di una domanda di protezione internazionale «anche di coloro che hanno varcato illegalmente le frontiere di uno Stato membro» sono quelli di prima accoglienza, presenta notevoli criticità a causa del numero sempre crescente di migranti, tra le quali la gestione nazionale, ossia in carico ai singoli Stati delle richieste d'asilo, che induce in numerosi migranti il rifiuto di farsi identificare e il loro incontrollato movimento tra i Paesi europei;
    sia il Consiglio europeo per i rifugiati e gli esuli sia l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati ritengono criticamente che tale sistema non riesca a fornire una protezione equa, efficiente ed efficace, impedisca l'esercizio dei diritti legali e del benessere personale dei richiedenti asilo, compreso il diritto a un equo esame della loro domanda d'asilo e, ove riconosciuto, a una protezione effettiva e conduca a una distribuzione ineguale delle richieste d'asilo tra gli Stati membri;
    la seconda fase del processo, attualmente in corso e recante la definitiva realizzazione di un Sistema europeo comune di asilo, prevede la revisione della citata normativa vigente; a più riprese l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, da sempre particolarmente attenta al tema dei rifugiati e dei richiedenti asilo e, in generale, del rispetto dei diritti umani dei più deboli, ha raccomandato, da ultimo nella risoluzione 2047 (2014), una profonda revisione del sopracitato regolamento;
    il Consiglio europeo del 26 e 27 giugno 2014, nel definire gli orientamenti strategici della programmazione legislativa e operativa nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia per gli anni a venire, ha chiesto alle istituzioni dell'Unione europea e agli Stati membri: di dotarsi di una politica efficace in materia di migrazione, asilo e frontiere, guidata dai principi di solidarietà ed equa condivisione delle responsabilità; di recepire e attuare efficacemente, quale priorità assoluta, il Sistema europeo comune di asilo (Ceas), adottando norme comuni di livello elevato e istituendo una maggiore cooperazione per creare condizioni di parità che assicurino ai richiedenti asilo le stesse garanzie di carattere procedurale e la stessa protezione in tutta l'Unione europea; di rafforzare il ruolo svolto dall'Ufficio europeo di sostegno per l'asilo (Easo), in particolare promuovendo l'applicazione uniforme dell’acquis; di intensificare la cooperazione con i Paesi di origine e di transito, anche attraverso l'assistenza volta a rafforzare le loro capacità di gestione della migrazione e delle frontiere; di potenziare ed espandere i programmi di protezione regionale, in particolare nelle vicinanze delle regioni di origine;
    il Governo italiano si è impegnato a chiedere nelle sedi appropriate una risposta europea più adeguata e a inserire la questione di una più efficace gestione in comune delle politiche migratorie fra le priorità del semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea;
    occorre, a questo punto, che a livello europeo si predisponga al più presto almeno un canale umanitario affinché chi fugge dalla guerra possa chiedere asilo alle istituzioni europee nei Paesi che affacciano sul Mediterraneo o lì dove è necessario (presso i consolati o altri uffici) senza doversi imbarcare, con ciò alimentando il traffico di essere umani e il bollettino dei tragici naufragi, per poi accogliere sul suolo europeo chi fugge ed esaminare qui la domanda dei richiedenti;
    la Costituzione italiana, attraverso il terzo comma dell'articolo 10, recita chiaramente: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge», ovvero sussiste l'obbligo dell'accoglienza dei richiedenti asilo;
    è nel pieno della sua attività il semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea (e anche in vista del prossimo Consiglio europeo del 23 e 24 ottobre 2014) ed è, dunque, opportuno che il nostro Paese ponga la necessità di mettere al centro dell'agenda europea la definizione di una politica solida e condivisa, improntata su solidarietà e responsabilità, in materia di immigrazione e diritto d'asilo,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative per adottare un testo unico di tutte le disposizioni di attuazione degli atti dell'Unione europea in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione internazionale e temporanea, in attuazione anche dell'articolo 10 della Costituzione, e per rivedere tutta la normativa esistente in tema di regolamentazione organica dell'intera materia dell'immigrazione dall'estero;
   ad attivarsi in ogni sede dell'Unione europea, soprattutto in occasione del semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea, al fine di realizzare il superamento dell'attuale quadro normativo (così detto sistema di «Dublino III») attraverso una sua revisione per favorire: l'inserimento dei richiedenti asilo già dal momento dell'avvio della procedura di protezione, nei Paesi dell'Unione dove già vivono propri parenti, prima ancora che acquisiscano lo status di apolide; il rispetto e la protezione dei diritti umani dei rifugiati e dei richiedenti asilo, al fine di garantire un ambiente più favorevole a una loro accoglienza, compatibilmente con le possibilità dei Paesi ospitanti e di provvedere efficacemente a una loro identificazione per evitare che finiscano vittime del traffico clandestino, fornendo loro un'adeguata assistenza;
   ad assumere iniziative, in sede di Unione europea, per una più efficace azione nei confronti dei Paesi di origine e di transito, impegnando e incentivando i rispettivi Governi in una seria e solidale politica di gestione dei flussi, soprattutto nella lotta alle organizzazioni criminali che lucrano sul traffico di esseri umani;
   a favorire l'avvio di un sistema europeo di accoglienza che si basi sulla solidarietà tra i Paesi membri e che distribuisca la presenza dei rifugiati per quote definite sulla base degli indici demografici ed economici, favorendo le logiche di ricongiungimento familiare, etnico, religioso e linguistico;
   a promuovere l'adozione di:
    a) un omogeneo sistema europeo che regoli la concessione del diritto di asilo secondo standard e procedure comuni e il coordinamento nella raccolta delle domande dei richiedenti, anche al di fuori del territorio dei Paesi membri e in collaborazione con l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, per permettere agli aventi diritto di raggiungere i Paesi di accoglienza in modo sicuro e prevenire ogni abuso del sistema con la presentazione di domande di asilo multiple da parte di una sola persona;
    b) un sistema di mutuo riconoscimento tra gli Stati membri della concessione del diritto di asilo, tale da garantire la libertà di stabilimento del beneficiario in ogni Stato membro, per cui il riconoscimento della protezione internazionale a un richiedente asilo all'interno di un determinato Stato sia valido nell'intero territorio dell'Unione europea;
   a favorire l'istituzione di un'agenzia europea per l'asilo e l'immigrazione al di fuori del territorio dell'Unione europea attraverso la creazione di basi europee direttamente finanziate dall'Unione europea o l'utilizzazione delle sedi diplomatiche già esistenti in alcuni Paesi africani, quali sedi operative nelle zone di maggior transito dei rifugiati, in grado di gestire le domande di protezione internazionale e di contenere il numero dei flussi migratori indistinti;
   a rivedere tutte le note del Ministero dell'interno che concernono i finanziamenti dei bandi interministeriali destinati alla prima accoglienza e alla gestione dei servizi connessi, con particolare riguardo ai criteri di spesa ad essi inerenti;
   a verificare la possibilità di promuovere interventi per assicurare beni e servizi per le famiglie italiane meno abbienti con il fine di evitare tensioni tra italiani e richiedenti asilo all'interno della comunità.
(1-00605)
«Manlio Di Stefano, Spadoni, Grande, Scagliusi, Del Grosso, Di Battista, Sibilia, Currò, Artini, Carinelli, Silvia Giordano, Rostellato, Brescia, Frusone, Colonnese, Lorefice, Sorial, Mantero, Grillo, D'Incà, Spessotto, L'Abbate, Benedetti, Liuzzi, Dall'Osso, De Lorenzis».
(7 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    i dati forniti da Eurostat sulle richieste di asilo presentate in Europa fotografano un fenomeno, quello dei rifugiati e richiedenti asilo, di imponenti dimensioni e che necessita di una forte politica comune dell'Unione europea;
    secondo il rapporto fornito dall'istituto europeo di statistica, le persone che nei primi tre mesi del 2014 hanno chiesto asilo sul territorio dell'Unione europea sono state circa 108.300, con un aumento di circa il 30 per cento rispetto al dato dello stesso periodo del 2013, che ha registrato nell'anno circa 450 mila richieste di asilo presentate ai 28 Stati dell'Unione europea, con un aumento di circa 100 mila richieste rispetto al 2012;
    l'Italia nel 2013 ha ricevuto 27.800 domande di asilo. Erano state 31.723 nel 2008, 19.090 nel 2009, 12.121 nel 2010, 37.350 nel 2011 e 17.323 nel 2012;
    nel 2013 il più alto numero di richieste d'asilo è stato registrato in Germania (127 mila), seguito da Francia (6 5mila), Svezia (54 mila), Regno Unito (30 mila). Complessivamente, sommato al dato italiano, questi numeri compongono il circa il 70 per cento del totale delle richieste d'asilo presentate nell'Unione europea;
    tra i Paesi di provenienza, la Siria occupa il primo posto (16.770 richieste), seguita da Afghanistan (7.895) e Serbia (5.960);
    secondo l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, il numero totale di persone arrivate via mare in Italia, sempre nei primi mesi del 2014, è di oltre 18.500 e quasi 43.000 persone sono arrivate via mare nel 2013;
    l'operazione di soccorso in mare denominata Mare Nostrum ha salvato in mare, in questi mesi, migliaia di vite umane. Tuttavia, ha dimostrato più volte i suoi limiti, come, ad esempio, nella tragedia del 12 maggio 2014 al largo di Lampedusa e nelle centinaia di morti nei pressi delle coste libiche;
    Mare Nostrum è stata una risposta emergenziale ad una questione strutturale, quale è quella relativa ai flussi migratori. Inadeguata e insufficiente e che, in ogni caso, non previene in alcun modo l'esposizione dei potenziali rifugiati ai rischi delle traversate per mare e che, se pure ha permesso di fermare molti dei cosiddetti scafisti, certo non è in grado di intervenire sull'emergenza della tratta di esseri umani, che ha luogo principalmente in Libia e che vede negli scafisti solo l'ultimo anello della catena;
    le navi dell'operazione Mare Nostrum, se, da un lato, svolgono un'importante opera di pattugliamento e di soccorso, come prescritto dalle convenzioni internazionali in vigore, dall'altro, tuttavia, nulla può rispetto all'altra grande emergenza che l'Unione europea si trova ad affrontare: la gestione dell'accoglienza e l'assistenza ai richiedenti asilo negli Stati europei e, in particolare, nel nostro Paese, specificatamente interessato dalla pressione migratoria;
    la gestione dell'accoglienza, la «presa in carico» e l'assistenza da parte di molti Paesi dell'Unione europea presenta numerose criticità, data la consistenza del fenomeno e considerate le talvolta difficili condizioni sociali ed economiche dei Paesi riceventi, difficoltà che si riflettono sia sulle popolazioni accoglienti che sui rifugiati e richiedenti asilo;
    con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, le materie concernenti l'asilo, la protezione sussidiaria e la protezione temporanea hanno acquisito la qualifica di politica comune dell'Unione europea (articolo 78 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea); pertanto, la concreta regolamentazione di tali materie risulta un'applicazione del Trattato;
    la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, che con il Trattato di Lisbona ha acquisito la stessa portata e rilevanza giuridica del Trattato stesso, riconosce e garantisce il diritto di asilo nel rispetto delle norme stabilite dalla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e dal Protocollo del 31 gennaio 1967, relativi allo status dei rifugiati, del Trattato sull'Unione europea e del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (articolo 18); vieta le espulsioni collettive e le espulsioni ed estradizioni verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti (articolo 19);
    le richieste di asilo nei Paesi dell'Unione europea sono disciplinate dal regolamento n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 (cosiddetto regolamento «Dublino III»), che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l'esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di Paese terzo o da un apolide;
    il regolamento «Dublino III» intende assicurare il pieno rispetto del diritto d'asilo garantito dall'articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, nonché dei diritti riconosciuti ai sensi degli articoli 1, 4, 7, 24 e 47 della Carta medesima (diritto alla dignità umana, proibizione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, rispetto della vita privata e familiare, diritto del bambino e diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale);
    l'obiettivo del regolamento «Dublino III» è quello di realizzare un sistema di asilo europeo basato su criteri omogenei di riconoscimento del diritto d'asilo dei richiedenti, sul rispetto dei diritti umani nei Paesi d'accoglienza e sulla solidarietà tra gli Stati membri e di consentire la rapida determinazione ed identificazione dello Stato membro competente, al fine di garantire l'effettivo accesso alle procedure volte al riconoscimento della protezione internazionale, non pregiudicando l'obiettivo di un rapido espletamento delle domande di protezione internazionale;
    rispetto al precedente regolamento denominato «Dublino II», in particolare, sono state modificate le definizioni di familiari; è stato introdotto l'effetto sospensivo del ricorso; sono stati inseriti i termini anche per la procedura di ripresa in carico; è possibile il trattenimento del richiedente per pericolo di fuga; è introdotto lo scambio di informazioni sanitarie a tutela del richiedente;
    studi effettuati negli ultimi anni mostravano ancora differenze sostanziali tra i sistemi di protezione dei diversi Paesi, sia per quando riguarda le misure di accoglienza, sia relativamente alle percentuali di riconoscimento, sia rispetto alle procedure di esame della domanda; pertanto, l'Unione europea ha riformato il complesso della normativa in materia, ponendolo, nelle intenzioni, come base uniforme al fine di evitare disparità nel trattamento delle persone e nell'esame delle loro domande, proprio come premessa delle misure previste dal regolamento «Dublino», nella sua versione modificata;
    tuttavia, al di là dei buoni propositi sopra richiamati, diverse disposizioni del regolamento «Dublino III» stanno determinando seri problemi di interpretazione e applicazione negli Stati membri;
    l'obiettivo iniziale di tale sistema era quello di garantire che almeno uno degli Stati membri prendesse in carico il richiedente. Tuttavia, è ormai evidente come in realtà l'applicazione di tale insieme di regole sia diventata un insensato percorso a ostacoli per chi cerca protezione: famiglie separate, persone lasciate senza mezzi di sostentamento o addirittura detenute, lungaggini burocratiche e rimpalli tra Stati e uffici che rendono il diritto d'asilo inesigibile;
    in particolare, il regolamento «Dublino III» limita oltremodo la mobilità dei richiedenti asilo nell'Unione europea, con un impatto fortemente negativo sulla vita dei rifugiati;
    per quanto concerne l'Italia, il regolamento di Dublino interessa, in particolare, due categorie di migranti: quelli che sono stati rimandati in Italia, in quanto individuata come Stato responsabile per esaminare la loro domanda d'asilo («dublinati») e quelli che devono essere trasferiti dall'Italia a un altro Stato europeo, dove precedentemente sono stati identificati attraverso le impronte digitali (in attesa di trasferimento);
    il rilievo delle impronte digitali assume un'importanza poiché il regolamento prescrive che il migrante sia «preso in carico» dal Paese di primo accesso. Essendo l'Italia un Paese di transito per la maggior parte dei migranti e vista la diffusione delle notizie sulla lentezza delle procedure del nostro Paese nell'evasione delle richieste d'asilo e sulle limitazioni – pur se illegittime – poste alla libera circolazione in territorio europeo anche successivamente al riconoscimento dello status di rifugiato, sono molti i migranti che si oppongono al rilevamento;
    il regolamento (UE) n. 604/2013, nato per contrastare il fenomeno del cosiddetto asylum shopping (la presentazione della richiesta di protezione in più Paesi), appare del tutto inadeguato a gestire i flussi migratori attuali; esso impedisce, di fatto, la necessaria solidarietà europea nella gestione delle domande di protezione e incentiva fenomeni di fughe collettive dai centri di prima accoglienza e, quindi, di «clandestinizzazione» dei migranti;
    un'altra criticità particolarmente vistosa riguarda l'accoglienza. Occorre segnalare come non sia stato organizzato nel nostro Paese un sistema di prima accoglienza idoneo alla portata del fenomeno delle migrazioni e, in particolare con riferimento ai richiedenti asilo, siano state spesso utilizzate strutture di accoglienza del tutto improprie e al limite della dignità umana;
    un ulteriore elemento critico è la mancanza di un'effettiva ed esigibile tutela legale da parte dei migranti, e ciò ha un forte impatto sull'equità della procedura di asilo. La procedura «Dublino», infatti, può durare molto e il migrante non ha la possibilità di essere aggiornato su come procede il suo caso, né attraverso un apposito ufficio informazioni, né accedendo a un sistema on line o agli sportelli di altri uffici delle autorità competenti, come quelli territoriali dell'immigrazione;
    questo produce frustrazione, depressione e un profondo senso di precarietà, che coinvolge anche le popolazioni locali interessate dalla pressione migratoria;
    la rigidità del «sistema di Dublino», infatti, spinge i richiedenti asilo a muoversi continuamente in Europa in cerca di protezione, piuttosto che fermarsi in un posto solo, nel tentativo di aggirare un sistema percepito come poco sicuro;
    nonostante le criticità del sistema siano note da tempo, l'Unione europea non sembra voler porre rimedio, anzi pare prendere misure che vanno nella direzione opposta a quella della risoluzione dei problemi;
    ne è l'esempio la gigantesca operazione di polizia appena partita in tutta Europa volta a fermare, controllare e identificare tutti i migranti che verranno intercettati sul territorio continentale;
    l'Italia guiderà tale operazione di polizia europea, denominata «Mos Maiorum», un intervento coordinato dalla direzione centrale per l'immigrazione e la polizia di frontiera del Ministero dell'interno italiano, in collaborazione con l'agenzia Frontex, volto a perseguire l’«attraversamento illegale dei confini»; un'operazione più repressiva che di tutela nei confronti di quella moltitudine di individui che approdati in Europa stanno cercando di realizzare un loro nuovo progetto di vita, lontano da guerre, miseria e persecuzioni;
    di fatto, l'identificazione, già dal prelevamento delle impronte digitali, rappresenta oggi per il migrante non una garanzia di tutela dei diritti connessi al proprio status, ma una limitazione della propria libertà di movimento all'interno dell'Unione europea, anche al fine di proporre istanza di protezione in un Paese diverso da quello di primo accesso. Doversi nascondere dall'autorità statuale del Paese di primo accesso rappresenta, in molti casi, l'inizio di un percorso di emarginazione;
    ventuno parlamentari di Italia, Francia, Spagna, Grecia, Croazia, Serbia, San Marino, appartenenti a gruppi politici diversi (Pse, Ppe, Alde – tra gli italiani Pd, FI, Popolari, Sel, 5Stelle) hanno depositato presso l'Ufficio di Presidenza dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa la richiesta di un rapporto ad hoc sull'applicazione del regolamento «Dublino III», che possa contenere analisi fattuali dei dati e proposte ai Governi per un suo miglioramento, come più volte richiesto dall'Assemblea di Strasburgo;
    sempre l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa ha raccomandato, nella sua ultima risoluzione, la 2047/2014, una profonda revisione del regolamento «Dublino III»;
    riveste particolare importanza la circostanza che l'Italia è presidente di turno dell'Unione europea ed appare qui opportuno che l'Italia ponga la necessità di aggiungere anche tale punto all'ordine del giorno del Consiglio europeo del 23 e 24 ottobre 2014,

impegna il Governo:

   a proporre nelle competenti sedi europee un'iniziativa tesa a sospendere l'applicazione del regolamento cosiddetto «Dublino III» e a sostenere la necessità di una sua revisione, che ponga al centro:
    a) il rispetto e la protezione dei diritti umani dei rifugiati e dei richiedenti asilo, al fine di garantire un ambiente più favorevole a una loro accoglienza, fornendo loro un'adeguata assistenza fisica, psicologia e legale, nonché un adeguato percorso di integrazione;
    b) un sistema di mutuo riconoscimento tra gli Stati membri della concessione del diritto di asilo, che estenda ai richiedenti asilo ed ai rifugiati i diritti previsti per i cittadini europei dal Trattato di Schengen, permettendo così un'allocazione libera e, dunque, più razionale dei flussi migratori;
    c) l'istituzione di un'agenzia europea per l'asilo e l'immigrazione, favorendo l'utilizzazione delle sedi diplomatiche già esistenti in alcuni Paesi africani, quali sedi operative nelle zone di maggior transito dei rifugiati;
    d) a prendere tutti i provvedimenti necessari affinché il tempo richiesto per l'esame delle richieste di asilo in Italia si allinei alla media europea;
    e) ad operare per ottenere le modifiche al regolamento di Dublino III idonee a rendere l'identificazione del migrante non un limite alla propria libertà di circolazione e al pieno godimento dei diritti connessi al proprio status, ma una garanzia del rispetto degli stessi diritti;
   a farsi portatore in sede europea di un'iniziativa che porti al definitivo superamento del sistema Frontex, affinché quelle risorse siano finalizzate in primis ad organizzare un efficiente sistema di monitoraggio e soccorso;
   ad interrompere la prassi di rimpatri cosiddetti «immediati», effettuati prima che sia data ai migranti la possibilità di proporre istanza di protezione, posto che tali provvedimenti, anche se presi in forza di accordi bilaterali, sono illegittimi in quanto costituiscono rimpatri collettivi non motivati singolarmente ed in quanto negano al migrante la possibilità, riconosciuta da numerose convenzioni internazionali, di proporre istanza di protezione;
   a porre in sede europea la questione dell'indifferibilità dell'apertura di canali di «accesso protetto», che tramite corridoi umanitari garantiscano la possibilità ai migranti di fare richiesta di asilo direttamente nei Paesi di transito, come l'Egitto, per poi poter entrare in Europa in sicurezza.
(1-00616)
(Nuova formulazione) «Palazzotto, Fratoianni, Scotto, Nicchi, Costantino, Pannarale, Duranti, Piras, Kronbichler, Zaratti».
(13 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    il tema dell'immigrazione, di per sé particolarmente complesso e delicato, assume un particolare rilievo in questo momento storico a causa della grave instabilità politica dei Paesi africani del Mediterraneo e di quelli dell'Africa subsahariana. Si sta assistendo, infatti, ad una mutazione delle cause storiche del fenomeno migratorio. Se prima povertà e scarsezza dei mezzi economici rappresentavano il motivo principale della spinta alla migrazione, oggi la causa prioritaria e più significativa è costituita dalle guerre e dalle persecuzioni;
    infatti, la ciclicità delle crisi che attraversano quei Paesi, segnati da fragili equilibri politici interni e debolezza degli apparati statuali, determina spesso tumulti, sommosse e vere e proprie rivoluzioni che rendono impossibile ogni forma di civile convivenza;
    ciò cambia il profilo dei flussi migratori che, inizialmente originati dal desiderio di fuggire dalla povertà e da condizioni sociali allarmanti, oggi, per i motivi esposti, sono soprattutto determinati dal desiderio di sfuggire da guerre e devastazioni e spingono i migranti a richiedere all'Europa asilo politico;
    i cosiddetti «viaggi della speranza» partono da Eritrea, Mali, Siria, Libia, Gambia, Somalia, Senegal, Pakistan, Nigeria, Egitto ed altri;
    secondo il rapporto Eurostat sul primo quadrimestre del 2014, le persone che, tra gennaio e marzo 2014, hanno richiesto asilo sul territorio dei 28 Paesi dell'Unione europea sono state circa 108.300, quasi 25.000 in più rispetto allo stesso periodo del 2013, con un aumento del 30 per cento. In particolare, l'Italia ha ricevuto 10.700 domande, risalendo così al quarto posto tra i Paesi dell'Unione europea come meta dei richiedenti asilo;
    per quanto attiene alla politica europea di asilo, si ricorda che il tema è già stato oggetto, da parte delle istituzioni comunitarie, di dibattito e di specifiche valutazioni in relazione anche ai complessi e difficili percorsi di integrazione nei Paesi dell'Unione europea;
    con il Trattato di Amsterdam, la politica migratoria compie un passo decisivo verso la «comunitarizzazione», diventando oggetto di competenza concorrente tra Unione europea e Stati membri;
    nel 2009 il Trattato di Lisbona, confermando l'impegno dell'Europa verso una comune politica migratoria, ha reso vincolante la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea: pertanto, con il Trattato di Lisbona, le materie concernenti l'asilo, la protezione sussidiaria e la protezione temporanea hanno acquisito la qualifica di politica comune dell'Unione europea (articolo 78 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea);
    con il regolamento «Dublino III» (regolamento (UE) n. 604/2013) si stabiliscono i criteri ed i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente ad esaminare le domande di protezione internazionale presentate da cittadini di un Paese terzo o da un apolide;
    il nuovo regolamento, che abroga il regolamento (CE) n. 343/2003, detto «Dublino II», modifica alcune disposizioni previste per la determinazione dello Stato membro dell'Unione europea competente per l'esame della domanda di protezione internazionale e le modalità e le tempistiche ad esso correlate. Il nucleo fondamentale di tale regolamento è costituito dai criteri che determinano quale sia lo Stato membro dell'Unione europea competente;
    altro obiettivo del regolamento «Dublino III» è quello di realizzare un sistema di asilo europeo basato su criteri omogenei di riconoscimento del diritto di asilo dei richiedenti: nel pieno rispetto dei diritti umani da parte dei Paesi di accoglienza, della solidarietà degli Stati membri e con l'impegno di pervenire ad una rapida e sicura identificazione;
    il regolamento «Dublino III» (in base al quale lo Stato membro responsabile dell'esame dell'istanza è quello in cui è avvenuto il primo ingresso del richiedente protezione internazionale) risulta ormai superato, essendo già mutato il quadro di riferimento e le stesse condizioni nelle quali esso è stato definito;
    il nostro Paese, ad esempio, risulta essere di gran lunga il primo punto di approdo dei migranti: ma la maggior parte di questi desiderano raggiungere familiari inseriti in comunità già insediate in altre nazioni e rifiutano, pertanto, il riconoscimento considerando l'Italia come un mero Paese di transito;
    il superamento del regolamento «Dublino III» consentirebbe, quindi, il trasferimento legale di questi migranti, ma fino a quando non verrà permesso al richiedente asilo o al rifugiato di muoversi legalmente all'interno dell'Europa, si continuerà ad assistere all'aumento dei flussi migratori considerati illegali verso altri Stati membri, a cui seguono, normalmente, nuovi e costosi trasferimenti nel nostro Paese, punto di prima accoglienza;
    il regolamento «Dublino III» ha, quindi, un grande limite, perché non risponde più alle esigenze attuali e scarica sul nostro Paese, normalmente meta di primo ingresso, l'intero peso dei flussi migratori, con le drammatiche conseguenze economico sociali che tutti possono valutare;
    occorre, pertanto, porre in essere una strategia di ampio respiro che deve potere agire sulle cause e sulla gestione di un tale fenomeno epocale, essendo evidente che non può incombere solo sull'Italia l'immenso peso di questo immane flusso migratorio verso l'Occidente europeo;
    il Consiglio europeo ha presentato il 26 e 27 giugno 2014 il proprio documento programmatico. Nell'agenda strategica trovano spazio le priorità chiave per i prossimi cinque anni, tra cui quelle inerenti alla gestione dei flussi migratori, alla tutela del diritto di asilo e alla libertà di circolazione. Il Consiglio ha, quindi, invitato le istituzioni dell'Unione europea e gli Stati membri ad attuare pienamente tali indicazioni prioritarie;
    l'Unione europea, ad avviso del Consiglio europeo, deve, infatti, dotarsi di una politica efficace e ben gestita in materia di migrazione, asilo e frontiere, guidata dai principi di solidarietà ed equa condivisione delle responsabilità in conformità all'articolo 80 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea e garantendone l'effettiva attuazione;
    il pieno recepimento e l'attuazione del sistema europeo costituiscono una priorità assoluta. In particolare, occorre che ci si avvii verso «norme comuni di livello elevato ed in una maggiore cooperazione, creando condizioni di parità che assicurino ai richiedenti asilo le stesse garanzie di carattere procedurale e la stessa protezione in tutta l'Unione europea»;
    il Governo è già intervenuto incrementando, anche con l'intervento degli enti locali, il sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) e le commissioni territoriali;
    la questione va considerata nel semestre di presidenza italiana del Consiglio dell'Unione europea ed in vista del prossimo Consiglio europeo del 23 e 24 ottobre 2014,

impegna il Governo:

   a proporre, nelle sedi europee competenti, la necessità di una revisione del regolamento «Dublino III» che riguardi:
    a) compatibilmente con le possibilità dei Paesi ospitanti, l'impegno a provvedere in modo efficace ad una loro identificazione per evitare che possano finire vittime del traffico clandestino;
    b) un sistema europeo di accoglienza che si basi sulla solidarietà tra i Paesi membri e che distribuisca la presenza dei rifugiati per quote sulla base degli indici demografici ed economici;
    c) un sistema di mutuo riconoscimento tra gli Stati membri per la concessione del diritto di asilo in modo tale da garantire che il riconoscimento della protezione internazionale ad un richiedente asilo sia valido per l'intero territorio dell'Unione europea;
   a valutare, insieme ai partner europei, i possibili vantaggi dell'istituzione di un'agenzia europea per l'asilo e l'immigrazione che utilizzi le sedi diplomatiche presenti nei Paesi di origine dei flussi migratori, al fine di analizzare e valutare le richieste di protezione internazionale, anche per arginare la consistenza dei flussi migratori.
(1-00617)
«Dorina Bianchi, Misuraca, Bosco, Garofalo, Minardo».
(13 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    con il termine «immigrazione» si tende ad indicare fenomeni tra loro molto diversi da un punto di vista sociologico ma, soprattutto, e di conseguenza, normativo e che l'ormai diffuso utilizzo dell'espressione «migranti», senza la necessaria distinzione tra immigrazione regolare, irregolare e asilo, è una palese discriminazione tra chi ha un titolo legittimo e chi invece viola le leggi;
    l'asilo e l'immigrazione, per le loro implicazioni sul governo e controllo delle frontiere e del territorio, è sempre stata di competenza esclusiva dei singoli Stati, finché l'Unione Europea, a partire dagli anni 2000 e poi con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ne ha eroso la potestà, avocando a sé parte sempre più considerevole della disciplina;
    con riguardo all'immigrazione clandestina, la direttiva 2008/115/CE, cosiddetta «rimpatri» pone in capo agli Stati l'obbligo di procedere all'espulsione di chi entra clandestinamente entro lo spazio europeo e la legittimità del trattenimento amministrativo, onde procedere non solo all'identificazione ma ad un effettivo allontanamento del clandestino, anche ricorrendo a misure coercitive;
    attualmente, secondo anche quanto riportato nel rapporto del luglio 2014 sui centri di identificazione ed espulsione (istituti dalla cosiddetta legge Turco-Napolitano e poi ridisciplinati nel 2011) in Italia: degli 11 centri di identificazione ed espulsione solo 5 sono funzionanti, mentre gli altri sono chiusi a causa dei danneggiamenti provocati dagli ospiti ed altri ancora, snaturandone la funzione, sono stati convertiti in centri di accoglienza per richiedenti asilo; al 4 febbraio 2014, su una capienza complessiva di 1.791 posti, risultava una capienza effettiva di 842 posti e 460 presenze, mentre a luglio 2014 il Ministro dell'interno Alfano dichiarò che i posti disponibili erano già scesi a 500;
    le espulsioni sono drasticamente diminuite di numero, come riporta il rapporto appena citato, il che appare una logica ed inevitabile conseguenza della chiusura dei centri a ciò adibiti e della attuale politica di incentivo all'immigrazione;
    della direttiva cosiddetta «rimpatri», l'articolo 2 ha costituito fonte normativa per legittimamente formulare il cosiddetto reato di clandestinità, mentre l'articolo 15, al comma 6, prevede il trattenimento fino a 18 mesi al fine di procedere all’ «allontanamento»;
    invece, in materia di protezione internazionale le direttive comunitarie attualmente di riferimento sono la direttiva 2013/33/UE cosiddetta «accoglienza», la direttiva 2013/32/UE cosiddetta «procedure», direttiva 2011/95/UE cosiddetta «qualifiche»; tuttavia, nonostante le nuove disposizioni in materia di accoglienza e procedure l'obiettivo di creare un sistema europeo comune di asilo (Ceas) è ormai palesemente fallito per le prassi e le legislazioni ancora molto differenziate tra i diversi Stati membri;
    proprio in virtù di tali obblighi di controllo dei confini e di una crescente legislazione comunitaria in materia è in vigore il cosiddetto regolamento «Dublino III» (riformulato nel 2013): nato come convenzione ma diventato regolamento, pone il principio del Paese di ingresso quale criterio per la gestione degli arrivi anche per «responsabilizzare» gli Stati membri e obbligarli al controllo dei confini nazionali facenti parte di quelli comunitari;
    tali direttive, in forza dei Trattati europei, pongono dei vincoli in materia, tuttavia, come da consolidata giurisprudenza, la regolamentazione dell'ingresso e del soggiorno degli stranieri nel territorio dello Stato è «collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali, ad esempio, la sicurezza e la sanità pubblica, l'ordine pubblico» (sentenze n. 148 del 2008, n. 206 del 2006 e n. 62 del 1994 della Corte costituzionale), cui lo Stato non può rinunciare nell'assicurare la pacifica convivenza sociale;
    mancando un'azione comune a livello comunitario, occorre, infatti, da parte dei Governi una rigorosa legislazione di contrasto all'immigrazione clandestina, una continua cooperazione internazionale con i Paesi di origine per la stipula o il rinnovo di accordi sia con riguardo alle operazioni di controllo dei confini, soprattutto di quelli costieri, sia per velocizzare e agevolare le operazioni di rimpatrio dei clandestini; anche in questo caso, sono i numeri a dimostrare la validità di tale sistema: ad esempio, dal maggio 2009, a seguito dell'accordo stipulato dal Ministro dell'interno pro tempore Maroni tra l'Italia e la Libia, prima della guerra, il flusso di sbarchi di immigrati era quasi cessato, passando da 39.000 persone nel 2008 a 450 nel 2009;
    sicuramente il regolamento «Dublino III» ha particolarmente penalizzato l'Italia, quale Paese di confine marittimo; tuttavia l'Italia è ancora più penalizzata, rispetto agli altri Stati nelle medesime condizioni geografiche, quali, ad esempio, Spagna o Grecia, dalle politiche dell'attuale e del precedente Governo in materia di immigrazione, in totale controtendenza rispetto a quelle degli altri Paesi europei: l'abrogazione del reato di immigrazione clandestina e la missione Mare Nostrum hanno costituito un incentivo per un flusso incontrollato di ingressi nel nostro Paese e per la tratta degli esseri umani;
    in particolare, il fallimento della missione «militare-umanitaria» denominata Mare Nostrum, autorizzata dal Governo italiano ad ottobre 2013, è attestato dai più di 130.000 arrivi attraverso il Mediterraneo solo dall'inizio del 2014, da 2.600 persone annegate o disperse e da un costo complessivo di 1,2 miliardi di euro in anno;
    per il momento di grave crisi economica che stanno attraversando i nostri cittadini è impossibile farsi carico degli ingenti costi diretti e conseguenti all'operazione Mare Nostrum, stante i numeri degli sbarchi, i continui arrivi e il numero di immigrati in attesa di salpare dalle coste libiche e africane (pare 800.000);
    secondo gli ultimi dati pubblicati sul sito del Ministero dell'interno in merito alle richieste di asilo, tra le principali nazionalità dei richiedenti asilo, sia per il 2013 che per il 2014, non compare né la Siria né l'Eritrea, mentre da agosto 2013 a settembre 2014 le variazioni percentuali più consistenti, ossia l'aumento delle richieste di asilo, sono state registrate da Bangladesh (+615 per cento), Senegal (+556 per cento), Gambia (+508 per cento), mentre la Siria ha avuto un calo delle domande del 17 per cento e l'Eritrea del 76 per cento; con riguardo agli esiti delle domande, a luglio 2014, su 4.135 domande esaminate a 376 è stato riconosciuto lo status di rifugiato;
    a fronte dell'emergenza del virus Ebola, ormai arrivato in Europa, e del grave problema costituito dal rischio di infiltrazioni terroristiche, confermato dal Ministro dell'interno e aggravato anche dalle continue dichiarazioni dell'Isis, mentre gli altri Stati europei stanno attuando misure di controllo sempre più stringenti sugli ingressi nel proprio territorio, l'Italia è in totale controtendenza, poiché addirittura va a prendere in acque territoriali di altri Stati chiunque tenti di raggiungere l'Europa via mare e non ha più alcun controllo sul proprio territorio per le continue fughe dai centri di accoglienza e le tendopoli abusive che stanno sorgendo in numerose città;
    la Marina militare e le forze dell'ordine dovrebbero essere impiegate per proteggere i confini italiani e garantire il necessario controllo del territorio, e i cittadini devono essere tutelati dai rischi sanitari a cui vengono oggi esposti;
    anche il Ministro della salute, Beatrice Lorenzin, a fronte dei dati riportati dall'Organizzazione mondiale della sanità (secondo cui «dal dicembre 2013, quando l'epidemia è iniziata alla data di ieri 8 ottobre, sono 8.011 casi probabili, confermati e sospetti, e 3.877 decessi, con un tasso di letalità del 46 per cento nei Paesi dell'africa occidentale») ha dichiarato che «sono necessari più controlli alle frontiere»,

impegna il Governo:

   nelle more o in assenza di un intervento strutturale e strategico, coordinato a livello dell'Unione europea o a livello internazionale, per far fronte a condizioni di pericolo per la sicurezza del territorio nazionale, dovute all'eccezionale pressione migratoria verso l'Italia, anche attraverso l'utilizzo della normativa d'urgenza, ad adottare qualsiasi provvedimento o iniziativa idonea a:
    a) cessare immediatamente l'operazione cosiddetta Mare Nostrum, garantire il pattugliamento e il controllo dei confini, in particolare marittimi, anche mediante il rifiuto a partecipare alla missione Triton o a qualsiasi operazione o missione se non aventi tali finalità di disincentivo e divieto all'ingresso illegale nel nostro Paese;
    b) farsi promotore nelle più opportune sedi comunitarie della revisione del regolamento «Dublino III», senza rinunciare al principio di responsabilità degli Stati in materia di controllo dei flussi di ingresso, e contestualmente ripristinare le politiche di controllo dei confini, anche marittimi, e di contrasto all'immigrazione clandestina adottati dal Ministro dell'interno pro tempore Maroni, nonché, con riguardo al reato di cui all'articolo 10-bis del decreto legislativo n. 286 del 1998, assicurare per quanto di competenza la piena applicazione;
    c) assicurare la piena e immediata operatività dei già esistenti 13 centri di identificazione ed espulsione, prevedendone, nel caso, uno in ogni regione, e l'effettivo allontanamento o rimpatrio dei clandestini dal territorio nazionale, utilizzando le risorse del fondo per i rimpatri solo ed esclusivamente per le finalità stabilite dalla legge;
    d) tutela della sicurezza e della salute dei cittadini, adottare qualsiasi altra iniziativa o promuovere l'adozione di norme speciali per contrastare la pressione migratoria verso il nostro Paese anche in deroga ai trattati comunitari, internazionali e ad ogni disposizione vigente;
    e) concordare strategie comuni con i Paesi dell'Unione europea che si affacciano nel Mediterraneo, impiegando gli stessi strumenti di disincentivo dei flussi migratori via mare;
    f) farsi promotore in tutte le sedi competenti di una strategia europea comune per il contrasto del fenomeno emergenziale degli sbarchi di immigrati sulle coste del Mediterraneo europeo e, altresì, per la gestione di emergenze dovute ad eventi bellici, in coordinamento con le organizzazioni internazionali al fine di predisporre gli interventi più idonei e tempestivi nelle aree confinanti alle zone colpite dai conflitti armati.
(1-00618)
«Matteo Bragantini, Molteni, Invernizzi, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Busin, Caon, Caparini, Fedriga, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Marcolin, Gianluca Pini, Prataviera, Rondini, Simonetti».
(13 ottobre 2014)

   La Camera,
   premesso che:
    secondo i dati Eurostat, 108.300 persone hanno chiesto asilo nei 28 Paesi dell'Unione europea nel primo trimestre del 2014, 24.320 in più rispetto allo stesso periodo del 2013 (+29 per cento). Nei primi 3 mesi del 2014, l'Italia ha avuto 10.700 richieste d'asilo, un dato molto superiore (+129 per cento) alle richieste registrate nel primo semestre del 2013;
    in particolare, secondo gli ultimi dati elaborati dall'Ufficio europeo di sostegno all'asilo (Easo, ottobre 2014), riguardanti i richiedenti asilo nel territorio dell’«UE+», cioè nei 28 Paesi dell'Unione europea più Svizzera e Norvegia, si conterebbero circa 50 mila richieste di asilo a giugno 2014, 60 mila a luglio 2014 e 58.500 ad agosto 2014, essendo Germania, Svezia, Italia e Francia, i Paesi che registrano il maggior numero di richiedenti (tali Paesi totalizzando insieme, ad agosto, il 62 per cento delle domande di protezione, praticamente due sue tre);
    solo ad agosto 2014, i richiedenti asilo siriani (circa 12.800) sono aumentati del 6 per cento rispetto a luglio 2014, quelli eritrei (6.350) del 21 per cento, mentre quelli ucraini (1.700 persone) del 32 per cento, con l'aumento percentualmente più elevato, i richiedenti fuggiti da questo Paese in Polonia, avendo per la prima volta dall'inizio della crisi in Ucraina superato quelli in Italia;
    secondo il rapporto annuale Global trends pubblicato dall'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), si assiste per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale ad un enorme aumento di rifugiati, richiedenti asilo e sfollati interni, che in tutto il mondo sono circa 51 milioni di persone. E solo nel 2013 sono aumentati di sei milioni, passando dai 45,2 milioni del 2012 ai 51,2 milioni del 2013; sempre secondo lo stesso Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, questo rapido e significativo aumento è stato causato in larga misura dalla guerra civile in Siria, un disastro umanitario che da solo ha prodotto 6,5 milioni di sfollati interni e 2,5 milioni di rifugiati all'estero, e in secondo luogo dagli esodi forzati avvenuti nella Repubblica Centrafricana e in Sud Sudan;
    del totale di 51,2 milioni di persone sradicate a forza a livello globale, ci sono circa 33,3 milioni di sfollati interni, 16,7 milioni di rifugiati (i principali Paesi che li hanno accolti e se ne fanno carico come possono sono il Pakistan, 1,6 milioni, l'Iran, 857.000, e il Libano, 856.000) e infine 1,2 milioni di richiedenti asilo (il Paese che ha ricevuto il maggior numero di nuove domande d'asilo è la Germania);
    secondo stime dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, nel mondo sono circa un milione i rifugiati che avrebbero bisogno di reinsediamento, perché nei Paesi ospitanti, in genere confinanti con quelli d'origine, non trovano condizioni che rispettino il loro diritto a ricostruirsi una vita accettabile, o sono sopravvissuti a torture e violenze;
    l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, pur non costituendo obbligo internazionale, incoraggia fortemente i Paesi ricchi e le democrazie occidentali a farsi carico stabilmente di queste situazioni con quote annuali di reinsediati, ad oggi, su scala globale, trovando posto in questi programmi di accoglienza solo un decimo dei rifugiati che ne avrebbero diritto;
    attualmente l'Europa non riveste un ruolo significativo tra i Paesi attivi nei programmi di reinsediamento dei rifugiati. In particolare, l'Unione europea, per parte sua, offre appena cinquemila posti l'anno, l'8 per cento del totale mondiale; gli sforzi maggiori in questo campo sono compiuti da parte di Paesi, come Stati Uniti, Canada e Australia, che reinsediano annualmente nel proprio territorio circa 60 mila rifugiati, a fronte di un numero di soggetti in Europa che sfiora a malapena le cinquemila unità;
    il regolamento «Dublino III» – che sostituisce il cosiddetto regolamento «Dublino II» (regolamento n. 343 del 2003), che a sua volta innovava la Convenzione di Dublino del 1990 – contiene i criteri e i meccanismi per individuare lo Stato membro che è competente per l'esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un Paese terzo o apolide;
    all'interno del sistema europeo comune di asilo, il regolamento «Dublino III» è stato ampiamente discusso e criticato, non solo dal punto di vista delle conseguenze negative sulla vita dei richiedenti asilo, ma anche per la scarsa efficienza del sistema (COM 2008/820, 3 dicembre 2008); sono state evidenziate una serie di carenze per lo più connesse con il livello di protezione garantito ai richiedenti protezione internazionale soggetti alla «procedura Dublino», e con l'efficienza del sistema istituito dall'attuale quadro normativo, dal momento che appena il 25 per cento circa delle richieste di trasferimento in un altro Stato è stato poi seguito da un trasferimento effettivo;
    il principio generale alla base del regolamento «Dublino III» è lo stesso della vecchia Convenzione di Dublino del 1990 e di «Dublino II»: ogni domanda di asilo deve essere esaminata da un solo Stato membro e la competenza per l'esame di una domanda di protezione internazionale ricade in primis sullo Stato che ha svolto il maggior ruolo in relazione all'ingresso e al soggiorno del richiedente nel territorio degli Stati membri, salvo eccezioni (COM 2008/820, 3 dicembre 2008); la competenza è individuata attraverso i criteri «obiettivi» del regolamento, che lasciano uno spazio ridottissimo alle preferenze dei singoli e, quindi, molti dubbi in merito alla tutela dei diritti umani dei richiedenti asilo, laddove l'esercizio di un loro diritto fondamentale – quello a fare domanda di protezione internazionale – è subordinato ad un regolamento, che, in questo caso, non terrebbe pienamente conto di un principio generale universalmente garantito e sovraordinato nella gerarchia delle fonti del diritto, quale quello del rispetto dei diritti umani;
    pur non intaccando tale principio, «Dublino III» apporta comunque una serie di novità importanti e certamente apprezzabili (molte derivanti in realtà dalla giurisprudenza), in quanto in grado di attenuare parzialmente gli effetti negativi del sistema; è necessario, però, porre rimedio ai problemi alla base del «sistema Dublino», il cui impianto si regge su un presupposto non corrispondente al vero, ovvero che gli Stati membri costituiscano un'area con un livello di protezione omogeneo; le condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo e i tassi di accoglimento di domande di protezione cambiano drammaticamente da un Paese all'altro;
    chi ottiene la protezione internazionale non ha poi la possibilità di lavorare regolarmente in un altro Stato dell'Unione europea; ciò significa che, salvo eccezioni, lo Stato che viene individuato dal «sistema Dublino» come competente ad esaminare la domanda, sarà poi anche lo Stato in cui l'interessato dovrà rimanere una volta ottenuta la protezione, non tenendo conto né delle aspirazioni dei singoli, né delle concrete prospettive di trovare un'occupazione nei diversi Paesi europei;
    il Governo italiano, per fronteggiare l'eccezionale afflusso di migranti, ha avviato nel 2013 l'operazione Mare Nostrum per il controllo e il pattugliamento del Canale di Sicilia;
    negli ultimi tempi si è verificata una consistente ripresa degli sbarchi di cittadini stranieri nelle coste italiane, nonché diversi incidenti culminati in tragici naufragi con centinaia di vittime tra i migranti;
    l'attuazione di Mare Nostrum comporta una spesa di oltre 9 milioni di euro al mese, con l'evidente necessità di un interessamento dell'Unione europea, per farsi carico in maniera più decisa della questione migratoria, sia ampliando e rafforzando il ruolo di Frontex, sia intervenendo affinché si assuma un impegno più diretto nelle operazioni volte al controllo della frontiera marittima;
    il 16 aprile 2014 il Ministro dell'interno ha svolto un'informativa urgente sull'ingente incremento del flusso di migranti e sulle misure da adottare per farvi fronte, evidenziando che l'azione di Frontex, l'agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne, costituirà un tema centrale nel semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell'Unione europea (luglio-dicembre 2014);
    l'intenzione è quella di fare in modo che l'agenzia Frontex assuma la regia ed il coordinamento non solo delle attività di pattugliamento del Mediterraneo, ma anche delle attività di cooperazione operativa con i Paesi di origine e di transito dei flussi;
    è evidente la necessità di rendere più efficace il sistema di accoglienza, che ha comportato l'incremento da dieci a venti del numero delle commissioni territoriali destinate alla funzione di velocizzazione dell'esame della decisione delle istanze di protezione internazionale;
    è stato di recente annunciato l'avvio dell'operazione Triton, che avrà inizio a novembre 2014 e che avrà un budget iniziale di 2,9 milioni di euro al mese (a fronte dei 9 milioni mensili spesi per Mare Nostrum);
    la Commissaria per gli affari interni Cecilia Malmström ha lanciato l'appello affinché gli altri Stati membri ascoltino la richiesta di Frontex per avere più attrezzature e ufficiali stranieri, dal momento che l'operazione Triton si estenderà 30 miglia oltre le acque territoriali, coprendo 18 miglia di acque internazionali, con l'obiettivo di unire le due operazioni di Frontex (l'agenzia dell'Unione europea per il controllo delle frontiere con sede a Varsavia) nel Mediterraneo, denominate Hermes (area di intervento: il Canale di Sicilia) e Aeneas (che interviene sul Mar Jonio davanti alle coste di Calabria e Puglia);
    il decreto-legge n. 119 del 2014, da ultimo approvato dalla Camera dei deputati e ora all'esame del Senato della Repubblica, sembra, tuttavia, seguire l'ottica di una prosecuzione dell'operazione italiana, dal momento che dispone nuovi finanziamenti per fronteggiare l’«eccezionale afflusso di stranieri sul territorio nazionale»;
    il decreto-legge n. 119 del 2014 provvede ad incrementare il fondo per i richiedenti asilo di 51 milioni di euro, mentre 9 milioni vengono destinati alle commissioni che devono vigilare sulle richieste d'asilo. Viene, inoltre, istituito ex novo un fondo di 62 milioni di euro per «fronteggiare la nuova emergenza», cioè, si suppone, rifinanziare Mare Nostrum o Frontex. I soldi vengono prelevati dal fondo per i rimpatri, ovvero quel capitolo di spesa creato per rimpatriare gli stranieri giunti illegalmente nel nostro territorio, rendendo, quindi, ancora più difficile espellere dal nostro Paese i clandestini;
    non è credibile la sostituzione di Mare Nostrum da parte di Triton, ma è evidente che questa svolgerà piuttosto un intervento di supporto all'operazione italiana, in quanto dispone di un numero più esiguo di mezzi navali rispetto alla Marina militare italiana e la sua «autonomia» si ferma a 30 miglia dalle coste italiane; non potranno, quindi, essere garantite le operazioni di salvataggio come fino ad ora gestite da Mare Nostrum, considerando, inoltre, che il personale della Marina militare italiana opera anche screening sanitari a bordo, che rappresentano un valido deterrente contro la diffusione delle epidemie (ebola e tubercolosi);
    il 23 ottobre 2013 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione sui flussi migratori diretta a realizzare un approccio coordinato basato sulla solidarietà e sulla responsabilità e sostenuto da strumenti comuni a livello di Unione europea, anche al fine di evitare il ripetersi dei tragici eventi di Lampedusa;
    in vista del prossimo Consiglio europeo del 23 e 24 ottobre 2014, è opportuno che il nostro Paese metta in evidenza l'urgenza di definire una politica condivisa in materia di immigrazione e diritto d'asilo;
    l'individuazione di misure auspicabili volte a migliorare il sistema dell'accoglienza e di gestione dei richiedenti asilo in arrivo non può essere disgiunta dall'obiettivo ultimo di garantire agli stessi condizioni di vita dignitose, nell'auspicio che essi possano costruire in Europa un futuro alternativo in tutta sicurezza rispetto alle realtà da cui fuggono;
    in tal senso, vi è la ferma convinzione che si debba separare il problema dell'asilo da quello dell'immigrazione economica, per evitare che il sistema costruito dagli Stati membri per proteggere chi chiede asilo crolli sotto la pressione, comprensibile, di persone in cerca di accettabili livelli di benessere, ma non bisognose, in senso stretto, di protezione;
    alla luce del «sistema Dublino», per il quale, come già ricordato, risulta competente lo Stato membro attraverso il quale il richiedente ha fatto ingresso nel territorio dell'Unione europea, si pone con forza l'esigenza di equilibrare gli sforzi da parte di tutti i Paesi membri proprio nell'accoglienza dei profughi, cioè di coloro che fuggono da situazioni di violenza, auspicando, in tal senso, una revisione dei criteri per la determinazione dello Stato competente per l'esame della domanda di asilo, che non necessariamente coincide con quello nel cui territorio la domanda è stata presentata;
    alla prova dei fatti, tale sistema presenta almeno due innegabili difetti, rischiando, da un lato, di sovraccaricare gli Stati membri geograficamente più esposti al flusso di profughi (al momento, gli Stati meridionali dell'Unione europea), dall'altro, di ostacolare un'allocazione efficiente dei profughi, quale quella che invece si otterrebbe selezionando lo Stato membro competente in base alla ricettività del suo mercato del lavoro o delle reti di sostegno (parenti, amici) di cui un dato profugo potrebbe soggettivamente godere, nonché dell'effettiva volontà di integrarsi del rifugiato in un Paese che sia stato da lui/lei scelto e non imposto;
    ogni tentativo di riforma che intendesse correggere questi difetti dovrebbe essere accompagnato da una periodica determinazione della percentuale di profughi che ciascuno Stato membro sarebbe tenuto ad accogliere in base alla propria situazione economica e da meccanismi di compensazione (burden sharing) per quegli Stati membri che si trovino ad accogliere una percentuale di profughi superiore a quella loro spettante;
    secondo l'esperienza che in primis l'Italia continua a vivere, appare non più procrastinabile da parte dell'Unione europea la necessità di un cambio di strategia nel rispondere ai fenomeni in atto, caratterizzati da afflussi contingenti di profughi di intensità straordinaria, che seppure generalmente associati a situazioni di guerra o violenza generalizzata, chiamano in causa la capacità di intervento e di mobilitare risorse da parte di tutta l'Unione europea, non solo dei territori più esposti come Lampedusa o Malta;
    rispetto a questo obiettivo, la normativa europea già prevede, con la direttiva 2001/55/CE, che il Consiglio dell'Unione europea possa concedere protezione temporanea a determinati gruppi di persone, con distribuzione dei profughi tra i vari Stati membri in base alla disponibilità accordata da ciascuno Stato;
    l'istituzione di un regime di questo tipo potrebbe essere accompagnata (anche in base alle disposizioni della direttiva stessa) dalla creazione di corridoi umanitari, ossia da misure di evacuazione dei destinatari della protezione, senza che essi debbano affidarsi a trafficanti e scafisti per raggiungere il territorio dell'Unione europea;
    l'istituzione del regime di protezione temporanea non si pone affatto come una modalità emergenziale per il riconoscimento del diritto alla protezione, che resta invece regolato dalle norme a regime, essendo piuttosto da considerarsi come una misura complementare a quanto già previsto in relazione al riconoscimento del diritto a ottenere protezione quando si fugge da un conflitto o da una situazione di violenza generalizzata, un elemento fondamentale della normativa dell'Unione europea, la quale riconosce tale diritto come soggettivamente esigibile (senza che, quindi, gli Stati membri possano opporre alle corrispondenti richieste dinieghi fondati su considerazioni di sostenibilità economica), prevedendo che la richiesta di protezione possa essere presentata solo sul territorio di uno Stato membro;
    drammatiche notizie giungono dal continente africano riguardo all'espandersi del virus ebola, in considerazione del flusso continuo di decine di profughi i quali, raccolti in mare in condizioni disperate mediante operazioni di salvataggio, vengono, quindi, accolti sul territorio senza che i tempi e i mezzi a disposizione permettano uno screening efficace per accertare la presenza o meno del virus;
    la tutela della salute verso i nostri concittadini è da porre su un piano che non può essere considerato di livello inferiore rispetto a quello teso a garantire la tutela e l'accoglienza dei soggetti migranti in arrivo, e quindi debbono espletarsi tutte le procedure, gli sforzi e le iniziative necessarie a garantire che il territorio nazionale possa essere protetto dal rischio di un'epidemia del virus per via dell'accoglienza prestata ai migranti accolti, che attualmente risulta priva di garanzie in tal senso,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative a livello europeo per una rapida revisione del regolamento «Dublino III» affinché si preveda la compartecipazione di tutti gli Stati membri nelle attività di accoglienza e di identificazione dei migranti, superando l'attuale principio del «Paese di primo arrivo», anche al fine di garantire il diritto fondamentale dei richiedenti asilo di presentare domanda di protezione alle autorità del loro Paese di elezione;
   ad adoperarsi affinché il Consiglio europeo del 24 e 25 ottobre 2014 preveda l'applicazione di quanto previsto in caso di «afflusso massiccio di sfollati nell'Unione europea», con le modalità di concessione della protezione temporanea, secondo quanto previsto dalla direttiva 2001/55/CE, definendo quote di accoglienza per ciascuno Stato membro, anche al fine di garantire ai richiedenti asilo e protezione internazionale il diritto costituzionalmente garantito della libertà di circolazione;
   ad assumere iniziative per individuare modalità di identificazione dei beneficiari della protezione temporanea da parte dell'Unione europea anche con il concorso diretto dei Paesi di transito, per esempio, attraverso le delegazioni diplomatiche del servizio europeo per l'azione esterna e/o la rete diplomatico-consolare degli Stati membri, con il coinvolgimento delle organizzazioni internazionali e delle associazioni umanitarie;
   ad assumere iniziative per prevedere la possibilità di introdurre clausole politiche più flessibili per quel che attiene all'identificazione dello Stato membro competente per una domanda di asilo, permettendo anche ad altri Paesi membri, privi di tale competenza, di decidere di assumere comunque titolarità in tal senso, in presenza di condizioni specifiche (una clausola che è costantemente applicata dall'Italia per i minori non accompagnati richiedenti asilo provenienti da altri Paesi);
   a favorire uno sforzo europeo coordinato a beneficio di un maggior utilizzo delle politiche di reinsediamento (resettlement), nonché la promozione di strumenti volti ad assicurare meccanismi di maggiore solidarietà tra gli Stati e di migliore condivisione delle responsabilità fra tutti i Paesi membri, stante il contributo che un più diffuso utilizzo del resettlement potrebbe offrire in termini di soluzione durevole alle problematiche incontrate dai rifugiati (sia quelli presenti sul territorio dell'Unione europea, sia quelli posti al di fuori dei confini europei), garantendo loro piena libertà di circolazione e accesso a tutta l'Europa;
   ad assumere iniziative per individuare chiare modalità e costi dei trasferimenti, prevedendo l'obbligo, prima di un trasferimento, di scambiarsi dati (soprattutto sanitari) necessari a garantire assistenza adeguata, continuità della protezione e soddisfazione di esigenze specifiche, in particolare mediche;
   a promuovere un sistema che regoli la concessione del diritto di asilo secondo standard e procedure comuni in tutti i Paesi e il coordinamento nella raccolta delle domande dei richiedenti, per permettere agli aventi diritto di raggiungere i Paesi di accoglienza in modo sicuro, prevenendo ogni abuso del sistema con la presentazione di domande di asilo multiple da parte di una sola persona;
   ad assumere iniziative volte ad assicurare un sistema di mutuo riconoscimento tra gli Stati membri della concessione del diritto di asilo, tale da garantire la libertà di stabilimento del beneficiario in ogni Stato membro, prodromico all'istituzione del sistema europeo di accoglienza;
   a prevedere, al fine di garantire il diritto costituzionale alla salute dei cittadini, che non può essere certamente considerato inferiore al diritto di libertà di circolazione dei migranti, misure di controllo sanitario più stringenti nei confronti dei migranti e dei richiedenti asilo provenienti dai Paesi attualmente focolaio del virus ebola, quali Liberia, Sierra Leone e Nuova Guinea.
(1-00619)
«Brunetta, Ravetto, Bergamini, Centemero».
(13 ottobre 2014)