TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 148 di Giovedì 9 gennaio 2014

 
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MOZIONI SULL'ETICHETTATURA DEI PRODOTTI AGROALIMENTARI

   La Camera,
   premesso che:
    in un momento di grave crisi in cui il nostro Paese è alla ricerca di azioni e risorse per il rilancio dell'economia e della crescita occupazionale, il made in Italy e, in particolare, quello agroalimentare, è universalmente riconosciuto come straordinaria leva competitiva «ad alto valore aggiunto» per lo sviluppo del Paese;
    l'etichettatura dei prodotti alimentari è un procedimento per cui i produttori dei cibi confezionati sono tenuti a riportare, integralmente, tutti gli ingredienti presenti nei loro preparati alimentari;
    la normativa sull'etichettatura dei prodotti alimentari nasce nel 1978 con la direttiva 79/112/CEE, recepita in Italia mediante il decreto legislativo n. 109 del 1992;
    la legislazione in materia, naturalmente, si è aggiornata nel corso del tempo, in particolare con il decreto legislativo n. 181 del 2003, che recepiva una norma europea che aveva, come obiettivo, quello dell'armonizzazione delle normative a livello europeo;
    la legge 3 febbraio 2011, n. 4, reca disposizioni in materia di etichettatura e di qualità dei prodotti alimentari e offre l'opportunità di anticipare l'applicazione della normativa comunitaria, introducendo l'obbligo di indicare l'esatta provenienza dell'origine degli alimenti nei settori delle carni suine, del latte e di tutti i prodotti trasformati a garanzia del corretto funzionamento del mercato e dell'adozione di scelte informate da parte dei consumatori;
    alla luce delle citate disposizioni, le finalità dell'etichettatura in sintesi sono quelle di non indurre in errore l'acquirente sulle caratteristiche del prodotto alimentare e precisamente sulla natura, sulla identità, sulla qualità, sulla composizione, sulla quantità, sulla conservazione, sull'origine o sulla provenienza, sul modo di fabbricazione o di ottenimento del prodotto stesso ovvero non attribuire al prodotto alimentare effetti o proprietà che non possiede;
    il 22 novembre 2011 è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale dell'Unione europea il regolamento (UE) n. 1169/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, che introduce alcuni cambiamenti in merito alla fornitura di informazioni sugli alimenti;
    scopo del regolamento è garantire un elevato livello di protezione dei consumatori in materia di informazioni sugli alimenti;
    tra le principali novità previste dalla nuova normativa comunitaria, si può ricordare, tra le tante, che diventa obbligatorio indicare alcune informazioni nutrizionali fondamentali e di impatto sulla salute, quali: il valore energetico e la quantità di grassi, acidi grassi saturi, carboidrati, zuccheri, proteine e sale. Tali indicazioni dovranno essere indicate sull'imballaggio in una tabella comprensibile, insieme e nel medesimo campo visivo;
    relativamente all'entrata in vigore, i soggetti preposti all'etichettatura dei prodotti alimentari possono usufruire di un periodo transitorio di tre anni per adeguarsi, con eccezione della novità riguardante l'indicazione dell'obbligatorietà della dichiarazione nutrizionale, la cui cogenza è prevista entro un periodo di cinque anni dall'entrata in vigore del regolamento;
    raccogliendo le sollecitazioni che hanno condotto all'approvazione del citato regolamento comunitario è stato da poco adottato nel Regno Unito un tipo di etichettatura per alimenti da supermercato che utilizza i colori del semaforo – verde, giallo e rosso – in una scala in cui il primo colore racconta che il prodotto contiene un ingrediente «sano» e l'ultimo un componente «pericoloso»;
    il sistema, che ora dovrà essere utilizzato ufficialmente da tutte le industrie e non solo in maniera discrezionale dai dettaglianti, è definito «ibrido» perché prevede un'informazione mista, composta da due parti: una tabella con le assunzioni di riferimento (ovvero in quale percentuale cento grammi di prodotto contribuiscono al raggiungimento del fabbisogno giornaliero raccomandato – meglio noto con la sigla gda, guideline daily amounts) e un'indicazione visiva «ad alto impatto» che si serve dei colori del semaforo per segnalare la presenza adeguata (verde) o in eccesso (rossa) di nutrienti critici per la salute, quali grassi, grassi saturi, sale/iodio e zuccheri;
    il colore associato viene scelto in base ai valori di riferimento indicati dalla sintetica tabella guida fornita nel 2007 dalla Food standard agency, l'agenzia responsabile della salubrità del cibo nel Regno Unito;
    il sistema britannico ha suscitato notevoli perplessità che si fondano sul fatto che non ci sono alimenti buoni o cattivi in assoluto, perché molto dipende dalle quantità e dalle combinazioni: in sintesi è il pasto nel suo complesso che classifica una dieta come equilibrata o squilibrata;
    i colori del semaforo prescindono dalle quantità delle porzioni, per cui una persona può paradossalmente consumare una quantità elevata di alimenti «verdi», assumendo calorie e nutrienti in quantità maggiore rispetto a porzioni più contenute di alimenti «gialli» o «rossi». Il sistema potrebbe risultare diseducativo rispetto all'attenzione verso una dieta equilibrata, dove è buona regola fare un bilancio tra energie assunte e consumate;
    il livello di informazione e consapevolezza del consumatore europeo ed italiano, in particolare, consentirà, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, di accogliere questa novità non come un pericolo ma come un'opportunità per il sistema agricolo ed agroalimentare italiano e lombardo, purché, considerato che l'obbligatorietà di questa procedura creerebbe un'eccessiva rigidità del sistema imponendo alle imprese ulteriori adempimenti, il sistema «semaforo» rimanga volontario e facoltativo;
    indubbiamente è importante che il consumatore sia informato del contenuto nutrizionale dei prodotti in vendita, ma questa informazione dovrà essere completata da quella sull'origine dei prodotti;
    il made in Italy agroalimentare si caratterizza per le sue eccellenze in termini di maggior valore aggiunto per ettaro in Europa, livello di sicurezza e sistema dei controlli alimentari, prodotti a denominazione e produzioni biologiche;
    la crescita costante dell’export testimonia l'indiscutibile ruolo dell'agroalimentare del nostro Paese e del valore attribuito al marchio made in Italy;
    l'agroalimentare made in Italy registra un fatturato nazionale superiore ai 266 miliardi di euro e rappresenta oltre il 17 per cento del prodotto interno lordo;
    invece che alla valorizzazione ed alla promozione del vero made in Italy, si assiste ad una vera e propria svendita dell'economia e dei territori italiani, che rischia di danneggiare irrimediabilmente il vero grande patrimonio del Paese;
    occorre prevenire e contrastare l'usurpazione del made in Italy, assicurando la qualità, la salubrità, le caratteristiche e l'origine dei prodotti alimentari, in quanto elementi funzionali a garantire la salute ed il benessere dei consumatori ed il diritto ad un'alimentazione sana, corretta e fondata su scelte di acquisto e di consumo consapevoli;
    le produzioni italiane caratterizzate dall'alta qualità costituiscono da sempre l'eccellenza del mercato agroalimentare e sono unanimemente inserite nei regimi alimentari corretti (dieta mediterranea);
    solo la tutela rigida dell'autenticità dell'indicazione di provenienza potrà consentire una scelta consapevole relativamente alle componenti di un regime alimentare equilibrato;
    pertanto, è fondamentale che il consumatore sia informato al fine di poter compiere scelte alimentari mirate e consapevoli che garantiscano uno stile di vita sano. Questa informazione dovrà essere completa: non solo il contenuto dei vari alimenti in termini di contenuto, ma anche la provenienza di questi alimenti;
    è sempre opportuno tener presente come la garanzia della provenienza dei vari prodotti tuteli la salute dei consumatori quanto, se non più, della consapevolezza sulla composizione degli stessi alimenti: è inutile conoscere il contenuto in grassi di un alimento se lo stesso è adulterato o sofisticato oppure se ne sono state falsificate le origini o le modalità di produzione;
    la commercializzazione di prodotti di imitazione, ovvero che evocano una origine ed una fattura italiana, ma senza possederne le caratteristiche, provocano un danno all'immagine del Paese, come espressione dell'identità culturale dei territori, con grave nocumento alle imprese a causa della concorrenza sleale derivante dalla sottrazione di spazi di mercato e dall'inganno a danno dei consumatori;
    molti controlli operati, soprattutto nel settore delle carni suine, hanno già evidenziato la violazione della disciplina in materia di presentazione e pubblicità dei prodotti alimentari e condotte poste in essere in maniera ingannevole, fraudolenta e scorretta, allo specifico scopo di far intendere al consumatore che i prodotti acquistati sono di origine e di tradizione italiana;
    l'articolo 26, comma 2, lettera b), del regolamento (UE) n. 1169/2011, oltre che inserire come obbligatoria l'indicazione di alcune informazioni nutrizionali fondamentali, impone come obbligatoria l'indicazione del Paese di origine o del luogo di provenienza per una serie di prodotti, tra cui le carni di animali della specie suina, fresche, refrigerate o congelate, rinviando l'applicazione della norma a successivi atti di esecuzione da adottare entro il 13 dicembre 2013;
    l'articolo 62 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, nel disciplinare le relazioni commerciali in materia di cessione di prodotti agricoli ed agroalimentari, vieta condotte commerciali sleali al fine di impedire che un contraente con maggiore forza commerciale possa abusarne, imponendo condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose per la controparte più debole;
    in Italia, la produzione di carni suine è stimata in 1.299.000 tonnellate l'anno e sono oltre 26.200 gli allevamenti di suini ampiamente diffusi su tutto il territorio nazionale;
    in Italia, rispetto a 73,5 milioni di cosce suine consumate, 57,3 milioni sono di importazione, 24,5 milioni sono di produzione nazionale e 8,3 milioni vengono avviate all'esportazione;
    i dati relativi alle importazioni di cosce fresche riportano percentuali altissime riferite alla provenienza di prodotti da alcuni Stati dell'Unione europea;
    sulla base di dati elaborati dall'Associazione nazionale allevatori di suini (Anas) risulta che l'Italia, nel 2012, ha importato, solo dalla Germania, il 52 per cento di suini vivi e carni suine, per un totale di 535.309 tonnellate;
    da articoli apparsi sulla stampa europea è emerso che l'efficienza dell'industria della carne suina in Germania è basata su prodotti a basso costo, operai sottopagati, falde acquifere inquinate e tecniche di allevamento non sostenibili, con gravi ripercussioni sulla salute dei consumatori legate all'eccessivo impiego di antibiotici,

impegna il Governo:

   a promuovere tutte le iniziative più opportune al fine di prevenire le pratiche fraudolente o ingannevoli ai danni del made in Italy o, comunque, ogni altro tipo di operazione o attività commerciale in grado di indurre in errore i consumatori e, ancora, ad assicurare la più ampia trasparenza delle informazioni relative ai prodotti alimentari ed ai relativi processi produttivi e l'effettiva rintracciabilità degli alimenti;
   ad intervenire nelle sedi opportune affinché il tipo di etichettatura per alimenti da supermercato che utilizza i colori del semaforo utilizzato nel Regno Unito trovi diffusione solo come opzione volontaria e facoltativa e venga necessariamente abbinato agli strumenti per la tutela dell'origine degli alimenti, con particolare riferimento alla tutela del made in Italy;
   a chiedere, in sede europea, il rispetto del termine del 13 dicembre 2013, imposto dal regolamento (UE) n. 1169/2011, per l'attuazione dell'obbligo di indicazione del Paese d'origine o del luogo di provenienza, con particolare riferimento alle carne suine;
   ad emanare, nelle more dell'approvazione a livello comunitario dei suddetti provvedimenti di esecuzione, i decreti attuativi della legge n. 4 del 2011 per introdurre l'obbligo di etichettatura, in particolare delle carni suine, avviando, altresì, opportune campagne di informazione per gli organi di controllo e per i consumatori sulle normative in materia di etichettatura dei prodotti alimentari e di indicazioni di origine;
   a rendere noti e pubblici i riferimenti delle società eventualmente coinvolte in pratiche commerciali ingannevoli, fraudolente o scorrette finalizzate ad immettere sui mercati finti prodotti made in Italy ed i dati dei traffici illeciti accertati;
   a dare attuazione, con specifico riferimento al commercio delle carni suine, all'articolo 62 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n.27, al fine di contrastare pratiche commerciali sleali poste in essere, ai danni degli allevatori, in contrasto con il principio della buona fede e della correttezza;
   ad adottare, anche per le carni suine, un sistema analogo a quello previsto dall'articolo 10 della legge 14 gennaio 2013, n. 9, che reca norme sulla qualità e sulla trasparenza della filiera degli oli di oliva vergini, al fine di rendere accessibili a tutti gli organi di controllo ed alle amministrazioni interessate le informazioni ed i dati sulle importazioni e sui relativi controlli, concernenti l'origine di tutti i prodotti alimentari, nonché ad assicurare l'accesso ai relativi documenti da parte dei consumatori, anche attraverso la creazione di collegamenti a sistemi informativi ed a banche dati elettroniche gestiti da altre autorità pubbliche.
(1-00227)
(Nuova formulazione) «Rondini, Giancarlo Giorgetti, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Buonanno, Busin, Caon, Caparini, Fedriga, Grimoldi, Guidesi, Cristian Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera».
(30 ottobre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    il sistema agroalimentare italiano è un'eccellenza riconosciuta a livello mondiale e la tutela dei prodotti agroalimentari è condizione indispensabile non solo alla difesa delle nostre produzioni, ma anche alla conservazione e promozione delle identità dei territori e delle sapienti tecniche di produzione strettamente legate alle aree geografiche di provenienza;
    il contrasto alla contraffazione è uno degli elementi essenziali della strategia di difesa delle produzioni tipiche e passa necessariamente attraverso l'informazione ai consumatori, posto che l'agropirateria è uno degli aspetti maggiormente lesivi della competitività internazionale dei prodotti italiani di qualità e che circa tre prodotti su quattro sono venduti come made in Italy, pur essendo ottenuti da materia prima straniera;
    l'uso ingannevole di nomi, denominazioni, immagini e loghi, allo scopo di falsificare l'identità merceologica degli alimenti, è ormai un'emergenza in continuo aumento unitamente al dilagare di pratiche commerciali sleali nella presentazione degli alimenti, in particolare per quanto concerne la reale origine geografica degli ingredienti utilizzati;
    al fine di contenere tale fenomeno, assume un'importanza vitale la questione dell'etichettatura d'origine dei prodotti alimentari. L'indicazione in etichetta del luogo di origine o di provenienza delle materie prime utilizzate e dell'eventuale impiego di ingredienti in cui vi sia presenza di organismi geneticamente modificati è, infatti, l'unica informazione che garantisca sicurezza e trasparenza ai consumatori;
    la legge 3 febbraio 2011, n. 4, disponendo l'obbligo di riportare in etichetta l'indicazione del luogo di origine o di provenienza dei prodotti alimentari commercializzati, trasformati, parzialmente trasformati o non trasformati e prevedendo adeguate sanzioni in caso di violazione degli obblighi prescritti, è un riferimento normativo essenziale a limitare e contrastare i fenomeni di contraffazione e pirateria commerciale, ancorché la sua effettiva applicazione risulti al momento sospesa in attesa della emanazione dei decreti ministeriali di attuazione;
    sarebbe, inoltre, opportuno che i suddetti decreti disponessero, per talune tipologie di prodotti, modalità di inserimento volontario in etichetta di specifici sistemi di sicurezza realizzati mediante elementi di identificazione elettronica e telematica;
    particolarmente allarmante è, inoltre, il fenomeno della contraffazione on line, posto che la rete offre anonimato, costi bassi e possibilità di una veloce e facile scomparsa dal mercato; dati aggiornati evidenziano che il commercio on line nel settore alimentare risulta quello in maggior crescita, tanto che si stima, per il 2013, un balzo del 18 per cento;
    tale situazione genera ancor più preoccupazione alla luce delle nuove iniziative che potrebbero essere intraprese a breve dalla società americana Icann, ovvero l'autorità che genera il rilascio dei suffissi internet, che ha attivato le procedure per assegnare, dietro pagamento, a soggetti privati, indipendentemente se siano, ad esempio, viticoltori o utilizzatori riconosciuti delle denominazioni, domini di primo livello generico, tra i quali: «wine» e «vin», oltre a «food» e «organic»;
    i titolari dei suddetti domini potrebbero, infatti, attraverso l'abbinamento a domini di secondo livello, registrare indirizzi come «baroloclassico.wine» o anche «prosciuttodiparma.food» e sovrapporli agli indirizzi dei prodotti originali, generando totale confusione nelle piattaforme di commercio elettronico, con danni incalcolabili per il sistema di qualità agroalimentare italiano;
    è indispensabile assicurare che l'assegnazione di nomi generici, accordati in via esclusiva a privati e senza particolari garanzie, quali domini di primo livello, sia improntata al rispetto delle norme dell'Organizzazione mondiale del commercio, posto che il loro utilizzo, peraltro esclusivo, ha implicazioni commerciali, di relazioni tra Paesi e di immagine, con effetti devastanti in ambito commerciale internazionale e in grado di attivare infiniti e costosi contenziosi;
    il 19 giugno 2013 il Dipartimento della salute britannico ha annunciato l'introduzione di un nuovo sistema volontario di etichettatura nutrizionale basato sulla colorazione «semaforica» del packaging dei prodotti alimentari sulla base del contenuto di sale, zucchero, grassi e grassi saturi presente in 100 grammi di prodotto. Lo schema inglese si basa sulla schedatura degli alimenti: verde uguale cibo «buono», rosso uguale cibo «cattivo», mettendo a rischio i prodotti di qualità e non considerando il fatto che non esistono cibi «buoni» o «cattivi», ma solo regimi alimentari corretti o scorretti;
    l'etichettatura agroalimentare è regolamentata a livello europeo dal regolamento (UE) n. 1169/2011, attraverso il quale la Commissione europea ha razionalizzato e armonizzato la legislazione sulle informazioni al consumatore, al fine di garantire il buon funzionamento del mercato interno. Alla luce di ciò lo schema britannico – per il quale il Governo italiano ha formalmente espresso la propria posizione contraria – appare in palese contrasto con gli obiettivi di armonizzazione del suddetto regolamento dell'Unione europea e rappresenta un pericoloso precedente che potrebbe preludere alla proliferazione di una molteplicità di differenti schemi nazionali,

impegna il Governo:

   ad adottare con la massima urgenza i decreti ministeriali di attuazione dell'articolo 4 della legge 3 febbraio 2011, n. 4, al fine di rendere immediatamente applicabile la normativa sull'etichettatura di origine dei prodotti agroalimentari a tutela dei consumatori e degli operatori della filiera e a prevedere, per talune tipologie di prodotti, modalità di inserimento volontario in etichetta di specifici sistemi di sicurezza realizzati mediante elementi di identificazione elettronica e telematica;
   ad intervenire con determinazione nelle competenti sedi internazionali e prioritariamente in ambito Gac (Government advisory committee), anche in collaborazione con gli altri Stati membri interessati e con la Commissione europea, per bloccare l'introduzione di nomi generici a domini internet e la loro assegnazione a soggetti privati non utilizzatori delle denominazioni, a garanzia di tutela del sistema agroalimentare di qualità italiano;
   a promuovere, a livello di unione europea, un'azione comune a difesa della posizione della «non concedibilità» dei nomi generici e della necessità di rivedere la governance di internet con la definizione di regole condivise a livello internazionale;
   ad assumere tutte le iniziative di competenza affinché la Commissione europea avvii una rapida verifica sulla compatibilità del sistema di etichettatura inglese con la normativa europea relativa alle indicazioni nutrizionali degli alimenti, così come previste dal regolamento (UE) n. 1169/2011, nonché sul rispetto da parte del Governo britannico dell'obbligo di previa notifica previsto per l'introduzione di nuove regolamentazioni in materia di etichettatura;
   a tutelare l'immagine e il valore economico dell’export agroalimentare (come il contrasto all’italian sounding) dei prodotti made in Italy, evitando che i sistemi di etichettatura volontaria siano utilizzati a fini discriminatori e distorsivi del mercato nei confronti delle imprese agricole e agroalimentari italiane;
   a diffondere, tramite puntuali campagne informative, l'importanza di una dieta varia ed equilibrata insieme ad una regolare attività fisica, esprimendo contrarietà a qualsiasi sistema di etichettatura alimentare basato su approcci che tendono a confondere i consumatori;
   a sostenere progetti per la promozione del consumo di prodotti agroalimentari italiani nella ristorazione italiana all'estero, attraverso la predisposizione di un documento di reciproci impegni e garanzie tra imprese agroalimentari, Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali e ristoranti interessati.
(1-00274)
«Gallinella, L'Abbate, Lupo, Parentela, Gagnarli, Massimiliano Bernini, Benedetti, Villarosa, Brugnerotto, D'Incà, Castelli, Fico».
(3 dicembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    l'agroalimentare made in Italy rappresenta oltre il 17 per cento del prodotto interno lordo, di cui oltre 53 miliardi di euro provengono dal settore agricolo;
    il successo dell'agroalimentare italiano nel mondo e l'accreditamento attribuito al marchio «Italia» non conoscono arretramenti, come dimostra la crescita costante dell’export, ma anche la diffusione dei fenomeni di imitazione e pirateria commerciale;
    il made in Italy agroalimentare è la leva esclusiva per una competitività «ad alto valore aggiunto» e per lo sviluppo sostenibile del Paese, grazie ai suoi primati in termini di qualità, livello di sicurezza e sistema dei controlli degli alimenti, riconoscimento di denominazioni geografiche protette e produzione biologica;
    il settore agricolo ha una particolare importanza non solo per l'economia nazionale – considerati la percentuale di superficie coltivata, il più elevato valore aggiunto per ettaro in Europa ed il maggior numero di lavoratori occupati nel settore – ma, altresì, come naturale custode del patrimonio paesaggistico, ambientale e sociale;
    in agricoltura sono presenti circa 820 mila imprese, vale a dire il 15 per cento del totale di quelle attive in Italia;
    sulla base dei dati dell'Agenzia europea per la sicurezza alimentare – Efsa – l'Italia risulta prima, nel mondo, in termini di sicurezza alimentare, con oltre 1 milione di controlli l'anno, il minor numero di prodotti agroalimentari con residui chimici oltre il limite (0,3 per cento), con un valore inferiore di cinque volte rispetto a quelli della media europea (1,5 per cento di irregolarità) e addirittura di 26 volte rispetto a quelli extracomunitari (7,9 per cento di irregolarità);
    la libera circolazione di alimenti sicuri e sani è un aspetto fondamentale del mercato interno, ma, sempre più spesso, la salute dei consumatori e la corretta e sana alimentazione appaiono compromesse da cibi anonimi, con scarse qualità nutrizionali, o addizionati e di origine per lo più sconosciuta;
    la circolazione di alimenti che evocano un'origine ed una fattura italiana che non possiedono costituisce una vera e propria aggressione al patrimonio agroalimentare nazionale, che, come espressione dell'identità culturale dei territori, rappresenta un bene collettivo da tutelare ed uno strumento di valorizzazione e di sostegno allo sviluppo rurale;
    continuano a crescere le importazioni provenienti da Paesi, tra i quali la stessa Germania, in cui ci si basa su produzioni a basso costo, operai sottopagati, falde acquifere inquinate e tecniche di allevamento, come quello suinicolo, non sostenibili e con gravi ripercussioni sulla salute dei consumatori legate all'eccessivo impiego di antibiotici;
    relativamente al settore zootecnico, si ricorda che gli allevamenti italiani di suini, presenti prevalentemente in Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte, Veneto, Umbria e Sardegna, sono oltre 26.200 e la produzione di carni suine è stimata in 1.299.000 tonnellate l'anno;
    il settore suinicolo rappresenta una voce importante dell'agroalimentare italiano. La suinicoltura italiana, infatti, occupa il 7o posto in Europa per numero di capi mediamente presenti e offre occupazione, lungo l'intera filiera, a circa 105 mila addetti, di cui 50 mila nel solo comparto dell'allevamento: in Italia nel 2012 la consistenza è stata di 9,279 milioni di capi, preceduta da Germania (28,1 milioni), Spagna (25,2 milioni), Francia (13,7 milioni), Danimarca (12,4 milioni), Olanda (12,2 milioni) e Polonia (11,9 milioni di capi);
    secondo analisi ed elaborazioni dell'Associazione nazionale allevatori suini (Anas), riferiti al primo semestre 2013, il valore dell'allevamento riconosciuto nella fase della distribuzione è stato del 17,28 per cento. Sempre secondo la predetta Associazione nazionale allevatori suini, l'Italia, nel 2012, ha importato complessivamente 1.020.425 tonnellate di suini vivi e carni suine, di cui il 52 per cento dalla Germania, pari a 535.309 tonnellate;
    dalle stesse elaborazioni si rileva che il costo medio di produzione del suino pesante (peso medio 160/170 chilogrammi) è di 1,56 euro al chilogrammo;
    i medesimi dati evidenziano che il prezzo medio riconosciuto all'allevatore per il suino pesante (peso medio 160/170 chilogrammi) è stato di 1,4 euro al chilogrammo;
    articoli di stampa europei hanno recentemente messo in luce che l'industria della carne suina tedesca è efficiente ed è basata su prodotti a basso costo, ma che, dietro questo sistema, ci sono operai sottopagati, falde acquifere inquinate e tecniche di allevamento che usano enormi quantità di antibiotici;
    molti controlli operati sul settore delle carni suine hanno evidenziato la violazione della disciplina in materia di presentazione e pubblicità dei prodotti alimentari e condotte poste in essere in maniera ingannevole, fraudolenta e scorretta, allo specifico scopo di far intendere al consumatore che i prodotti acquistati sono di origine e di tradizione italiana;
    l'attuale situazione del mercato risulta complicata dalla mancanza di trasparenza sull'indicazione di origine delle carni suine, che rischia di creare confusione tra i prodotti di provenienza nazionale – che assicurano, tra l'altro, elevati standard di sicurezza e qualità – ed i prodotti di importazione che invece, spesso, presentano minori garanzie per il consumatore;
    l'articolo 26, comma 2, lettera b), del regolamento (UE) n. 1169/2011, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori, prevede che l'indicazione del Paese d'origine o del luogo di provenienza è obbligatoria per le carni dei codici della nomenclatura combinata elencati all'allegato XI del regolamento medesimo – tra le quali sono contemplate le carni di animali della specie suina, fresche, refrigerate o congelate – rinviando l'applicazione della norma a successivi atti di esecuzione da adottare entro il 13 dicembre 2013;
    molti controlli operati sulle filiere del latte e dei prodotti lattiero-caseari, dei cereali, con particolare riferimento al grano duro, dei pomidoro non destinati a passata e delle carni suine hanno evidenziato la violazione della disciplina in materia di presentazione e pubblicità dei prodotti alimentari e condotte poste in essere in maniera ingannevole, fraudolenta e scorretta, allo specifico scopo di far intendere al consumatore che i prodotti acquistati sono di origine e di tradizione italiana;
    l'articolo 62 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, nel disciplinare le relazioni commerciali in materia di cessione di prodotti agricoli ed agroalimentari, vieta condotte commerciali sleali, al fine di impedire che un contraente con maggiore forza commerciale possa abusarne, imponendo condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose per la controparte più debole;
    l'articolo 10 della legge 14 gennaio 2013, n. 9, «Norme sulla qualità e la trasparenza della filiera degli oli di oliva vergini», introduce un sistema al fine di rendere accessibili a tutti gli organi di controllo ed alle amministrazioni interessate le informazioni ed i dati sulle importazioni e sui relativi controlli, concernenti l'origine degli oli di oliva vergini, anche attraverso la creazione di collegamenti a sistemi informativi ed a banche dati elettroniche gestiti da altre autorità pubbliche;
    l'usurpazione del made in Italy minaccia la solidità e provoca gravi danni alle imprese agricole insediate sul territorio, violando il diritto dei consumatori ad alimenti sicuri, di qualità e di origine certa;
    il codice del consumo, recependo la disciplina comunitaria in materia, attribuisce ai consumatori ed agli utenti: i diritti alla tutela della salute; alla sicurezza ed alla qualità dei prodotti; ad un'adeguata informazione e ad una pubblicità veritiera; all'esercizio delle pratiche commerciali secondo principi di buona fede, correttezza e lealtà; all'educazione al consumo; alla trasparenza ed all'equità nei rapporti contrattuali;
    la disciplina a tutela dei prodotti di origine italiani introduce norme specifiche per contrastare la contraffazione ed evitare qualunque fraintendimento nell'indagine di provenienza falsa e fallace;
    di fronte alle numerose problematicità sopra enunciate ed alla luce dei danni provocati all'economia agroalimentare nazione, alla tutela dei consumatori ed alla capacità competitiva del settore rurale nazionale, dai richiamati comportamenti sleali, se non illeciti, che si verificano nel campo commerciale delle produzioni agricole ed alimentari indicate come di origine italiana mentre non lo sono, sarebbe inderogabile attivare un'organica politica di contrasto e di repressione;
    in particolare, andrebbero intraprese misure adeguate per stroncare tali presunti comportamenti contrari alla trasparenza ed alle norme di tutela dei consumatori e delle produzioni agroalimentari aventi un'origine da cui traggono particolare reputazione e rinomanza, qual è l'indicazione made in Italy,

impegna il Governo:

   ad intraprendere tutte le occorrenti iniziative volte a rafforzare la tutela della denominazione made in Italy nel campo delle produzioni agroalimentari, dando particolare priorità all'attivazione di misure dirette a contrastare l'utilizzo della stessa denominazione in maniera falsa o ingannevole relativamente alla provenienza, all'origine, alla natura o alle qualità essenziali dei prodotti agroalimentari di origine italiana;
   per le medesime finalità di cui al capoverso precedente, ad adottare iniziative dirette a:
    a) prevedere l'adozione, anche per il latte ed i suoi derivati, per le carni suine e per tutte le altre produzioni importate, di un sistema analogo a quello previsto per gli oli di oliva vergini, dalla legge n. 9 del 2013 citata, per assicurare l'accessibilità delle informazioni e dei dati sulle importazioni e sui relativi controlli, concernenti l'origine delle carni suine e promuovere, a tale scopo, la creazione di collegamenti a sistemi informativi ed a banche dati elettroniche gestiti da altre autorità pubbliche;
    b) con specifico riferimento al settore del commercio nel settore delle carni suine, consentire la piena attuazione all'articolo 62 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, nella parte in cui vieta pratiche commerciali sleali che possano determinare, in contrasto con il principio della buona fede e della correttezza, il riconoscimento di prezzi agli allevatori palesemente inferiori ai costi di produzione medi da essi sostenuti;
    c) fare in modo di promuovere, in sede di Unione europea, il rispetto del termine del 13 dicembre 2013, imposto dal regolamento (UE) n. 1169/2011, per l'attuazione dell'obbligo di indicazione del Paese d'origine o del luogo di provenienza, con riferimento al latte ed ai prodotti lattiero-caseari, alle carni suine fresche, refrigerate o congelate ed altre produzioni interessate dal suddetto regolamento;
    d) rendere noti e pubblici i riferimenti delle società eventualmente coinvolte in pratiche commerciali ingannevoli, fraudolente o scorrette finalizzate ad immettere sui mercati finti prodotti made in Italy ed i dati dei traffici illeciti accertati;
    e) fornire alle autorità di controllo e, in particolare, al Corpo forestale dello Stato, indicazioni operative finalizzate a fare applicare la definizione precisa dell'effettiva origine degli alimenti, secondo quanto stabilito dall'articolo 4, commi 49 e 49-bis della legge 24 dicembre 2003, n. 350, sulla tutela del made in Italy.
(1-00276)
«Mongiello, Oliverio, Realacci, Patriarca, Covello, Di Gioia, Cera, Scanu, Stumpo, Amendola, Folino, Marrocu, Antezza, Tentori, Piccione, Mognato, Ventricelli, Melilli, Mazzoli, Manzi, Moretti, Rubinato, Fauttilli, Palma, Montroni, Del Basso De Caro, Sberna, Iacono, Venittelli, Basso, Parisi, Marzano, Sannicandro, Blazina, Biondelli, Biasotti, Pastorelli, Censore, Manfredi, Taricco, Fitzgerald Nissoli, Grassi, D'Ottavio, Valiante, Nardella, Monaco, Mariano, Pagani, Petitti, Vezzali, Bruno Bossio, Marguerettaz, Bargero, Ghizzoni, Lodolini, Petrini, Terrosi, Ascani, Morani, Pelillo, Carra».
(5 dicembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    il sistema agroalimentare italiano è una delle più importanti risorse da salvaguardare e potenziare perché rappresenta l'eccellenza dei territori italiani nella misura in cui non è solamente un settore destinato alla produzione di alimenti, ma identifica un patrimonio unico di valori e tradizioni di cultura e qualità di notevoli potenzialità;
    il valore della produzione agroalimentare può essere tutelato solo attraverso la promozione della qualità, della tracciabilità degli alimenti e dell'ampliamento delle informazioni ai consumatori, anche al fine di contrastare il dilagare delle pratiche commerciali sleali e di contraffazione dei prodotti agroalimentari;
    analizzando il comparto dell'agroalimentare italiano, sia a livello nazionale che internazionale, emerge il dato che, ad essere maggiormente premiato è il prodotto genuino; infatti, le cifre dicono che il comparto agroalimentare italiano vale più del 15 per cento di prodotto interno lordo e ogni anno arriva a muovere 245 miliardi di euro fra consumi, export, distribuzione ed indotto. La quota del made in Italy destinata all'esportazione, secondo i dati forniti dalla Confederazione italiana agricoltori, Cia, nel 2012 ha raggiunto una percentuale record del 20 per cento. Ad essere maggiormente presenti sul mercato sono i prodotti tipici e di qualità certificata;
    l'Italia vanta il primato, fra i Paesi dell'Unione europea, di una tutela della qualità delle produzioni agroalimentari elevata: si pensi che il Paese ha il maggior numero di prodotti a marchio registrato come la denominazione d'origine protetta, dop, l'indicazione geografica e protetta, igp, e la specialità tradizionale garantita, stg, che sono oggetto di numerosi e sofisticati tentativi di contraffazione;
    il 25 settembre 2013 la Camera dei deputati ha nuovamente istituito, nell'intento di proseguire il lavoro istruttorio svolto nel corso della XVI Legislatura, una Commissione d'inchiesta sui fenomeni della contraffazione, della pirateria in campo commerciale e del commercio abusivo;
    la Commissione agricoltura della Camera dei deputati ha iniziato l'esame di talune proposte sul tema dell'obbligatorietà dell'indicazione di origine della materia agricola nell'etichetta, del coordinamento e del rafforzamento dei controlli per la tutela dei prodotti agricoli di qualità, nonché della promozione di prodotti provenienti da «filiera corta» o a «chilometro zero»;
    in merito all'indicazione in etichetta dell'origine del prodotto, gli interventi del legislatore italiano si sono scontrati nel corso degli anni con l'impostazione, ancora prevalente in sede europea, tendente a ritenere incompatibile con il mercato unico la presunzione di qualità legate alla localizzazione nel territorio nazionale di tutto o di parte del processo produttivo di un prodotto alimentare. A tale principio hanno fatto eccezione solo le regole relative alle denominazioni di origine e alle indicazioni di provenienza;
    per i restanti prodotti alimentari è stato sinora fissato il principio che l'indicazione del luogo d'origine o di provenienza possa essere resa obbligatoria solo nell'ipotesi che l'omissione dell'indicazione stessa possa indurre in errore il consumatore circa l'origine o la provenienza effettiva del prodotto alimentare (articolo 3 della direttiva 2000/13/CE, recepito dall'articolo 3 del decreto legislativo n. 109 del 1992). Il principio è stato confermato anche con il regolamento (UE) n. 1169/2011, che, in sostituzione della precedente direttiva, ha, tuttavia, esteso a talune carni l'obbligo di indicarne l'origine (articolo 26, paragrafo 2);
    il legislatore nazionale ha tradizionalmente attribuito, invece, grande rilievo alla possibilità di definire una legislazione che consentisse di indicare l'origine nazionale della produzione agroalimentare. La produzione nazionale alimentare è considerata una delle eccellenze e, pertanto, il suo legame territoriale è stato ritenuto costantemente elemento di pregio, quindi degno di segnalazione al consumatore anche per le produzioni non «a denominazione protetta»;
    con l'approvazione nel 2004 dell'articolo 1-bis del decreto-legge n. 157 del 2004, venne introdotto per la prima volta l'obbligo generalizzato di indicare il luogo di origine della componente agricola incorporata in qualsiasi «prodotto alimentare», trasformato e non trasformato. Alla luce, tuttavia, della legislazione europea, la circolare del 1o dicembre 2004 del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali rilevò che il decreto legge «conteneva molteplici principi e disposizioni richiedenti una corretta interpretazione»; pertanto, non potevano ritenersi immediatamente operative le disposizioni sull'indicazione obbligatoria in etichetta dell'origine dei prodotti;
    nella XVI legislatura, la Commissione agricoltura della Camera dei deputati, in sede legislativa, ha approvato all'unanimità la legge 3 febbraio 2011, n. 4, in materia di etichettatura e di qualità dei prodotti alimentari. Il testo della legge risulta, pertanto, incentrato sull'esigenza di promuovere il sistema produttivo nazionale nel quale la qualità dei prodotti è frutto del legame con i territori di origine e sulla pari necessità di trasmettere al consumatore le informazioni sull'origine territoriale del prodotto, alla base delle dette qualità. Il fine di assicurare una completa informazione ai consumatori è, infatti, alla base delle norme (articoli 4 e 5) che dispongono l'obbligo, per i prodotti alimentari posti in commercio, di riportare nell'etichetta anche l'indicazione del luogo di origine o di provenienza. Specificatamente, per i prodotti alimentari non trasformati, il luogo di origine o di provenienza è il Paese di produzione dei prodotti; per i prodotti trasformati la provenienza è da intendersi come il luogo in cui è avvenuta l'ultima trasformazione sostanziale, il luogo di coltivazione e allevamento della materia prima agricola prevalente utilizzata nella preparazione o nella produzione. L'etichetta deve, altresì, segnalare l'eventuale utilizzazione di ingredienti in cui vi sia presenza di organismi geneticamente modificati, dal luogo di produzione iniziale fino al consumo finale. Le norme, che demandano sostanzialmente alle regioni l'attività di controllo, sono, peraltro, rafforzate da disposizioni sanzionatorie (così il comma 10 dell'articolo 4), che prevedono l'applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria compresa fra 1.600 euro e 9.500 euro per i prodotti non etichettati correttamente. Le modalità applicative dell'indicazione obbligatoria d'origine sono state demandate a decreti interministeriali chiamati a definire, all'interno di ciascuna filiera alimentare, quali prodotti alimentari saranno assoggetti all'etichettatura d'origine;
    i decreti attuativi non sono stati a tutt'oggi emanati da parte dei Ministeri delle politiche agricole, alimentari e forestali e dello sviluppo economico, proprio a causa della difficile applicazione della asserita «obbligatorietà» dell'indicazione di provenienza, laddove le norme europee prevedono, allo stato, solo regimi «facoltativi». Le disposizioni nazionali non possono, infatti, che essere coerenti con la normativa approvata dall'Europa che, prima con la direttiva 2000/13/CE, poi con il regolamento (UE) n. 1169/2011, ha disciplinato le modalità e i contenuti informativi da trasmettere ai consumatori. In particolare, l'articolo 26 stabilisce le condizioni e le modalità dell'indicazione del Paese d'origine o luogo di provenienza degli alimenti; l'articolo 45 regola, poi, la procedura con la quale le norme nazionali debbono essere notificate alla Commissione europea e agli altri Stati membri;
    per sollecitare l'attuazione dell'articolo 4 della legge n. 4 del 2011 e, quindi, l'introduzione dell'obbligo di indicazione dell'origine del prodotto nell'etichetta, sul finire della XVI legislatura è stato presentato un disegno di legge, approvato dal Senato e trasmesso alla Camera (atto Camera 5559), nel quale si stabiliva, tra l'altro, che i decreti attuativi dovessero essere adottati entro due mesi dall'entrata in vigore del provvedimento. La fine anticipata della legislatura non ha consentito la conclusione dell’iter parlamentare;
    recentemente l'Unione europea ha apportato, in tema di indicazioni, delle modifiche al regime di etichettatura dei prodotti agroalimentari. In particolare, il regolamento (UE) n. 1169/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori, ha modificato la precedente normativa, al fine di semplificarla e migliorare il livello d'informazione e di protezione dei consumatori europei. Le nuove disposizioni, che entreranno in vigore dal 13 dicembre 2014 – ad eccezione delle disposizioni relative all'etichettatura nutrizionale che entreranno in vigore a partire dal 13 dicembre 2016 – rispondono alla necessità di aumentare la chiarezza e la leggibilità delle etichette. Il regolamento si applica a tutti gli operatori del settore alimentare in tutte le fasi della catena e a tutti gli alimenti destinati al consumo finale, compresi quelli forniti dalle collettività (ristoranti, mense, catering) e quelli destinati alla fornitura delle collettività. Esso introduce alcune novità di rilievo, quali l'obbligo di indicare la provenienza e l'origine dei prodotti e la leggibilità dell'etichetta, e consente agli Stati membri di adottare «disposizioni ulteriori» (articolo 39 del regolamento) per specifici motivi: protezione della salute pubblica e dei consumatori, prevenzione delle frodi, repressione della concorrenza sleale, protezione dei diritti di proprietà industriale e commerciale e tutela delle indicazioni di provenienza e denominazioni di origine controllata. Lo Stato membro che voglia introdurre un provvedimento nazionale dovrà notificare il progetto alla Commissione europea e attendere tre mesi per approvarlo, salvo parere negativo della stessa;
    l'esigenza di una ricomposizione tra le regole del mercato interno comunitario e la protezione della qualità delle produzioni locali è stata esplicitata nella risposta fornita dal Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali pro tempore ad un'interrogazione presentata sull'argomento al Senato della Repubblica nella seduta del 20 settembre 2012; il Ministro pro tempore ha, in tale occasione, affermato che: «(...) occorre tener presente che la legge n. 4 del 2011 sull'etichettatura dei prodotti agroalimentari si inserisce in un quadro normativo regolato a livello sovrastante dall'Unione europea e che, quindi, la redazione dei decreti attuativi pone problemi di compatibilità con la normativa comunitaria vigente (...)». Il Ministro annunciò, in tale occasione, di aver predisposto il decreto attuativo per il settore lattiero-caseario (sul latte a lunga conservazione, uht, pastorizzato microfiltrato e latte pastorizzato ad elevata temperatura), il più importante segmento di mercato tra quelli nei quali non è già in vigore un obbligo di indicazione dell'origine, e che sarebbe stato di prossima definizione un altro decreto per le carni lavorate. Il processo si è poi interrotto perché la Commissione europea, comunicatole lo schema di decreto per il settore lattiero-caseario, con decisione del 28 agosto 2013 (notificata con il numero C(2013) 5517), ha ritenuto che le giustificazioni fornite dall'Italia, legate all'esigenza di protezione degli interessi dei consumatori e di prevenzione e repressione delle frodi comunitaria, non risultassero sufficientemente dimostrabili;
    la Commissione agricoltura della Camera dei deputati ha ripreso nella XVII legislatura la problematica in esame, inserendo in calendario l'esame di due proposte di legge (atti Camera 1173 e 427), le quali intervengono nuovamente proprio sul problema dei tempi di emanazione dei decreti attuativi della legge n. 4 del 2011, prevedendo, anche in questo caso, che gli stessi siano emanati entro il termine perentorio di due mesi dalla data di entrata in vigore delle medesime proposte di legge;
    numerose associazioni, fondazioni e realtà legate al mondo agricolo hanno già introdotto delle proposte utili a facilitare la lettura in etichetta da parte del consumatore e rendere il prodotto immediatamente visibile;
    inoltre, accanto alle indicazioni previste dalla legge, è da considerare la possibilità di avvalersi della cosiddetta etichetta narrante, che fornisce informazioni precise sui produttori, sulle loro aziende, sulle varietà vegetali o sulle razze animali impiegate, sulle tecniche di coltivazione, allevamento e lavorazione, sul benessere animale, sui territori di provenienza e sul dato di non utilizzare pesticidi in dosi massicce, con limiti e regolamentazioni conformi – anche se non certificate – ai disciplinari dell'agricoltura biologica o biodinamica. Le aziende che non si certificano biologiche, ma adottano tale etichetta sono sottoposte a controlli da parte delle autorità competenti per dimostrare la veridicità delle informazioni in essa riportate;
    il 19 giugno 2013 il Dipartimento della salute britannico ha annunciato l'introduzione di un nuovo sistema volontario di etichettatura nutrizionale basato sulla colorazione semaforica (verde-giallo-rosso) del packaging dei prodotti alimentari sulla base del contenuto di sale, zucchero, grassi e grassi saturi presente in 100 grammi di prodotto, che ha destato molte critiche e disapprovazioni;
    lo schema inglese del «semaforo» si basa sulla schedatura degli alimenti: verde uguale cibo «buono», rosso uguale cibo «cattivo», mettendo a rischio i prodotti di qualità e non considerando il fatto che non esistono cibi «buoni» o «cattivi», ma solo regimi alimentari corretti o scorretti;
    schedare cibi e bevande in questo modo, a parere dei firmatari del presente atto di indirizzo, è pericoloso e fuorviante, perché si offre al consumatore soltanto un'informazione parziale ed erronea, che non tiene più conto della dieta complessiva e, soprattutto, non considera il regime alimentare nel suo insieme e, quindi, il modo in cui gli alimenti vengono integrati fra loro;
    il Governo britannico, peraltro, non ha notificato all'Unione europea l'introduzione del nuovo sistema di etichettatura;
    contro l'introduzione di questo sistema si sono espresse le maggiori sigle dei produttori alimentari italiani e anche associazioni di altri Paesi, in particolare del Sud Europa;
    ovviamente, questo scenario vede penalizzati innanzitutto i prodotti alla base della dieta mediterranea, il cui valore come «patrimonio immateriale dell'umanità» è stato ufficialmente riconosciuto dall'Unesco nel 2010: un vero attacco alla tradizione agroalimentare del Sud;
    al fine di verificare la compatibilità del sistema di etichettatura nutrizionale inglese con la normativa europea e per la tutela dei prodotti agroalimentari italiani, la Commissione affari sociali e la Commissione agricoltura della Camera dei deputati hanno adottato una risoluzione unitaria in data 23 ottobre 2013;
    in data 4 dicembre 2013, la Coldiretti ha promosso al passo del Brennero una forte campagna di protesta e sensibilizzazione nei confronti delle istituzioni governative italiane ed europee per il continuo e spregiudicato attacco da parte di altri Paesi europei al made in Italy nell'agroalimentare. La protesta è consistita con il blocco dei tir provenienti dall'Austria che trasportavano prodotti agroalimentari con l'etichettatura made in Italy, i cui prodotti agroalimentari non sono stati prodotti in Italia. Si pensi, che l'uso improprio del nome made in Italy, conosciuto come italian sounding, costa al nostro sistema di impresa del settore primario oltre 60 miliardi di euro di perdite l'anno,

impegna il Governo:

   a promuovere in sede comunitaria le idonee iniziative al fine di poter consentire al nostro Paese di tutelare il made in Italy con un sistema di etichettatura dei prodotti agroalimentari che consenta di salvaguardare la biodiversità agroalimentare nella sua interezza culturale;
   ad avviare, nelle opportune sedi europee, tutte le trattative politico-istituzionali al fine di veder riconosciuta all'Italia la possibilità di utilizzare le «disposizioni ulteriori» stabilite dall'articolo 39 del regolamento (UE) n. 1169/2011 per specifici motivi, quali: la protezione della salute pubblica e dei consumatori, la prevenzione delle frodi, la repressione della concorrenza sleale, la protezione dei diritti di proprietà industriale e commerciale, nonché la tutela delle indicazioni di provenienza e denominazioni di origine controllata;
   a procedere speditamente all'emanazione dei decreti attuativi della legge 3 febbraio 2011, n. 4, affinché si possa applicare la «obbligatorietà» dell'indicazione di provenienza, laddove le norme europee prevedono, allo stato, solo regimi «facoltativi»;
   ad assumere le opportune iniziative con la Commissione europea sulla compatibilità del sistema di etichettatura inglese – «etichettatura semaforica» – con la normativa europea relativa alle indicazioni nutrizionali degli alimenti, in particolare con i criteri previsti dall'articolo 35 del regolamento (UE) n. 1169/2011, e sul rispetto da parte del Governo inglese dell'obbligo di previa notifica previsto per l'introduzione di nuove regolamentazioni in materia di etichettatura;
   a chiedere alle autorità europee la sospensione del sistema di «etichettatura semaforica» della Gran Bretagna, in quanto il sistema si basa su considerazioni che non tengono conto del mix di alimenti che quotidianamente forniscono i nutrienti di cui si ha bisogno, ma si basa su criteri di definizione e indicazione apodittici e privi di qualsivoglia dato empirico, posto che tutto questo distrugge la caratteristica principale dei prodotti agroalimentari italiani che hanno quale «humus organolettico» la biodiversità del territorio nazionale;
   a tutelare in ogni modo l'immagine e il valore culturale ed economico dell’export agroalimentare dei prodotti made in Italy, evitando che i sistemi di etichettatura volontaria vengano utilizzati a fini discriminatori e distorsivi del mercato nei confronti delle imprese agricole e agroalimentari italiane;
   a farsi garante ed essere attore attivo nelle campagne di sensibilizzazione contro le contraffazioni dei prodotti italiani attraverso le sedi estere della televisione pubblica nazionale, promuovendo in modo più incisivo il vero made in Italy;
   a difendere e tutelare giuridicamente il valore indisponibile e immateriale della «dieta mediterranea» quale patrimonio dell'umanità, così come dichiarato nel 2010 dall'Unesco.
(1-00277)
«Franco Bordo, Migliore, Palazzotto, Ferrara, Lacquaniti, Zan, Pellegrino, Zaratti, Nicchi, Aiello, Piazzoni, Matarrelli».
(6 dicembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    in seguito alla proposta inglese di «etichettatura semaforica», con il presente atto di indirizzo, oltre che stigmatizzare l'infondatezza scientifica di tale sistema d'informazione al consumatore e di come possa provocare effetti distorsivi sul mercato per prodotti italiani di sicura genuinità e salubrità se assunti in combinazioni dietetiche idonee e tradizionali, si vuole sottolineare la necessità di predisporre un quadro organico nell'ambito del quale definire una puntuale articolazione e un maggiore dettaglio del sistema di etichettatura, da adottare ai sensi dell'articolo 39 del regolamento (UE) n. 1169/2011, «Informazioni alimentari ai consumatori». Esso consente, infatti, agli Stati membri di adottare disposizioni che richiedono ulteriori indicazioni obbligatorie per tipi o categorie specifici di alimenti per determinate motivazioni;
    l'intenzione è di ribaltare l'approccio inglese meramente quantitativo ed evidenziare, invece, un approccio italiano o semplicemente di «buon senso» (da portare in sede europea e all'Expo 2015 «Nutrire il pianeta»), mostrando come l'informazione al consumatore si debba caratterizzare per esplicitazione di dati scientifici del prodotto e di caratteristiche che possano descriverne i processi produttivi e le qualità finali in modo accertato;
    il sistema agroalimentare italiano è una delle più importanti risorse da salvaguardare e potenziare; rappresenta l'eccellenza dei territori italiani, nella misura in cui non è solo il settore destinato alla produzione di alimenti, ma rappresenta un patrimonio unico di valori e tradizioni di cultura e qualità e di grandi potenzialità;
    a fronte di una globalizzazione alimentare che impone standard di competitività molto alta, il nostro Paese deve far leva sulle peculiarità originali delle sue produzioni agroalimentari, esaltando i tratti della tipicità, della genuinità, del legame inscindibile col territorio. Il valore della produzione può essere tutelato solo attraverso la promozione della qualità, la tracciabilità degli alimenti e l'ampliamento delle informazioni ai consumatori, anche al fine di contrastare il dilagare delle pratiche commerciali sleali nella presentazione degli alimenti, la contraffazione dei prodotti e le varietà transgeniche provenienti da Usa e Cina (in particolare, di queste ultime si ha scarsa conoscenza);
    analizzando il comparto dell'agroalimentare italiano, sia a livello nazionale sia internazionale, emerge il dato che ad essere maggiormente premiato è il prodotto genuino. In cifre, il comparto agroalimentare italiano vale più del 15 per cento di prodotto interno lordo ed ogni anno arriva a muovere 245 miliardi di euro fra consumi, export, distribuzione ed indotto, la quota del made in Italy destinata all'esportazione, secondo i dati forniti dalla Confederazione italiana agricoltori (Cia), nel 2012 ha raggiunto una percentuale record del 20 per cento; ad essere maggiormente presenti sul mercato sono i prodotti tipici. L'Italia può vantare il primato, fra i Paesi dell'Unione europea, come numero di prodotti riconosciuti con la qualifica di denominazione d'origine protetta (dop), indicazione geografica protetta (igp) e specialità tradizionale garantita (stg). La valorizzazione del patrimonio agroalimentare italiano costituisce, al pari di quello artistico-culturale ed ambientale, una grande potenzialità di sviluppo economico dell'intero Paese. Attraverso la tutela delle denominazioni di origine è possibile incoraggiare le produzioni agricole ed i prodotti, proteggendo i nomi dei prodotti, contro imitazioni ed abusi, aiutando contemporaneamente il consumatore a riconoscere e a scegliere consapevolmente le qualità anche in campo agroalimentare;
    in tema di indicazioni del prodotto agroalimentare l'Unione europea ha apportato, di recente, modifiche al regime di etichettatura dei prodotti agroalimentari. In particolare, il regolamento (UE) n. 1169 del 2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori, ha modificato la precedente normativa, al fine di semplificarla e migliorare il livello di informazione e di protezione dei consumatori europei. Le nuove disposizioni che entreranno in vigore dal 13 dicembre 2014 – ad eccezione delle disposizioni relative all'etichettatura nutrizionale che entreranno in vigore a partire dal 13 dicembre 2016 – rispondono alla necessità di aumentare la chiarezza e la leggibilità delle etichette;
    il regolamento si applica a tutti gli operatori del settore alimentare in tutte le fasi della catena e a tutti gli alimenti destinati al consumo finale, compresi quelli forniti dalle collettività (ristoranti, mense, catering);
    esso introduce alcune novità di rilievo, quali l'obbligo di indicare la provenienza e l'origine dei prodotti e la leggibilità dell'etichetta, e consente agli Stati membri di adottare disposizioni ulteriori (articolo 39) per specifici motivi: la protezione della salute pubblica e dei consumatori, la prevenzione delle frodi e la repressione della concorrenza sleale, la protezione dei diritti di proprietà industriale e commerciale, la tutela delle indicazioni di provenienza e denominazioni di origine controllata;
    lo Stato membro che voglia introdurre un provvedimento nazionale dovrà notificare il progetto alla Commissione europea e attendere tre mesi per approvarlo, salvo parere negativo della stessa;
    l'Italia, Paese ricco di biodiversità, può in questa fase storica, alla luce anche delle indicazioni date dal mercato che premia il prodotto tipico e ecocompatibile, dare compiuta attuazione al richiamato regolamento sull'etichettatura, avvalendosi della facoltà di cui all'articolo 39, alla luce della necessità di valorizzazione i prodotti made in Italy e i processi ecocompatibili di produzione agroalimentare, al fine di renderli ancora più concorrenziali e appetibili;
    peraltro, atteso che numerose associazioni, fondazioni e realtà legate al mondo agricolo hanno già introdotto delle proposte utili a facilitare la lettura in etichetta da parte del consumatore e rendere il prodotto immediatamente visibile, sarà fondamentale addivenire ad un'armonizzazione a livello europeo;
    inoltre, accanto alle indicazioni previste dalla legge, è da considerare la possibilità di avvalersi della cosiddetta etichetta narrante, che fornisce informazioni precise sui produttori, sulle loro aziende, sulle varietà vegetali o sulle razze animali impiegate, sulle tecniche di coltivazione, allevamento e lavorazione, sul benessere animale, sui territori di provenienza e sul dato di non utilizzare pesticidi in dosi massicce, con limiti e regolamentazioni conformi (anche se non certificate) ai disciplinari dell'agricoltura biologica o biodinamica. Le aziende che non si certificano biologiche, ma adottano tale etichetta, sono sottoposte a controlli da parte delle autorità competenti per dimostrare la veridicità delle informazioni riportate;
    l'etichettatura concernente la presenza di organismi geneticamente modificati negli alimenti a livello europeo è disciplinata da due regolamenti: regolamento (CE) 1829/2003, su alimenti e mangimi, e regolamento (CE) n. 1830/2003 sulla tracciabilità e l'etichettatura degli organismi geneticamente modificati. L'etichetta deve chiaramente riportare la dicitura «geneticamente modificato» o «prodotto da (nome dell'ingrediente) geneticamente modificato». Ciò assume particolare rilevanza per i Paesi che, come l'Italia, tradizionalmente sono ogm free;
    per gli alimenti che contengono organismi geneticamente modificati in una proporzione non superiore allo 0,9 per cento per ciascun ingrediente non è obbligatoria l'etichettatura come organismo geneticamente modificato (nonostante tale percentuale corrisponda a circa 1 grammo di prodotto geneticamente modificato ogni chilo, una quantità molto elevata e non riconducibile ad esclusiva causa accidentale, necessitando, dunque, una chiara informazione al consumatore), purché la presenza di organismi geneticamente modificati sia accidentale o tecnicamente inevitabile;
    la normativa sull'etichettatura di alimenti e mangimi provenienti da organismi geneticamente modificati fa perno, quindi, su una soglia per la presenza accidentale di organismi geneticamente modificati. Tracce minime di organismi geneticamente modificati nei prodotti alimentari sono tollerate se la loro presenza è accidentale o se è da una contaminazione tecnicamente inevitabile nel corso della coltivazione, del raccolto, del trasporto o della lavorazione;
    gli operatori devono essere in grado di dimostrare alle autorità la natura accidentale o tecnicamente inevitabile della presenza di organismi geneticamente modificati in un prodotto alimentare;
    l'apporre un determinato marchio, arricchendo in tal modo le indicazioni in etichetta, significa consentire, pertanto, di valorizzare a pieno quei prodotti che nascono da aziende che hanno scelto di non utilizzare organismi geneticamente modificati in tutte le fasi della filiera agroalimentare, compresa la mangimistica per l'allevamento. Inoltre, significa fornire al consumatore un'informazione più completa, rassicurandolo dell'origine della mangimistica per la produzione di carne, uova, latte e derivati (l'approvvigionamento della mangimistica geneticamente modificata proviene totalmente dall'estero, essendo l'Italia ogm free, di fatto, fino al limitato caso friulano dell'estate 2013);
    nella legislazione europea vi è, pertanto, un vuoto normativo rispetto ai criteri uniformi cui ispirarsi per predisporre un'etichetta che indichi la presenza o meno di organismi geneticamente modificati anche al di sopra o al di sotto della soglia minima ed accidentale attualmente prevista;
    è da sottolineare, altresì, come tale meccanismo possa incentivare la produzione e la vendita del mangime nazionale e/o europeo da sementi tradizionali;
    inoltre, i prodotti con il marchio volontario «ogm zero» potranno favorire sul mercato tutte quelle piccole e medie aziende agricole, che per filosofia di vita non hanno usato organismi geneticamente modificati e che, per ragioni economiche o di altra natura, non possono permettersi il costo della certificazione biologica, la quale, peraltro, non esclude che possano essere etichettati come biologici prodotti contenenti la soglia minima di tracce di organismi geneticamente modificati prevista dalla normativa dell'Unione europea;
    occorre, altresì, considerare l'opportunità, in assenza di una specifica disposizione nel regolamento (CE) n. 1829 del 2003, di prevedere un'etichettatura per i prodotti derivanti dall'allevamento animale per le aziende che utilizzano mangimistica geneticamente modificata come nutrimento per gli animali stessi;
    in questo modo, informando il consumatore sull'intera filiera di produzione del prodotto agroalimentare, lo si avverte di come alcuni prodotti (come il latte o le uova) provengano da allevamenti cui sono somministrati mangimi geneticamente modificati (e implicitamente importati da Paesi che coltivano organismi geneticamente modificati massicciamente e che non rientrano in criteri ecocompatibili e con indirizzi agronomici rivolti alla tutela della biodiversità);
    si viene anche a creare un effetto incentivante per la promozione dei prodotti locali senza organismi geneticamente modificati e si rilancia la coltivazione di soia e altre leguminose in Italia (filiera prioritaria da promuovere in Italia anche attraverso la corretta allocazione dei fondi della politica agricola comune dal 2014 al 2020);
    tutte le aziende, che intendono avvalersi dell'etichetta «ogm zero» e non vogliono sottostare al regime obbligatorio d'etichettatura quali allevamenti con «presenza di organismi geneticamente modificati nel mangime animale», innescherebbero un processo di domanda del prodotto per la mangimistica privo da organismi geneticamente modificati e, conseguentemente, la promozione della filiera della coltivazione di leguminose da foraggio in Italia (filiera presente adeguatamente per il fabbisogno nazionale fino agli anni ’90);
    è prevista anche la possibilità di informare il consumatore della distanza limitata del prodotto, etichetta che permette il riconoscimento di un prodotto locale e del territorio d'appartenenza del consumatore, garantendo così il sostegno e la promozione dell'economia agricola locale e nazionale; tale etichetta «filiera corta» si può applicare volontariamente se il luogo in cui viene effettuata la vendita finale del prodotto e l'azienda di produzione (ricompresa l'attività di imballaggio iniziale, intermedio e finale) siano a una distanza ricompresa in un raggio di massimo 70 chilometri;
    se la distanza è di massimo 10 chilometri può, invece, essere apposta un'etichetta volontaria che recita «chilometro zero». Quest'ultima etichetta renderebbe il consumatore consapevole che ha la possibilità di acquistare un prodotto agroalimentare di un'azienda agricola in prossimità del suo comune d'appartenenza e con il più basso dispendio possibile di anidride carbonica;

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative per predisporre un'etichetta volontaria detta «etichetta narrante» esclusivamente per aziende che rispettino i disciplinari del biologico (anche se non certificate) e utilizzino quantitativi di pesticidi conformi all'agricoltura biologica, facendo sì che i controlli del rispetto dei criteri biologici per chi utilizza tale etichetta siano a carico delle autorità competenti in materia di frodi e contraffazione e che questa etichetta integri l'informazione al consumatore mediante l'applicazione sulle confezioni di ulteriori informazioni e approfondimenti sulle varietà e sulle razze protagoniste dei progetti, sulle tecniche di coltivazione, sulla lavorazione dei trasformati e sui territori di provenienza, sul benessere animale e sulle modalità di conservazione e consumo;
   ad assumere iniziative per prevedere un'indicazione in etichetta, ex articolo 39 del regolamento (UE) n. 1169/2011, che faciliti la comprensione della distanza del luogo di produzione e imballaggio da quello di vendita finale e, in particolare, a predisporre l'etichetta volontaria «filiera corta» se l'azienda di produzione (e anche quella che opera tutte le fasi di imballaggio) si trovi entro un raggio di 70 chilometri, così come ad assumere iniziative per normare l'etichetta volontaria «chilometro zero» se la distanza fra azienda produttrice (fasi d'imballaggio comprese) e luogo di vendita finale è riconducibile a un raggio di 10 chilometri;
   a predisporre e attuare e l'utilizzo di un regime più dettagliato di indicazioni in etichetta per informare i consumatori ai sensi dell'articolo 39 del regolamento (UE) n. 1169/2011, «Informazioni alimentari ai consumatori», tale da consentire di verificare, anche attraverso puntuali controlli, l'applicazione del regolamento (CE) n. 1829/2003 che indica un'etichetta obbligatoria per la soglia di presenza accidentale di organismi geneticamente modificati con un'indicazione chiara e di facile lettura, che contraddistingua gli alimenti che «contengono organismi geneticamente modificati in misura superiore allo 0,9 per cento», o diciture descriventi i casi specifici di cui al sopra citato regolamento dell'Unione europea;
   ad assumere iniziative per predisporre un'etichetta volontaria «ogm zero» per gli alimenti che non hanno utilizzato organismi geneticamente modificati in nessuna delle fasi della filiera (nemmeno per il mangime animale) e per le aziende che possano dimostrare (se richiesto per controllo con analisi PCR) alle autorità competenti di non avere nessuna presenza accidentale di organismi geneticamente modificati (0,0 per cento);
   ad assumere iniziative per predisporre un'etichetta obbligatoria «presenza di organismi geneticamente modificati nei valori della soglia di tolleranza» o «presenza di organismi geneticamente modificati «0,9 per cento» per gli alimenti e prodotti che contengono organismi geneticamente modificati in misura minore dello 0,9 per cento (semplice criterio di analisi quantitativa PCR test presenza/assenza), ovvero con percentuali ricomprese nella soglia di tolleranza, per dare piena informazione ai consumatori e possibilità di acquisto consapevole e informato;
   ad assumere iniziative per predisporre un'etichetta obbligatoria, estendendo il contenuto del regolamento (CE) n. 1829/2003, con la dicitura «prodotto con presenza di organismi geneticamente modificati nel mangime animale» (o diciture similari) per i prodotti da allevamento animale quali carne, uova, latte e derivati nei quali è utilizzata mangimistica geneticamente modificata, allo scopo di informare chiaramente i consumatori della presenza nella catena alimentare dell'allevamento di mangimistica geneticamente modificata.
(1-00278) «Zaccagnini, Pisicchio».
(9 dicembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    alla fine del 2012 il fatturato complessivo del settore agroalimentare ha raggiunto i 130 miliardi di euro, con un'occupazione globale di 405.000 addetti distribuiti in 6.250 piccole, medie e grandi aziende. L'industria alimentare italiana – che insieme ad agricoltura, indotto e distribuzione rappresenta la prima filiera economica del Paese – acquista e trasforma circa il 72 per cento delle materie prime nazionali. Inoltre, è ambasciatrice del made in Italy nel mondo, dal momento che il 76 per cento dell’export alimentare è costituito da prodotti industriali di marca. L’export ha raggiunto complessivamente i 24,8 miliardi di euro mentre l’import si è fermato a 18,7 miliardi di euro, con un saldo positivo della bilancia commerciale di ben 6,1 miliardi di euro, cresciuto di quasi il 40 per cento nel 2012;
    il ruolo dell'industria alimentare come galleggiante anticiclico si è rivelato anche sul fronte dell'occupazione in una fase di crescente perdita di posti di lavoro come quella attuale;
    tuttavia, quando le crisi assumono connotati vasti e duraturi come quella attuale non esistono «isole felici». Così, al di là della grande solidità dimostrata dal settore a livello produttivo e occupazionale, va detto che la crisi dei consumi interni ha colpito il settore in modo molto pesante e aggiuntivo rispetto alla media dei consumi del Paese. Certo, alcuni comparti industriali (da quello automobilistico a quelli legati ai prodotti per l'edilizia) stanno subendo ben più vistose e pesanti perdite delle vendite, ma pochi sanno che i consumi alimentari, sull'arco 2007-2012, sono scesi di 10 punti percentuali e hanno cominciato la loro rapida discesa già nel 2007-2008, a inizio crisi;
    il calo dell'alimentare si lega alla perdita di capacità di acquisto delle famiglie a causa della disoccupazione e della crescita della pressione fiscale. Ma, quel che è più grave, è sceso anche il target qualitativo dei prodotti acquistati. Il prezzo è diventato la principale variabile di scelta del consumatore;
    il settore agroalimentare è uno dei settori strategici su cui investire per rilanciare lo sviluppo del Paese attraverso, da un lato, la valorizzazione del prodotto italiano di qualità e, dall'altro, la repressione di dinamiche di tipo contraffattivo che ne minano la reputazione e la diffusione;
    a danno dell'agroalimentare si deve registrare, infatti, un allarme contraffazione. Le frodi alimentari colpiscono made in Italy e qualità, oltre a rappresentare una minaccia per la salute;
    il business dell'agroalimentare è sempre più appetibile per la criminalità organizzata e l'industria della contraffazione: si stima, infatti, che il volume d'affari complessivo dell'agromafia sia quantificabile in circa 14 miliardi di euro (solo due anni fa questa cifra si attestava intorno ai 12,5 miliardi di euro);
    l'Italia, ancora oggi, non si contraddistingue per un sistema penale in grado di affrontare con strumenti adeguati i reati che, rispetto alla pericolosità di altri crimini, appaiono di gravità minore. Pertanto, per quanto riguarda gli illeciti riscontrati nel settore agroalimentare, solo laddove è possibile contestare anche il reato di associazione per delinquere, si procede con misure cautelari di rilievo, mentre per altri reati, come quello di sofisticazione, non essendo riferiti alla mafia nel codice penale, hanno brevissimi tempi di prescrizione. Le organizzazioni criminali, dall'importazione dei prodotti agroalimentari alle successive operazioni di trasformazione, distribuzione e vendita, ampliano la propria attività anche a causa dell'inadeguatezza del sistema dei controlli che presenta alcune debolezze nelle modalità di intervento delle indagini. È opportuna, quindi, l'esigenza di lavorare sulle normative, aumentare le ispezioni e inasprire le sanzioni e le pene al fine di garantire la trasparenza e la sicurezza in tutti i passaggi della filiera;
    è necessario, altresì, sottoporre il problema dei crimini alimentari all'opinione pubblica, in modo tale da sensibilizzare ed «educare» i consumatori a prestare attenzione alla scelta dei prodotti da consumare; si potrebbe, quindi, favorire la circolazione della conoscenza dei processi produttivi, prendendo in considerazione l'origine dei prodotti, le modalità di produzione e di conservazione degli alimenti;
    mentre nel mercato interno agisce soprattutto la contraffazione, sui mercati internazionali il Paese deve difendersi dalle imitazioni, che sono diventate una vera spina nel fianco, visto che il made in Italy nel campo alimentare è il più copiato in assoluto;
    un'adeguata azione di sensibilizzazione dovrebbe riguardare, infatti, i mercati esteri, per abituare i consumatori stranieri a saper distinguere tra un vero prodotto italiano da uno di imitazione, ovvero da iniziative ingannevoli che richiamano l'italianità;
    un significativo ausilio in tal senso è sicuramente costituito dalla previsione di sistemi di etichettatura e tracciabilità capaci di rendere più trasparenti le varie fasi del processo produttivo in modo da raccontare la storia di un prodotto dalla scelta dei sistemi di coltivazione o di allevamento, alle diverse fasi di elaborazione, fino alla vendita al dettaglio;
    diventa essenziale conoscere, quale criterio di orientamento per l'acquisto dei consumatori, l'origine del prodotto che, nel caso dell'alimento, essendo in gioco un valore come quello della salute, assume il ruolo di garanzia di rango costituzionale;
    in tal senso appare urgente dare immediata attuazione alla legge 3 febbraio 2011, n. 4, recante «Disposizioni in materia di etichettatura e di qualità dei prodotti alimentari», attraverso l'emanazione dei decreti interministeriali di cui al comma 3 dell'articolo 4;
    occorre, altresì, promuovere un impegno in sede europea al fine di arrivare all'approvazione definitiva della proposta di regolamento sulla sicurezza dei prodotti di consumo che impone l'indicazione obbligatoria del Paese di vera produzione su una serie di beni importati da Paesi terzi (regolamento sul cosiddetto made in);
    per combattere la piaga delle imitazioni, dunque, è necessario coordinare l'attività dell'Italia con quella dell'Unione europea, ma anche con quella del World Trade Organization (WTO), cercando di superare problemi e resistenze;
    una delle criticità più evidenti è rappresentata dal fenomeno dell’italian sounding, che consiste nella commercializzazione di prodotti non italiani con l'utilizzo di nomi, parole e immagini che richiamano l'Italia, inducendo, quindi, ingannevolmente a credere che si tratti di prodotti italiani;
    più di recente si è diffusa una forma più raffinata di italian sounding, legale seppur nei fatti ingannevole: la tendenza a rilevare note aziende agroalimentari italiane, in modo tale che non soltanto il nome suoni italiano ma venga associato all'azienda che dal momento della sua nascita e per anni ha messo sul mercato il prodotto;
    l’italian sounding sottrae notevoli potenzialità alle esportazioni nazionali e, sconfinando raramente nell'illecito, risulta difficilmente perseguibile;
    a livello internazionale purtroppo la tutela dall’italian sounding e quella delle denominazioni di origine e dei prodotti di qualità in generale non ha registrato significativi passi avanti;
    la sempre maggior transnazionalità del fenomeno contraffattivo impone, quindi, un forte impegno, a livello europeo e internazionale, per giungere alla definizione di un quadro di regole comuni che risponda a principi di reciprocità ed efficacia;
    a livello nazionale, inoltre, occorre mantenere un fronte unitario, che veda coinvolti tutti gli attori istituzionali ed il mondo delle imprese, attraverso una più forte ed intensa collaborazione;
    la difesa delle produzioni tipiche non può prescindere, quindi, dal contrasto alla contraffazione e da un'informazione chiara e trasparente ai consumatori,

impegna il Governo:

   a valutare l'opportunità di rivedere la normativa vigente in materia di contraffazione, in particolare quella relativa ai prodotti agroalimentari, al fine di assicurare la trasparenza e la sicurezza in tutti i passaggi della filiera;
   a predisporre tempestive iniziative volte alla sensibilizzazione dei consumatori, con particolare riguardo all'attenzione per i prodotti da consumare, alla presa in considerazione dell'origine dei prodotti, alle modalità di produzione e alla conservazione degli alimenti;
   ad emanare i decreti interministeriali di cui al comma 3 dell'articolo 4 della legge 3 febbraio 2011, n. 4, recante «Disposizioni in materia di etichettatura e di qualità dei prodotti alimentari»;
   a promuovere in sede europea le opportune iniziative al fine di arrivare alla definitiva approvazione della proposta di regolamento sulla sicurezza dei prodotti di consumo (regolamento sul cosiddetto made in).
(1-00279)
«Faenzi, Russo, Catanoso, Fabrizio Di Stefano, Riccardo Gallo».
(9 dicembre 2013)

   La Camera
   premesso che,
    l’italian sounding e la contraffazione dei prodotti alimentari made in Italy provocano nel nostro Paese un ingente danno alle imprese e la perdita di migliaia di posti di lavoro;
    a quanto si apprende anche da organi di stampa il fatturato del falso made in Italy, compreso quello relativo al fenomeno dell’italian sounding, ha superato i 60 miliardi di euro nel solo agroalimentare;
    il danno per le possibili esportazioni del nostro Paese si evidenzia con particolare gravità soprattutto nei mercati emergenti, dove spesso il «falso» è più diffuso del «vero»;
    secondo quanto riportato dal rapporto Agromafie del 2013 si valuta che il giro d'affari della criminalità raggiunga i 14 miliardi di euro, con un incremento pari al 12 per cento rispetto a due anni fa. Si deve, infatti, tenere presente che proprio l'agricoltura e l'alimentare sono considerate oramai aree prioritarie di investimento dalla criminalità organizzata che, purtroppo, in molte zone controlla non solo la distribuzione, ma talvolta anche la produzione di diversi prodotti alimentari;
    la problematica coinvolge sia i prodotti italiani «generici» sia i prodotti ad indicazione geografica, è effettivamente molto complessa e ha diversi filoni lungo cui si sviluppa: la contraffazione vera e propria; i falsi prodotti a denominazione di origine protetta o a indicazione geografica protetta; i fenomeni imitativi di nomi per prodotti che nulla hanno a che vedere con i veri prodotti italiani (i cosiddetti italian sounding). Su tutti questi fronti è necessario intervenire in maniera coerente ed organica;
    in Europa, alcuni Paesi continuano a chiedere rigore in determinati settori, in particolare nelle politiche economiche e di bilancio. Non è, però, accettabile che l'Unione europea segua questa linea di condotta solo rispetto ad alcuni settori, mostrandosi, invece, distratta su altri. Il Governo ha il dovere di chiedere che sulla tutela della qualità e dell'origine dei prodotti si applichi lo stesso atteggiamento e il medesimo rigore che l'Europa richiede sulle politiche di bilancio. La qualità e la protezione dell'origine dei prodotti sono un patrimonio fondamentale per diversi Paesi europei e, in particolare, per il nostro Paese, per cui non è possibile accettare di sacrificare questa ricchezza e disperdere tale patrimonio;
    è necessario quindi che l'Unione europea garantisca il massimo impegno nella difesa e nel riconoscimento delle indicazioni geografiche italiane nell'ambito dei negoziati bilaterali e multilaterali a livello internazionale. Questa problematica dovrà essere considerata tra le priorità dell'Unione europea in sede negoziale;
    il sistema agroalimentare italiano, nonostante la contraffazione, garantirà nel 2013 un ulteriore incremento dell’export che crescerà dell'8 per cento, raggiungendo la cifra di 34 miliardi di euro. Si tratta di una fondamentale risorsa per il nostro Paese che deve essere tutelata adeguatamente. In particolare, ciò è possibile solo attraverso politiche ed interventi mirati a salvaguardare la promozione della qualità e della tracciabilità degli alimenti lungo tutta la filiera, fino al consumatore finale;
    appare necessario intervenire per rendere pubblici i riferimenti di quelle società che risultano eventualmente coinvolte in pratiche commerciali ingannevoli o comunque scorrette e finalizzate ad usare in maniera impropria il marchio made in Italy;
    in Europa continua a persistere un'impostazione che tende a ritenere incompatibile con le regole del mercato unico la difesa della qualità collegata in particolare all'individuazione e alla localizzazione della zona di origine del prodotto o delle parti qualificanti del suo processo produttivo. Infatti, ad eccezione delle regole che sono state fissate per alcuni settori e per le denominazioni di origine, per tutti gli altri prodotti si è preferito affermare un diverso principio, per cui l'indicazione obbligatoria è resa tale solo nel caso in cui la sua omissione possa indurre il consumatore in errore circa l'effettiva provenienza del prodotto alimentare, così come delineato dall'articolo 3 della direttiva 2000/13/CE. Principio confermato dal regolamento (UE) n. 1169/2011;
    appare necessario riflettere sulla necessità di superare tale impostazione, anche alla luce del fatto che tutelare l'origine del prodotto alimentare coincide, nel caso italiano, con la doverosa rivendicazione di tutela di un patrimonio enogastronomico e culturale unico al mondo;
    nella XVI legislatura è stata approvata dal Parlamento la legge 3 febbraio 2011, n. 4, sull'etichettatura, con la finalità di difendere e promuovere il sistema produttivo italiano, per il quale la qualità è una caratteristica fondamentale collegata intrinsecamente alle origini territoriali del prodotto, che proprio per questo legame indissolubile devono essere correttamente e chiaramente comunicate al consumatore. Sono state riscontrate, tuttavia, alcune difficoltà nella fase attuativa della richiamata legge per questioni essenzialmente legate alla compatibilità tra le stringenti disposizioni nazionali fortemente volute e condivise dalla grande maggioranza del Parlamento e le norme europee che invece prevedono, al riguardo, principalmente regimi facoltativi per salvaguardare il cosiddetto principio di libera circolazione delle merci e di libero mercato;
    appare necessario che il Governo italiano continui ad impegnarsi affinché questa dicotomia venga superata affermando in Europa il necessario rigore sulla tutela della «qualità» e dell’«origine»;
    ai fini di una maggiore tutela del consumatore e della prevenzione delle frodi, esiste la possibilità per un Paese membro dell'Unione europea di attuare le «ulteriori disposizioni» citate dall'articolo 39 del regolamento (UE) n. 1169/2011, in particolare, per ciò che attiene alla tutela delle denominazioni di origine controllate e delle indicazioni di provenienza dei prodotti agroalimentari, nonché alla repressione di fenomeni diffusi di concorrenza sleale;
    il 5 dicembre 2013, in sede europea, il Comitato permanente per la catena alimentare ha espresso il definitivo parere favorevole, anche grazie ad una forte sollecitazione del Governo italiano, sullo schema di regolamento di esecuzione, che implementa quanto disposto dal richiamato regolamento (UE) n. 1169/2011, dettando le prescrizioni sulle indicazioni obbligatorie in etichetta, rispetto all'origine e al luogo di provenienza per le carni suine, per il pollame e per le carni ovicaprine. In particolare, si stabilisce che l'indicazione «origine italia» può essere utilizzata solo se l'animale è nato, allevato e macellato in Italia;
    tuttavia, è necessario migliorare ed ampliare il quadro di trasparenza e rintracciabilità delle informazioni attraverso l'introduzione di norme chiare, semplici ed efficaci che consentano al consumatore un'immediata visibilità delle informazioni, in particolare per l'origine dei prodotti;
    in tal senso, le recenti norme introdotte dalla Commissione europea nel settore dell'olio di oliva, grazie anche all'incisiva attività di continua sensibilizzazione svolta dal Governo, sono da considerarsi un primo passo positivo nella direzione di una maggiore trasparenza e garanzia sulle informazioni e per l'origine,

impegna il Governo:

   a sollecitare la Commissione europea affinché, nel quadro di quanto stabilito nel regolamento (UE) n 1169/2011, l'Unione europea si doti di norme efficaci, rigorose, chiare e trasparenti in materia di origine dei prodotti, prevedendo l'obbligatorietà dell'indicazione dell'origine dei prodotti anche per quei settori attualmente non contemplati dalla regolamentazione vigente;
   a farsi promotore presso le sedi europee competenti di una decisa iniziativa in merito alla necessità che, nell'ambito dell'etichettatura dei prodotti agro-alimentari, venga garantita la massima trasparenza , chiarezza e comprensibilità delle informazioni, ivi compresa, in primo luogo, quella di origine;
   ad attivarsi affinché, a tutti i livelli, nazionale, comunitario e internazionale, si attivi una chiara e rigorosa politica di difesa delle produzioni italiane, al fine di contrastare con maggiore determinazione ed efficacia il fenomeno dell’italian sounding;
   ad adottare le opportune iniziative finalizzate ad una più intensa ed efficace politica della promozione e diffusione in Italia e all'estero dei prodotti agroalimentari italiani, con un incremento delle risorse finanziarie attualmente destinate e con una maggiore attenzione rivolta alla qualità dei prodotti, favorendo la semplificazione degli oneri burocratici per le imprese e per le amministrazioni.
(1-00280) «Dorina Bianchi, Bosco».
(9 dicembre 2013)

INTERROGAZIONI A RISPOSTA IMMEDIATA

   ZAN. — Al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo. — Per sapere – premesso che:
   la città di Padova ha nel suo territorio una moltitudine di luoghi di elevatissimo pregio artistico costituiti da una serie di cicli di affreschi trecenteschi di straordinaria importanza e qualità;
   nel comune di Padova esiste un sito Unesco, l'Orto botanico;
   i cicli di affreschi fanno capo a diversi soggetti proprietari: la Cappella degli Scrovegni, l'Oratorio di San Michele e Palazzo della Ragione di proprietà del comune di Padova, il Battistero del Duomo di proprietà della diocesi di Padova, cicli di affreschi nella Basilica del Santo e nell'Oratorio di San Giorgio proprietà della Pontificia Basilica del Santo, ciclo di affreschi di Guariento di proprietà dell'Accademia Galileiana di scienze, lettere ed arti, cicli di affreschi presso il Castello di proprietà dello Stato;
   questi cicli rappresentano un patrimonio figurativo di artisti di straordinaria importanza, come Giotto, Guariento, Giusto de’ Menabuoi, Altichiero, Jacopo da Verona;
   esiste una mozione del consiglio comunale per proporre l'inserimento della città di Padova nell'elenco dei siti Unesco per l'importanza e l'unicità dei siti affrescati trecenteschi;
   attualmente i cicli trecenteschi sono all'interno di una lista di osservazione di siti passibili di inserimento nel patrimonio Unesco;
   servono considerevoli risorse per mettere a punto un comune piano di gestione fra i diversi siti, che, di norma, è elemento fondamentale per il buon fine della domanda di inserimento –:
   cosa intenda fare il Ministro interrogato, anche in termini di finanziamenti, per sostenere l'iniziativa del comune di Padova e degli altri enti proprietari per l'inserimento della Cappella degli Scrovegni e di tutti i siti trecenteschi nei siti Unesco. (3-00533)
(8 gennaio 2014)

   ANDREA ROMANO. — Al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo. — Per sapere – premesso che:
   l'avvento del digitale e la rapida evoluzione della natura dei modelli di business legati all'odierna tecnologia hanno evidenziato la necessità di rivedere profondamente la normativa in vigore in materia dei diritti d'autore;
   tale necessità di modernizzazione ha investito anche la gestione dei diritti svolta da società di gestione collettiva per conto dei titolari dei diritti, ove si è progressivamente creato uno scollamento tra gli interessi dei titolari, degli utilizzatori e, più in generale, dei consumatori e la gestione dei proventi raccolti;
   poiché le società concedono licenze su diritti per conto di titolari dei diritti nazionali ed esteri, il loro funzionamento ha un impatto fondamentale sullo sfruttamento degli stessi in tutto il mercato interno;
   a livello europeo si nota una sensibile articolazione dei diversi modelli adottati in materia di copyright collecting society;
   la Siae è espressione di un monopolio di diritto, che tende a limitare, per mezzo di rapporti di esclusiva, la facoltà di autori o altri titolari dei diritti di svolgere autonome negoziazioni e di selezionare quale società di intermediazione e raccolta offra le condizioni più vantaggiose;
   i possibili vantaggi di una posizione monopolistica (e, di conseguenza, la presenza sul mercato di un unico operatore) sono ormai superati, ma a ciò deve poi aggiungersi il fatto che le collecting society agiscono per la realizzazione non di un proprio interesse, ma degli interessi dei propri iscritti e che, come sottolineato anche dalla Corte di giustizia, nell'analizzare il mercato in questione occorre considerare attentamente tutti i possibili interessi in gioco;
   non vi è alcuna sostanziale differenza tra le dinamiche del mercato dell'intermediazione dei diritti connessi di artisti, interpreti ed esecutori e quelle del mercato dei diritti degli autori: appare evidente che, stante l'omogeneità delle dinamiche di mercato nel settore dei diritti connessi ed in quello dei diritti d'autore, non si può «liberalizzare» un mercato e mantenere il monopolio su quello attiguo senza violare l'articolo 3 della Costituzione;
   maggiori, poi, sono le incompatibilità con il diritto comunitario sotto vari aspetti. Ad esempio, la violazione del diritto di stabilimento: la proposta di direttiva sulle collecting society e, ancor prima, la decisione Cisac della Commissione europea consentono alle società di gestione collettiva di operare anche al di fuori dei confini nazionali. Quindi, il divieto per una società di stabilirsi in Italia sarebbe in contrasto con il principio di libertà di stabilimento stabilita dal Trattato;
   allo stesso modo, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia, deve ritenersi che le collecting society non siano incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale e, quindi, non siano riconducibili al novero delle società per cui è giustificato un regime di monopolio secondo l'articolo 106 del Trattato;
   anche nella relazione del Parlamento europeo su «Un quadro comunitario per le società di gestione collettiva dei diritti d'autore» si afferma, a chiare lettere, l'urgenza di «rivedere le strutture monopolistiche esistenti e limitarle eventualmente a quei settori in cui sia stato dimostrato che non esiste alcuna alternativa per assicurare la necessaria tutela degli interessi degli autori»;
   infine, il settore delle collecting society spinge naturalmente verso la creazione di monopoli di fatto e non vi sarebbe ragione alcuna per assicurare questa situazione monopolistica ex lege. Una simile restrizione alla libertà di stabilimento risulterebbe una misura sproporzionata agli obiettivi che lo Stato intende perseguire –:
   se non intenda, ferme restando le valide competenze all'interno della Siae e l'importante know how maturato nel settore dell'intermediazione dei diritti d'autore, adottare iniziative normative tese all'abolizione dell'esclusiva stabilita ex articolo 180 della legge 22 aprile 1941, n. 633, sul diritto d'autore a favore della Siae, alla predisposizione di controlli effettivi sulla governance delle future società di gestione collettiva, alla fissazione dei requisiti minimi finalizzati alla costituzione di una collecting society. (3-00534)
(8 gennaio 2014)

   SCHIRÒ. — Al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo. — Per sapere – premesso che:
   i fatti recenti della storia del suolo italiano, dall'Umbria all'Emilia, senza scordare il Duomo di Noto e, prima di tutto, il devastante terremoto dell'Aquila, non avrebbero potuto essere affrontati senza la collaborazione tecnica dei funzionari del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e dei vigili del fuoco –:
   se non intenda prevedere nei prossimi interventi legislativi che i funzionari del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo che partecipano a operazioni di messa in sicurezza del patrimonio artistico/architettonico a fianco dei vigili del fuoco abbiano le stesso trattamento economico di questi ultimi, visto che sono esposti ai medesimi rischi e ne condividono le responsabilità. (3-00535)
(8 gennaio 2014)

   FORMISANO. — Al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo. — Per sapere – premesso che:
   il decreto-legge 8 agosto 2013, n. 91 (cosiddetto «Valore cultura»), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 ottobre 2013, n. 112, ha stanziato 105 milioni di euro per «salvare» Pompei;
   della cifra totale, 60 milioni di euro derivano dalla riprogrammazione dei fondi per la coesione, mentre i rimanenti 45 milioni di euro sono stati concessi dalla Commissione europea in seguito alle richieste italiane e alla definizione di un piano d'azione, concordato con l'Esecutivo europeo, nel quale si è accertata l'entità dei lavori necessari per la «riabilitazione» di Pompei;
   i soldi messi a disposizione non sono a fondo perduto: o l'Italia sarà in grado di spenderli correttamente e nei tempi prescritti o saranno allocati altrove, lasciando il Paese con l'umiliazione della revoca subita;
   il termine ultimo perentorio per il totale utilizzo dei 105 milioni di euro cofinanziati dalla Commissione europea è il 30 giugno 2015;
   solo di recente è stato nominato, dopo inspiegabili ritardi, il direttore generale del progetto «Grande Pompei» nella persona del generale dell'Arma dei carabinieri Giovanni Nistri;
   intanto, però, si registrano ancora crolli nelle strutture del sito archeologico –:
   quali iniziative il Ministro interrogato intenda prendere per dare piena attuazione al progetto «Grande Pompei», assicurando che i soldi destinati al progetto stesso vengano spesi nei tempi previsti, senza, quindi, ulteriori ritardi, in modo da salvare realmente un bene unico per l'umanità quale il sito di Pompei.
(3-00536)
(8 gennaio 2014)

   RAMPELLI. — Al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo. — Per sapere – premesso che:
   il comune di Roma ha definanziato il Teatro dell'Opera di Roma, concorrendo a determinare il mancato pareggio di bilancio del medesimo e causando, di conseguenza, sia una grave riduzione di personale, sia la drastica riduzione degli stipendi di coloro che riusciranno a conservare il posto;
   il Teatro dell'Opera di Roma subirà, quindi, un'inevitabile riduzione della produzione artistica e della qualità della stessa – dalla quale trarrà, invece, un evidente beneficio Santa Cecilia – che distruggerà il rilancio artistico e culturale del Teatro dell'Opera di Roma realizzato negli ultimi anni;
   nel mese di dicembre 2013 il sindaco Marino ha nominato a soprintendente del Teatro dell'Opera di Roma Carlo Fuortes, con il parere favorevole del consiglio d'amministrazione della stessa istituzione, nel quale siedono anche rappresentanti del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo;
   Fuortes è attualmente anche amministratore delegato della Fondazione «Musica per Roma», che ha tra i suoi soci Santa Cecilia (istituzione rientrata a scapito dell'Opera nel ristretto elenco delle istituzioni culturali virtuose), nonché commissario del Teatro Petruzzelli di Bari;
   ricoprendo tre incarichi Fuortes somma anche le tre indennità, divenendo, a scapito di tutti i propositi di contenimento della spesa nel settore culturale, un vero e proprio supermanager, fatto ancor più grave se si considera che tra il suo incarico presso la Fondazione «Musica per Roma» e quello di soprintendente al Teatro dell'Opera a parere dell'interrogante esiste un evidente conflitto di interessi, oltre al fatto che si viene a creare una forma di concorrenza sleale verso il settore privato –:
   se non ritenga opportuno, nell'ambito delle proprie competenze, intervenire a tutela del Teatro dell'Opera di Roma, salvaguardandone il personale e promuovendo ogni verifica utile in ordine all'effettiva situazione del bilancio dello stesso ente, nonché a quanto ammonti nel totale l'indennità percepita da Fuortes.
(3-00537)
(8 gennaio 2014)

   CRISTIAN IANNUZZI, DELL'ORCO, NICOLA BIANCHI, DE LORENZIS, CATALANO, PAOLO NICOLÒ ROMANO e LIUZZI. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   il 2 gennaio 2014 il Ministro interrogato e il Ministro dell'economia e delle finanze, Maurizio Saccomanni, hanno firmato un decreto che introduce un aumento dei pedaggi autostradali;
   suddetto incremento è stimabile intorno ad una percentuale media pari al 3,9 per cento, a fronte di una richiesta da parte delle concessionarie autostradali del 4,8 per cento;
   i rincari delle tariffe autostradali approvati presentano in alcuni casi incrementi superiori all'8 per cento, come, ad esempio, nel caso relativo alla Strada dei Parchi (A24-A25), dove viene autorizzato un incremento dell'8,28 per cento;
   oltre al caso sopra menzionato, i maggiori rincari riguardano: Autostrade per l'Italia, con un 4,43 per cento, Centropadane, con un 8,01 per cento, Cisa (A15)con un 6,26 per cento, Autovie venete, con un 7,17 per cento, Milano Serravalle e Milano tangenziali, con un 4,47 per cento, Rav (Raccordo autostradale Valle d'Aosta), con un 5 per cento, Sat (Società autostrada tirrenica), con un 5 per cento, Satap A4, tronco Novara est-Milano/Torino-Novara est, con un 5,27 per cento, Sav (Autostrade valdostane) autostrada e raccordo, con un 5 per cento, e Cav-A4 Venezia-Padova, tangenziale ovest Mestre e raccordo con Aeroporto Marco Polo e Passante Mestre, con un 6,26 per cento;
   l'Adusbef e la Federconsumatori hanno stimato, in seguito all'aumento dei pedaggi, un aggravio di 87 euro a famiglia tra costi diretti e indiretti, rimarcando come tali aumenti siano di gran lunga superiori al tasso di inflazione e come questi ultimi rischino di avere ripercussioni pesanti su tutti i prezzi;
   sempre da indiscrezioni di stampa si apprende che le percentuali eccedenti non accolte in suddetto decreto potrebbero essere inserite nel nuovo piano quinquennale dei piani finanziari delle autostrade, comportando, così, per il 2014 un rincaro medio dei pedaggi stimabile non più al 3,9 per cento, bensì direttamente al 4,8 per cento;
   le società concessionarie e il Ministro interrogato giustificano tale incremento addebitando la responsabilità al calo di traffico registrato sulle tratte interessate;
   oltre ai pedaggi autostradali, nel 2014, sono previsti rincari anche per il rinnovo della patente e per la stipula delle assicurazioni, oltre ad un incremento dei prezzi del carburante. Secondo una stima elaborata dal Codacons, a partire dal 9 gennaio 2014, il costo per il rinnovo della patente salirà di almeno 26 euro, il prezzo della benzina, secondo le rilevazioni di Staffetta quotidiana, è salito in media di 1,3 centesimi rispetto all'inizio del 2013 e anche quello del gpl è schizzato di 4,2 centesimi, il metano è aumentato di 0,3 centesimi (contrariamente a quanto avvenuto sui mercati internazionali dove si sono registrate soltanto flessioni: -2,2 centesimi al litro per la verde e -1,7 centesimi per il diesel) e, infine, secondo le rilevazioni del portale Facile.it, quasi un milione e 200 mila italiani, responsabili di un incidente nel corso dell'ultimo anno, dovranno pagare un premio assicurativo più elevato –:
   quali iniziative intenda adottare il Ministro interrogato al fine di scongiurare il rischio di un ulteriore aumento delle tariffe autostradali, atteso che i rincari tariffari difficilmente garantiranno dei flussi di traffico maggiori rispetto a quelli attuali e, anzi, rischiano di peggiorare la situazione, costringendo ad un nuovo futuro incremento delle stesse, e che tali aumenti non sono realmente giustificati da un miglioramento del servizio, né da adeguati interventi strutturali. (3-00538)
(8 gennaio 2014)

   GIANCARLO GIORGETTI, MOLTENI, GRIMOLDI, ALLASIA, BORGHESI, BOSSI, MATTEO BRAGANTINI, BUONANNO, BUSIN, CAON, CAPARINI, FEDRIGA, GUIDESI, INVERNIZZI, MARCOLIN, GIANLUCA PINI, PRATAVIERA e RONDINI. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   dal 1o gennaio 2014 sono scattati gli incrementi dei pedaggi delle tratte autostradali nazionali;
   secondo quanto dichiarato dal Ministro interrogato ai mass media, si tratta di un incremento medio che sarebbe «contenuto» al 3,9 per cento sul territorio nazionale, contro una media di quanto richiesto dalle stesse società concessionarie pari al 4,8 per cento;
   in realtà, gli aumenti tariffari hanno creato inaccettabili discriminazioni sul territorio nazionale, comportando al Nord incrementi dei pedaggi anche dell'11,5 per cento sulla A9 tra Milano e Como, del 7,17 per cento sull'A4 tra Venezia a Trieste e sull'A28 tra Portogruaro e Pordenone, del 6,26 per cento sull'A15 della Cisa, del 6,26 per cento sul Passante di Mestre, del 4,43 per cento sulla A31 tra Rovigo e Padova o sulla A27 tra Venezia e Longarone, contro incrementi dello 0 per cento sulle autostrade del Sud, come quelle del Consorzio autostrade siciliane Messina-Catania, del Consorzio autostrade siciliane Messina-Palermo o delle Autostrade meridionali (Sam);
   inoltre, continua la totale assenza di pedaggi sulle autostrade e raccordi gestiti dall'Anas spa, come l'A90 Grande raccordo anulare di Roma, l'A91 Roma-aeroporto Fiumicino, l'A19 Palermo-Catania, l'A18 diramazione di Catania, il RA 15 tangenziale ovest di Catania, l'A3 Salerno-Reggio Calabria; i costi del mancato pedaggio su tali autostrade ricade sulla fiscalità generale e viene pagato, soprattutto, dai contribuenti del Nord, che maggiormente concorrono alla finanza statale;
   proprio per la Salerno-Reggio Calabria, con la legge di stabilità per il 2014 sono stati stanziati ulteriori 340 milioni di euro, non riuscendo comunque a rispettare il termine del dicembre 2013 per la chiusura dei cantieri, nonostante i 50 anni trascorsi dall'inizio dei lavori;
   dalle interviste del presidente dell'Anas sulla stampa si apprende che ci sono ancora 58 chilometri della Salerno-Reggio Calabria da finanziare per i quali servono oltre 3 miliardi di euro, che si aggiungono ai 7,4 miliardi di euro finanziati fino ad oggi;
   per i pendolari del Nord, che si sentono vessati da rincari insopportabili dei pedaggi, risulta inaccettabile che un'infrastruttura come la Salerno-Reggio Calabria continui ancora ad essere senza pedaggio;
   gli aumenti dei pedaggi autostradali si aggiungono ad altri aumenti fiscali disposti dal Governo e mettono in crisi le famiglie e le imprese, soprattutto quelle degli autotrasportatori;
   le autostrade del Nord, come l'Autostrada dei laghi-A9, sono autostrade dove si veicola ricchezza e produzione che maggiormente contribuiscono al prodotto interno lordo nazionale; l'aumento dei pedaggi, di 3 volte superiore alla media nazionale, penalizza e discrimina i lavoratori pendolari e rischia di essere un fattore di freno per lo sviluppo del Paese;
   agli aumenti dei pedaggi si sommano gli incrementi nei costi di produzione dei servizi, come gasolio e assicurazioni, e determinano un aumento generale del costo del trasporto delle merci in Italia che si presenta come quello più alto in Europa, superando abbondantemente la soglia di 1,5 euro per chilometro, mettendo in crisi la competitività del Paese;
   occorre rivedere il meccanismo che regola l'incremento dei pedaggi, anche allo scopo di incentivare l'aumento del numero degli utenti delle autostrade, attualmente diminuito a seguito della crisi economica, e studiare sistemi di sconti o abbonamenti per residenti, pendolari e autotrasportatori;
   l'attuale sistema di regolazione degli aumenti delle tariffe autostradali attraverso il meccanismo di price cup, basato su parametri come l'inflazione programmata, il tasso di produttività attesa o la qualità del servizio, permette aumenti strettamente legati agli investimenti dei concessionari, creando un automatismo degli incrementi dei pedaggi che non è più sopportabile dagli utenti –:
   quali iniziative il Ministro interrogato intenda assumere perché siano rivisti gli eccessivi incrementi dei pedaggi che si sono registrati in alcune autostrade del Nord Italia e perché sia garantita una maggiore equità sui costi di percorrenza delle tratte autostradali tra il Nord e il Sud del Paese, anche rivedendo l'attuale sistema di regolazione degli aumenti delle tariffe autostradali e proponendo sistemi di sconti o abbonamenti per residenti, pendolari e autotrasportatori. (3-00539)
(8 gennaio 2014)

   BERGAMINI e PALESE. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   dal 1o gennaio 2014 sono scattati i rincari delle tariffe autostradali approvati con decreti interministeriali dei Ministeri delle infrastrutture e dei trasporti e dell'economia e delle finanze, con un aumento medio pari al 3,9 per cento;
   vige in Italia un anacronistico meccanismo che prevede l'adeguamento automatico dei pedaggi autostradali all'inizio di ogni anno, a prescindere dagli investimenti attuati dalle società concessionarie;
   la crisi economica che il Paese sta attraversando ha già creato numerosi incidenti e proteste. In particolare, nel dicembre 2013, il movimento dei cosiddetti forconi ha messo in difficoltà anche le organizzazioni tradizionali dell'autotrasporto;
   gli aumenti delle tariffe autostradali rischiano di dare nuovi argomenti a coloro che guidano la protesta e peseranno in modo consistente sulla categoria degli autotrasportatori e su quella dei pendolari;
   il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti vorrebbe ora introdurre forme di abbonamento che servirebbero a ridurre l'impatto degli aumenti di circa il 20 per cento. Secondo stime di Confcommercio, tale operazione costerebbe, solo per coprire il settore dell'autotrasporto, circa 20 miliardi di euro. Se la facilitazione venisse estesa, come è giusto, anche ai pendolari che utilizzano l'auto per recarsi al lavoro e a tutti coloro che utilizzano l'autovettura per la propria attività, la cifra sarebbe molto più alta. Tuttavia, il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti non ha fornito dettagli sulle coperture finanziarie di un'operazione tanto costosa;
   gli aumenti dei pedaggi e dei costi di produzione dei servizi hanno reso, nel nostro Paese, il costo del trasporto delle merci su strada il più alto d'Europa, andando oltre la soglia di 1 euro e 50 centesimi per chilometro;
   negli ultimi 15 anni il settore dell'autotrasporto ha mantenuto un andamento costante, a differenza degli altri principali Paesi europei e di quelli di più recente ingresso nell'Unione europea, che stanno evolvendo a ritmi incalzanti;
   la società Autostrade per l'Italia permette, in alcuni casi, che il pedaggio dovuto non venga corrisposto, interamente o in parte: il mancato pagamento dà luogo all'emissione di un rapporto (attestato di transito/scontrino) di mancato pagamento, direttamente ai caselli o con lettera di sollecito inviata a mezzo postale, che è possibile pagare anche on line, così come previsto per i mancati pagamenti dovuti all'assenza di documentazione del casello di entrata, la cui attestazione può essere sostituita da un'autocertificazione;
   la procedura adottata da Autostrade per l'Italia prevede che tale pagamento debba essere effettuato entro e non oltre 15 giorni dalla data del transito e che, trascorsi i quali, l'importo venga maggiorato degli oneri di accertamento e, in caso di mancato pagamento di quanto dovuto, venga attivata la procedura di recupero forzoso del credito;
   tali mancati pagamenti sono molto frequenti e la procedura di recupero forzoso spesso non viene applicata, soprattutto nel caso in cui l'utente risieda e abbia la propria attività fuori dal territorio nazionale –:
   quali siano stati i motivi che hanno indotto il Governo a non rinegoziare preventivamente i contratti con i concessionari della rete autostradale, permettendo, invece, che gli aumenti dei pedaggi fossero nuovamente e automaticamente applicati – tanto più in questo momento di crisi economica e a fronte dell'incapacità della società Autostrade per l'Italia di rientrare in possesso di pagamenti dovuti e non pagati – a scapito di tutti quei cittadini che devono, invece, sostenere continui aumenti di spesa per poter esercitare il loro diritto alla mobilità. (3-00540)
(8 gennaio 2014)

   MARTELLA, MARIANI, BORGHI, TULLO, ARLOTTI, MARIASTELLA BIANCHI, BRAGA, BRATTI, CARRESCIA, COMINELLI, DALLAI, DECARO, GADDA, GINOBLE, TINO IANNUZZI, MANFREDI, MARRONI, MAZZOLI, MORASSUT, MORETTO, GIOVANNA SANNA, ZARDINI, BONACCORSI, BRANDOLIN, BRUNO BOSSIO, CARDINALE, CARELLA, CASTRICONE, COPPOLA, CRIVELLARI, CULOTTA, FERRO, GANDOLFI, PIERDOMENICO MARTINO, MAURI, MOGNATO, MURA, PAGANI, PAOLUCCI, ROTTA, VELO, ROSATO e DE MARIA. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   dal 1o gennaio 2014 si registrano forti rincari dei pedaggi autostradali, con un incremento medio delle tariffe del 3,9 per cento, con punte dell'8,28 per cento (Strada dei parchi), del 12,9 per cento (nell'autostrada Venezia-Trieste) e del 15 per cento (autostrada Torino-Aosta);
   gli aumenti risultano ben superiori al tasso di inflazione, dell'1,3 per cento, in media, nel 2013, uno dei valori più bassi degli ultimi anni; il rincaro dei pedaggi contrasta anche con l'andamento della domanda: il traffico autostradale è in netto calo negli ultimi sei anni;
   l'aumento dei pedaggi si aggiunge a rincari dell'ordine del 16,7 per cento nell'ultimo quinquennio, contestualmente alla grave crisi economica e all'aggravio della pressione fiscale, con un andamento prociclico delle tasse, delle tariffe e dei prezzi amministrati;
   tali incrementi rischiano di ripercuotersi negativamente sui pendolari e sul tessuto produttivo del Paese, con conseguenti aumenti dei costi su materie prime e prodotti finiti, rischiando di compromettere i timidi segnali di ripresa che si intravedono;
   secondo le stime di Adusbef e Federconsumatori l'aumento dei pedaggi determina – direttamente e indirettamente – un aggravio di 87 euro all'anno a famiglia; ancora più grave l'impatto dell'aumento dei pedaggi, e, quindi, dei prezzi di trasporto sul sistema produttivo, sui servizi e sulla competitività dell'intero Paese;
   l'incremento dei pedaggi, insieme all'aumento del gasolio e del costo di produzione dei servizi connessi al trasporto delle merci – come le assicurazioni –, ha pesanti ricadute sul costo del trasporto delle merci; in Italia – ad oggi – il costo su strada delle merci, ben superiore alla soglia di 1,5 euro a chilometro, è il più alto d'Europa; le conseguenze di tali aumenti sono amplificate dalle modalità di trasporto delle merci – in Italia essenzialmente su gomma –, dalla distanza tra i mercati di sbocco e di approvvigionamento, tra i luoghi di produzione e i mercati, dall'elevata perifericità dei sistemi locali; pesante l'aggravio di costi anche per i pendolari, già penalizzati dalla grave inefficienza di collegamenti modali – come le ferrovie – alternativi alla mobilità su gomma;
   la delibera CIPE n. 30 del 19 luglio 2013, pubblicata sulla Gazzetta ufficiale del 19 dicembre 2013, in materia di requisiti di solidità patrimoniale delle concessionarie autostradali, nell'allegato che integra la delibera n. 39 del 2007 sulla regolazione economica del settore autostradale, dispone l'obbligo per le imprese concessionarie del servizio autostradale di adeguare l'indice di solidità patrimoniale – dato dal rapporto tra il flusso di cassa operativo disponibile per il servizio del debito ed il servizio del debito medesimo – quando questo sia inferiore al valore minimo richiesto pari a 1,2, pena la decadenza della concessione;
   il riequilibrio di tale indice può avvenire tramite aumenti di capitale – o forme equivalenti, quali versamenti in conto aumenti di capitale – ad incremento del flusso di cassa disponibile per il servizio del debito;
   tra le operazioni atte a ridurre l'eventuale esposizione debitoria del concessionario non possono essere ricompresi interventi diretti ad incidere sui profili tariffari, salvo che siano autorizzati con la procedura di rito, e solo in presenza delle condizioni previste in convenzione;
   appare necessario definire un sistema di adeguamento delle tariffe autostradali vincolato agli investimenti effettivamente realizzati dai concessionari;
   è essenziale rendere trasparenti i meccanismi di adeguamento delle tariffe e i rapporti contrattuali stipulati in passato tra lo Stato e le concessionarie, che gestiscono in regime di monopolio infrastrutture essenziali come le autostrade; è, altresì, urgente garantire più stringenti controlli di gestione, in particolare per evitare ingiustificati aumenti tariffari –:
   quali iniziative intenda assumere per contrastare tali rincari e per ridurre le conseguenze dell'aumento dei pedaggi sulle imprese di trasporto, sui pendolari, sul sistema produttivo, sui consumatori, anche tenuto conto dell'esigenza di garantire l'effettiva e tempestiva realizzazione degli investimenti sulla rete autostradale e di migliorare l'efficienza, la rapidità e la qualità dei collegamenti e del servizio di trasporto. (3-00541)
(8 gennaio 2014)

   DORINA BIANCHI, PISO e GAROFALO. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
   dal 1o gennaio 2014 sulla rete autostradale in concessione sono stati applicati gli incrementi tariffari stabiliti con decreti del Ministro interrogato, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze. L'incremento medio applicato è pari a circa il 3,9 per cento, contro una media di quanto richiesto dalle stesse società pari al 4,8 per cento;
   per alcune tratte sono stati riconosciuti incrementi superiori all'8 per cento e, in alcuni casi, si sono verificati aumenti al casello fino al 14 per cento;
   in relazione ai provvedimenti assunti, il Ministro interrogato ha dichiarato che gli aggiornamenti tariffari sono stati stabiliti, in via automatica, sulla base delle procedure definite negli atti convenzionali autostradali e che, in presenza di incrementi particolarmente onerosi sotto il profilo sociale, è stato fissata una limitazione rispetto alla tariffa d'equilibrio. La riduzione tariffaria applicata sarà compensata in sede di futuro aggiornamento quinquennale dei piani finanziari;
   in realtà è giusto chiedersi: se, in considerazione della perdurante crisi economica, risultasse necessario procedere all'aggiornamento delle tariffe autostradali alla data del 1o gennaio 2014 nella misura definita dai decreti interministeriali; se corrispondesse al vero che gli incrementi tariffari fossero quantificati automaticamente e secondo quali criteri; quali fossero i parametri che concorrono oggettivamente all'incremento delle tariffe e se questi fossero stati verificati –:
   se il Ministro interrogato, come anticipato, intenda attuare una semplificazione della regolamentazione tariffaria per il settore autostradale, adottando le iniziative anticipate finalizzate alla gestione dei pedaggi. (3-00542)
(8 gennaio 2014)