TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 132 di Giovedì 5 dicembre 2013

 
.

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE IN MERITO ALLA DISMISSIONE DEL PATRIMONIO IMMOBILIARE DEGLI ENTI PREVIDENZIALI

   La Camera,
   premesso che:
    l'emergenza abitativa costituisce, nell'attuale crisi economica che colpisce il Paese, uno dei fattori di maggiore e crescente tensione sociale che interessa larghi strati della popolazione appartenenti, oltre che alle tradizionali categorie a rischio, anche a fasce di ceto medio, professionisti e famiglie con doppio reddito;
    tale situazione è resa particolarmente acuta dai caratteri del mercato immobiliare italiano dove l'offerta di abitazioni private – con costi molto alti ed inaccessibili per un numero sempre maggiore di famiglie e di giovani coppie – supera largamente l'offerta pubblica scesa progressivamente, negli ultimi anni, ad una quota pari a circa l'1 per cento della produzione edilizia totale;
    occorre prendere atto di un'assenza di iniziativa delle autorità pubbliche che, nonostante la crescita della crisi abitativa, gli interventi delle forze sociali e di vari organismi parlamentari non sono stati in grado, negli ultimi anni, di varare un'organica politica per la casa che, intrecciata con innovative politiche di governo del territorio, fosse in grado di rilanciare la produzione di edilizia a fini sociali o di carattere pubblico con il recupero urbano ed il contenimento del consumo di suolo nelle città;
    la Corte costituzionale e la Corte europea dei diritti dell'uomo hanno, in questo quadro, segnalato l'inopportunità di provvedimenti «tampone» – soprattutto in materia di proroga delle ordinanze di sfratto – che ledono il libero dispiegarsi del diritto alla proprietà, in assenza di azioni organiche e complessive capaci di dare una risposta d'insieme ai vari aspetti che riguardano il problema dell'emergenza abitativa in Italia e, d'altro canto, si deve tenere presente che il diritto alla casa e l'accesso alla proprietà della stessa sono sanciti dall'articolo 47 della Costituzione;
    parte rilevante della crisi abitativa, specie in alcuni ambiti territoriali e segnatamente nella città di Roma, è legata alla dismissione del patrimonio abitativo degli enti previdenziali pubblici e privatizzati; processo che ancora oggi – dopo le alienazioni concluse negli anni precedenti – riguarda circa 100 mila famiglie;
    in questo ambito, gli affittuari degli immobili degli enti previdenziali privatizzati vivono una condizione di preoccupazione circa gli eventuali aumenti dei canoni di affitto per il rinnovo dei contratti di locazione e per le conseguenze connesse con i possibili processi di dismissione del patrimonio immobiliare;
    per quanto riguarda i conduttori degli immobili degli enti previdenziali pubblici, la preoccupazione deriva dall'interruzione del processo di alienazione e dalla scadenza dei contratti che mette sia i conduttori con titolo che le tante famiglie di occupanti sine titulo in una condizione di angoscia e incertezza tanto più assurda in presenza di una legge – la n. 410 del 2001 – che ha fissato con chiarezza le condizioni e le prerogative con cui agire per la vendita del patrimonio degli enti previdenziali pubblici;
    in questo specifico caso, va ricordato che già il 90 per cento del patrimonio abitativo è stato alienato ai conduttori con le prerogative della suddetta legge e attraverso l'azione di specifici soggetti societari all'uopo costituiti – Scip 1 e Scip 2 –, dopo lo scioglimento dei quali il patrimonio residuo è entrato integralmente in possesso dell'Inps;
    l'Inps stesso, più volte sollecitato sul tema ha inviato, anche con specifica lettera del presidente Mastrapasqua, ai Ministeri dell'economia e delle finanze e del lavoro e delle politiche sociali – vigilanti sull'Istituto – richiesta di chiarimento sul da farsi, in ragione anche della sopravvenuta norma sulla dismissione del patrimonio immobiliare pubblico presente all'articolo 27 del cosiddetto «decreto Salva Italia», decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011;
    appare, pertanto, urgente un pronunciamento degli organi parlamentari e del Governo sulle modalità con cui affrontare, in un quadro di sostenibilità economica dello Stato e degli enti sopra richiamati, ma anche e soprattutto di tutela e garanzia sociale delle famiglie interessate, il processo di alienazione degli immobili del patrimonio abitativo degli enti pubblici e privatizzati, evitando il rischio di accentuare l'emergenza abitativa,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative, nel più breve tempo possibile, per chiarire il quadro normativo che regola il processo di alienazione del patrimonio immobiliare degli enti previdenziali, in particolare precisando che, in ogni caso, al processo di alienazione possa applicarsi una disciplina conforme a quella prevista dalla legge n. 410 del 2001, con riferimento al regime delle tutele degli inquilini, al prezzo e alle garanzie, contemperando le esigenze di redditività per la finanza pubblica dei processi di alienazione con quelle sociali, coerenti con quelle che ispirano la missione istituzionale di tali enti, quali protagonisti del sistema del welfare;
   ad intervenire per garantire, comunque, agli inquilini tutele e garanzie di controllo sui prezzi di vendita da parte dei predetti enti pubblici e sull'entità dei canoni di affitto in rinnovo di locazione, traendo prioritario riferimento da quanto stabilito dalla legge n. 410 del 2001 e dagli accordi sindacali in materia, in modo che i diritti in essa stabiliti siano effettivamente praticabili;
   ad aprire in ogni caso da subito, sempre relativamente al patrimonio immobiliare degli enti pubblici, una sede di confronto tecnico e sindacale con le organizzazioni sindacali, dell'inquilinato e con gli enti locali interessati, per individuare le soluzioni più rapide e socialmente efficaci per raggiungere gli obbiettivi sopra richiamati e per la regolarizzazione dei sine titulo o delle assegnazioni irregolari negli alloggi dei predetti enti previdenziali pubblici, anche al fine di prevenire situazioni esplosive di disagio sociale e per favorire l'accesso al credito delle famiglie con reddito medio basso, con mutui sostenibili e finalizzati all'acquisto, anche avvalendosi delle recenti misure proposte in tal senso dal Governo;
   ad impartire disposizioni affinché, nelle more dei provvedimenti da assumere, venga valutata la possibilità di differire l'esecuzione degli sfratti o degli sgomberi pendenti nelle aree urbane e sospendere le aste riguardanti le unità immobiliari ad uso residenziale che non risultino effettivamente libere;
   ad intervenire, anche mediante precise disposizioni normative, per risolvere l'annosa vicenda del contenzioso giudiziario dei cosiddetti immobili di pregio;
   a farsi promotore, quanto al patrimonio degli enti privatizzati, di una decisa iniziativa presso i medesimi enti che, nel richiamarli alle responsabilità che anche essi rivestono quali attori del sistema sociale, sia volta a favorire, nel rispetto e nell'ambito della loro autonomia gestionale, organizzativa e contabile – avvalendosi anche di apposite procedure di negoziazione con le organizzazione sindacali degli inquilini – politiche di gestione del mercato delle locazioni e dei processi di dismissione immobiliare (prevedendo eventualmente anche l'alienazione in favore dei conduttori delle unità abitate). Le politiche in questione dovranno ispirarsi a criteri di tutela e salvaguardia, in ogni caso, dei nuclei familiari che presentino condizioni di maggiore svantaggio e disagio economico, ovvero che siano a rischio di esclusione sociale, così come individuati dal decreto-legge 20 ottobre 2008, n. 158, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2008, n. 19. Le medesime politiche dovranno, più in generale, ispirarsi a criteri che, nel rispetto della funzione di garanzia economico-finanziaria che il loro patrimonio assume per le rispettive gestioni previdenziali, siano quanto più aderenti a quelli di carattere sociale previsti per la dismissione del patrimonio immobiliare degli enti pubblici di previdenza;
   a monitorare che i processi di dismissione immobiliare degli enti previdenziali pubblici e privatizzati, ispirati ai principi sociali di cui alla presente mozione, siano conformi ai criteri di piena trasparenza, conoscibilità e rendicontazione.
(1-00011)
(Nuova formulazione) «Morassut, Saltamartini, Antimo Cesaro, Di Gioia, Santerini, Argentin, Braga, Villecco Calipari, Martella, Meta, Coscia, Realacci, Peluffo, Lenzi, Brandolin, Costa, Leone, Misuraca, Dorina Bianchi, Piso, Garofalo, Bernardo, Bosco, Tinagli, Zanetti, D'Agostino, Sottanelli, Cimmino, Binetti, Rabino, Causin, Fitzgerald Nissoli, Monchiero, Schirò, Dellai, Marazziti».
(27 marzo 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    all'interpellanza urgente n. 2-00062, presentata dalla firmataria del presente atto di indirizzo e discussa nella seduta n. 22 del 23 maggio 2013, alla quale ci si riporta integralmente, ha risposto in rappresentanza del Governo il Sottosegretario di Stato per il lavoro e le politiche sociali, Carlo Dell'Aringa;
    la risposta non ha soddisfatto l'interpellante e, per tali motivi, è stata presentata la presente mozione ex articolo 138, comma 2, del regolamento della Camera dei deputati;
    sul corretto inquadramento normativo degli enti previdenziali trasformati in associazioni e fondazioni di diritto privato, ai sensi del decreto legislativo n. 509 del 1994, il Sottosegretario di Stato ha sostenuto che tali questioni: «coinvolgono profili decisionali che esulano dalle competenze del solo Ministero che rappresento, in quanto coinvolgono, talora perlomeno, scelte che spettano al Governo nella sua collegialità»; sarebbe opportuno avere notizie in merito alla posizione che il Governo assumerà in relazione ai profili di illegittimità costituzionale sollevati dalla prima firmataria del presente atto di indirizzo e, in particolare, sul comportamento normativo da far applicare a tali soggetti;
    il Sottosegretario di Stato, nel giustificare il comportamento degli enti e quella che alla firmataria del presente atto di indirizzo appare la negligenza del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, ha sostenuto in Aula che: «le disposizioni del decreto legislativo n. 509 del 1994 non hanno subito fino ad oggi alcuna modifica e sono tuttora pienamente operanti, nonostante nel tempo si siano moltiplicate le spinte del legislatore a incrementare il complesso dei vincoli finanziari e amministrativi imposti alle gestioni, attraendo nell'orbita della finanza pubblica anche le casse private di previdenza, sulla scorta della loro inclusione nell'elenco ISTAT di individuazione delle amministrazioni pubbliche (...). D'altra parte, (...) alcune iniziative hanno invece contribuito a rafforzare proprio l'autonomia riconosciuta agli enti previdenziali privatizzati, salvaguardando gli equilibri delle gestioni, in funzione – questo è importante – dell'autosostenibilità di lungo periodo (...)»;
    è vero che con il decreto legislativo n. 509 del 1994 gli enti previdenziali sono stati trasformati in associazioni o in fondazioni con deliberazione dei competenti organi, ma ad una precisa condizione: che non usufruissero più di finanziamenti o altri ausili pubblici di carattere finanziario (articolo 1 del decreto legislativo n. 509 del 1994), condizione che è stata a giudizio della prima firmataria del presente atto di indirizzo palesemente violata. È opportuno ricordare che tali enti non hanno rispettato le condizioni imposte dalla legge;
    sono enti che sussistono senza scopo di lucro, ma nella realtà quotidiana si comportano come qualsiasi società con l'unica finalità di monetizzare e speculare sul patrimonio immobiliare e sugli stessi inquilini, utilizzando quel patrimonio che negli anni era stato acquistato con danaro pubblico e che aveva una finalità ben precisa: quella di tutelare l'emergenza abitativa;
    la stessa Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture nella segnalazione, approvata dal consiglio nella seduta del 26 gennaio 2011, e depositata il successivo 3 febbraio 2013, rafforza giuridicamente quanto illustrato, affermando che la contribuzione obbligatoria di tipo solidaristico, posta a carico degli iscritti, realizza una forma indiretta di concorso finanziario dello Stato; eppure, è lo stesso decreto legislativo n. 509 del 1994 che prevede che non sono consentiti finanziamenti pubblici diretti o indiretti;
    inoltre, è lo stesso allegato III della direttiva 2004/18/CE (modificabile solo seguendo la procedura all'uopo stabilita) ad elencare, in via non limitativa, gli organismi e le categorie di organismi di diritto pubblico, includendo espressamente in tale novero gli enti che gestiscono forme obbligatorie di previdenza e assistenza;
    quanto alla legge 23 agosto 2004, n. 243, articolo 1, comma 38, norma definita di interpretazione autentica, con cui il legislatore aveva escluso dalla dismissione di cui al decreto legislativo 16 febbraio 1996, n. 104, gli enti di cui al decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509, la Corte di cassazione, in diverse occasioni, si è espressa affermando che tale norma, seppure formulata come norma di interpretazione autentica, ha carattere innovativo, quindi confermando l'esigenza di tutelare dei rapporti giuridici che, secondo le leggi previgenti, avevano previsto la prelazione o l'opzione legale a favore del conduttore qualificato;
    quindi, tale legge detta una nuova regolamentazione per le situazioni non esaurite escludendo, appunto, gli enti previdenziali successivamente «privatizzati» dalla speciale disciplina posta dal decreto legislativo n. 104 del 1996, operando il consueto limite delle situazioni giuridiche esaurite, dove la locuzione «limite consueto» esprime l'esigenza di tutela dei rapporti giuridici che, secondo le leggi previgenti, avevano previsto la prelazione o l'opzione legale a favore del conduttore qualificato; la trasformazione dell'ente in fondazione ha determinato un effetto giuridico di natura successoria per tutti i rapporti giuridici pendenti e per tutti i diritti di credito o gli obblighi assunti, in mancanza di una diversa e specifica disciplina legislativa. Questo dice la Corte di cassazione, queste sono le frasi utilizzate dai supremi giudici;
    allora, quelle case andavano vendute agli inquilini secondo i principi stabiliti nel decreto legislativo n. 104 del 1996, visto che le abitano, sin dall'inizio degli anni Settanta, le hanno continuate ad abitare anche quando la suindicata normativa obbligava gli enti a dismettere il patrimonio immobiliare, e, purtroppo, le vivono ancora oggi non potendole acquistare viste le gravose condizioni;
    infatti, il 90 per cento degli inquilini è affittuario delle case degli enti da prima del 1996 ed il legislatore, con decreto legislativo n. 104 del 1996 (modificato ed integrato dalla legge n. 410 del 2001), aveva deciso di disciplinare l'attività in campo immobiliare degli enti previdenziali – secondo una specifica tabella (allegata alla legge n. 70 del 1975) tra cui era ricompresa anche Enasarco, oltre a tutti gli enti di cui al decreto legislativo n. 509 del 1994;
    alla luce di quanto detto nell'interpellanza urgente è grave che il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ritenga: «difficile ipotizzare, come richiesto dall'interpellante, sistematici processi di omogeneizzazione di obiettivi e procedure (procedure, in particolare, al di fuori delle prescrizioni generali dirette ad imporre il conseguimento del risultato fondamentale che è quello della sostenibilità pluriennale per garantire agli assicurati che avranno una pensione), alla luce della normativa vigente che continua a tutelarne l'autonomia e la ricerca individuale delle soluzioni più rispondenti alle esigenze delle categorie (...)»;
    invero, non applicare una procedura omogenea comporterebbe una palese violazione dei principi costituzionali, in particolare quelli previsti dall'articolo 3; infatti, non si comprende come sia possibile legittimare comportamenti diversi sia nelle vendite che negli affitti da parte degli stessi enti sottoposti alla stessa normativa e con conseguente danno a carico degli inquilini/affittuari;
    a contrario, dimentichi degli obiettivi di natura sociale per cui sono stati istituiti e sostenuti, e che permangono a tutt'oggi, attraverso quella che alla firmataria del presente atto di indirizzo appare una falsa e distorta applicazione della normativa in materia, gli enti privatizzati hanno, con il tempo, gestito la res publica (perché frutto del danaro pubblico) come se fosse cosa privata amministrata da soggetto privato, in aperto contrasto con quanto dispone la normativa sovranazionale nella direttiva 2004/18/CE e con quanto stabilisce la Corte di giustizia dell'Unione europea. In ordine agli evidenziati profili, secondo la prima firmataria del presente atto di indirizzo emergono manifestamente dei profili di illegittimità costituzionale nell'affermare la disciplina privatistica nel caso de quo, per stridente contrasto non solo con i principi fondamentali della Carta costituzionale, ma anche con la normativa sovranazionale, laddove la diretta applicabilità delle direttive, che hanno i caratteri della chiarezza e della precisione, è stata, tra l'altro, ormai riconosciuta dalla costante giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea (fin dal lontano 1963, nella sentenza relativa al caso Van Gend en Loos, causa 26/62);
    sulla richiesta di un tavolo tecnico interistituzionale, il Sottosegretario di Stato per il lavoro e le politiche sociali, nel rispondere, affermava che, nella XVI legislatura la direzione generale del Ministero del lavoro e delle politiche sociali aveva preso parte ad un tavolo tecnico unitamente al Ministero dell'economia e delle finanze; i lavori si sono conclusi con delle ipotesi normative da cui si potrebbe ripartire; si chiede di avere copia di tale lavoro e di poter sapere dai Ministeri competenti quando potrà ripartire tale tavolo e quali saranno i soggetti che vi faranno parte;
    sarebbe necessario, però, rispondere in tempi brevi a tali necessità, in primis con l'abrogazione dell'articolo 1, comma 38, della legge 23 agosto 2004, n. 243, e dell'articolo 168 della legge n. 228 del 2012, nella parte in cui prevede che: «le disposizioni di cui al comma 11-bis dell'articolo 3 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, non si applicano al piano di dismissioni immobiliari della Fondazione Enasarco»;
    nelle more dell'instaurazione del tavolo tecnico, prima che vengano stabilite le modalità ed i tempi per attuare tale tavolo interministeriale per le vendite, i rinnovi delle locazioni e le conseguenti problematiche legate al patrimonio degli enti, gli stessi comunque proseguono nella vendita, ragion per cui sarebbe auspicabile, anche alla luce dei quotidiani episodi di suicidio legati anche al problema casa, intervenire con un provvedimento urgente che possa in tempi brevi dirimere la controversia;
    oltre a ciò, non è dato comprendere il perché nessuna risposta è giunta dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali a giustificazione delle perdite di Enasarco, situazione che tocca quasi tutti gli altri enti, e cioè quelle relative agli investimenti finanziari per un ammontare di circa 1,5 miliardi di euro, di cui ben 780 milioni di euro investiti nel fondo Anthracite delle Isole Cayman;
    sono riconosciuti dalla stessa Enasarco, nel bilancio 2012, i problemi derivati dai titoli strutturati, poco efficienti, molto costosi, scarsamente liquidizzabili senza perdite e molto opachi;
    dallo stesso bilancio, infatti, emerge: «in virtù di una clausola contrattuale, della cui esistenza né l’advisor, né il direttore generale, né il dirigente del servizio finanza avevano dato conoscenza al consiglio d'amministrazione della Fondazione (...) la Fondazione, sulla base di verifica effettuata con i propri legali, in data 15 aprile 2013 si è vista costretta a corrispondere la somma di euro 14,7 milioni comprensiva di interessi ad Elliott management»;
    da un'indagine della Corte dei conti, pubblicata solo nel giugno 2013, sulla gestione finanziaria di Enasarco per gli esercizi 2010-2011 emerge: «questa Corte porrà la massima attenzione nella propria relazione al bilancio 2012, sul quale impatteranno gli effetti negativi in termini di sopravvenienza passiva, per la suddetta restituzione»;
    per quanto risulta ai firmatari del presente atto di indirizzo, il portafoglio degli investimenti immobiliari e mobiliari presenterebbe uno sbilanciamento anomalo dell’asset allocation, che vedrebbe la parte illiquida rappresentata dal 92 per cento circa del totale investito rispetto all'8 per cento della parte liquida;
    gli «investimenti alternativi» sarebbero concentrati in maniera anomala attorno a 3 fondi, che andrebbero a finanziare veicoli off shore basati all'estero e rappresenterebbero complessivamente 1.815 milioni di euro del valore di carico, quasi il 93 per cento del totale del valore di carico degli «investimenti alternativi», e cioè il 29 per cento circa del totale degli asset investiti (6.284 milioni di euro);
    i tre fondi, per quanto risulta ai firmatari del presente atto di indirizzo, registrerebbero minusvalenze significative in termini di differenza fra net asset value a valori di mercato e valore di carico dell'apporto di capitale investito, responsabili in maniera preponderante della perdita complessiva di valore del totale della minusvalenza del totale del patrimonio mobiliare, pari a circa 570 milioni di euro;
    tali investimenti, in tutti e tre i casi, a giudizio dei firmatari del presente atto di indirizzo, violerebbero complessivamente i limiti 1, 2 e 3 dell'articolo 15 del regolamento per l'impiego delle risorse finanziarie della Fondazione Enasarco;
    l'operato apparentemente illecito è stato persino confermato dall'ex presidente di Enasarco. Infatti, lo stesso ex presidente di Enasarco Donato Porreca sulla rivista Il Mondo, rivista autorevole nell'informazione economica, in data 7 giugno 2013 pubblica una lettera aperta in cui attacca i vertici di Enasarco, attribuendo specifiche responsabilità circa la gestione del patrimonio immobiliare e mobiliare, muovendo delle accuse precise agli attuali vertici della fondazione Enasarco non solo sugli investimenti nei titoli tossici, ma anche sulla dismissione del patrimonio immobiliare. Lo stesso afferma che: «ma ora non posso tacere, visto come qualcuno si è esercitato nell'italica ed atavica virtù dello scaricabarile, vanamente tentando di mistificare sui propri fallimenti invocando gravose eredità del tutto inventate (Il Mondo 19, ma soprattutto nel notiziario Enasarco 10). Si tenta di spacciare iniziative improvvide come il famoso titolo Anthracite, come fossero state realizzate nel 2005, nel 2001-2004 o nel 2007, ma per ristrutturare titoli acquistati nel periodo 2001-2005. Detto prodotto è stato, invece, acquisito nel 2007 (...) al momento delle mie dimissioni (28 novembre 2006) provocate dalla vicenda giudiziaria che mi incombeva e che, si badi bene, non ha mai e dico mai riguardato la gestione della fondazione, né mobiliare, né immobiliare (...)». Continuano gli attacchi mirati del Porreca: «ho lasciato oltre un miliardo e 200 milioni di euro in contanti nelle casse della fondazione. Anzi, per maggior precisione in pronti contro termine a breve. Ho lasciato la fondazione con un bilancio tecnico perfetto e con la sostenibilità del sistema, così come prevista dalle leggi in vigore, un patrimonio immobiliare di oltre 3 miliardi in tutta sicurezza ed un piano per la dismissione degli immobili che, nel rispetto della più assoluta trasparenza, avrebbe portato nelle casse della fondazione 3 miliardi e 250 milioni, pari al valore stimato degli immobili e pari alla somma iscritta in bilancio a tale titolo. Il tutto cash e senza costi di due diligence e nel pieno rispetto dei diritti degli inquilini in ordine alla prelazione, al sostegno alle fasce sociali deboli e sotto l'egida del consiglio di amministrazione di Enasarco (...) si è frettolosamente accantonato il piano di dismissioni già predisposto ed approvato dagli organi di amministrazione e governativi per procedere al cosiddetto piano Mercurio, che dopo anni e anni e dopo costi gravosi è ancora lontanissimo dalla conclusione, con grave danno della fondazione, degli inquilini e degli stessi stabili privi di manutenzione ordinaria e straordinaria»;
    sulla richiesta dell'interpellante di una moratoria, alla luce delle difficili condizioni e gravose situazioni che moltissimi enti previdenziali utilizzano a danno degli inquilini, è sicuramente contraddittoria o di difficile comprensione la posizione assunta dal Governo attraverso il Sottosegretario di Stato per il lavoro e le politiche sociali; infatti, lo stesso per tutelare le casse ha citato l'articolo 38 della Costituzione, pur dimenticando che i comportamenti attuati dagli enti a danno degli inquilini violano gli articoli 2, 3, 10 e 97;
    ma vi è di più: non è chiaro come possa sostenersi che Enasarco ha rivolto particolare attenzione ai risvolti socioeconomici di tale operazione di dismissione, se i diretti interessati, gli inquilini, non sono riusciti a poter acquistare l'agognata casa o, nei casi migliori, si sono visti costretti a firmare mutui con condizioni allucinanti, perché le banche (Monte dei Paschi di Siena e Bnl), a dispetto delle gare pubbliche cui erano obbligate, non hanno rispettato le condizioni prestabilite. Il tutto nell'assoluta inerzia delle istituzioni e degli enti preposti al controllo;
    nel mese di luglio 2013, la magistratura ha evidenziato forti infiltrazioni mafiose nella dismissione e/o assegnazione degli immobili Enasarco ad Ostia; l'ente sembra dichiararsi estraneo alla vicenda, dimostrando, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, una completa incompetenza e il mancato controllo degli immobili che gestisce;
    non si comprende come può essere giustificata la circostanza che, in data 11 settembre 2008, Enasarco, nella persona del presidente Brunetto Boco e del direttore generale Carlo Felice Maggi, ha firmato un accordo con le organizzazioni sindacali, a dispetto della circostanza che la delibera del consiglio di amministrazione, con la quale è stato approvato il piano di dismissione del patrimonio immobiliare, inteso a perseguire l'obiettivo di stabilità del bilancio tecnico ultratrentennale, è datata 18 settembre 2008;
    inoltre, non si può non far rilevare che, in data 12 novembre 2013, è stato pubblicato un articolo sul quotidiano La Stampa, che riguardava una maxitruffa di 80 milioni di euro con due arrestati avvenuta a Torino a seguito di un'indagine della Guardia di finanza; in tale articolo affiorava che: «i commercialisti potevano contare su consulenti legali (uno pure radiato dall'ordine degli avvocati), ma anche su colleghi. Come l'ex associato e docente universitario, nonché ex direttore dell'Enasarco di Roma, che proprio in quegli uffici aveva piazzato la sede di una società servita a fabbricare fatture fasulle. Lui e Boggi chiacchieravano al tavolo di un ristorante “in” del centro. A spese dei contribuenti onesti (...)», La descrizione sembrerebbe corrispondere a Carlo Felice Maggi ex direttore di Enasarco e massimo responsabile del «progetto Mercurio» ed ex consigliere del fondo immobiliare Idea Fimit sgr. Se fosse così sarebbe enormemente preoccupante quanto denunciato nell'articolo;
    che la nomina del presidente di Enasarco, Brunetto Boco, sia avvenuta in contrasto con l'articolo 17 dello statuto è, secondo la prima firmataria del presente atto di indirizzo, assolutamente pacifico e lo si può affermare senza impelagarsi in inutili e fantasiose esasperazioni di diritto. È sufficiente leggere l'articolo 17 dello statuto della fondazione, dove in modo chiaro – e non si tratta di una mera presunzione – è stabilito che per la nomina del presidente è richiesto il requisito della professionalità che, ai sensi dell'articolo 1, comma 4, lettera b), del decreto legislativo n. 509 del 1994, è ritenuto esistente solo nei soggetti appartenenti alla categoria degli agenti e rappresentanti di commercio, anche in stato di quiescenza. Il signor Brunetto Boco, non rivestendo la qualità di rappresentante di commercio né attivo né in pensione, non poteva essere eletto consigliere e conseguentemente presidente. Circostanze che a giudizio della firmataria del presente atto di indirizzo dovrebbero integrare i presupposti di cui all'articolo 2, comma 6, del decreto legislativo n. 509 del 1994 e, di conseguenza, comportare il commissariamento dell'ente e, se ciò non dovesse accadere, chi farà tale scelta se ne assumerà le conseguenze;
    ecco perché sarebbe adeguato fare confluire tutti gli enti privatizzati, di cui al decreto legislativo n. 509 del 1994, con i relativi patrimoni immobiliari, anche se conferiti a fondi pensioni di società di gestione del risparmio, nell'Inps, così come avvenuto per Inpdap e Enpals, in modo da poter tutelare gli iscritti beneficiari dei trattamenti pensionistici, attuando le eventuali vendite anche attraverso fondi immobiliari completamente gestiti dal Ministero dell'economia e delle finanze. Tale possibilità porterebbe un duplice risultato: a) ridurre i costi sostenuti dalla casse; b) rendere più agevole il controllo e la vendita del patrimonio immobiliare, evitando così delle speculazioni a danno dei cittadini, cosa che invece sta accadendo,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative normative urgenti volte:
    a) ad abrogare sia l'articolo 1, comma 38, della legge 23 agosto 2004, n. 243, che l'articolo 1, comma 168, della legge n. 228 del 2012, nella parte in cui prevede che: «le disposizioni di cui al comma 11-bis dell'articolo 3 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, non si applicano al piano di dismissioni immobiliari della Fondazione Enasarco (...)», poiché trattasi di norme ad avviso della firmataria del presente atto di indirizzo non in linea con i princìpi costituzionali;
    b) a precisare che alle dismissioni degli enti previdenziali, di cui al decreto legislativo n. 509 del 1994, si applica il decreto legislativo n. 104 del 1996;
    c) a stabilire, altresì, che il decreto legislativo n. 104 del 1996 trovi applicazione anche nei confronti delle dismissioni attuate attraverso i fondi immobiliari di società di gestione del risparmio che hanno avuto il conferimento del loro patrimonio da enti previdenziali di cui al decreto legislativo n. 509 del 1994;
    d) a sospendere gli sfratti per finita locazione e morosità degli inquilini degli enti previdenziali, anche se attuati attraverso fondi immobiliari di società di gestione del risparmio o di altre società, per un tempo non inferiore ad un anno;
   a disporre, in relazione alle dismissioni degli enti previdenziali privatizzati, ai sensi del decreto legislativo n. 509 del 1994, un tavolo tecnico interistituzionale finalizzato a definire norme trasparenti per la stipula ed i rinnovi dei canoni di locazione nelle more della dismissione del patrimonio immobiliare;
   a verificare, attraverso gli uffici competenti del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, la legittimità della nomina del presidente di Enasarco Brunetto Boco;
   ad effettuare, attraverso gli uffici competenti del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, l'immediata analisi della gestione finanziaria dell'ente e ad accertare le relative responsabilità del presidente e degli organi del consiglio di amministrazione;
   a verificare, attraverso gli uffici competenti del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, quali siano state le azioni che l'ente ha intrapreso nei confronti dei responsabili delle perdite provocate sugli investimenti finanziari, come indicato nel bilancio consuntivo 2012;
   a verificare, attraverso gli uffici competenti del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, quali siano state le azioni che l'ente ha intrapreso per accertare chi siano i responsabili di quanto ha denunciato la magistratura sulla gestione delle assegnazioni/dismissioni degli immobili ad Ostia;
   ad accertare e a verificare tramite ispezione dell'Agenzia delle entrate la reale rispondenza delle categorie catastali degli immobili di proprietà di Enasarco a quelle denunciate dallo stesso ente;
   a porre rimedio, con un'adeguata iniziativa normativa, anche al conflitto d'interesse che sta scaturendo dal fatto che le stesse organizzazioni sindacali che compongono il consiglio d'amministrazione degli enti previdenziali sono anche firmatarie degli accordi di vendita del patrimonio e/o di rinnovi contrattuali degli affitti in rappresentanza degli inquilini;
   a valutare di fare confluire tutti gli enti previdenziali privatizzati, di cui al decreto legislativo n. 509 del 1994, con i relativi patrimoni immobiliari anche se conferiti a fondi pensione di società di gestione del risparmio, nell'Inps, così come avvenuto per l'Inpdap e l'Enpals – tale scelta risolverebbe gran parte delle criticità su indicate – in modo da poter tutelare al meglio gli iscritti beneficiari dei trattamenti pensionistici.
(1-00092)
(Nuova formulazione) «Lombardi, Villarosa, Bechis, Grillo, Daga».
(11 giugno 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    in questa fase di crisi economica, l'emergenza abitativa risulta essere uno dei fattori di maggiore e crescente tensione sociale che coinvolge larghi strati della popolazione: dalle categorie a rischio fino a larghe fasce di ceto medio, oltre 430.000 famiglie sono in difficoltà con il pagamento dei mutui, mentre solo nel 2012 sono state 67.790 le sentenze di sfratto (oltre 250.000 negli ultimi quattro anni), di cui l'87 per cento per morosità. Una situazione di vero allarme che riguarda tutto il Paese, anche se con situazioni di vera e propria emergenza per le grandi aree urbane e per le regioni dell'Italia settentrionale, ove, proprio per l'incidenza della crisi economica, le percentuali di sfratti per morosità incolpevole superano il 90 per cento;
    lo stato attuale del mercato immobiliare e del sistema di accesso al credito non fanno che aggravare il quadro sopra descritto, in quanto l'offerta di abitazioni private – a costi molto elevati, assolutamente inaccessibili per famiglie e giovani coppie, anche a fronte delle gravose condizioni richieste per ottenere finanziamenti a tal fine diretti – sovrasta nettamente l'offerta pubblica, che negli ultimi anni è scesa fino a toccare, attualmente, un quota di poco avvicinabile all'uno per cento della produzione edilizia complessiva;
    l'inerzia da parte delle autorità pubbliche in materia, le quali – al di fuori di provvedimenti disorganici ed estemporanei – non sono state capaci di promuovere politiche innovative per la casa, che permettano di arrestare il consumo di suolo e, al contempo, favorire il recupero urbano per rilanciare l'edilizia residenziale pubblica e a fini sociali, mette seriamente a rischio il diritto alla casa e l'accesso alla proprietà della stessa, sancito dall'articolo 47 della Costituzione;
    aspetto di estrema rilevanza nella situazione esposta di crisi abitativa è quello attinente alla dismissione del patrimonio immobiliare degli enti previdenziali pubblici e privatizzati, dismissione che ancora oggi investe le vicende umane e le sorti di numerosi nuclei familiari;
    nello specifico, gli affittuari degli immobili degli enti previdenziali privatizzati hanno subito un continuo e costante aggravio delle loro condizioni abitative: considerevoli sono gli aumenti dei canoni di affitto per il rinnovo dei contratti di locazione e, in molti casi, anche l'acquisto dell'alloggio è reso impossibile a causa dei prezzi – a valore di mercato – praticati dagli enti stessi, senza neanche tenere conto dello stato reale in cui versano gli immobili e in molti casi delle agevolazione fiscali e urbanistiche avute in passato. Tutto ciò è causa di una situazione di intollerabile disagio sociale;
    a determinare il contesto di emergenza abitativa sopra introdotto ha contribuito in maniera rilevante la successione nel tempo di una serie considerevole, nonché disorganica e talvolta contraddittoria, di provvedimenti normativi che hanno gradualmente mutato il regime dei rinnovi dei contratti di locazione e della vendita degli immobili inerenti al patrimonio degli enti previdenziali privatizzati, facendo sorgere molti dubbi, oltre che sulla sostenibilità sociale, anche sulla legittimità delle procedure in atto;
    tali vicende normative prendono il via con il decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509, – con il quale si avvia la privatizzazione degli enti previdenziali, che assumono personalità giuridica di diritto privato, pur continuando a sussistere come enti senza scopo di lucro – e si diramano passando per il decreto legislativo 16 febbraio 1996, n. 104, come integrato dalla legge 23 novembre 2001, n. 410, – che disciplina l'attività in campo immobiliare degli enti previdenziali pubblici – l'articolo 1, comma 38, della legge n. 243 del 2004, il decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 2010, il decreto-legge n. 201 del 2011 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011 e la direttiva europea 2004/18/CE;
    tra gli atti normativi sopra citati, causa una particolare situazione di incertezza la formulazione della legge di interpretazione autentica di cui all'articolo 1, comma 38, della legge n. 243 del 2004, la quale esclude che le norme sulla dismissione del patrimonio immobiliare degli enti previdenziali pubblici – nello specifico l'articolo 1, comma 1, del decreto legislativo n. 104 del 1996, che regola il campo di applicazione dell'intera disciplina – si applichino agli enti previdenziali privatizzati, anche quando la trasformazione degli enti in questione in persone giuridiche di diritto privato sia avvenuta successivamente all'entrata in vigore del decreto stesso. La sopra citata norma contenuta nella legge n. 243 del 2004, ha dato il via, di fatto, a operazioni di dismissione a prezzi di mercato, con valori correnti, e a rinnovi dei contratti di locazione con aumenti dei canoni anche fino al 300 per cento, con conseguenti rischi di sfratto per gli inquilini non più disposti ad accettare i nuovi e insostenibili, prezzi di locazione;
    la norma interpretativa stabilita dalla sopra citata legge n. 243 del 2004 è già stata oggetto di pronuncia a sezioni unite 22 giugno 2006, n. 20322, da parte della Suprema Corte di cassazione, la quale si è espressa contestandone la natura di legge di interpretazione autentica, attribuendole invece portata innovativa, determinando così che i rapporti giuridici sorti sulla base delle leggi previgenti seguano il regime di tutela stabilito da queste ultime. Pertanto, la dismissione del patrimonio immobiliare degli enti previdenziali, privatizzati successivamente all'entrata in vigore del decreto legislativo n. 104 del 1996, dovrebbe seguire quest'ultima disciplina e le successive modifiche e integrazioni;
    pur in presenza dell'ambigua norma interpretativa sopra citata, non dovrebbero tuttavia permanere dubbi sull'intrinseca natura pubblicistica degli enti previdenziali privatizzati, la quale si desumerebbe anche alla luce di quanto stabilito dalla legge 26 aprile 2012, n. 44, il cui articolo 5 prevede che, ai fini dell'applicazione delle disposizioni in materia di finanza pubblica, per amministrazioni pubbliche si intendano gli enti e i soggetti indicati ai fini statistici nell'elenco oggetto del comunicato dell'Istituto nazionale di statistica emanato in data 24 luglio 2010, il quale comprende gli enti sopra citati;
    inoltre, per chiarire la natura degli enti previdenziali privatizzati, può essere portato a sostegno quanto previsto nel decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, che al comma 11-bis dell'articolo 3 – rubricato «razionalizzazione del patrimonio pubblico e riduzioni dei costi per locazioni passive» – introduce una nuova e specifica procedura di dismissione immobiliare per gli enti previdenziali inseriti nel conto economico della pubblica amministrazione. Altresì, la pronuncia del Consiglio di Stato, sezione VI, n. 6014 del 2012, ha chiarito in via definitiva che, il mutamento operato dal decreto legislativo n. 509 del 1994 ha lasciato immutato il carattere pubblicistico dell'attività istituzionale di previdenza e assistenza, svolta dagli enti in esame, che conservano una funzione strettamente correlata all'interesse pubblico, costituendo, la privatizzazione, un'innovazione di carattere essenzialmente organizzativo, interpretazione confermata nella sentenza della sezione III del Tar del Lazio, 12 giugno 2013, n. 05938;
    il quadro tracciato, connotato da forte disorganicità e ambiguità normativa, determina, tra l'altro, un'irragionevole eterogeneità di situazioni tra ente ed ente, che rischia di creare situazioni di iniquità di trattamento, a riprova della quale non può non citarsi la disposizione di cui all'articolo 1, comma 168, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, la quale esclude espressamente l'applicabilità delle procedure di dismissione introdotte dal comma 11-bis dell'articolo 3 della legge n. 135 del 2012, contenenti aspetti di maggior favor per i conduttori al piano di dismissione immobiliare della fondazione Enasarco;
    posto quanto sopra illustrato circa la situazione di disagio in cui versano i conduttori di immobili degli enti previdenziali privatizzati, non meno preoccupante può considerarsi quanto sta accadendo ai conduttori di immobili appartenenti agli enti previdenziali pubblici, per l'interruzione del processo di alienazione e per la scadenza dei contratti di locazione che rendono insicuro e incerto il futuro delle famiglie dei conduttori con titolo nonché degli occupanti sine titulo, nonostante siano chiaramente indicati dalla legge n. 410 del 2001 condizioni e prerogative per la vendita degli immobili di tali enti, il cui patrimonio residuo è ora entrato integralmente in possesso dell'Inps;
    l'Inps stessa, tuttavia, attende chiare indicazioni operative da parte dei Ministeri dell'economia e delle finanze e del lavoro e delle politiche sociali vigilanti sull'istituto, anche in relazione alla sopravvenuta norma sulla dismissione del patrimonio immobiliare pubblico, presente all'articolo 27 del cosiddetto «decreto Salva Italia» 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011;
    alla luce di tutto ciò, non sembra rinviabile un pronunciamento sulla questione da parte del Governo e degli organi parlamentari, affinché il processo di alienazione degli immobili degli enti previdenziali pubblici e privatizzati avvenga in un quadro di tutela e garanzia sociale delle famiglie interessate,

impegna il Governo:

   ad assumere iniziative indirizzate a chiarire il quadro normativo entro cui deve svolgersi il processo di alienazione del patrimonio immobiliare dei vari enti previdenziali privatizzati, affinché le procedure avvengano in maniera trasparente e uniforme, evitando disparità di trattamento;
   a promuovere con urgenza, nel quadro di tali iniziative, misure finalizzate all'abrogazione dell'articolo 1, comma 38, della legge 23 agosto 2004, n. 243, e dell'articolo 1, comma 168, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, nella parte in cui prevede che: «le disposizioni di cui al comma 11-bis dell'articolo 3 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, non si applicano al piano di dismissioni immobiliari della Fondazione Enasarco (...)»;
   a intervenire per tutelare gli inquilini, vigilando sui prezzi di vendita degli immobili degli enti e sull'entità dei canoni di affitto al momento del rinnovo del contratto di locazione, traendo primario riferimento da quanto stabilito dalla legge n. 410 del 2001;
   ad intervenire in modo chiaro presso gli enti previdenziali pubblici, in particolare presso l'Inps, affinché vengano riprese con celerità e con eguali tutele – in particolare quelle previste dal comma 20 dell'articolo 3 della legge n. 410 del 2001, confermate dall'articolo 43-bis del decreto-legge n. 207 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 14 del 2009 – le procedure di alienazione degli immobili reimmessi in possesso dell'Inps stesso;
   a disporre, in relazione alle dismissioni immobiliari degli enti previdenziali, un tavolo tecnico interistituzionale e di confronto sindacale per raggiungere le finalità sopra indicate e provvedere alla regolarizzazione degli occupanti sine titulo e alle assegnazioni irregolari di alloggi, indicando inoltre percorsi per agevolare l'accesso al credito delle famiglie con reddito medio basso, con mutui sostenibili e finalizzati all'acquisto;
   a sospendere, nelle more dell'instaurazione del tavolo tecnico e dell'adozione dei provvedimenti necessari, l'esecuzione degli sgomberi nonché delle aste e degli sfratti per morosità incolpevole riguardanti unità immobiliari ad uso residenziale;
   ad utilizzare il patrimonio abitativo sfitto e disponibile degli enti previdenziali, anche quello conferito ai fondi immobiliari, mettendolo a disposizione dei comuni per affrontare l'emergenza abitativa;
   ad adottare provvedimenti idonei a vincolare gli enti previdenziali pubblici o privatizzati a riconsiderare contratti già stipulati secondo forme e canoni socialmente sostenibili e a stipulare e rinnovare i contratti di locazione, tenendo conto della situazione di difficoltà economica delle famiglie;
   a prevedere, in attesa di chiarimenti sulle procedure da adottare scaturenti dall'apposito tavolo tecnico all'uopo istituito, il blocco delle procedure di alienazione degli immobili degli enti previdenziali privatizzati e degli aumenti dei canoni connessi ai rinnovi contrattuali, nonché delle procedure di sfratto in corso;
   a prevedere, con apposito provvedimento, che il prezzo di alienazione degli immobili, le cui procedure sono in fase di attuazione, rimanga fermo per un periodo comunque non inferiore a 5 anni, in modo da garantire a tutti coloro che attualmente non sono in grado di procedere all'acquisto la possibilità di poterlo effettuare alle medesime condizioni.
(1-00149)
«Piazzoni, Migliore, Nicchi, Aiello, Zan, Zaratti, Pellegrino, Boccadutri, Pilozzi».
(17 luglio 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    nell'attuale contesto di crisi economica che colpisce il Paese, l'emergenza abitativa rappresenta un elemento di maggiore e crescente tensione sociale, che riguarda diversi strati della popolazione, non soltanto le categorie a rischio, ma anche larghe fasce di ceto medio, giovani coppie e famiglie con doppio reddito;
    tale situazione è dovuta ad una coesistenza di fattori: l'andamento del mercato immobiliare con un'offerta di abitazioni private a costi sempre più elevati; la difficoltà di accesso al credito con le banche restie nel concedere mutui e la mancanza di politiche abitative volte all'ammodernamento del patrimonio immobiliare esistente, con il recupero urbano e senza ulteriore consumo del suolo;
    la scarsità di alloggi di edilizia residenziale pubblica da concedere in locazione, in combinazione con le difficoltà di accesso al credito da parte delle giovani coppie che nell'attuale momento di crisi economica sono sempre più contrassegnate dalla precarietà di lavoro, non solo ostacola la naturale formazione di nuovi nuclei familiari, ma crea anche un disagio sociale che vede caricare sui privati proprietari immobiliari i problemi dell'edilizia sociale;
    le continue proroghe degli sfratti nelle aree di crisi abitativa non hanno fatto altro che caricare sui privati proprietari immobiliari la risoluzione dei problemi abitativi delle categorie socialmente deboli; è riconosciuto da tutti ormai che i timori sulla mancanza di garanzia per l'immediata restituzione dell'immobile al locatore alla scadenza del contratto, mancanza di garanzia che in passato ha costretto i piccoli proprietari a tenere spesso gli immobili sfitti, ha inciso pesantemente sulla paralisi del settore delle locazioni e sull'innalzamento dei prezzi degli affitti;
    parte di tale disagio abitativo è dovuto anche alla dismissione del patrimonio immobiliare degli enti previdenziali pubblici e privati;
    la normativa di riferimento in materia risale al decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509, con il quale si avvia la privatizzazione degli enti previdenziali, cui fa seguito il decreto legislativo 16 febbraio 1996, n. 104, come integrato dalla legge 23 novembre 2001, n. 410, (che disciplina l'attività in campo immobiliare degli enti previdenziali pubblici), l'articolo 1, comma 38, della legge n. 243 del 2004, il decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 112 del 2010, il decreto-legge n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011, la direttiva europea 2004/18/CE;
    il susseguirsi di interventi legislativi ha, di fatto, creato un panorama indefinito ed eterogeneo di situazioni tra ente ed ente, che necessita di chiarimenti per evitare speculazioni ed iniquità di trattamento;
    in particolare, pare che a creare maggiore confusione sia stata la norma di interpretazione autentica di cui all'articolo 1, comma 38, della legge n. 243 del 2004, la quale esclude che le norme sulla dismissione del patrimonio immobiliare degli enti previdenziali pubblici possano applicarsi agli enti previdenziali privatizzati; disposizione sulla quale si è pronunciata anche la Corte di cassazione, con sentenza a sezioni unite n. 20322 del 22 giugno 2006, contestandone la natura di norma di interpretazione autentica e attribuendole di contro portata innovativa;
    peraltro, la natura pubblicistica degli enti previdenziali pur privatizzati trova, comunque, conferma da quanto stabilito all'articolo 5 della legge n. 44 del 2012, laddove si dispone che, ai fini dell'applicazione delle disposizioni in materia di finanza pubblica, per amministrazioni pubbliche si intendono gli enti ed i soggetti indicati nell'elenco Istat oggetto di comunicato pubblicato in data 24 luglio 2010, il quale comprende, per l'appunto, gli enti privatizzati;
    a rendere ancora più disorganico il quadro normativo inerente all'alienazione degli immobili da parte degli enti e, conseguentemente, disomogenee le modalità di dismissione adottate dagli stessi è l'articolo 1, comma 168, della legge di stabilità per il 2013 (legge 24 dicembre 2012, n. 228), laddove prevede che «(...) le disposizioni di cui al comma 11-bis dell'articolo 3 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n.135 (cosiddetta spending review bis) non si applicano al piano di dismissioni immobiliari della fondazione Enasarco (...)»;
    non meno confusa appare la situazione che investe gli immobili degli enti previdenziali pubblici, già oggetto in passato delle operazioni cosiddette Scip 1 e Scip 2;
    il patrimonio residuo invenduto è ora entrato integralmente in possesso dell'Inps; lo stesso presidente dell'istituto ha scritto ai Ministeri vigilanti, Ministeri dell'economia e delle Finanze e del lavoro e delle politiche sociali, per chiedere chiarimenti sul da farsi, anche alla luce del sopravvenuto intervento normativo sulla dismissione del patrimonio immobiliare pubblico di cui all'articolo 27 del «decreto salva Italia», decreto-legge n. 201 del 2011;
    a parere dei firmatari del presente atto di indirizzo, gli enti previdenziali privatizzati e pubblici devono garantire in primis i trattamenti previdenziali dei loro iscritti, salvaguardando i versamenti contributivi da loro effettuati,

impegna il Governo:

   ad adottare le opportune iniziative atte a definire un quadro normativo univoco per tutti gli enti previdenziali, pubblici e privatizzati, entro cui debbano svolgersi le operazioni di dismissione del relativo patrimonio immobiliare;
   ad intervenire, nell'ambito della dismissione degli immobili degli enti privatizzati, da un lato, per garantire agli inquilini uniformità di trattamento nella definizione del prezzo di vendita da parte degli enti, parametrato a prezzo di mercato, e, dall'altro, per tutelare, al contempo, i versamenti contributivi degli iscritti agli enti medesimi, tenuto conto che con essi nel tempo gli enti hanno proceduto all'acquisto di siffatto patrimonio immobiliare;
   ad intervenire, altresì, presso gli enti previdenziali pubblici e, in particolare, presso l'Inps, come richiesto dal suo stesso presidente, affinché vengano riprese con celerità e chiarezza, le operazioni di alienazione degli immobili reimmessi in possesso dell'istituto medesimo, sempre con definizione del prezzo di vendita parametrato al prezzo di mercato;
   ad attuare, in collaborazione con le regioni, una riforma degli strumenti di edilizia residenziale pubblica, con l'introduzione di modelli innovativi di partenariato pubblico e privato, in grado di ampliare il parco alloggi dell'edilizia sociale, incentivando, anche con benefici economici rivolti alla copertura dei costi legati alla bonifica delle aree e degli immobili dismessi, o non più utili ai loro fini istituzionali, le iniziative di recupero e ristrutturazione urbanistica ed edilizia che evitano l'espansione urbana delle periferie.
(1-00252)
«Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Buonanno, Busin, Caon, Caparini, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera, Rondini».
(18 novembre 2013)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE IN ORDINE ALLA DISCIPLINA DELL'INGRESSO, DEL SOGGIORNO E DELL'ALLONTANAMENTO DEI CITTADINI STRANIERI, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALLA PROBLEMATICA DEI CENTRI DI IDENTIFICAZIONE ED ESPULSIONE

   La Camera,
   premesso che:
    l'articolo 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, così come modificato dall'articolo 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94, ha introdotto nell'ordinamento italiano il «reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato»;
    l'Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo per non aver rispettato il principio del non-respingimento, contenuto nella convenzione di Ginevra del 1951;
    l'articolo 13 della Costituzione recita che «la libertà personale e inviolabile (...) non è ammessa forma alcuna di detenzione, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge»;
    a fronte del dettato costituzionale, tuttavia, nei centri di identificazione ed espulsione, quanto ha luogo è, a giudizio dei firmatari del presente atto di indirizzo, una vera e propria detenzione regolata da provvedimenti amministrativi, caratterizzata peraltro da pratiche disomogenee sul territorio e da sostanziali disparità di condizioni di trattenimento, in violazione del principio di uguaglianza;
    secondo i dati di Famiglia cristiana, che riprendono quelli elaborati dalla direzione generale della giustizia penale del Ministero della giustizia, paradossalmente, prima dell'introduzione del reato attualmente previsto e punito dall'articolo 10-bis del decreto legislativo n. 286 del 1998, il numero di espulsioni per coloro che si trovavano in Italia in maniera irregolare era addirittura maggiore: il 49 per cento nel 2003 contro il 28 per cento del 2012;
    secondo quanto riportato nel rapporto «Costi disumani. Spesa pubblica per il contrasto all'immigrazione irregolare» – redatto a cura dell'associazione Lunaria e, recentemente, presentato in sede di audizione dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato della Repubblica – dal 2005 al 2011 sono stati impegnati 143,8 milioni di euro in media all'anno per allestire, gestire, mantenere e ristrutturare il sistema dei centri (cda, cpsa, cara, cie). «In particolare per i CIE i dati identificabili negli avvisi pubblici per l'affidamento della loro gestione in base ai capitolato unico di appalto di gara del novembre 2008, portano a stimare i soli costi di funzionamento in almeno 25,1 milioni di euro l'anno, cui aggiungere i costi di manutenzione ordinaria e straordinaria (non quantificabili con solo riferimento ai CIE), i costi per la sorveglianza dei Centri (non inferiori a 26,3 milioni l'anno), i costi di missione del personale di scorta che procede all'esecuzione dei rimpatri coatti (il cui costo medio annuale può essere stimato in 3,6 milioni di euro). I costi minimi sicuramente riconducibili al sistema di detenzione amministrativa nei CIE sono dunque pari ad almeno 55 milioni di euro l'anno»;
    i centri di identificazione ed espulsione (cie), istituiti dalla legge 6 marzo 1998, n. 40, e previsti dal testo unico sull'immigrazione (decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286), sono strutture di trattenimento degli stranieri in condizione di irregolarità, destinati all'espulsione;
    l'articolo 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, così come modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189, cosiddetta legge «Bossi-Fini», prevede che «quando non sia possibile eseguire con immediatezza l'espulsione mediante accompagnamento», «il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso» il centro di identificazione ed espulsione, e che, quindi, tali strutture siano destinate al trattenimento, convalidato dal giudice di pace, dei cittadini stranieri extracomunitari irregolari e destinati all'espulsione;
    a far data dall'8 agosto 2009, con l'entrata in vigore della legge 15 luglio 2009, n. 94 (il cosiddetto pacchetto sicurezza), il termine massimo di permanenza degli stranieri in tali centri è passato da 60 giorni a 180 giorni complessivi, rafforzando così la loro natura di luoghi di permanenza obbligatoria e, nei fatti, di luoghi di detenzione amministrativa delle e dei migranti;
    secondo i dati forniti dalla polizia di Stato, nel 2012 erano 7.944 (7.012 uomini e 932 donne) i migranti trattenuti in tutti i centri di identificazione ed espulsione operativi in Italia. Di questi, solo la metà (4.015) sono stati effettivamente rimpatriati con un tasso di efficacia (rapporto tra rimpatriati e trattenuti) del 50,54 per cento. Rispetto al 2010, il rapporto tra i migranti rimpatriati rispetto al totale dei trattenuti nei centri di identificazione ed espulsione è cresciuto di appena il 2,3 per cento, mentre, rispetto al 2011, l'incremento del tasso di efficacia nei rimpatri è risultato addirittura irrilevante (+0,3 per cento);
    il citato articolo 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, al comma 2 dispone che in tali centri lo straniero è trattenuto «con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza e il pieno rispetto della sua dignità»;
    l'articolo 21 del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, specifica che le modalità del trattamento nei centri di identificazione ed espulsione «devono garantire, nel rispetto del regolare svolgimento della vita in comune, la libertà di colloquio all'interno del centro e con visitatore proveniente dall'esterno, in particolare con il difensore che assiste lo straniero, e con i ministri di culto, la libertà di corrispondenza, anche telefonica, ed i diritti fondamentali della persona» e che in tali centri devono essere presenti «i servizi sanitari essenziali, gli interventi di socializzazione e la libertà di culto» e i «servizi predisposti per le esigenze fondamentali di cura, assistenza, promozione umana e sociale»;
    all'interno dei centri di identificazione ed espulsione si sono verificate gravi violazioni dei diritti umani, come denunciato sia da inchieste ed articoli di stampa, sia dalle associazioni di volontariato e dalle associazioni per la tutela dei diritti umani, tra le quali anche Amnesty International e Medici senza Frontiere, e fin dall'indagine interministeriale presentata dall'ambasciatore Staffan de Mistura nel 2007;
    sono numerosissimi gli atti di autolesionismo e tentativi di suicidio che sono stati anche denunciati da autorevoli organizzazioni impegnate nel campo dei diritti;
    in particolare, come risulta dall'indagine «Arcipelago CIE» realizzata tra febbraio 2012 e febbraio 2013 da Medici per i diritti umani (Medu) e pubblicata a maggio 2013, la struttura dei centri di identificazione ed espulsione è simile a quella dei centri di internamento. «L'inattività forzosa per prolungati periodi di tempo, in spazi angusti ed inadeguati, insieme all'incertezza sulla durata e l'esito del trattenimento, rendono il disagio psichico dei migranti uno degli aspetti più preoccupanti e di più difficile gestione all'interno dei centri»;
    da un punto di vista prettamente sanitario, le indagini di Medici per i diritti umani evidenziano, inoltre, che «in generale all'interno dei Centri di identificazione e di espulsione, non è previsto personale medico specialistico anche laddove sarebbe certamente necessario»;
    dalle visite effettuate da molti parlamentari nei centri di identificazione ed espulsione italiani sono emerse diverse criticità, prima fra tutte l'altissima compressione dei diritti fondamentali: pur in presenza di un titolo di detenzione solo amministrativo, ai fini dell'identificazione, dell'espulsione o del rimpatrio, si è riscontrata la presenza di persone private della libertà personale per lunghissimi periodi di tempo, impossibilitate a svolgere alcun tipo di attività ricreativa, lavorativa e formativa;
    l'assenza di un regolamento «comune» per tutti i centri di identificazione ed espulsione, presenti in Italia, e la presenza di soli regolamenti adottati dalle prefetture di competenza, determina un diverso grado di flessibilità nei diritti concessi, anche sulla base della diversa interpretazione delle «ragioni di sicurezza»;
    altro dato preoccupante è costituito dalla forte eterogeneità e promiscuità delle persone presenti all'interno dei centri di identificazione ed espulsione: vi si trovano persone che hanno a lungo risieduto legalmente in Italia e che, ad un certo punto, per le ragioni più diverse, hanno perso il permesso di soggiorno (cosiddetti overstayer); richiedenti asilo che hanno potuto presentare richiesta di protezione internazionale solo dopo essere giunti ai centri di identificazione ed espulsione e che, dunque, non sono stati trasferiti in un centro di accoglienza per richiedenti asilo; ex detenuti, a fine pena, che sono stati poi trasferiti nei centri di identificazione ed espulsione in attesa di identificazione o di rimpatrio, nonché numerose persone che sono state a lungo trattenute nei centri di identificazione ed espulsione, poi rilasciate e che, nuovamente fermate, vi rientrano;
    inoltre, è stata riscontrata all'interno dei centri di identificazione ed espulsione la presenza di persone coniugate con cittadini italiani e persone le cui condizioni di salute risultano incompatibili con il trattenimento, persino minori, nonostante le norme vigenti lo vietino;
    in particolare, ha destato preoccupazione la presenza nei centri di identificazione ed espulsione di un elevato numero di ex detenuti che, dopo aver scontato pene anche di diversi anni, vengono trattenuti per ulteriori lunghi periodi di tempo all'interno degli stessi, nonostante la direttiva interministeriale del 30 luglio 2007, dei Ministri pro tempore Amato e Mastella, stabilisca che, in linea con le indicazioni del rapporto «De Mistura», l'identificazione per detenuti debba avvenire in carcere, e non più negli allora centri di permanenza temporanea, da considerarsi come luoghi destinati più utilmente al riconoscimento di altri soggetti; si tratta di un riconoscimento che si presenta problematico e che richiede un considerevole impiego di forze dell'ordine, sia per gli impegnativi compiti di sorveglianza che per quelli di accompagnamento presso i tribunali competenti;
    tutti gli aspetti critici rilevati nel corso delle visite nei centri di identificazione ed espulsione da parte di delegazioni di parlamentari sono resi più gravi dall'allungamento del termine massimo di permanenza all'interno delle strutture che, senza riuscire a facilitare il problema dell'identificazione e dei rimpatri, ha finito per creare una sorta di limbo giuridico, caratterizzato dalla negazione di diritti, anche fondamentali, nel quale i trattenuti possono permanere fino a 18 mesi e al quale occorre urgentemente porre rimedio;
    incessanti sono ormai le rivolte da parte degli immigrati trattenuti per protestare contro le difficili condizioni e le gravi violazioni dei diritti umani fondamentali, come dimostrano da ultimo le rivolte al centro di identificazione ed espulsione di Gradisca d'Isonzo;
    all'interno del centro di identificazione ed espulsione di Crotone si è anche verificata la morte di un immigrato, con conseguente chiusura dello stesso;
    nel giugno del 2012, in concomitanza con l'emersione di lacune strutturali che avevano portato alla chiusura del «Serraino Vulpitta» di Trapani e del «Malgrado tutto» di Lamezia Terme, nonché di gravi inadempienze contrattuali emerse in numerosi centri, la Ministra dell'interno pro tempore, Anna Maria Cancellieri, ha istituito una task-force, con il compito di analizzare la situazione in cui versano i centri di identificazione ed espulsione, relativamente agli aspetti di carattere normativo, organizzativo e gestionale, al fine di elaborare proposte normative atte a migliorare l'operatività dei centri di espulsione ed assicurarne l'uniformità di funzionamento a livello nazionale;
    in precedenza, nel luglio 2006, con decreto del Ministro dell'interno pro tempore, Giuliano Amato, venne istituita la commissione cosiddetta De Mistura, il cui citato rapporto fu depositato il 31 gennaio 2007;
    la commissione, istituita nel 2012 ha visto, quali componenti, esclusivamente funzionari del Ministero dell'interno; mentre la commissione del 2006 era composta sia da membri ministeriali, sia da appartenenti all'associazionismo (una commissione «mista»);
    la commissione De Mistura (del 2006) operò visitando tutti i centri, incontrando le prefetture, le questure, ascoltando le associazioni dei vari territori, gli enti locali e le persone trattenute; esaminò, inoltre, i documenti che le venivano sottoposti e raccolse direttamente migliaia di dati, anche attraverso l'utilizzo di apposite schede di rilevazione;
    la citata commissione già evidenziò la difficoltà a eseguire i provvedimenti di espulsione, ritenendo dunque che «l'approccio normativo complessivo ai fenomeno andrebbe profondamente modificato riconducendo l'espulsione alla sua natura di provvedimento necessario da applicarsi come ultima ratio, laddove tutte le altre possibilità di regolarizzare si siano rivelate in concreto non possibili»;
    le conclusioni della commissione De Mistura non trovarono attuazione, né sembrano esser state considerate nell'impostazione dell'indagine del 2012. Le risultanze dei due rapporti appaiono estremamente diverse, così come le conclusioni: mentre la commissione De Mistura, dopo avere analizzato tutte le criticità presenti nei luoghi di detenzione amministrativa, concludeva per il «superamento» degli allora centri di permanenza temporanea ed assistenza attraverso il loro «svuotamento», la più recente task-force ha elaborato un «Documento programmatico» che, pubblicato solo ad aprile 2013, e quindi in fase di dimissione del Governo pro tempore, è volto ad implementare i centri di detenzione amministrativa, individuando le criticità prevalentemente imputabili a condotte delle persone trattenute;
    le soluzioni prospettate nel progetto di revisione del «sistema cie», tutto condensato in un rapporto di 27 pagine, più allegati (cosiddetto rapporto Ruperto), muove dal presupposto della necessità dei centri di identificazione ed espulsione e prevede numerose novità sia dal punto di vista amministrativo che da quello del funzionamento vero e proprio;
    in tal senso, in tale rapporto si coglie una sorta di ulteriore discostamento delle prassi e delle normative sul trattenimento amministrativo in Italia, rispetto alla direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, nota come «direttiva rimpatri»;
    ogni passo dello stesso, infatti, apre un elemento di problematicità: ad esempio, nel prendere atto del fatto che i centri di identificazione ed espulsione operano con capienza ridotta a causa del danneggiamento dei locali causato dai trattenuti, non si affronta il correlato tema per cui il forte ribasso dei corrispettivi previsti dalle convenzioni agli enti gestori ha portato alla diminuzione del personale degli stessi, nonché all'ulteriore abbassamento della qualità minima del sistema complessivo dei servizi con conseguenze anche gravi per le persone trattenute;
    nel rapporto si annuncia poi che molti immigrati senza documenti potranno essere rimpatriati con maggiore velocità utilizzando non i centri di identificazione ed espulsione, ma i centri di primo soccorso e accoglienza, che, con procedimenti spesso informali, comportano il rischio del ricorso alle espulsioni cosiddette collettive, in violazione degli accordi di Schengen, la cui pratica è da ritenersi altresì illegittima secondo l'articolo 4 del protocollo 4 allegato alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali;
    altro aspetto su cui il rapporto si sofferma molto è la necessità di prevenire e contenere gli atti di ribellione, isolando in appositi spazi i rivoltosi e addirittura i «potenziali» rivoltosi, prevedendo celle speciali in carceri speciali;
    sul tema la sentenza del tribunale di Crotone 12 dicembre 2012, n. 1410, ha stabilito che i protagonisti della rivolta nel centro di identificazione ed espulsione di Crotone – i quali, saliti sul tetto della struttura, hanno lanciato alcuni oggetti contundenti contro le forze dell'ordine – non sono colpevoli di danneggiamento e offesa a pubblico ufficiale in quanto agirono per «legittima difesa» e la reazione degli stranieri alle «offese ingiuste» è da considerarsi proporzionata; il giudice ha infatti ritenuto che, nel caso dei centri di identificazione ed espulsione, si tratta di «strutture – nel loro complesso – ai limite della decenza, intendendo tale ultimo termine nella sua precisa etimologia, ossia di conveniente alla loro destinazione: che è quella di accogliere essere umani. E, si badi, esseri umani in quanto tali, e non in quanto stranieri irregolarmente soggiornanti sul territorio nazionale per cui lo standard qualitativo delle condizioni di alloggio non deve essere rapportato al cittadino straniero irregolare medio (magari abituato a condizioni abitative precarie), ma al cittadino medio, senza distinzione di condizione o di nazionalità o di razza»;
    da ultimo, il caso Alma Shalabayeva ha evidenziato che, secondo quanto dichiarato dal presidente Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato della Repubblica, in un articolo pubblicato su L'Unità del 17 luglio 2013, «accade che la politica dei respingimenti venga praticata con brutale efficienza nei confronti di migliaia di anonimi immigrati e richiedenti asilo» e che, dunque, tale caso istituzionale «potrebbe rappresentare l'occasione per ripensare a fondo la materia e per interrogarsi, in particolare, sulla legittimità di queste forme di rimpatrio: quante espulsioni espongono lo straniero al rischio di trattamenti illegali e crudeli?»,

impegna il Governo:

   a ripensare radicalmente l'attuale sistema di detenzione amministrativa, ingiustificabile e ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo illegittimo in uno Stato di diritto, e che risulta, peraltro, inefficace per quanto attiene all'effettività dei provvedimenti di espulsione, inutilmente costoso ed altamente lesivo dei diritti umani fondamentali;
   ad intraprendere urgenti iniziative normative tese ad abrogare l'articolo 10-bis del Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, concernente il cosiddetto «reato di clandestinità»;
   ad assumere iniziative per riformare l'intera disciplina dell'ingresso, del soggiorno e dell'allontanamento dei cittadini stranieri;
   ad ampliare i canali di ingresso regolare, a garantire l'ingresso per la ricerca di lavoro, anche per contrastare il grave fenomeno della tratta degli esseri umani, nonché ad introdurre meccanismi di regolarizzazione ordinaria;
   ad introdurre politiche migratorie atte a garantire effettive possibilità di inserimento sociale dei migranti.
(1-00190)
(Nuova formulazione) «Fratoianni, Migliore, Pilozzi, Kronbichler, Daniele Farina, Sannicandro, Di Salvo, Piazzoni, Boccadutri, Costantino, Nicchi, Aiello, Palazzotto, Pellegrino».
(23 settembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    l'articolo 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, «Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero», così come modificato dall'articolo 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94, ha introdotto nel nostro ordinamento il «reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato»;
    tale reato, oltre che punire una condizione più che una condotta, in sede applicativa nei confronti dei migranti ha determinato la condanna dell'Italia da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo per non aver rispettato il principio del non respingimento, contenuto nella Convenzione di Ginevra del 1951;
    secondo i dati di Famiglia cristiana, che riprende quelli elaborati dalla direzione generale della giustizia penale del Ministero di giustizia, paradossalmente, nel periodo in cui non esisteva il reato sopra menzionato, il numero di espulsioni per coloro che si trovavano in Italia in maniera irregolare era addirittura maggiore: 49 per cento nel 2003 contro il 28 per cento del 2012;
    i centri di identificazione ed espulsione, istituiti dalla legge 6 marzo 1998, n. 40, e previsti dal testo unico sull'immigrazione (decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286), sono strutture di trattenimento degli stranieri in condizione di irregolarità, destinati all'espulsione;
    l'articolo 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, così come modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189, cosiddetta legge Bossi-Fini, prevede che «quando non sia possibile eseguire con immediatezza l'espulsione mediante accompagnamento», «il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso» il centro di identificazione ed espulsione e che, quindi, tali strutture siano destinate al trattenimento, convalidato dal giudice di pace, dei cittadini stranieri extracomunitari irregolari e destinati all'espulsione;
    dall'8 agosto 2009, con l'entrata in vigore della legge 15 luglio 2009, n. 94 (cosiddetto pacchetto sicurezza), il termine massimo di permanenza degli stranieri in tali centri è passato da 60 giorni a 180 giorni complessivi, rafforzando così la loro natura di luoghi di permanenza obbligatoria, caratterizzandosi come luoghi di detenzione amministrativa delle e dei migranti;
    secondo i dati forniti dalla polizia di Stato, nel 2012 sono stati 7.944 (7.012 uomini e 932 donne) i migranti trattenuti in tutti i centri di identificazione ed espulsione operativi in Italia. Di questi solo la metà (4.015) sono stati effettivamente rimpatriati, con un tasso di efficacia (rimpatriati su trattenuti) del 50,54 per cento. Rispetto al 2010, il rapporto tra i migranti rimpatriati rispetto al totale dei trattenuti nei centri di identificazione ed espulsione è incrementato di appena il 2,3 per cento, mentre rispetto al 2011, l'incremento del tasso di efficacia nei rimpatri è risultato addirittura irrilevante (+0,3 per cento): si conferma, dunque, la sostanziale inutilità dell'estensione della durata massima del trattenimento ai fini di un miglioramento nell'efficacia delle espulsioni;
    il citato articolo 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, al comma 2, dispone che in tali centri lo straniero è trattenuto «con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza e il pieno rispetto della sua dignità»;
    l'articolo 21 del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, specifica che le modalità del trattamento nei centri di identificazione ed espulsione «devono garantire, nel rispetto del regolare svolgimento della vita in comune, la libertà di colloquio all'interno del centro e con visitatore proveniente dall'esterno, in particolare con il difensore che assiste lo straniero, e con i ministri di culto, la libertà di corrispondenza, anche telefonica, ed i diritti fondamentali della persona» e che in tali centri devono essere presenti «i servizi sanitari essenziali, gli interventi di socializzazione e la libertà di culto» e i «servizi predisposti per le esigenze fondamentali di cura, assistenza, promozione umana e sociale»;
    all'interno dei centri di identificazione ed espulsione si sono verificate gravi violazioni dei diritti umani, come denunciato sia da inchieste ed articoli di stampa, sia dalle associazioni di volontariato e dalle associazioni per la tutela dei diritti umani, tra le quali anche Amnesty international e Medici senza frontiere, e fin dall'indagine interministeriale presentata dall'ambasciatore de Mistura nel 2007;
    in particolare, come risulta dall'indagine «Arcipelago CIE» realizzata tra febbraio 2012 e febbraio 2013 da Medici per i diritti umani e pubblicata a maggio 2013, la struttura dei centri di identificazione ed espulsione è simile a quella dei centri di internamento. «L'inattività forzosa per prolungati periodi di tempo, in spazi angusti ed inadeguati, insieme all'incertezza sulla durata e l'esito del trattenimento, rendono il disagio psichico dei migranti uno degli aspetti più preoccupanti e di più difficile gestione all'interno dei centri»;
    da un punto di vista prettamente sanitario, le indagini di Medici per i diritti umani evidenziano che: «In generale all'interno dei centri di identificazione ed espulsione non è previsto personale medico specialistico anche laddove sarebbe certamente necessario»;
    da un punto di vista prettamente sanitario, le indagini di Medici per i diritti umani evidenziano che: «In generale all'interno dei CIE non è previsto personale medico specialistico anche laddove sarebbe certamente necessario». I servizi sanitari, erogati in tutti i centri direttamente dagli enti gestori, non sembrano garantire in modo adeguato il diritto alla salute: permangono ostacoli rilevanti nell'accesso alle cure specialistiche e agli approfondimenti diagnostici, dovuti essenzialmente alle caratteristiche di strutture chiuse al mondo esterno dei centri di identificazione ed espulsione;
    oltre all'assistenza sanitaria, gli enti gestori sono tenuti a fornire i servizi di mediazione linguistico-culturale, l'orientamento legale e il supporto socio-psicologico. Gli standard di erogazione di tali servizi sono apparsi non omogenei tra i vari centri e nel complesso insoddisfacenti;
    in una lettera indirizzata al Ministro dell'interno pro tempore, Anna Maria Cancellieri, e datata 11 luglio 2012, gli onorevoli Livia Turco e Roberto Zaccaria hanno riferito circa le visite ispettive, effettuate da parte di alcune delegazioni di parlamentari, all'interno di diversi centri di identificazione ed espulsione presenti sul territorio italiano nel corso del mese di giugno 2012, al fine di avere una conoscenza diretta delle condizioni di permanenza dei migranti trattenuti;
    dalle visite effettuate sono emerse diverse criticità e primariamente un'altissima compressione dei diritti fondamentali: pur in presenza di un titolo di detenzione solo amministrativo, ai fini dell'identificazione, dell'espulsione o del rimpatrio, si è riscontrata la presenza di persone private della libertà personale per lunghissimi periodi di tempo, impossibilitate a svolgere alcun tipo di attività ricreativa, lavorativa, formativa;
    l'assenza di un regolamento «comune» per tutti i centri di identificazione ed espulsione presenti in Italia e la presenza di soli regolamenti adottati dalle prefetture di competenza determinano un diverso grado di flessibilità nei diritti concessi, anche sulla base della diversa interpretazione delle «ragioni di sicurezza»;
    altro dato preoccupante è costituito dalla forte eterogeneità e promiscuità delle persone presenti all'interno dei centri di identificazione ed espulsione: vi si trovano persone che hanno a lungo risieduto legalmente in Italia e che, ad un certo punto, per le ragioni più diverse, hanno perso il permesso di soggiorno (cosiddetti overstayer); richiedenti asilo che hanno inoltrato la domanda dopo essere giunti al centro di identificazione ed espulsione e che, dunque, non sono stati trasferiti in un centro di accoglienza per richiedenti asilo; ex detenuti, a fine pena, che sono stati poi trasferiti nel centro di identificazione ed espulsione in attesa di identificazione o di rimpatrio; nonché numerose persone che sono state a lungo trattenute nei centri di identificazione ed espulsione, poi rilasciate e che, nuovamente fermate, vi rientrano;
    in particolare, ha destato preoccupazione la presenza nei centri di identificazione ed espulsione di un elevato numero di ex detenuti, che dopo aver scontato pene anche di diversi anni, vengono trattenuti per ulteriori lunghi periodi di tempo all'interno dei centri di identificazione ed espulsione, nonostante una direttiva interministeriale del 30 luglio 2007, degli allora Ministri Amato e Mastella, stabilisse che, in linea con le indicazioni dell'allora rapporto De Mistura, l'identificazione per i detenuti dovesse avvenire in carcere, e non più negli allora centri di permanenza temporanea, da considerarsi come luoghi destinati più utilmente al riconoscimento di altri soggetti. Riconoscimento che, comunque, si presenta problematico e che causa un considerevole impiego di forze dell'ordine, sia per gli impegnativi compiti di sorveglianza che per quelli di accompagnamento presso i tribunali competenti;
    tutte le criticità rilevate nel corso delle visite da parte di delegazioni di parlamentari, sono fortemente aggravate dall'allungamento del termine massimo di permanenza all'interno di un centro di identificazione ed espulsione, che, senza riuscire a facilitare il problema dell'identificazione e dei rimpatri, ha finito per creare una sorta di limbo giuridico, caratterizzato dalla negazione di diritti – anche fondamentali –, nel quale i trattenuti possono permanere fino a 18 mesi e al quale occorre urgentemente porre rimedio;
    nel giugno del 2012, in concomitanza con l'emersione di lacune strutturali che avevano portato alla chiusura del «Serraino Vulpitta» di Trapani e del «Malgrado tutto» di Lamezia Terme e di gravi inadempienze contrattuali emerse in numerosi centri, il Ministro dell'interno pro tempore, Anna Maria Cancellieri, ha istituito una task-force, con il compito di analizzare la situazione in cui versano i centri di identificazione ed espulsione, relativamente agli aspetti di carattere normativo, organizzativo e gestionale, al fine di elaborare proposte normative atte a migliorare l'operatività dei centri di espulsione ed assicurarne l'uniformità di funzionamento a livello nazionale;
    precedentemente, nel luglio 2006, con decreto dell'allora Ministro dell'interno, Giuliano Amato, venne istituita la Commissione De Mistura, il cui citato rapporto fu depositato il 31 gennaio 2007. Vale rilevare la diversa composizione delle due commissioni: la Commissione del 2012 è stata composta esclusivamente da funzionari del Ministero dell'interno, mentre la Commissione precedente era composta sia da membri ministeriali che da appartenenti all'associazionismo (una commissione «mista»);
    la Commissione De Mistura operò visitando tutti i centri, incontrando le prefetture, le questure, ascoltando le associazioni dei vari territori, gli enti locali e le persone trattenute; esaminò, inoltre, i documenti che le venivano sottoposti e raccolse direttamente migliaia di dati, anche attraverso l'utilizzo di apposite schede di rilevazione;
    le conclusioni della Commissione De Mistura non trovarono attuazione, né paiono esser state tenute a riferimento nell'impostazione dell'indagine 2012. Le risultanze dei due rapporti appaiono estremamente diverse, così come le conclusioni. Infatti, mentre la commissione De Mistura, dopo avere analizzato tutte le criticità presenti nei luoghi di detenzione amministrativa, concludeva per il «superamento» degli allora centri di permanenza temporanea e assistenza attraverso il loro «svuotamento», la più recente task-force ha elaborato un «documento programmatico», che, pubblicato solo ad aprile 2013, e quindi in fase di dimissioni del Governo, è volto ad implementare i centri di detenzione amministrativa, individuando le criticità prevalentemente imputabili alla condotta delle persone trattenute;
    le soluzioni prospettate nel progetto di revisione del «sistema Cie», tutto condensato in 27 pagine, più allegati, muove dal presupposto della necessità dei centri di identificazione ed espulsione e prevede numerose novità, sia dal punto di vista amministrativo che del funzionamento vero e proprio;
    in tal senso, nel cosiddetto rapporto Ruperto, si coglie una sorta di ulteriore discostamento delle prassi e delle normative sul trattenimento amministrativo in Italia, rispetto alla direttiva 2008/115/CE del Parlamento e del Consiglio, nota come «direttiva rimpatri»;
    infatti, ogni passo del rapporto apre un elemento di problematicità: ad esempio, nel prendere atto del fatto che i centri di identificazione ed espulsione operano con capienza ridotta a causa del danneggiamento dei locali causato dai trattenuti, non affronta il correlato tema per cui il forte ribasso dei corrispettivi previsti dalle convenzioni agli enti gestori ha portato ad una diminuzione del personale degli stessi;
    nel rapporto si annuncia poi che molti immigrati senza documenti potranno essere rimpatriati con maggiore velocità utilizzando non i centri di identificazione ed espulsione, ma i centri di primo soccorso e accoglienza, che, con procedimenti spesso informali, comportano il rischio del ricorso alle espulsioni cosiddette collettive – la cui pratica è da ritenersi illegittima secondo l'articolo 4 del protocollo 4 allegato alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali – in violazione degli stessi accordi di Schengen;
    altro aspetto su cui il rapporto si sofferma molto è la necessità di prevenire e contenere gli atti di ribellione, isolando in appositi spazi i rivoltosi e addirittura i «potenziali» rivoltosi, prevedendo celle speciali in carceri speciali: la grave carenza di spazi e attività ricreative all'interno dei centri di identificazione ed espulsione costituisce uno degli elementi che provoca maggior malessere tra i trattenuti. I drastici tagli nei bilanci a disposizione degli enti gestori, insieme al prolungamento dei tempi massimi di trattenimento a 18 mesi, hanno contribuito ad accrescere la tensione nei centri e a peggiorare ulteriormente le condizioni di vita dei trattenuti nel corso dell'ultimo anno;
    a questo proposito, appaiono quanto mai appropriate e attuali le considerazioni – risalenti al 2008 e contenute nel XVIII Dossier statistico immigrazione di Caritas/Migrantes –: «Proprio la prevista dilatazione della restrizione della libertà di movimento (estensione dei tempi massimi di trattenimento a 18 mesi), tuttavia, forse rivela il vero intento della norma: introdurre una lunga carcerazione preventiva per pochi malcapitati, in modo che serva come monito e deterrente per altri. In realtà, e non solo in Italia, il contrasto dell'immigrazione irregolare ormai entrata sul territorio nazionale si muove secondo logiche casuali e crudeli (...). In definitiva, gli immigrati effettivamente espulsi sono modeste percentuali, e non sono necessariamente i più pericolosi o parassitari»;
    al riguardo, la sentenza 12 dicembre 2012, n. 1410, del tribunale di Crotone, ha stabilito che i protagonisti della rivolta nel centro di identificazione ed espulsione di Crotone – i quali, saliti sul tetto della struttura, hanno lanciato alcuni oggetti contundenti contro le forze dell'ordine – non sono colpevoli di danneggiamento e offesa a pubblico ufficiale in quanto agirono per «legittima difesa» e la reazione degli stranieri alle «offese ingiuste» è da considerarsi proporzionata. Il giudice ha, infatti, scritto che, nel caso dei centri di identificazione ed espulsione, si tratta di «strutture – nel loro complesso – al limite della decenza, intendendo tale ultimo termine nella sua precisa etimologia, ossia di conveniente alla loro destinazione: che è quella di accogliere essere umani. E, si badi, esseri umani in quanto tali, e non in quanto stranieri irregolarmente soggiornanti sul territorio nazionale; per cui lo standard qualitativo delle condizioni di alloggio non deve essere rapportato al cittadino straniero irregolare medio (magari abituato a condizioni abitative precarie), ma al cittadino medio, senza distinzione di condizione o di nazionalità o di razza»;
    precedentemente, la stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 105 del 2001, ha rilevato che: «Per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia dell'immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale, che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani»;
    anche il relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti dei migranti, in un rapporto del 2010, denuncia in numerosi Stati l'uso sproporzionato della detenzione nella gestione dell'immigrazione, sottolineando come essa dovrebbe essere utilizzata solo come misura di ultima istanza;
    da ultimo, il caso Alma Shalabayeva ha mostrato come, secondo quanto dichiarato dal Presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato della Repubblica, in un articolo pubblicato su L'Unità del 17 luglio 2013, «accade che la politica dei respingimenti venga praticata con brutale efficienza nei confronti di migliaia di anonimi immigrati e richiedenti asilo» e come, dunque, tale caso istituzionale «potrebbe rappresentare l'occasione per ripensare a fondo la materia e per interrogarsi, in particolare, sulla legittimità di queste forme di rimpatrio: quante espulsioni espongono lo straniero al rischio di trattamenti illegali e crudeli?»,

impegna il Governo:

   a ripensare radicalmente gli attuali strumenti di gestione dell'immigrazione irregolare che risultano inefficaci (per quanto attiene all'effettività dei provvedimenti di espulsione), inutilmente costosi ed altamente lesivi dei diritti umani fondamentali, e ad abbattere i tempi di permanenza nei centri di identificazione ed espulsione, oggi inaccettabili per durata e inutili, oltre il periodo iniziale, all'effettiva identificazione delle persone trattenute;
   ad assumere iniziative per riformare l'intera disciplina dell'ingresso, del soggiorno e dell'allontanamento dei cittadini stranieri, riducendo a misura eccezionale, o comunque del tutto residuale, il trattenimento dello straniero ai fini del suo rimpatrio;
   ad assumere iniziative per abolire, in particolare, le norme del testo unico sull'immigrazione (decreto legislativo n. 286 del 1998) che penalizzano l'ingresso e il soggiorno irregolare, vale a dire il cosiddetto reato di clandestinità, fermo restando il diritto del Paese, secondo le norme vigenti, all'espulsione come sanzione amministrativa quando non esistano i requisiti per il soggiorno regolare o per l'accoglimento dell'istanza di protezione internazionale;
   ad introdurre politiche migratorie atte a garantire effettive possibilità di ingresso regolare e di inserimento sociale, nonché a introdurre meccanismi di regolarizzazione ordinaria;
   ad intervenire sulla disciplina di permanenza, per evitare il trattenimento nei centri di identificazione ed espulsione di coloro che hanno bisogno di protezione sociale, come le vittime di tratta, i minori, i richiedenti asilo;
   a evitare il trattenimento nei centri di identificazione ed espulsione di coloro che, dopo un periodo di detenzione, non siano già stati identificati in carcere;
   a garantire che le pratiche necessarie ai fini dell'identificazione e delle eventuali procedure di rimpatrio avvengano nel massimo della trasparenza, garantendo ai profughi un'adeguata ospitalità presso centri appositi in cui sia garantita l'assistenza psicologica e legale;
   a garantire il periodico monitoraggio da parte delle prefetture delle reali condizioni di vita nei centri, verificando la congruenza dei servizi offerti con le convenzioni in essere;
   a eliminare ogni restrizione e difficoltà al normale ingresso di associazioni umanitarie e organizzazioni non governative all'interno dei centri, al fine di umanizzare le condizioni di vita, sostenere un clima di collaborazione tra tutti i soggetti coinvolti, individuare e sciogliere eventuali problemi sociali non identificabili al momento dell'ingresso, favorire, laddove possibile, il reinserimento sociale, nonché prevenire tensioni.
(1-00156)
(Nuova formulazione) «Zampa, Marazziti, Santerini, Schirò, Martella, Civati, Villecco Calipari, Murer, Mogherini, Madia, Cenni, Bellanova, Gozi, Grassi, Lenzi, Carra, D'Incecco, Tullo, Amoddio, Blazina, Incerti, Iori, Carlo Galli, Fabbri, Giuseppe Guerini, Porta, Garavini, Piccione, Cinzia Maria Fontana, Laforgia, Malpezzi, Marco Di Maio, Ghizzoni, Marzano, Pes, Gadda, Senaldi, Gribaudo, Cimbro, Gnecchi, Quartapelle Procopio, Velo, Lattuca, Moscatt, Tentori, Antezza, La Marca, Fiano, Capone, De Micheli, Chaouki, Beni, Biondelli».
(30 luglio 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    il «reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato» è stato introdotto nel 2009 dall'articolo 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94, (cosiddetto pacchetto sicurezza) che ha modificato il testo unico delle disposizioni circa la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero (decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286) introducendovi l'articolo 10-bis;
    successivamente alla sua introduzione, nell'ordinamento italiano il reato di immigrazione clandestina è stato dichiarato legittimo anche dalla Corte costituzionale (sentenza n. 250 del 2010): come da consolidata giurisprudenza, il potere di disciplinare l'immigrazione rappresenta una prerogativa essenziale dello Stato in quanto espressione del controllo del territorio, in quanto la regolamentazione dell'ingresso e del soggiorno degli stranieri nel territorio dello Stato è «collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali, ad esempio, la sicurezza e la sanità pubblica, l'ordine pubblico» (sentenze della Corte costituzionale n. 148 del 2008, n. 206 del 2006 e n. 62 del 1994);
    il reato di immigrazione clandestina vige anche in numerosi altri Stati europei, ad esempio in Francia, Germania e Gran Bretagna, talvolta con pene molto più severe e, pertanto, anche in sede europea, non vi è alcuna pronuncia che abbia dichiarato l'articolo 10-bis contrario a disposizioni comunitarie o internazionali;
    i centri di identificazione ed espulsione, così denominati con decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125, e previsti dall'articolo 14 del testo unico sull'immigrazione (decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286), come modificato dall'articolo 12 della legge n. 189 del 2002, sono strutture destinate al trattenimento, convalidato dal giudice di pace, degli stranieri extracomunitari irregolari e destinati all'espulsione e si propongono di evitare la dispersione degli immigrati irregolari sul territorio e di consentire la materiale esecuzione, da parte delle forze dell'ordine, dei provvedimenti di espulsione emessi nei confronti degli irregolari;
    l'istituzione e l'operatività di tali centri sono del tutto in linea con quanto dispone e richiede l'Unione europea, poiché è la stessa direttiva 2008/115/CE («direttiva rimpatri») a prevede, agli articoli 15 e 16, il «trattenimento» «in appositi centri di permanenza temporanea» «per il tempo necessario all'espletamento diligente delle modalità di rimpatrio» e ad imporre agli Stati membri, tra cui l'Italia, l'adozione di «norme chiare, trasparenti ed eque per definire una politica di rimpatrio efficace quale elemento necessario di una politica d'immigrazione correttamente gestita»;
    nonostante la normativa europea, risulta però che in Italia dei dodici centri per l'identificazione ed espulsione ne siano stati chiusi sei, di cui ultimo quello di Gradisca d'Isonzo, a causa dei danneggiamenti e delle rivolte che, periodicamente, vengono innescate dai clandestini ospitati ed in attesa di espulsione e, sempre secondo quanto si apprende dai dati pubblicati dal Ministero dell'interno, che la capienza dei centri di identificazione ed espulsione è stata ridotta almeno in quattro dei sei istituti rimasti aperti;
    è evidente che la chiusura dei centri di identificazione ed espulsione comporta, di conseguenza, un insufficiente numero di posti disponibili rispetto al numero dei clandestini presenti sul nostro territorio e in continuo arrivo a causa di politiche lassiste di questo Governo in tema di immigrazione (pare, infatti, che siano oltre 40 mila gli immigrati entrati clandestinamente e sbarcati sulle coste italiane nel 2013), ma soprattutto – circostanza che pone l'Italia non solo in contrasto con la normativa europea ma anche con le politiche degli altri Stati europei in questo momento – la mancata esecuzione dei rimpatri dei clandestini;
    infatti, a fronte di una massiccia immigrazione clandestina e per l'inerzia delle istituzioni comunitarie – che, come noto, hanno nel tempo avocato a sé sempre più competenze in materia di immigrazione, rivelando però sempre più l'incapacità di apprestare in tempi brevi effettivi strumenti di controllo del fenomeno – recentemente in altri Stati europei i Governi hanno cominciato a predisporre misure sempre più severe in materia di contrasto all'immigrazione clandestina, come ad esempio in Gran Bretagna dove il Premier David Cameron ha annunciato che, a partire dall'inizio del 2014, applicherà una severissima politica restrittiva ai sussidi pubblici per l'immigrazione, bloccherà i servizi di assistenza sanitaria gratuita a quegli stranieri che non sono in grado di dimostrare la loro permanenza regolare sul suolo britannico ed introdurrà sanzioni per chi offrirà un lavoro o una casa agli irregolari;
    in Italia la chiusura dei centri di identificazione ed espulsione, la mancata effettuazione delle espulsioni e, invece, operazioni come Mare Nostrum, non solo vanno in direzione completamente opposta alle politiche degli altri Paesi europei in questo momento, ma creano un sistema diversificato di cui i trafficanti di esseri umani approfittano, ed anzi alimentano, il traffico di esseri umani, potendo ora i trafficanti garantire a chi paga il viaggio verso l'Italia la certezza che arriverà sicuramente a destinazione senza venire fermato o rimpatriato;
    al di là degli studi e delle conclusioni delle diverse commissioni ministeriali, sostenere che una rigorosa legislazione interna scoraggia sicuramente i flussi migratori clandestini, e conseguentemente le tragedie come quella recente di Lampedusa, ha un preciso riscontro oggettivo: dopo l'entrata in vigore del reato di ingresso e soggiorno illegale ex articolo 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, nell'anno 2010 gli sbarchi sono diminuiti dell'88 per cento, secondo i dati del Ministero dell'interno pubblicati a suo tempo, ma ora però non più disponibili sul sito, salvando così numerose vite umane e dando un duro colpo ai trafficanti di esseri umani che gestiscono, come è noto ormai a tutti, l'organizzazione di tali viaggi illegali;
    oltre al «trattenimento» nei centri di identificazione ed espulsione, necessario per procedere all'effettiva espulsione dei clandestini, sempre la direttiva cosiddetta rimpatri (direttiva 2008/115/CE) dispone altresì che «al fine di agevolare la procedura di rimpatrio si sottolinea la necessità di accordi comunitari e bilaterali di riammissione con i Paesi terzi»;
    mancando un'azione comune a livello comunitario, occorre, infatti, da parte dei Governi una continua cooperazione internazionale con i Paesi di origine per la stipula o il rinnovo di accordi sia con riguardo alle operazioni di controllo dei confini, soprattutto di quelli costieri, sia per velocizzare e agevolare le operazioni di rimpatrio dei clandestini; anche in questo caso, sono i numeri a dimostrare la validità di tale sistema: ad esempio, dal maggio 2009, a seguito dell'accordo stipulato dal Ministro dell'interno pro tempore Maroni tra l'Italia e la Libia, prima della guerra, il flusso di sbarchi di immigrati era quasi cessato, passando da 39.000 persone nel 2008 a 450 nel 2009;
    essendo il nostro un Paese europeo di confine, ove più difficile è il controllo delle frontiere, in gran parte marittime, dunque è più facile meta dei flussi migratori clandestini, non è pensabile, e nella grave congiuntura economica che si sta attraversando neanche sostenibile, che la gestione di tutto il problema dell'immigrazione, anche quando derivante da vere e proprie emergenze umanitarie a seguito di eventi bellici, sia a carico solo del sistema italiano;
    a livello comunitario, gli Stati non sono ancora riusciti a creare un sistema comune di asilo, come dimostra anche la vicenda della guerra in Libia: in tale occasione il Consiglio Giustizia Affari Interni (GAI) non volle inspiegabilmente applicare la direttiva 55/2001/CE, la quale disponeva la condivisione degli oneri e la redistribuzione sull'intero territorio europeo (burden sharing) delle persone in caso di fughe di massa ed emergenze umanitarie, come, appunto, innegabilmente stava accadendo in Libia;
    recentemente è stato modificato il regolamento di Dublino III, che vede l'Italia fortemente penalizzata quale Paese in gran parte costiero e di primo ingresso e, pertanto, competente all'accoglienza dei richiedenti asilo, ma ancora gli altri Stati non hanno voluto introdurre il principio del burden sharing,

impegna il Governo:

   a rafforzare l'attuale sistema di detenzione amministrativa, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo del tutto legittimo e in linea con le normative europee e di altri Stati, innanzitutto ripristinando quanto prima la funzionalità dei sei centri di identificazione ed espulsione di Gradisca d'Isonzo, Brindisi, Bologna, Crotone, Modena e Trapani Vulpitta, attualmente chiusi;
   a rendere effettivo il recepimento della direttiva 2008/115/CE («direttiva rimpatri»), procedendo in modo celere all'identificazione e al rimpatrio dei clandestini presenti sul territorio italiano, anche mediante il rinnovo e la stipula di accordi con i Paesi di origine;
   ad assumere iniziative per rafforzare e rendere effettiva l'intera disciplina dell'ingresso, del soggiorno e dell'allontanamento dei cittadini stranieri, così come previsto dal testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero (decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286);
   a scoraggiare qualsiasi forma di ingresso «facile» nel territorio italiano, che, come ben noto, non fa che rafforzare e incrementare il grave fenomeno della tratta degli esseri umani e, invece, ad adottare campagne di informazione sia nei Paesi di origine dei principali flussi migratori irregolari che nel nostro Paese, in cui vengano fornite precise informazioni circa la legislazione vigente nel nostro Paese in materia di ingresso e soggiorno irregolare, i rischi inerenti ai viaggi e i tassi di disoccupazione del mercato del lavoro italiano;
   ad attivarsi presso le istituzioni europee affinché venga introdotto il principio del burden sharing nelle politiche relative all'immigrazione e all'asilo, venga rivisto il regolamento di Dublino III e vengano rafforzate le misure di controllo e pattugliamento dei confini, soprattutto costieri;
   a procedere alla stipula e al rinnovo di accordi per il controllo delle acque territoriali con i Paesi di origine, ma soprattutto con quelli dove vengono organizzati i viaggi clandestini e, dunque, dove operano i trafficanti, al fine di scongiurare le partenze e le perdite di ulteriori vite umane.
(1-00266)
«Giancarlo Giorgetti, Corsaro, Fedriga, Molteni, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Buonanno, Busin, Caon, Caparini, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Gianluca Pini, Prataviera, Rondini».
(29 novembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    il problema del flusso migratorio sulle coste italiane, e di conseguenza europee, ha ormai raggiunto livelli di drammaticità insostenibili, sia in termini di vittime causate da affondamenti delle imbarcazioni utilizzate per il viaggio che in termini di gestione da parte dell'amministrazione statale dell'accoglienza, della permanenza ed eventualmente dell'espulsione dei clandestini;
    la cronaca quotidiana parla di disperati del mare, che, pur di sfuggire da una vita di violenze e privazioni nei loro rispettivi Paesi, non esitano ad affrontare massacranti viaggi in condizioni disumane su delle imbarcazioni che chiamare di fortuna risulta essere fuori luogo;
    l'ultima tragedia, in ordine di tempo, nel mare di Sicilia non può non indurre il Governo e l'apparato statale nel suo insieme ad agire, affinché vi sia un efficace e concreto impegno allo scopo di prevenire innanzitutto tragedie come quelle già raccontate e regolamentare sia l'approdo dei migranti nel nostro Paese che il loro soggiorno sul territorio, e più precisamente nei cosiddetti centri di identificazione ed espulsione, meglio noti come cie;
    le condizioni dei centri di identificazione ed espulsione costituiscono un ulteriore problema da affrontare con assoluta urgenza: l'aumento esponenziale degli ultimi tempi del flusso migratorio, in special modo dalle coste settentrionali dell'Africa, ha messo in evidenza il problema della capacità di accoglimento da parte di queste strutture delle migliaia di migranti che vi vengono trasferiti;
    un problema, questo dei centri di identificazione ed espulsione, con risvolti che vanno anche al di là della semplice gestione della questione della permanenza dei migranti: non bisogna dimenticare, infatti, che in passato molti sono stati gli episodi di violenza scoppiati all'interno dei centri di identificazione ed espulsione dovuti proprio al loro sovraffollamento, con pericolose ripercussioni anche sulla sicurezza dei cittadini residenti nelle adiacenze dei centri;
    affinché questi centri di accoglienza, e di conseguenza chi li gestisce, possano fornire un servizio dignitoso, seppur temporaneo, ai migranti, occorre intervenire sui criteri organizzativi e sui relativi finanziamenti, anche al fine di evitare eventuali ricadute negative sulle amministrazioni locali;
    occorre che lo Stato si assuma pienamente l'onere di sostenere finanziariamente il mantenimento e la gestione dei centri, in modo da assicurare una degna soluzione all'accoglimento dei migranti;
    ai fini di una corretta ed efficiente gestione dei centri, è necessario che il capo del dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione del Ministero dell'interno operi con i poteri straordinari di cui all'articolo 5 della legge 24 febbraio 1992, n. 225, che disciplina le ordinanze di protezione civile. In tal modo, il capo del dipartimento potrà disporre di adeguati poteri di intervento gestionale e finanziario sulle strutture;
    come già evidenziato e sottolineato in apertura di premessa a questa mozione, la sicurezza delle località adiacenti ai centri di accoglienza e delle popolazioni ivi residenti risulta essere uno degli aspetti più delicati della questione legata ai flussi migratori;
    nel complesso universo dei problemi legati ai flussi immigratori, non bisogna dimenticare due fattori altrettanto importanti ed essenziali ai fini di una possibile soluzione, ovvero l'integrazione dei migranti e lo sforzo che lo Stato deve assumersi, da una parte, per coinvolgere i Governi di appartenenza dei migranti ad adoperarsi per un controllo maggiore delle partenze effettuate dalle coste dei loro territori e, dall'altra, per sollecitare l'Unione europea a farsi carico di un problema che non può e non deve ricadere soltanto sulle spalle dell'Italia, che, per posizionamento geografico, è anche il Paese che maggiormente risente del flusso migratorio;
    per questi motivi, ai fini della politica di integrazione dei migranti, occorre che i permessi di soggiorno rilasciati siano effettivamente connessi ad un rapporto di lavoro già esistente, con la possibilità di prorogarlo per tutta la durata del già citato rapporto di impiego;
    soltanto in questo modo, è possibile giungere ad una seria ed efficace regolamentazione non solo dei flussi migratori, ma anche assicurare a chi arriva nel nostro Paese le condizioni di vita dignitose che non ha avuto nel suo,

impegna il Governo:

   a fare quanto in suo potere per dotare i centri di identificazione ed espulsione dei finanziamenti necessari per il loro corretto funzionamento e per la loro messa in sicurezza;
   ad assumere iniziative per fornire adeguati poteri di intervento organizzativo e finanziario al capo del dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione del Ministero dell'interno, in modo da poter gestire al meglio i centri esistenti;
   ad incentivare le politiche di integrazione dei migranti, legando il conferimento di permessi di soggiorno a rapporti di lavoro già esistenti, con la possibilità di prorogarne gli effetti di pari passo con la durata del rapporto di lavoro medesimo;
   ad effettuare un lavoro di monitoraggio dei flussi migratori insieme ai Governi dei Paesi da cui maggiormente provengono le imbarcazioni, in modo da rallentare i flussi e prevenire le tragedie del mare causate dalle condizioni disumane di viaggio su imbarcazioni prive di qualsiasi requisito di idoneità;
   a sollecitare le autorità dell'Unione europea ad intervenire allo scopo di fornire un effettivo aiuto e sostegno ai Paesi, quali l'Italia, che sono maggiormente coinvolti ed interessati dai flussi migratori a causa della propria posizione strategica e centrale nel Mediterraneo.
(1-00267)
«Costa, Dorina Bianchi, Alli, Tancredi».
(29 novembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    i centri di identificazione ed espulsione, istituiti dalla legge 6 marzo 1998, n. 40, e previsti dal testo unico sull'immigrazione (decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286), sono strutture di trattenimento degli stranieri in condizione di irregolarità e destinati all'espulsione;
    i centri di accoglienza per richiedenti asilo, in base al decreto del Presidente della Repubblica n. 303 del 2004, di cui al decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, sono strutture nelle quali viene inviato e ospitato, per un periodo variabile di 20 o 35 giorni, lo straniero richiedente asilo privo di documenti di riconoscimento o che si è sottratto al controllo di frontiera, per consentire l'identificazione o la definizione della procedura di riconoscimento dello status di rifugiato;
    l'articolo 14 del testo unico sull'immigrazione al primo comma dispone che: «Quando non è possibile eseguire con immediatezza l'espulsione mediante accompagnamento alla frontiera o il respingimento, a causa di situazioni transitorie che ostacolano la preparazione del rimpatrio o l'effettuazione dell'allontanamento, il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso il centro di identificazione ed espulsione più vicino, tra quelli individuati o costituiti con decreto del Ministro dell'interno, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze. Tra le situazioni che legittimano il trattenimento rientrano (...) anche quelle riconducibili alla necessità di prestare soccorso allo straniero o di effettuare accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità ovvero di acquisire i documenti per il viaggio o la disponibilità di un mezzo di trasporto idoneo»;
    secondo quanto riportato nel rapporto di Medici senza frontiere, in questi centri convivono «negli stessi ambienti vittime di tratta, di sfruttamento, di tortura, di persecuzioni, così come individui in fuga da conflitti e condizioni degradanti, altri affetti da tossicodipendenze, da patologie croniche, infettive o della sfera mentale, oppure stranieri che vantano anni di soggiorno in Italia, con un lavoro (non regolare), una casa e la famiglia o sono appena arrivati. Sono luoghi dove coesistono e s'intrecciano in condizioni di detenzione storie di fragilità estremamente eterogenee tra loro da un punto di vista sanitario, giuridico, sociale e umano, a cui corrispondono esigenze molto diversificate» (Al di là del muro, abstract, Medici senza frontiere – Missione Italia, 2010);
    secondo l'indagine realizzata tra febbraio 2012 e febbraio 2013 da Medici per i diritti umani (Medu), la struttura dei centri di identificazione ed espulsione è simile a quella dei centri di internamento. «I dispositivi di contenimento dei settori in cui si trovano effettivamente ristretti i migranti risultano poi essere dei recinti – assimilabili a grandi gabbie – che racchiudono spazi di dimensioni inadeguate ed eccessivamente oppressivi. (...) L'inattività forzosa per prolungati periodi di tempo, in spazi angusti ed inadeguati, insieme all'incertezza sulla durata e l'esito del trattenimento, rendono il disagio psichico dei migranti uno degli aspetti più preoccupanti e di più difficile gestione all'interno dei centri» (Arcipelago CIE – Sintesi – MEDU, maggio 2013);
    da un punto di vista prettamente sanitario, le indagini dei Medici per i diritti umani evidenziano che le criticità più diffuse sono: «difficoltà di accesso alle cure e alle prestazioni diagnostiche presso le strutture ospedaliere e i servizi sanitari presenti sul territorio; l'impossibilità di accesso ai centri del personale delle ASL; carente comunicazione tra i singoli CIE e tra i CIE e le carceri nei casi di trasferimento di trattenuti malati; carenza di personale medico specialistico (ad esempio psichiatrico e ginecologico) che sarebbe particolarmente necessario dato il contesto dei centri, reciproca sfiducia tra i trattenuti ed il personale sanitario con conseguente compromissione del rapporto medico-paziente; notevole discrezionalità tra i vari centri nella valutazione dell'idoneità sanitaria al trattenimento. (...) In generale all'interno dei CIE non è previsto personale medico specialistico anche laddove sarebbe certamente necessario»;
    a questo contesto a dir poco allarmante, va aggiunto che già nel 2008, in occasione della proroga del termine massimo di permanenza nei centri di identificazione ed espulsione da 60 a 180 giorni complessivi, si erano scatenate forti critiche in ambito giuridico. Come riportato nel rapporto di Medici per i diritti umani sopracitato: «non solo la proroga viene concessa o negata senza contraddittorio fra le parti, ma al giudice non è neppure concesso di modulare la durata del trattenimento prorogato (...). Ed allora appare evidente il contrasto con due parametri costituzionali: il diritto di difesa e la riserva di giurisdizione in materia di libertà personale, che già erano prospettabili quando il trattenimento era consentito nel limite di trenta giorni, prorogabili in altri trenta, ma che ora emergono con forza in ragione della triplicazione della durata della permanenza nei CIE e della genericità dei presupposti legittimanti le proroghe» (in : G. Savio. La disciplina dell'espulsione e del trattenimento nei CIE: La condizione giuridica dello straniero dopo le recenti riforme della normativa in materia di immigrazione, Seminario ASGI-MD, settembre 2009);
    ciononostante, con decreto-legge 23 giugno 2011, n. 89, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 agosto 2011, n. 129, la durata massima del trattenimento nei centri di identificazione ed espulsione è stata ulteriormente prorogata fino ad un massimo di 18 mesi. Tale provvedimento, nel recepire la Direttiva europea 2008/115/CE (cosiddetta direttiva rimpatri), ne avrebbe stravolto il senso, visto che la normativa europea conferisce al trattenimento dello straniero ai fini del rimpatrio un carattere meramente residuale, mentre nell'ordinamento italiano tale misura è praticamente applicata come strumento ordinario di esecuzione delle espulsioni;
    inoltre, l'allungamento dei tempi del trattenimento nei centri di identificazione ed espulsione non ha fatto altro che peggiorare le condizioni dei migranti ed il loro malessere. Ciò risulterebbe da un sensibile incremento degli episodi di fuga nell'anno 2012 rispetto all'anno precedente;
    come riportato nel documento dell'Unione delle Camere Penali Italiane del 15 gennaio 2013 (Osservatorio Carcere – La sentenza di Crotone e la inumana realtà dei CIE): «il Giudice di Crotone il 12 dicembre 2012 ha assolto tre cittadini extracomunitari che avevano indetto una protesta all'interno del Cie Sant'Anna di Isola Capo Rizzuto dal 9 al 13 ottobre, scardinando grate, finestre, ringhiere e rubinetterie, lampade e staccando intonaci, salendo sui tetti e lanciando i materiali indicati. Nella lunga ed articolata motivazione, peraltro contestuale, il Giudice monocratico finisce per ritenere giustificata la condotta dei trattenuti, stabilendo che essi abbiano agito per difendere i loro diritti fondamentali (alla libertà personale e alla dignità umana) da una iniqua ed ingiusta aggressione posta in essere. La violazione della libertà personale e della dignità umana sarebbe avvenuta per ed a causa della piena inosservanza delle norme nazionali e comunitarie che disciplinano il trattenimento dei cittadini stranieri. Inosservanza e violazione di norme riconducibile alla Pubblica amministrazione, intesa come Prefettura e Giudice di Pace, cui è rimessa l'ampia giurisdizione della materia e della libertà personale delle persone. Il Giudice monocratico ha ascoltato i racconti dei trattenuti, ha analizzato i provvedimenti amministrativi e dei Giudici di pace, ha esaurientemente richiamato la normativa comunitaria esistente ed ha disposto una ispezione del Cie. (...) Indipendentemente dalla soluzione giuridica, che però è consequenziale alle premesse, allo sviluppo argomentativo e all'amara realtà fotografata, quello che importa è soprattutto la coraggiosa ed impietosa critica rivolta alle nostre procedure amministrative, inadeguate e non conformi ai presupposti imposti dalla direttiva 115/2008, alla non effettività del controllo giurisdizionale, alla irrealizzabilità di una efficace la difesa tecnica e, non ultimo, alle condizioni inumane del trattenimento dei tre imputati e degli altri ospiti. Talmente ingiusti sono stati valutati – giuridicamente – i provvedimenti di trattenimento presso il Cie, tanto inefficace il controllo del Giudice di Pace, tanto inesistente lo spazio riconosciuto alla difesa e tanto deplorevoli le condizioni di trattenimento che il Giudice ha ritenuto la condotta di rivolta degli imputati scriminata dalla necessità di dover difendere i loro diritti fondamentali da un'ingiusta aggressione alle regole previste dall'ordinamento nazionale e sovrannazionale. (...) Appaiono in concreto non recepiti, e l'analisi dei singoli provvedimenti amministrativi dei tre imputati è impietosa, il principio di proporzionalità del trattenimento, quale misura da applicarsi nel caso in cui qualsiasi altra risulti inadeguata, ed il principio dell'obbligo motivazionale di tale scelta che dovrebbe rappresentare la extrema ratio. Il controllo giurisdizionale di quei provvedimenti, affidato al Giudice di pace, viene definito dal Giudice di Crotone “non effettivo”: avvisi senza nozioni tecniche, mancanza di traduzione degli atti, assenza di un interprete in una udienza altamente tecnica quale quella di convalida e difensori catapultati il giorno stesso in udienza senza la possibilità di conoscere adeguatamente il caso specifico e gli atti. (...) Le condizioni di permanenza sono state ritenute all'esito della ispezione posta in essere dal Giudice togato contrarie alla disposizione dell'articolo 14 decreto legislativo 286/1998 ed in palese violazione dei divieti sanciti dall'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (...)»;
    nel giugno 2012, il Ministro dell'interno ha istituito una commissione interna al dicastero per l'analisi della situazione dei centri di identificazione ed espulsione italiani. Le risultanze contenute nel documento programmatico appaiono molto diverse da quelle frutto dell'indagine svolta dalla commissione De Mistura istituita nel 2006. Quest'ultima, infatti, si espresse nel senso del superamento attraverso lo svuotamento degli allora centri di permanenza temporanea ed assistenza, mentre, come riportato dall'Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione (Asgi) il documento programmatico è «volto ad incrementare i centri di detenzione amministrativa in nome dell'efficienza e del risparmio di spesa, individuando le criticità nella sola (o prevalente) condotta delle persone trattenute.»(Asgi, Il Documento programmatico sui C.I.E. del Ministero dell'Interno: un pessimo programma di legislatura, 23 aprile 2013);
    l'Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione critica apertamente il documento ministeriale, al punto da chiedere al Ministro dell'interno e alle istituzioni di non tenerne conto;
    secondo il monitoraggio di Lunaria, associazione di promozione sociale, per i centri di identificazione ed espulsione lo Stato affronta una spesa di 55 milioni di euro l'anno, e ciò a fronte di risultati evidentemente scarsi, visto che «su 169.126 persone transitate nei centri tra il 1998 e il 2012, sono state soltanto 78.081 (il 46,2 per cento del totale) quelle effettivamente rimpatriate»,

impegna il Governo:

   ad intervenire in modo strutturale e non emergenziale al fine di rendere omogeneo sul territorio italiano l'intervento di assistenza nei centri di identificazione ed espulsione e nei centri di accoglienza per richiedenti asilo, anche in relazione ai servizi di assistenza sanitaria ed alimentare, nel rispetto delle culture delle persone ospitate;
   ad assumere iniziative per riformare l'intera disciplina dell'ingresso, del soggiorno con eventuale inserimento lavorativo e della gestione dei flussi;
   a proporre, presso gli organi competenti in sede di Unione europea, che la problematica in questione contempli un'equa condivisione di oneri e destinazioni finali che siano distribuiti proporzionalmente sull'intero ambito territoriale comunitario, in riferimento anche ad un'efficace prevenzione dell'attività criminale, spesso connessa ai flussi migratori, in relazione alla tratta degli esseri umani;
   a razionalizzare le risorse impiegate nel settore al fine di evitare sprechi ed interventi inefficaci anche attraverso l'incremento del numero delle commissioni territoriali, soprattutto nelle zone di sbarco, per garantire il rispetto delle tempistiche del rilascio dello status di rifugiato;
   a verificare il rispetto dei termini stabiliti nei contratti pubblici d'appalto, all'uopo stipulati secondo i principi di trasparenza e massima diffusione dei relativi bandi di gara;
   a riferire l'esito dei sopralluoghi effettuati nelle strutture, pubblicando i relativi rapporti sul sito istituzionale del Ministero dell'interno.
(1-00269)
«Toninelli, Dadone, D'Ambrosio, Colonnese, Marzana, Lorefice, Simone Valente, Luigi Gallo, Frusone, Brescia, Colletti, Cozzolino, Fraccaro, Lombardi, Nuti, Dieni, Nesci».
(2 dicembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    l'immigrazione costituisce per l'Italia e l'Unione europea un fenomeno di rilevante significato sociale, con notevoli implicazioni sul piano demografico, economico, politico, culturale e antropologico, che richiede interventi strutturali e mirati a garantire anche la coesione sociale;
    in particolare nella XVI legislatura, il Governo Berlusconi ha affrontato il tema nei suoi vari aspetti, senza rinunciare a politiche di accoglienza, sostegno e integrazione dell'immigrazione regolare, accompagnandole con misure di rigore, per massimizzare il suo apporto positivo all'interno del sistema produttivo e sociale del Paese;
    i Governi Berlusconi sostenuti dalla maggioranza di centrodestra hanno promosso una politica di immigrazione che si fonda su due dimensioni che si sostengono reciprocamente: fermezza e rigore contro la clandestinità e integrazione fondata sul lavoro, sulla conoscenza e sul rispetto dell'identità italiana;
    in una situazione internazionale particolarmente complicata, per molti aspetti drammatica, di fronte a una crisi economico-finanziaria di portata mondiale e in presenza di fatti rivoluzionari nei Paesi della riva sud del Mediterraneo, il Governo è riuscito a governare le emergenze che si è trovato davanti sempre nell'interesse del Paese, anche riuscendo nell'impresa di gestire l'ondata di flussi migratori che ha interessato le coste italiane;
    una coerente integrazione di milioni di persone già presenti nel nostro Paese e di molte migliaia che chiedono l'ammissione richiede una disciplina dei flussi e dei visti che garantisca la presenza e la convivenza degli immigrati provenienti dalle varie nazioni, tenendo in considerazione le reali possibilità di assorbimento nel tessuto sociale italiano, al fine di assicurare il rispetto e la tutela della dignità umana dei lavoratori stranieri, dei valori e della sicurezza dei cittadini del nostro Paese;
    l'ingresso illegale nel territorio dello Stato costituisce nella maggior parte dei casi il presupposto per l'emarginazione e lo sfruttamento lavorativo di molti stranieri e, spesso, il serbatoio per il reclutamento della manovalanza della criminalità;
    per continuare a combattere efficacemente la clandestinità bisogna proseguire nell'applicazione puntuale e rigorosa della cosiddetta «legge Bossi-Fini», che lega la possibilità di ingresso e soggiorno sul territorio dello Stato al possesso di un regolare contratto di lavoro;
    questo fondamentale principio stabilito dall'ordinamento italiano si sta affermando anche nelle più moderne legislazioni degli altri Paesi europei;
    quello che manca ancora è una politica comune europea sulla gestione dell'immigrazione illegale; è necessario ragionare, a livello europeo, su come consentire l'immigrazione legale e, quindi, la partecipazione di tanti lavoratori stranieri allo sviluppo del Paese e dell'Unione europea, impedendo al tempo stesso che organizzazioni criminali gestiscano vere e proprie tratte di esseri umani;
    in questo ambito, il Governo italiano ha per primo sollevato in Europa il problema, sottolineando come il fronteggiare, da un lato, l'immigrazione clandestina e l'adottare, dall'altro, una politica di accoglienza, di inserimento e di integrazione dei lavoratori stranieri che giungono in Europa non costituiscono questioni che possono essere semplicemente delegate alla buona volontà dei Paesi costieri;
    nonostante, infatti, molte e forse troppe dichiarazione di intenti, l'Europa non ha dato al nostro Paese un contributo decisivo e l'Italia ha finito per dover affrontare praticamente da sola le ondate migratorie, ondate che hanno subito una forte impennata a causa delle diverse situazioni di conflitto che si sono sviluppate sulla riva sud del Mediterraneo ma che, comunque, rappresentano un dato permanente che va affrontato, sia nell'interesse dei Paesi di accoglienza sia nei confronti delle popolazioni dei Paesi di emigrazione;
    lo sforzo logistico e finanziario sostenuto dall'Italia, fin dalle rivolte sviluppatesi in Tunisia, in Egitto e in Libia, è stato notevole e molto impegnativo e i sacrifici, segnatamente delle popolazioni di Lampedusa, sono state enormi. Questo significa gestione dei flussi ma anche rimpatri coattivi per coloro che non hanno titolo all'accoglienza;
    la solidarietà dell'Europa non può essere limitata al campo finanziario: l'immigrazione irregolare è un problema annoso e il compito di affrontarlo è stato lasciato ai Paesi in prima linea e, in particolare modo, all'Italia. Lampedusa e, in altro modo, altri punti di approdo in Italia rappresentano la porta sud dell'Europa e non solo del nostro Paese: guerre, persecuzioni, regimi autoritari, grandi trasformazioni appena iniziate sulla riva sud del Mediterraneo, privatizzazione della violenza e debolezza o assenza statuale, pulizia etnica e insicurezza di vita spingono centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini a cercare il proprio futuro in Europa rischiando la vita;
    le frontiere italiane non sono più, ormai, nazionali ma europee. Sono frontiere comuni che delimitano uno spazio, quello europeo, che è comune e che implica una gestione che deve essere comune. In questo senso, sull'onda emotiva dell'ultima tragedia di Lampedusa l'Unione europea ha fatto molte promesse, ma al primo Consiglio europeo utile Van Rompuy ha sostanzialmente rinviato la questione al prossimo mese di giugno 2013;
    è necessario, quindi, che anche nel settore dell'immigrazione l'Europa si muova secondo i principi di collaborazione e di mutuo sostegno;
    le strutture che accolgono, assistono e ospitano gli immigrati irregolari presenti nel Paese si distinguono in centri di accoglienza (cda), centri di accoglienza richiedenti asilo (cara) e centri di identificazione ed espulsione (cie);
    tali centri, in particolare i centri di identificazione ed espulsione, fanno ormai stabilmente parte dell'ordinamento e risultano indispensabili per un'efficiente gestione dell'immigrazione irregolare. La finalità del trattenimento degli stranieri irregolari è quella di rimuovere gli ostacoli che, transitoriamente, impediscono di eseguire il rimpatrio, laddove ricorrano: il rischio che la persona da allontanare si renda irreperibile, l'esigenza di accertare la sua identità (poiché priva di passaporto), oppure la necessità di acquisire un mezzo di trasporto idoneo al rimpatrio;
    decorsi i primi 180 giorni di trattenimento, la misura è prorogabile per periodi di 60 giorni, fino a ulteriori 12 mesi, solo se il rimpatrio non è stato ancora eseguito a causa della mancanza di collaborazione della straniero, che ostacola il rimpatrio, oppure a causa di ritardi nell'ottenimento del lasciapassare dal suo Paese di origine;
    nel 2012, la percentuale dei rimpatriati dopo il trattenimento in un centro di identificazione ed espulsione è aumentata sino al 50,6 per cento (nel 2010 era del 48,2 per cento), mentre è conseguentemente diminuita (dal 17,5 per cento del 2010 al 5,2 per cento del 2012) la percentuale di coloro che sono stati dimessi dai centri per mancata identificazione;
    la durata effettiva del trattenimento dipende dal livello di cooperazione offerto da ciascun Paese di provenienza dell'immigrato irregolare. Per esempio, nel caso della Tunisia, in virtù del processo verbale firmato a Tunisi il 5 aprile 2011, sono state avviate procedure semplificate di rimpatrio dei tunisini. Nel 2012, il tempo di permanenza medio degli stranieri nei centri di identificazione ed espulsione è stato di 38 giorni a fronte di un 50,6 per cento di espulsi dopo il trattenimento;
    l'interesse manifestato da più parti della classe politica, la costante vigilanza degli organismi internazionali, e, purtroppo, i tragici episodi degli sbarchi del mese di ottobre 2013 hanno determinato, soprattutto negli ultimi tempi, una maggiore attenzione e un più elevato controllo dell'attività svolta in materia dall'amministrazione pubblica. L'ondata di manifestazioni e rivoluzioni, che ha avuto inizio in Tunisia nel dicembre 2010, e che poi si è allargata a tutta la sponda nord-africana del Mediterraneo, meglio conosciuta come «Primavera araba», ha comportato un notevole incremento della presenza di immigrati irregolari non identificati in Italia, creando difficoltà e nuovi interrogativi sulla gestione dei centri di identificazione ed espulsione e sulle politiche migratorie adottate al riguardo;
    nel mese di giugno del 2012, il Ministro dell'interno pro tempore, Annamaria Cancellieri, ha costituito una task-force, interna al Ministero, con il compito di analizzare la situazione in cui versano i centri di identificazione ed espulsione italiani, relativamente agli aspetti di ordine normativo, organizzativo e gestionale, allo scopo di elaborare un quadro d'insieme e di formulare proposte idonee a migliorarne l'operatività e ad assicurare l'uniformità complessiva del sistema di accoglienza nei centri medesimi. Il presidente della commissione, il Sottosegretario di Stato pro tempore Saverio Ruperto, è stato altresì incaricato di recarsi presso i centri presenti su tutto il territorio nazionale, al fine di raccogliere ogni informazione utile allo svolgimento dell'analisi e all'elaborazione di un documento programmatico che ne racchiude le conclusioni;
    dalle visite programmate dal Sottosegretario di Stato pro tempore Ruperto, e condotte presso i centri di identificazione ed espulsione nel corso del 2012, sono emerse talune disparità nella conduzione dei centri ed ha reso evidente la necessità di dare uniformità organizzativa, soprattutto per quanto riguarda il trattamento degli immigrati ospitati nelle strutture;
    dagli approfondimenti compiuti in virtù dell'attività svolta dal tavolo di lavoro, è emerso che gli aspetti critici più evidenti nella gestione dei centri di identificazione ed espulsione riguardano, in primo luogo, gli ingenti oneri economici che l'amministrazione deve sostenere per la manutenzione e conservazione delle strutture, le quali sono sovente oggetto di atti vandalici da parte dei soggetti ivi trattenuti;
    il tavolo di lavoro ha prodotto, ad inizio 2013, un documento programmatico in cui sono state delineate una serie di proposte programmatiche utili a migliorare le condizioni dei centri,

impegna il Governo:

   ad adottare le opportune iniziative per rendere la permanenza nei centri di identificazione ed espulsione più breve possibile, nonché per prevenire situazioni di disordine e violenza, nel rispetto dei diritti della persona;
   ad assumere iniziative per rendere l'organizzazione dei centri di identificazione ed espulsione basata su standard di qualità elevati, omogenei e verificabili, e improntata a criteri di economicità ed efficienza;
   ad adottare le opportune iniziative per offrire, all'interno dei centri di identificazione ed espulsione, un servizio di assistenza sanitaria efficiente e completo per favorire una maggiore tutela della salute di tutti gli ospiti delle strutture;
   al fine di ridurre i tempi di identificazione degli stranieri irregolari, a mettere in campo ogni strumento utile alla collaborazione con le autorità consolari dei Paesi maggiormente interessati al fenomeno migratorio, semplificando i compiti dei funzionari diplomatici nell'organizzazione degli incontri con gli stranieri da identificare;
   a mettere all'ordine del giorno dell'agenda europea il tema dell'accoglienza agli immigrati e ai profughi, e la promozione di una politica di accoglienza europea, introducendo il principio del burden sharing e prevedendo anche lo stanziamento di risorse specifiche per i centri di identificazione ed espulsione italiani, a fronte di una disponibilità del nostro Paese a farsi carico di una congrua parte dei profughi, nonché la possibilità di ricollocazione della parte restante tra gli altri Stati membri, permettendo, ad esempio, il ricongiungimento familiare ed il transito ai migranti che volessero fare richiesta di asilo in uno Stato diverso da quello di primo accesso all'Unione europea;
   a promuovere e valorizzare l'apporto dei lavoratori immigrati al progresso economico e sociale del Paese, favorendo, al contempo, un processo di effettiva integrazione nel tessuto sociale italiano e la conoscenza ed il rispetto delle regole e della cultura di riferimento del nostro Paese;
   a proseguire nel potenziamento degli uffici amministrativi competenti, affinché i permessi di soggiorno siano rilasciati e rinnovati nei tempi previsti dalla legge;
   a vigilare sull'applicazione delle disposizioni in vigore e sul rispetto puntuale e rigoroso delle norme che legano la possibilità di ingresso e soggiorno sul territorio dello Stato al possesso di un regolare contratto di lavoro e ad intensificare e rendere pienamente efficaci i controlli ispettivi, con il fattivo coinvolgimento dei vari livelli istituzionali e delle parti sociali;
   a valutare, sulla base dell'esperienza compiuta, ogni possibilità di miglioramento dell'attuale assetto normativo, per contrastare l'immigrazione clandestina e regolare i flussi migratori, legandoli alle effettive necessità economiche e sociali del Paese;
   ad intensificare una specifica, coordinata e capillare attività di contrasto dei fenomeni di illegalità e di sfruttamento del lavoro irregolare;
   a potenziare le sinergie con le regioni e gli enti locali, per favorire la diffusione di ogni informazione utile al positivo inserimento degli stranieri nella società italiana, come la conoscenza dei loro diritti e doveri, le opportunità di integrazione e di crescita personale e comunitaria offerte dalle amministrazioni pubbliche e dall'associazionismo, nonché per sostenere ogni iniziativa di prevenzione della discriminazione razziale.
(1-00271) «Palese, Bergamini, Polverini».
(2 dicembre 2013)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE VOLTE ALL'INTRODUZIONE DI UN PRELIEVO STRAORDINARIO SUI REDDITI DA PENSIONE SUPERIORI AD UN DETERMINATO IMPORTO

   La Camera,
   premesso che:
    la questione delle «pensioni d'oro» è oggetto di accese discussioni sia fra i cittadini sia fra le forze politiche, senza che, ad oggi, si sia pervenuti ad una proposta risolutiva;
    un primo tentativo di intervenire con un prelievo straordinario di solidarietà è stato bocciato dalla Consulta che, con la sentenza n. 116 del 2013 depositata il 5 giugno 2013, ha dichiarato incostituzionale il comma 22-bis dell'articolo 18 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, recante «Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria», convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, che aveva introdotto un «contributo di perequazione» nella misura del 5 per cento sulla quota di assegno eccedente i 90.000 euro, del 10 per cento per la parte eccedente i 150.000 euro e del 15 per cento per la parte eccedente i 200.000 euro;
    in precedenza la Corte costituzionale, con la sentenza n. 223 del 2012, aveva già «bollato» e reso incostituzionale il prelievo sugli stipendi pubblici elevati, in quanto giudicato «un intervento impositivo irragionevole discriminatorio ai danni di una sola categoria di cittadini», poiché i provvedimenti colpivano i soli dipendenti pubblici e non anche i lavoratori autonomi o privati, o i pensionati pubblici, lasciando indenni le altre categorie previdenziali;
    come si legge in ambedue le sentenze della Corte costituzionale, «Il risultato di bilancio avrebbe potuto essere ben diverso e più favorevole per lo Stato, laddove il legislatore avesse rispettato i principi di eguaglianza dei cittadini e di solidarietà economica»; viceversa, in conseguenza della sentenza della Consulta, lo Stato dovrà restituire circa 84 milioni di euro, con conseguenze negative sull'opinione pubblica;
    permangono i presupposti di eccezionalità della situazione economica, che avevano indotto il Governo, allora in carica, ad adottare il citato prelievo solidale, anzi oggi, rispetto al 2011, la recessione si è acuita e la situazione dei conti pubblici italiani è peggiorata a causa del trend negativo di crescita del prodotto interno lordo;
    a maggior ragione necessitano ulteriori risorse da destinare al sostegno delle fasce più deboli e resta inaccettabile che circa il 44 per cento dei pensionati italiani, quindi oltre 7 milioni di cittadini, riceve oggi dall'Inps un assegno inferiore a mille euro mensili e, nel 13 per cento dei casi, tale assegno non supera l'importo di 500 euro, mentre sussistono pensioni d'oro di importi mensili superiori a 20.000 euro fino al caso eclatante di 90.000 euro mensili;
    il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, Enrico Giovannini, ha espresso aperture in merito ad un ventilato prelievo sulle pensioni che superino una determinata soglia di importo, sostenendo che tale intervento «non porterebbe molti soldi, ma sarebbe una misura di giustizia sociale» (intervista su Il Corriere della Sera);
    il Ministro del lavoro e delle politiche sociali ha dichiarato, altresì, la necessità di reperire risorse da destinare ai trattamenti pensionistici minimi;
    è inaccettabile giustificare giuridicamente i trattamenti pensionistici elevati di oltre 20 volte il trattamento minimo in quanto autorizzati da disposizioni di legge antecedenti, perché i suddetti presupposti giuridici non sono più adeguati al contesto economico attuale di grave depressione economica e le decisioni assunte in passato oggi minano il «patto sociale» fra i cittadini e consentono uno spreco di «risorse pubbliche» con grave danno sia per i pensionati che percepiscono il trattamento minimo, sia per le giovani generazioni colpite da tassi di disoccupazione ai massimi storici;
    è auspicabile, invece, sottoporre a valutazione i trattamenti pensionistici di elevato importo per evidenziare la quota di pensione imputabile agli effettivi contributi versati e la quota imputabile al sistema di calcolo retributivo, al fine di assumere decisioni politiche sulle cause degli eccessivi privilegi concessi prima della riforma del sistema pensionistico;
    un eventuale intervento normativo deve essere finalizzato a creare una maggiore equità nell'erogazione dei trattamenti di quiescenza, senza generare situazioni di disparità di trattamento non conformi ai principi della Costituzione;
    per l'anno 2013, l'importo minimo del trattamento corrisponde a 495,43 euro mensili;
    è opportuno consentire un'equa e solidale progressività dell'imposizione sui redditi da pensione, applicando aliquote progressive in base alle classi di pensione mensile contenute nelle tabelle ufficiali dell'Istat per l'anno 2012;
    da proiezioni effettuate, si potrebbe realizzare un maggior gettito non inferiore a 1.142.061.790 euro, da destinare all'aumento dell'importo dei trattamenti minimi, applicando le seguenti aliquote:
     a) da 1 fino a 6 volte il minimo: aliquota dello 0,1 per cento;
     b) oltre 6 fino a 11 volte il minimo: aliquota dello 0,5 per cento;
     c) oltre 11 fino a 15 volte il minimo: aliquota del 5 per cento;
     d) oltre 15 fino a 20 volte il minimo: aliquota del 10 per cento;
     e) oltre 20 fino a 25 volte il minimo: aliquota del 15 per cento;
     f) oltre 25 fino a 31 volte il minimo: aliquota del 20 per cento;
     g) oltre 31 fino a 39 volte il minimo: aliquota del 25 per cento;
     h) oltre 39 fino a 50 volte il minimo: aliquota del 30 per cento;
     i) oltre 50 volte il minimo: aliquota del 32 per cento,

impegna il Governo:

   previa valutazione dei contenuti della sentenza della Corte costituzionale 3 giugno 2013, n. 116, a valutare l'opportunità di assumere iniziative per prevedere, per un periodo limitato di tre anni, sui redditi da pensione lordi annui un contributo solidale suppletivo applicando le indicate aliquote progressive differenziate in base alle classi di importo mensile percepito, al fine di riconoscere un aumento di 518 euro all'anno della pensione minima (ora consistente in 6.440,59 euro all'anno) di cui, in relazione agli ultimi dati aggiornati Istat 2011, potrebbero beneficiare circa 2.219.482 pensionati;
   a valutare l'opportunità di revisionare i trattamenti pensionistici erogati per prestazioni lavorative di elevato importo, al fine di adeguare i trattamenti medesimi all'effettiva contribuzione da parte del lavoratore beneficiario in quiescenza, riducendo la quota di trattamento acquisita in base al sistema retributivo, fissando per ciascuna forma di sistema un tetto massimo di pensione erogabile, onde evitare disparità eccessive nell'erogazione delle pensioni tali da rendere il sistema iniquo ed oramai inaccettabile per i molti cittadini che vivono alle soglie della povertà e percepiscono pensioni minime di importo tale da non consentire nemmeno lo svolgimento di una vita dignitosa.
(1-00194)
(Nuova formulazione) «Sorial, Fraccaro, Villarosa, D'Incà, Nuti, Cecconi, Castelli, Caso, Brugnerotto, Cancelleri, Pesco, Nesci».
(25 settembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    la crisi economica che l'Italia, come le altre economie europee, sta attraversando manifesta i propri effetti negativi in particolare modo nei confronti delle categorie più deboli, alle quali è stato chiesto un enorme sacrificio per il bene dell'Italia, a suono di inasprimenti fiscali (iva, accise sulla benzina ed altro) e dell'applicazione di nuove imposte, tra cui anche quella sul bene primario di ogni famiglia, cioè la prima casa di abitazione;
    in tale contesto spicca la questione delle cosiddette «pensioni d'oro», ovvero quelle pensioni il cui elevato importo, a detta dello stesso Ministro del lavoro e delle politiche sociali, nel corso della discussione in Aula di un question-time presentato sul tema dal gruppo di Fratelli d'Italia, «appare stridente nell'attuale contesto socio-economico e di sacrifici imposti alla generalità della popolazione. È peraltro evidente che non è tanto l'elevato importo a destare l'attenzione, quanto i meccanismi che ad esso hanno dato luogo, in quanto soltanto in minima parte connessi ai contributi effettivamente versati dal lavoratore, e per la maggior parte legati alla peculiarità del sistema»;
    i meccanismi cui il Ministro del lavoro e delle politiche sociali fa riferimento attengono al cosiddetto metodo retributivo di calcolo dei trattamenti pensionistici, cioè alle disposizioni di legge, in vigore fino alla riforma pensionistica del 1995, che prevedevano che l'importo da corrispondere a titolo di pensione non fosse determinato in base ai contributi versati dal lavoratore nell'arco della sua vita professionale, bensì sulla base degli ultimi stipendi percepiti;
    nonostante le numerose critiche levatesi in merito a tali pensioni nel corso degli ultimi anni, sia da alcune forze politiche, sia da parte di autorevoli commentatori sui mezzi d'informazione, sia, non ultimo, da parte dell'opinione pubblica, esse vengono generalmente considerate come diritti acquisiti e, quindi, di fatto, immodificabili, perché frutto di norme legittime che hanno operato nel tempo;
    ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, invece, le pensioni d'oro non possono essere considerate altro che il prodotto di una grave ingiustizia sociale, che agisce in danno soprattutto dei giovani, i quali rischiano di non arrivare mai a percepire una propria pensione e che, ad oggi, versano i propri contributi sociali per sostenere la spesa di un sistema pensionistico volto a mantenere anacronistici privilegi;
    nel nostro Paese vivono oltre 16,5 milioni di pensionati, con una spesa complessiva di 270,5 miliardi annui, oltre dodici dei quali vanno a beneficio di una platea di poco meno di 190.000 soggetti;
    tra questi ve ne sono quasi trecento che percepiscono una pensione superiore a cinquanta volte il minimo, vale a dire che incassano oltre 24 mila euro al mese, e questo, nella stragrande maggioranza dei casi, senza alcuna corrispondenza con i contributi versati;
    con la sentenza del 6 giugno 2013, n. 116, la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità del contributo di solidarietà, introdotto nell'estate 2011 dal Governo Berlusconi e poi confermato dal Governo Monti, a carico delle pensioni pubbliche e private superiori ai 90 mila, ai 150 mila e ai 200 mila euro lordi l'anno, dalle quali si tratteneva una somma pari a, rispettivamente, il cinque, il dieci e il quindici per cento;
    nell'introduzione di un contributo di solidarietà a danno degli importi pensionistici più elevati la Corte costituzionale ha ravvisato la violazione sia del principio di uguaglianza, di cui all'articolo 3 della Costituzione, sia dell'articolo 53 della Carta costituzionale, relativo alla proporzionalità e progressività delle imposte, rilevando che «a fronte di un analogo fondamento impositivo, dettato dalla necessità di reperire risorse per la stabilizzazione finanziaria, il legislatore ha scelto di trattare diversamente i redditi dei titolari di trattamenti pensionistici: il contributo di solidarietà si applica su soglie inferiori e con aliquote superiori, mentre per tutti gli altri cittadini la misura è ai redditi oltre 300.000 euro lordi annui, con un'aliquota del 3 per cento, salva in questo caso la deducibilità dal reddito»;
    di tutt'altro avviso era, invece, l'Avvocatura dello Stato, che ha dichiarato che «l'intervento censurato appare pienamente rispettoso dei criteri di capacità contributiva e di progressività»;
    a seguito della sentenza della Corte costituzionale, non solo il contributo straordinario di solidarietà è stato disapplicato, ma tutte le somme non erogate sulla base delle disposizioni che lo avevano istituito sono state restituite, vanificando del tutto qualunque beneficio per le casse dello Stato, che, al contrario, ha dovuto reperire, con la legge di stabilità attualmente in discussione al Senato, ben ottanta milioni di euro per i rimborsi, aggiungendo al danno anche la beffa;
    in un'intervista a Il Corriere della Sera del 25 maggio 2013, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, con riferimento all'ipotesi di un taglio delle pensioni più elevate, ha dichiarato che «non si vede perché nel momento in cui si chiedono sacrifici a tutti qualcuno debba essere escluso»;
    nel disegno di legge di stabilità 2014, il contributo di solidarietà a carico degli importi pensionistici più elevati è stato reintrodotto, ma con le medesime modalità di quello giudicato incostituzionale e ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo senza tenere in alcun conto le osservazioni espresse in merito dalla Corte costituzionale, che aveva auspicato che un eventuale prelievo di tipo straordinario fosse disposto a carico non solo dei pensionati ma anche dei lavoratori attivi, ed è perciò con grande probabilità destinato nuovamente a cadere sotto la scure della massima Corte;
    la stessa Corte costituzionale, peraltro, ha adottato una prassi, dai firmatari del presente atto di indirizzo già stigmatizzata in un appello al Presidente della Repubblica, in base alla quale si indica alla carica di presidente il membro più anziano della stessa, il quale, inevitabilmente, cessa dalla carica prima della scadenza del triennio previsto dal dettato costituzionale per sopraggiunti limiti di età, dando spazio al successore anagraficamente più prossimo;
    ne consegue che in molti casi la presidenza è assunta per pochissimi mesi, forse nemmeno necessari per istruire ed organizzare il lavoro connesso alla funzione, e che, salvo rarissime eccezioni, tutti i giudici della Corte costituzionale cessano il loro incarico con la carica di presidente e il conseguente beneficio di ottenere un trattamento pensionistico ed un'indennità maggiorate rispetto al diritto acquisito sino all'assunzione della carica presidenziale;
    attualmente, presso la XI Commissione (lavoro pubblico e privato) della Camera dei deputati, sono in corso di esame tre proposte di legge recanti misure per incidere sui trattamenti pensionistici particolarmente elevati,

impegna il Governo:

ad assumere iniziative volte a prevedere la fissazione di un tetto, pari a dieci volte il trattamento minimo Inps, ai trattamenti pensionistici erogati anche solo in parte in base al metodo retributivo, e il ricalcolo – e la successiva erogazione – degli stessi trattamenti, per la parte eccedente il tetto, secondo il metodo contributivo, di cui alla legge 8 agosto 1995, n. 335, al fine di rendere trasparente e lineare la corrispettività tra retribuzione percepita, contribuzione versata e trattamento corrisposto, nel rispetto dei principi di solidarietà sociale, nonché al fine di realizzare un riequilibrio in favore delle generazioni più svantaggiate nel segno di un indispensabile principio di equità generazionale.
(1-00255)
«Giorgia Meloni, Cirielli, Corsaro, La Russa, Maietta, Nastri, Rampelli, Taglialatela, Totaro».
(25 novembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    il tema della riduzione dei trattamenti pensionistici di importo elevato – le cosiddette «pensioni d'oro» – continua a richiamare una forte attenzione degli organi di informazione e dell'opinione pubblica, stimolando un ampio dibattito sui principi di equità e giustizia nell'erogazione di prestazioni previdenziali, anche in chiave intergenerazionale e di sostenibilità complessiva del sistema pensionistico;
    per quanto riguarda, in particolare, il tema dei trattamenti peggiorativi con effetto retroattivo, la Corte costituzionale ha escluso, in linea di principio, che sia configurabile un diritto costituzionalmente garantito alla «cristallizzazione» normativa – riconoscendo quindi al legislatore la possibilità di intervenire con scelte discrezionali – purché ciò non avvenga in modo irrazionale e, in particolare, frustrando in modo eccessivo l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulla normativa precedente;
    quanto al contributo di solidarietà sulle pensioni di importo elevato, la Corte costituzionale si è a più riprese pronunciata inquadrandolo nel genus delle prestazioni patrimoniali imposte per legge – soggetto per tale ragione al principio di uguaglianza e ai criteri di progressività – da ultimo con la sentenza n. 116 del 2013, con cui ha dichiarato l'illegittimità dell'articolo 18, comma 22-bis, del decreto-legge n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, il quale introduceva un contributo di perequazione, a decorrere dal 1o agosto 2011 e fino al 31 dicembre 2014, sui trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie;
    attualmente presso la XI Commissione (lavoro pubblico e privato) della Camera dei deputati è in corso l'esame parlamentare di più proposte di legge abbinate in materia di interventi sui trattamenti pensionistici di importo elevato mentre, sul medesimo argomento, è appena intervenuto anche il disegno di legge di stabilità 2014 (attualmente all'esame del Senato);
    sul tema delle «pensioni d'oro» molti politici stanno alimentando un dibattito propagandistico e privo di una qualsivoglia analisi di quale sia la situazione attuale del sistema pensionistico italiano e cosa sia necessario fare per affermare realmente e concretamente principi di equità e giustizia;
    è necessario partire dalla recente «riforma Fornero» che ha determinato molti guasti e tanti altri ne creerà se non verrà prontamente e strutturalmente riformata a sua volta. Ci sono almeno 390 mila lavoratori cosiddetti esodati ridotti sul lastrico; mancano del tutto meccanismi di solidarietà interni al sistema che sarebbero, invece, necessari soprattutto per i lavoratori giovani, quelli atipici e per le donne che hanno subito la violenza di un innalzamento di 5 anni dell'età pensionabile, misura derivante da un'idea negativa della parità senza riconoscimento alcuno del valore sociale ed economico dei lavori di cura; si è previsto un significativo innalzamento dell'età pensionabile per tutti, creando un sistema rigido che non consente un'uscita flessibile dal mondo del lavoro;
    la «riforma Fornero» contenuta nel decreto-legge cosiddetto «Salva Italia» era accompagnata da una relazione tecnica che indicava risparmi per 22 miliardi di euro circa nel periodo 2012/2021, ma il rapporto dell'area attuariale dell'Inps del giugno 2013 ha indicato risparmi addirittura superiori a 90 miliardi di euro nello stesso periodo;
    il sistema previdenziale è stato utilizzato come bancomat da parte dello Stato e i risparmi non sono stati utilizzati per migliorare la condizione della vastissima platea di pensionati italiani che percepisce pensioni di importi bassi o bassissimi, al di sotto della soglia della povertà;
    è una storia triste che si ripete, peraltro: si deve constatare come tutti gli ingentissimi risparmi successivamente conseguiti con le varie riforme pensionistiche fatte negli ultimi anni sono stati assegnati o alla riduzione del deficit oppure ad esigenze considerate «più importanti». Un caso eclatante è accaduto con i risparmi generati dall'aumento dell'età di pensionamento delle donne che, a norma dell'articolo 22-ter del decreto-legge n. 78 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 102 del 209, dovevano essere destinati a «politiche sociali e familiari»: sono invece finiti nel calderone della finanza pubblica, a finanziare tutt'altro;
    occorre, quindi, cambiare l'inutile «riforma Fornero» e ricordare le importantissime riforme pensionistiche che sono state fatte nei decenni passati e che hanno drasticamente ridotto sia gli andamenti futuri che quelli correnti della spesa. In termini nominali, la spesa pensionistica sta aumentando di anno in anno poco più dell'inflazione e molto meno che negli altri Paesi: fra il 2003 e il 2010, secondo i dati Eurostat, è aumentata in media del 3,8 per cento l'anno in Italia, contro il 6,8 per cento del Regno Unito, il 4,3 per cento della Svezia, il 4,9 per cento della Francia, l'8,1 per cento della Spagna e il 5,5 per cento della Danimarca (fa eccezione la Germania, con un aumento annuo dell'1,4 per cento);
    secondo i più recenti dati Eurostat, relativi al 2010, l'Italia spende per le pensioni il 16 per cento del prodotto interno lordo, contro il 13,2 per cento dell'Europa a 15 e il 13 per cento dell'Europa a 27. Va, tuttavia, considerato che il dato del 16 per cento riferito all'Italia è falsato e la percentuale è decisamente più bassa in quanto:
     a) nel calcolo della spesa previdenziale italiana, ma non in quella degli altri paesi, figura il trattamento di fine rapporto che viceversa rappresenta una parte differita della retribuzione;
     b) si ha una percentuale di ultra sessantacinquenni più elevata degli altri Paesi, il che inevitabilmente determina la presenza di un numero maggiore di pensionati;
     c) si tratta di spesa al lordo delle trattenute fiscali: le pensioni italiane sono invece assoggettate all'imposta sul reddito, a differenza di altri Paesi dove sono praticamente esenti (si veda la Germania);
     d) non si è considerata la spesa per sgravi fiscali alla previdenza privata, particolarmente elevata nei Paesi anglosassoni;
    in rapporto al prodotto interno lordo, a legislazione vigente, la spesa pensionistica è destinata a contrarsi significativamente a partire dal 2014, come si può constatare dalla nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza presentato dal Governo nel mese di settembre 2013. Come per tutti i rapporti al prodotto interno lordo, poi, il rapporto fra spesa pensionistica e prodotto interno lordo risente della contrazione del denominatore, ovvero della crisi economica. Se il prodotto interno lordo non si fosse contratto per la recessione, la spesa pensionistica sarebbe almeno di 1 punto di prodotto interno lordo inferiore. A differenza di quanto si poteva scrivere una decina di anni fa, la spesa pensionistica italiana appare elevata soprattutto perché l'economia non cresce, non perché si è troppo generosi;
    il quadro illustrato denuncia quanto il dibattito sulle cosiddette «pensioni d'oro», così come affrontato, risulti superficiale. Il disegno di legge di stabilità 2014 prevede la sospensione della indicizzazione delle pensioni superiori a 3 mila euro, vale a dire un taglio a una parte delle pensioni in essere. Da più parti si parla e si propone di ridurre le pensioni erogate superiori a un certo limite, considerate in ogni caso pensioni d'oro. La proposta è basata su una confusione evidente tra alto rendimento (dei contributi versati) e alto livello della pensione. Spesso i due aspetti sono disgiunti;
    i sistemi retributivi e contributivi sono due sistemi a ripartizione. Nel sistema retributivo l'obiettivo non è quello di assicurare un uguale tasso di rendimento a tutti i lavoratori, ma di stabilire una relazione tra prima pensione e ultime retribuzioni. Il sistema permette trasferimenti di risorse a fini equitativi. Chi beneficia di questi trasferimenti avrà un rendimento più alto rispetto a chi cede parte delle risorse. Se la media del sistema ha un rendimento dei contributi effettivamente versati pari al tasso di crescita del prodotto interno lordo (o meglio della massa salariale), il sistema è in equilibrio (a parte eventuali fluttuazioni demografiche);
    il nuovo sistema pensionistico contributivo introdotto nel 1995 si basa su un principio di equità attuariale, per cui dovrebbe tendere a erogare prestazioni in linea con i contributi versati. Il fatto, però, è che dietro questa apparenza si nascondono dettagli di non poco conto, anche a prescindere dalla salvaguardia dei diritti acquisiti che, peraltro, in ambito pensionistico, dove i soggetti interessati sono avanti negli anni, richiede necessariamente una particolare attenzione;
    innanzitutto, non è vero che un sistema retributivo, come quello adottato fino al 1995, sia necessariamente più generoso del sistema contributivo: a seconda dei parametri utilizzati, i due sistemi possono produrre risultati equivalenti, mentre, se il sistema retributivo tende a premiare le carriere dinamiche, il sistema contributivo tende a premiare le carriere piatte. Non ci si avvede che è falso che il sistema contributivo restituisce pensioni corrispondenti ai contributi versati: è facile mostrare che, quando si considerano anche le prestazioni assistenziali, il sistema contributivo penalizza soprattutto i più poveri che, malgrado gli anni e decenni di contributi, rischiano di maturare pensioni di poco superiori all'assegno sociale, ovvero di maturare rendimenti addirittura negativi sui propri contributi, con un sostanziale incentivo ad entrare o a rimanere nell'economia sommersa (si veda, ad esempio, Marano, Mazzaferro e Morciano, Rivista degli economisti, 2012, 71);
    secondo gli economisti Paladini e Vincenzo Visco, l'elemento che ha il maggior peso nella differenza tra il sistema retributivo e quello contributivo è costituito dagli anni di vita attesa, cioè dall'età del pensionamento. Questo elemento conta di più della velocità di progressione della retribuzione. A questo proposito non va dimenticato che in molti casi la scelta del pensionamento non è stata spontanea, ma necessitata: infatti, una significativa fetta delle ristrutturazioni industriali sono state fatte nei decenni passati usando il sistema pensionistico a volte con misure ad hoc (prepensionamenti). Operai, impiegati, ma anche dirigenti sono stati messi in pensione che lo volessero o meno;
    l'idea di fissare un limite inferiore (sia esso 3.000 euro o più al mese) e di applicare un taglio solo alle pensioni che superano la soglia è errore logico che diventa un vizio giuridico. Lo stesso vale per il blocco dell'indicizzazione al di sopra di un dato livello;
    va evidenziato che da un prelievo forzoso sulle pensioni elevate non possono derivare grandi risorse; il contributo di solidarietà inserito nel disegno di legge di stabilità 2014 (articolo 12, comma 4), che prevede un contributo del 5 per cento sulle pensioni superiori a 150 mila euro annue, del 10 per cento sulla parte eccedente i 200 mila euro e del 15 per cento sulla parte eccedente i 250 mila euro, avrebbe effetti netti, secondo la relazione tecnica, risibili, pari a 12 milioni l'anno; anche ammettendo soluzioni più radicali, quali quelle ipotizzate da Boeri e Nannicini sul sito lavoce.info, si arriverebbe a un gettito di 800-900 milioni di euro, quasi dimezzato, tuttavia, da quella che sembrerebbe la mancata considerazione da parte degli economisti della lavoce.info della perdita di gettito fiscale associata alla connessa riduzione degli imponibili Irpef;
    con tali risorse non si risolve il problema, né in parte, né in tutto, di innalzare gli importi pensionistici delle pensioni al minimo, considerato che l'idea del contributo di solidarietà è quella di ridistribuirlo all'interno del sistema previdenziale a fini solidaristici;
    quanto all'equità della misura, sembra prevalere un populismo mischiato a falso egualitarismo: coloro che hanno conseguito pensioni elevate – salvo eccezioni rare e davvero scandalose – sono in prevalenza persone che hanno ricevuto redditi molto elevati nel corso della loro vita lavorativa e contribuito conseguentemente, in accordo con regole che già prevedevano forme di solidarietà. Se si ritiene che sia ingiusto che esistano persone molto più ricche di altre, lo strumento a disposizione del pubblico è semplicemente la variazione delle aliquote fiscali: si proponga un aumento dell'aliquota sull'ultimo scaglione di reddito, senza discriminare fra ricchi pensionati e altri precettori di reddito, nel solco dei principi giuridici fissati dalla giurisprudenza costituzionale;
    il riconoscimento di un doveroso contributo di solidarietà ai pensionati più poveri ricade tra le misure assistenziali che devono essere finanziate dalla fiscalità generale e da tutti i cittadini a secondo della loro capacità contributiva;
    dagli anni Ottanta ad oggi, mentre si sono ridimensionati servizi e spese sociali che andavano a beneficio delle fasce deboli della popolazione, in materia di entrate il prelievo fiscale si è spostato dai redditi più alti verso quelli medio bassi, al punto che il rapporto tra aliquote sui redditi minimi ed aliquote sui redditi massimi è passato da 1 a 7 ad 1 a 2;
    in questo periodo, l'aliquota sulle fasce medio basse è salita dal 10 per cento al 23 per cento, mentre per quelli alti è scesa dal 72 per cento al 43 per cento. La progressività del prelievo fiscale è stata, quindi, fortemente ridimensionata e questo è accaduto proprio nell'imposizione diretta che rappresenta il principale strumento per correlare le imposte ai redditi;
    tutti i redditi sopra i 75 mila euro annui lordo sono tassati con un aliquota pari al 43 per cento che rimane tale anche per redditi di molto superiori, facendo venire meno il criterio di progressività del sistema tributario di cui all'articolo 53 della Costituzione;
    con l'innalzamento dell'aliquota sui redditi più alti, applicando il criterio della progressività, si realizzerebbe davvero una maggiore equità del sistema – andando a colpire anche le vere «pensioni d'oro» – e si darebbe corpo e consistenza ai principi di equità e giustizia;
    con il gettito derivante dall'innalzamento dell'aliquota sui redditi più alti si possono aumentare in misura permanente gli importi delle pensioni per tutti i pensionati più poveri, così incrementando i consumi ed alleviando la situazione difficile di molte persone e famiglie;
    inoltre, in via temporanea, si può intervenire proponendo l'erogazione di una sorta di quattordicesima per i pensionati a più basso reddito. In tal senso, i parlamentari del gruppo Sinistra Ecologia Libertà hanno presentato emendamenti sia al decreto-legge n. 102 del 2013 sull'imu (A.C. 1544), convertito, con modificazioni, dalla legge n. 102 del 2013, che al disegno di legge di stabilità 2014 volti a riconoscere un bonus, oscillante tra i 250 ed i 450 euro, a 2,5-3 milioni di pensionati a basso reddito, impegnando risorse per circa un miliardo derivanti da risparmi conseguiti sulle auto blu e dalla modifica della cosiddetta Robin tax e della deducibilità degli interessi passivi per le banche;
    analoga misura era presente all'articolo 5 del decreto-legge n. 81 del 2007 (Governo Prodi), convertito, con modificazioni, dalla legge n. 127 del 2007, che istituì una sorta di quattordicesima per i pensionati a basso reddito, l'erogazione, cioè, di un bonus per quei pensionati che avevano un reddito inferiore a 8.504 euro all'anno (655 euro al mese per 13 mensilità) e almeno 64 anni di età. La norma riguardava circa 3 milioni di persone. L'importo medio previsto fu di 301 euro per una somma totale pari a 926 milioni di euro,

impegna il Governo:

   a valutare l'adozione di iniziative per l'introduzione di ulteriori aliquote impositive progressive, in attuazione dell'articolo 53 della Costituzione, che si applichino ai redditi sopra i 75 mila euro annui lordi, tra cui anche le cosiddette «pensioni d'oro»;
   ad assumere le opportune iniziative, anche normative, al fine di corrispondere, a favore dei soggetti con età pari o superiore a sessantacinque anni e che siano titolari di uno o più trattamenti pensionistici a carico dell'assicurazione generale obbligatoria e delle forme sostitutive, esclusive ed esonerative della medesima, gestite da enti pubblici di previdenza obbligatoria, a condizione che il soggetto non possieda un reddito complessivo individuale relativo all'anno stesso superiore a una volta e mezzo il trattamento minimo annuo del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, in sede di erogazione della tredicesima mensilità, una somma aggiuntiva almeno pari a 500 euro.
(1-00256)
«Di Salvo, Migliore, Paglia, Airaudo, Ragosta, Placido, Lavagno, Aiello, Boccadutri, Franco Bordo, Costantino, Duranti, Daniele Farina, Fava, Ferrara, Giancarlo Giordano, Fratoianni, Kronbichler, Lacquaniti, Marcon, Matarrelli, Melilla, Nardi, Nicchi, Palazzotto, Pannarale, Pellegrino, Piazzoni, Pilozzi, Piras, Quaranta, Ricciatti, Sannicandro, Scotto, Zan, Zaratti».
(25 novembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    i dati Inps relativi al 2012 rilevano che in Italia ci sono un numero di pensioni superiori a 10 volte il minimo, pari a 154.739 euro, per un importo complessivo lordo annuo di 12.753.078.053 euro a carico del sistema pensionistico italiano;
    le «pensioni d'oro» sono figlie del vecchio sistema pensionistico retributivo, che ha generato uno scollamento tra contributi versati e trattamenti pensionistici erogati, dal momento che il calcolo è stato in passato effettuato solo sulle retribuzioni degli ultimi anni di vita lavorativa;
    la riforma Dini (legge n. 335 del 1995) con l'introduzione del sistema contributivo ha attenuato questo problema. L'applicazione graduale del metodo contributivo ha favorito il superamento progressivo delle disparità di trattamento legate ai regimi speciali di pensione provenienti dalla tradizione categoriale italiana, stabilendo l'uniformità delle prestazioni in rapporto ai contributi versati, ma non ha risolto la questione dell'equità dei trattamenti erogati con il vecchio sistema, soprattutto rispetto a quelli erogati sulla base del nuovo sistema basato sulle effettive contribuzioni versate;
    la crisi economica e occupazionale ha acuito non soltanto le tensioni sulla finanza pubblica, ma anche la percezione dell'insostenibilità e dell'ingiustizia di divari così ampi tra i trattamenti previdenziali del nostro Paese;
    il perdurare della crisi ha reso necessario il ricorso al contributo di solidarietà, prelievo previsto dall'articolo 18, comma 22-bis, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, che disponeva che, a decorrere dal 1o agosto 2011 e fino al 31 dicembre 2014, i trattamenti pensionistici, corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie, i cui importi risultassero complessivamente superiori a 90 mila euro lordi annui, fossero assoggettati ad un contributo di perequazione pari al 5 per cento della parte eccedente l'importo fino a 150 mila euro; pari al 10 per cento per la parte eccedente 150 mila euro; e al 15 per cento per la parte eccedente 200 mila euro;
    con la sentenza n. 116 del 2013, la Consulta ha tuttavia stabilito che la legge n. 111 del 2011 viola il principio di eguaglianza dell'articolo 53 della Costituzione, in quanto il taglio viene imposto nei confronti dei soli pensionati, una categoria definita nella sentenza «colpita in misura maggiore rispetto ai titolari di altri redditi e, più specificamente, di redditi da lavoro dipendente». Secondo la Corte Costituzionale, un «contributo di solidarietà» va applicato in maniera equa tra tutti i contribuenti. Il prelievo, ha spiegato la Consulta, ha natura tributaria e deve, per questo, essere commisurato alla «capacità contributiva» dei cittadini, i quali, come stabilisce l'articolo 3 della Carta costituzionale, sono «eguali davanti alla legge»;
    a seguito della predetta sentenza n. 116 del 2013 della Corte costituzionale, si è reso necessario procedere al rimborso delle trattenute effettuate sulle pensioni di importo superiore a 90 mila euro, che graverà sulle casse dello Stato per 80 milioni di euro nel biennio 2014/2015, anche se l'Inps in assenza di copertura finanziaria si è riservato le modalità di restituzione delle trattenute operate dal 1o agosto 2011 fino al 31 dicembre 2012;
    numerose sono le perplessità suscitate dalla citata sentenza n. 116 del 2013 della Corte Costituzionale, anche perché si riferisce a un settore che ha subito provvedimenti restrittivi a carico dei trattamenti medio-bassi. Vi sono nel sistema previdenziale forme di oggettivo privilegio che non sono più sostenibili sul piano economico, né difendibili su quello etico. Ad alimentare le perplessità è l'esistenza di sentenze precedenti che avevano ritenuto legittimi i contributi di solidarietà a carico delle pensioni di importo più elevato, purché si trattasse di una misura improntata a ragionevolezza e disposta per un tempo limitato e previsto;
    con la sentenza n. 173 del 1986 e le sentenze n. 501 del 1988 e n. 96 del 1991, la Corte costituzionale ha inoltre ribadito la natura mutualistica e solidaristica del sistema previdenziale, sostenendo che «il contributo non va a vantaggio del singolo che li versa, ma di tutti i lavoratori e, peraltro, in proporzione del reddito che si consegue, sicché i lavoratori a redditi più alti concorrono anche alla copertura delle prestazioni a favore delle categorie con redditi più bassi», fermo restando il principio della proporzionalità tra contributi versati e prestazioni previdenziali ricevute;
    per quanto riguarda l'annosa questione dei «diritti acquisiti», e alla possibilità di intervenire sulle pensioni attraverso trattamenti peggiorativi con effetto retroattivo, con le sentenze n. 349 del 1985, n. 173 del 1986, n. 822 del 1988, n. 211 del 1997 e n. 416 del 1999, la Corte costituzionale ha escluso, in linea di principio, che sia configurabile un diritto costituzionalmente garantito alla cristallizzazione normativa, riconoscendo quindi al legislatore la possibilità di intervenire con scelte discrezionali, perché ciò non avvenga in modo irrazionale e, in particolare, frustrando in modo eccessivo l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulla normativa precedente;
    la Corte costituzionale, inoltre, con ordinanza n. 22 del 2003, osserva che «il contributo di solidarietà, non potendo essere configurato come un contributo previdenziale in senso tecnico (sentenza n. 421 del 1995), va inquadrato nel genus delle prestazioni patrimoniali imposte per legge, di cui all'articolo 23 della Costituzione, costituendo una prestazione patrimoniale avente la finalità di contribuire agli oneri finanziari del regime previdenziale dei lavoratori (sentenza n. 178 del 2000), con la conseguenza che l'invocato parametro di cui all'articolo 53 Cost. deve ritenersi inconferente, siccome riguardante la materia della imposizione tributaria in senso stretto»;
    alla luce delle sopra citate sentenze della Corte costituzionale e del perdurare della crisi economica ed occupazionale del nostro Paese, che rendono necessari interventi di risparmio sulle fasce più deboli, non appare sostenibile né giustificato il permanere, senza decurtazione alcuna, di trattamenti pensionistici che superano di dieci, venti o anche cinquanta volte il trattamento minimo, quando una parte di tale divario non è legato ai contributi effettivamente versati durante la vita lavorativa dei beneficiari;
    vi è l'esigenza di rivedere l'istituto dei diritti acquisiti, non solo in relazione all'orientamento espresso dalla Corte costituzionale nelle sentenze sopra citate, ma soprattutto in relazione al particolare momento storico in cui ci si trova. I diritti sociali vanno acquisiti in relazione alle mutate condizioni economico-sociali. Occorre impiegare le risorse disponibili secondo una logica chiara, che stabilisca una gerarchia dei diritti acquisiti da tutelare, bilanciando l'effettività di tutela con i principi di gradualità e di criterio di compatibilità economica, secondo quanto sancito dal dettato Costituzionale (articoli 2 e 53);
    si rende, quindi, indispensabile individuare la parte delle rendite previdenziali privilegiate che non corrisponde a contribuzione effettivamente versata, per assoggettarla a un contributo di solidarietà a vantaggio delle posizioni previdenziali più deboli o di altre prestazioni a favore delle fasce più deboli e maggiormente colpite dalla crisi economica. Tutto ciò in linea con quanto dettato dalla Costituzione in attuazione dei principi solidaristici sanciti dall'aricolo 2 della Costituzione stessa,

impegna il Governo:

   a procedere alle operazioni di calcolo e di stima necessarie per individuare la parte delle rendite previdenziali privilegiate che non corrisponde a contribuzione effettivamente versata;
   ad assumere un'iniziativa per disporre in via sperimentale e transitoria l'applicazione a tutte le pensioni superiori all'importo di 60.000 euro annui di un meccanismo caratterizzato da una trattenuta alla fonte, con aliquote progressive per scaglioni, sul differenziale esistente tra l'ammontare della pensione liquidata e l'ammontare della pensione che sarebbe invece liquidata ove la sua quantificazione avesse luogo per intero con il metodo contributivo;
   a destinare il gettito derivante da tali trattenute al finanziamento di misure volte a rafforzare il sostegno alle fasce più deboli e maggiormente colpite dalla crisi, anche attraverso un rafforzamento di servizi di assistenza (servizi per la cura dell'infanzia e di assistenza agli anziani e ai disabili) che il peso della crisi ha reso sempre più inaccessibili per molte famiglie.
(1-00257)
«Tinagli, Zanetti, Mazziotti Di Celso, Antimo Cesaro, Andrea Romano, Cimmino, Causin, D'Agostino, Molea, Librandi, Sottanelli, Vecchio, Catania, Vitelli, Capua».
(25 novembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    a partire dagli anni ’90 il sistema pensionistico italiano è stato interessato da una serie di interventi, volti a garantirne l'equilibrio e la sostenibilità di lungo periodo, quali: il decreto legislativo n. 503 del 1992 (cosiddetta riforma Amato), inteso a stabilizzare il rapporto tra la spesa previdenziale e il prodotto interno lordo, con l'incremento dell'età pensionabile (65 anni per gli uomini, 60 per le donne, con una contribuzione minima di 20 anni) e l'introduzione di forme di previdenza complementare e integrativa; la legge n. 335 del 1995 (cosiddetta riforma Dini), che ha segnato il passaggio dal sistema retributivo al sistema contributivo – applicato ai soggetti che avessero iniziato a lavorare dal 1o gennaio 1996, mantenendo, invece, il sistema retributivo per coloro che avessero maturato al 31 dicembre 1995 almeno 18 anni di lavoro – e introdotto il sistema misto, per coloro che avessero maturato, alla medesima data, meno di 18 anni di lavoro; la legge n. 449 del 1997 (cosiddetta riforma Prodi), che innalzava i requisiti d'età per l'accesso alla pensione di anzianità e con la quale venivano equiparate le aliquote contributive dei fondi speciali di previdenza ed eliminate alcune condizioni riconosciute ai lavoratori durante il periodo di transizione al sistema contributivo; la legge n. 243 del 2004 (cosiddetta riforma Maroni), che ha elevato l'età anagrafica per il pensionamento di anzianità (60 anni per tutti a decorre dal 2008, fermo restando il requisito contributivo 35 anni) e ha disposto la riduzione da 4 a 2 delle cosiddette finestre di uscita; la legge n. 247 del 2007 (cosiddetta riforma Damiano), che ha disposto una modifica dei requisiti per il pensionamento di anzianità (strutturandolo in maniera più graduale), con ciò introducendo, dal 1o luglio 2009, il «sistema delle quote», ulteriormente rivisto con i successivi decreti legge nn. 98 del 2011 e 138 del 2011; da ultimo, l'articolo 24 del decreto-legge n. 201 del 2011 (cosiddetta manovra Fornero), che segna il passaggio al sistema contributivo pro rata per tutti dal 1o gennaio 2012, innalza ulteriormente il livello minimo di età pensionabile (portandola, a regime, a 66 anni) e abolisce il previgente sistema delle quote per il pensionamento anticipato, con un considerevole aumento dei requisiti contributivi (42 anni per gli uomini e 41 anni per le donne) e l'introduzione di penalizzazioni economiche per chi comunque accede alla pensione prima dei 62 anni;
    pur avendo reso il sistema previdenziale italiano uno dei più rigorosi nel panorama europeo ed internazionale, la successione in poco più di venti anni di otto interventi di riforma è sintomatica dell'assenza di un chiaro disegno organico;
    il sistema previdenziale deve essere costantemente monitorato, per garantirne la sostenibilità e, soprattutto, per assicurare ai giovani un ammontare della pensione che consenta loro una vecchiaia dignitosa, mettendolo, al contempo, al riparo dal rischio che ne siano utilizzate le risorse verso esigenze di cassa o di copertura del debito pubblico;
    la legge di riforma n. 247 del 2007, l'unica ad aver trovato consenso dopo un lungo confronto con le parti sociali, aveva posto le basi per affrontare organicamente le criticità del sistema pensionistico, sia rispetto alla sostenibilità finanziaria, sia per approntare idonee misure in grado di garantire alle nuove generazioni un tasso di sostituzione non inferiore al 60 per cento dell'ultima retribuzione, a tal fine tenendo conto:
     a) delle dinamiche delle grandezze macroeconomiche, demografiche e migratorie che incidono sulla determinazione dei coefficienti medesimi;
     b) dell'incidenza dei percorsi lavorativi, anche allo scopo di verificare l'adeguatezza degli attuali meccanismi di tutela delle pensioni più basse e di proporre meccanismi di solidarietà e garanzia per tutti i percorsi lavorativi, nonché di proporre politiche attive che possano favorire il raggiungimento di un tasso di sostituzione al netto della fiscalità non inferiore al 60 per cento, con riferimento all'aliquota prevista per i lavoratori dipendenti;
     c) del rapporto intercorrente tra l'età media attesa di vita e quella dei singoli settori di attività;
    tali aspetti sono stati del tutto elusi proprio dall'ultimo intervento legislativo del 2011, che ha irrigidito irragionevolmente il sistema e prodotto il grave, e ancora irrisolto, fenomeno dei cosiddetti esodati, peraltro durante la più grave crisi economico-finanziaria dal dopoguerra, con tassi di disoccupazione crescenti e drammatici, specie per la componente giovanile e femminile, con punte di vera e propria emergenza sociale in alcune aree del Mezzogiorno;
    da qualche tempo si è tornati a discutere, non sempre in modo appropriato, della questione delle cosiddette «pensioni d'oro»; in particolare, l'articolo 12, comma 4, dell'atto Senato n. 1120 (disegno di legge di stabilità per il 2014), ripropone un contributo di solidarietà, per il periodo 2014-2016, sui trattamenti pensionistici obbligatori nella misura del 5 per cento per le fasce di importo superiori a 150.000 euro lordi annui e fino a 200.000 euro, del 10 per cento per le fasce superiori a 200.000 euro e fino a 250.000 euro e del 15 per cento per le fasce superiori a 250.000 euro. Le somme derivanti dalle trattenute restano acquisite dalla gestione previdenziale che eroga il trattamento;
    al riguardo, va ricordato come in materia di trattamenti peggiorativi con effetto retroattivo, la Corte costituzionale abbia escluso, in linea di principio, che sia configurabile un diritto costituzionalmente garantito alla «cristallizzazione» normativa – riconoscendo, quindi, al legislatore la possibilità di intervenire con scelte discrezionali – purché ciò non avvenga in modo irrazionale e, in particolare, frustrando in modo eccessivo l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulla normativa precedente;
    in tale ottica, sono state considerate costituzionalmente plausibili misure di solidarietà interna al sistema previdenziale, con contributi a carico dei più fortunati e a favore dei lavoratori e dei pensionati più deboli (ordinanza n. 22 del 2003, confermata dall'ordinanza n. 160 del 2007);
    al contrario, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 116 del 2013, ha dichiarato l'illegittimità dell'articolo 18, comma 22-bis, del decreto-legge n. 98 del 2011, il quale introduceva un contributo di perequazione, a decorrere dal 1o agosto 2011 e fino al 31 dicembre 2014, sui trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie, pari al 5 per cento per gli importi da 90.000 a 150.000 euro lordi annui, del 10 per cento per la parte eccedente i 150.000 euro e del 15 per cento per la parte eccedente i 200.000 euro, configurando tale contributo come misura di natura tributaria e, quindi, da commisurare alla capacità contributiva ai sensi dell'articolo 53 della Costituzione, in violazione del principio di uguaglianza e dei criteri di progressività, dando vita ad un trattamento discriminatorio, trattandosi «di un intervento impositivo irragionevole e discriminatorio ai danni di una sola categoria di cittadini. L'intervento riguarda, infatti, i soli pensionati, senza garantire il rispetto dei principi fondamentali di uguaglianza a parità di reddito, attraverso una irragionevole limitazione della platea dei soggetti passivi»;
    nel rispetto di tali principi, vanno individuati gli strumenti più efficaci per assicurare maggiore equità al sistema previdenziale, con particolare riferimento al fenomeno delle «pensioni d'oro», termine troppo spesso applicato a situazioni reddituali non certo di particolare «privilegio» economico, e tenendo conto del fatto che la maggioranza degli assegni pensionistici, oltre il 91 per cento, è al di sotto della soglia delle cinque volte il trattamento minimo, mentre solo l'1,13 per cento del totale dei trattamenti corrisposti è superiore a 10 volte il trattamento minimo;
    sebbene possa essere auspicabile un contributo di solidarietà sui redditi più elevati, indipendentemente dalla tipologia, se ci si deve ancora una volta riferire alle pensioni, vanno presi in considerazione quei redditi da pensione superiori oltre un certo numero di volte al trattamento minimo; va, tuttavia, evitata ogni forma di surrettizio «scontro generazionale», come se tutte le pensioni calcolate con il sistema retributivo fossero un costo generale per la collettività e, al tempo stesso, va recuperato lo spirito della legge n. 247 del 2007, anche attraverso misure che consentano di recuperare la solidarietà fra le generazioni e permettano di realizzare una redistribuzione della ricchezza e la garanzia di prestazioni pensionistiche dignitose alle future generazioni,

impegna il Governo:

   a favorire l'adozione di misure che, nel rispetto dei principi indicati dalla Corte costituzionale, creino le condizioni per realizzare forme di solidarietà ed equità previdenziale attraverso l'istituzione di appositi fondi all'interno dei diversi enti previdenziali, alimentati con contributi di importo crescente al crescere del trattamento pensionistico, applicati su quelli di importo superiore a dodici volte il trattamento minimo, da destinare a interventi in favore dei pensionati e dei lavoratori più deboli e per contribuire alla realizzazione di un sistema di prestazioni pensionistiche dignitose per le future generazioni;
   a valutare l'assunzione di iniziative volte a modificare i criteri di calcolo dei coefficienti di trasformazione di cui all'articolo 1, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335, nel rispetto degli andamenti e degli equilibri della spesa pensionistica di lungo periodo e nel rispetto delle procedure europee, che tengano conto:
    a) delle dinamiche delle grandezze macroeconomiche, demografiche e migratorie che incidono sulla determinazione dei coefficienti medesimi;
    b) dell'incidenza dei percorsi lavorativi, anche al fine di verificare l'adeguatezza degli attuali meccanismi di tutela delle pensioni più basse e di proporre meccanismi di solidarietà e garanzia per tutti i percorsi lavorativi, nonché di proporre politiche attive che possano favorire il raggiungimento di un tasso di sostituzione al netto della fiscalità non inferiore al 60 per cento, con riferimento all'aliquota prevista per i lavoratori dipendenti;
    c) del rapporto intercorrente tra l'età media attesa di vita e quella dei singoli settori di attività;
   a valutare la possibilità di assumere iniziative per aumentare la misura della «quattordicesima» prevista dal Governo Prodi per le pensioni basse, al fine di compensare la perdita del potere d'acquisto delle pensioni, che si è particolarmente aggravata in questi anni di crisi economica.
(1-00258)
«Gnecchi, Damiano, Marchi, Albanella, Baruffi, Bellanova, Boccuzzi, Casellato, Faraone, Cinzia Maria Fontana, Giacobbe, Gregori, Gribaudo, Incerti, Madia, Maestri, Martelli, Miccoli, Paris, Giorgio Piccolo, Simoni, Zappulla, Taricco, Amoddio».
(25 novembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    nell'attuale contesto di crisi economica che colpisce il Paese, che porta il legislatore ad adottare misure di contenimento della spesa fortemente penalizzanti per i cittadini, la questione delle cosiddette «pensioni d'oro» è argomento di acceso dibattito tra gli organi di informazione, le forze politiche e l'opinione pubblica, in relazione al rispetto dei principi di equità e giustizia sociale, del patto intergenerazionale e della sostenibilità del nostro sistema previdenziale;
    da un'inchiesta condotta dal quotidiano Libero e pubblicata sulla prima pagina dell'edizione del 12 novembre 2013 emerge che una pensione su due è «regalata», nel senso che solo il 54 per cento dei trattamenti corrisposti è coperto dai contributi effettivamente versati;
    urge, pertanto, un intervento normativo teso a contenere i trattamenti previdenziali di importo elevato, prevedendo che, laddove questi siano calcolati con il metodo retributivo, i relativi importi non debbano superare un limite prefissato e garantendo, invece, i trattamenti pensionistici calcolati esclusivamente con il metodo contributivo;
    un intervento in un'ottica di solidarietà era stato attuato con il decreto-legge n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111 del 2011, che, all'articolo 18, comma 22-bis, aveva previsto in via provvisoria dal 1o agosto 2011 fino al 31 dicembre 2014 un contributo di perequazione pari, rispettivamente, al 5 per cento della parte eccedente l'importo fino a 90.000 euro, al 10 per cento per la parte eccedente 150.000 euro e al 15 per cento per la parte eccedente 200.000;
    la Corte costituzionale, però, con la sentenza n. 116 del 2013, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del predetto comma 22-bis, rilevando che il prelievo straordinario su tali pensioni costituiva un intervento impositivo «irragionevole e discriminatorio», realizzato ai danni di una sola categoria di cittadini, i pensionati, e che si poneva in contrasto con gli articoli 3 e 53 della Costituzione, rispettivamente sul principio di uguaglianza e sulla capacità contributiva come fondamento del prelievo tributario;
    a parere dei firmatari del presente atto di indirizzo, le motivazioni addotte dalla Corte costituzionale sono capziose e discutibili, ritenendo invero che si rispetti il dettame costituzionale e si risponda ad un'esigenza di giustizia ed eguaglianza dei cittadini intervenendo laddove si annidano privilegi;
    le pensioni di importo elevato erogate con il calcolo retributivo, infatti, secondo i firmatari del presente atto di indirizzo rappresentano già in sé una violazione dei principi costituzionali di parità ed eguaglianza, in quanto non sono frutto di accantonamenti «personali», secondo la ratio per cui un pensionato percepisce quanto versato nell'arco della vita lavorativa, bensì vengono pagate dai versamenti dei lavoratori attivi e rappresentano un trattamento di miglior favore rispetto alle generazioni successive, che, a seguito delle riforme pensionistiche, possono accedere alla pensione solo con il calcolo contributivo;
    il Ministro del lavoro e delle politiche sociali ha recentemente definito questi trattamenti «quelle pensioni il cui elevato importo appare stridente nell'attuale contesto socio-economico e di sacrifici imposti alla generalità della popolazione»;
    eppure il disegno di legge di stabilità attualmente all'esame dell'altro ramo del Parlamento reca all'articolo 12, comma 4, un intervento sul tema in questione valutato dai firmatari del presente atto di indirizzo insufficiente rispetto alla reale possibilità di incidere stabilmente sui privilegi esistenti,

impegna il Governo:

   ad intervenire sui trattamenti pensionistici di importo elevato, assumendo iniziative per prevedere che le pensioni ed i vitalizi erogati da gestioni previdenziali pubbliche in base al metodo retributivo non possano superare un limite prefissato, pari, ad esempio, a cinquemila euro netti mensili;
   ad assumere iniziative per prevedere una soglia prestabilita di ammontare pensionistico, pari, ad esempio, ad ottomila euro netti mensili, anche nel caso di cumulo di più trattamenti pensionistici corrisposti da gestioni previdenziali pubbliche in base al metodo retributivo;
   ad utilizzare gli eventuali risparmi derivanti dagli interventi sulle pensioni di importo elevato in favore dello sblocco delle indicizzazioni delle pensioni e della salvaguardia dei lavoratori esodati dalle disposizioni in materia pensionistica, di cui all'articolo 24 del decreto-legge n. 201 del 2011, e successive integrazioni e modificazioni.
(1-00259)
«Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Buonanno, Busin, Caon, Caparini, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera, Rondini».
(25 novembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    la questione delle cosiddette «pensioni d'oro» deve inquadrarsi nel contesto complessivo del sistema previdenziale e delle criticità che si pongono in relazione ad esso;
    la più recente riforma del sistema previdenziale ha determinato, in un contesto regolatorio già ritenuto sostenibile dal punto di vista finanziario, un immediato innalzamento dell'età di pensione senza disporre una fase transitoria e, non a caso, senza uguali in Europa;
    in un mercato del lavoro contratto dalla crisi e dalla nuova regolazione si è prodotta l'insostenibile condizione di molte lavoratrici e di molti lavoratori che in buona fede – sulla base della regolazione vigente – hanno accettato accordi collettivi o individuali di conclusione precoce del rapporto di lavoro, spesso accompagnata da versamenti volontari;
    la vita lavorativa si è positivamente allungata sulla base delle nuove regole previdenziali, ma l'inclusione di molte persone adulte nel mercato del lavoro rimane difficile in relazione alla crisi, alla debolezza dei servizi di formazione e ricollocamento e alle dinamiche retributive influenzate prevalentemente dall'età, con la conseguenza per cui si determina il brusco impoverimento di persone senza lavoro, senza pensione e senza sussidio;
    nuove diseguaglianze si sono aggiunte a quelle preesistenti anche nell'ambito della stessa generazione, sia dal punto di vista del calcolo della prestazione che da quello dell'età di pensione;
    in questo contesto, si sono determinate molte disparità ed incongruenze di trattamento pensionistico tra le pensioni più basse e quelle più alte, dove in molti hanno goduto di prestazioni più favorevoli per metodo di calcolo, per età di accesso o per appartenenza a fondi speciali,

impegna il Governo:

   a considerare in questo contesto, senza sollecitare conflitti tra generazioni che hanno vissuto condizioni complessivamente diverse e senza produrre radicali cambiamenti nelle legittime aspettative indotte dalle regole del passato, modalità di concorso solidale agli obiettivi di cui sopra da parte dei percettori di prestazioni più favorevoli o per metodo di calcolo o per età di accesso alle prestazioni stesse, con particolare attenzione a quelle provenienti da fondi speciali che hanno goduto di un rapporto particolarmente conveniente con le contribuzioni versate;
   a presentare quanto prima al Parlamento un progetto organico di completamento della riforma previdenziale in funzione della migliore conciliazione tra i criteri della sostenibilità finanziaria e quelli della sostenibilità sociale, introducendo flessibilità nel sistema previdenziale, proteggendo il reddito dei cosiddetti «esodati» sulla base di parametri certi e consentendo l'accumulo in unico conto di tutte le contribuzioni reali e figurative della previdenza, secondo regole semplici ed omogenee;
(1-00260)
«Pizzolante, Costa, Bosco, Dorina Bianchi».
(25 novembre 2013)