TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 117 di Mercoledì 13 novembre 2013

 
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MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE IN MATERIA DI FEDERALISMO FISCALE

   La Camera,
   premesso che:
    la gravità dell'attuale condizione economica e sociale impone di proseguire con determinazione l'azione di riequilibrio dei conti pubblici, accompagnandola con il perseguimento dell'equità e della crescita dell'economia nazionale che deve diventare, non solo sulla carta o negli annunci televisivi, la priorità dell'azione del Governo e del Parlamento;
    con le manovre economiche adottate con decreto-legge tra il luglio e il dicembre 2011 (decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111 del 2011; decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011; decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011) si è intervenuti con tagli alle risorse di regioni ed enti locali, con inasprimenti del patto di stabilità interno e con modifiche strutturali all'assetto tributario, in particolare dei comuni, che hanno prodotto un aumento della pressione fiscale e un'ulteriore riduzione della spesa per investimenti, invece che una riduzione della spesa corrente e l'adozione di modelli più efficienti di produzione dei servizi locali;
    gli enti locali e territoriali, a causa dei tagli ai trasferimenti statali di competenza, si trovano ad operare con equilibri di bilancio sempre più precari, tanto che talvolta non riescono neanche più a coprire le funzioni fondamentali se non attraverso un aumento della pressione fiscale sia per le spese indistinte che per quelle a domanda individuale, come le rette degli asili o i costi delle mense e in particolare per quelle relative alla raccolta dei rifiuti;
    tutto ciò avviene a danno delle fasce più deboli della popolazione, che a causa della crisi economica devono affrontare disoccupazione, cassa integrazione e diminuzione dei salari e della qualità del lavoro; la crisi occupazionale si è trasformata in crisi sociale alla quale occorre rispondere mediante un aumento degli aiuti dei servizi sociali comunali con conseguente aumento della spesa per gli enti locali;
    l'approccio al risanamento dei conti pubblici che è stato attuato ha comportato un inasprimento senza precedenti della pressione fiscale, per cui è urgente avviare una sistematica attività di revisione della spesa pubblica (spending review), destinando prioritariamente le risorse ricavate, insieme a quelle derivanti dal contrasto all'evasione e all'elusione fiscale, alla riduzione della pressione fiscale, in particolare sui redditi da lavoro e da impresa, ridefinendo, nell'ambito della riforma fiscale, un nuovo patto tra fisco e contribuenti;
    in questo contesto, profondamente cambiato rispetto al momento in cui la riforma in tema di federalismo fiscale fu approvata, acquista ancor più importanza la piena e completa attuazione della legge 5 maggio 2009, n. 42, recante «Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell'articolo 119 della Costituzione»; la responsabilità e l'autonomia dei governi locali e regionali in campo fiscale risultano ora ancora più fondamentali per attivare il circuito di controllo dei cittadini sulle prestazioni delle amministrazioni e per renderle, di conseguenza, più efficienti e più capaci anche di ridurre la spesa e gli sprechi;
    è indispensabile, ad esempio, superare rapidamente, attraverso l'approvazione della Carta delle autonomie locali, la separazione finora operata tra il federalismo fiscale e il processo di riallocazione e riorganizzazione delle funzioni tra i diversi livelli di governo, il quale, di per sé, potrebbe consentire una riduzione della spesa corrente e una conseguente riduzione della tassazione a livello sub statale;
    il meccanismo dei costi e dei fabbisogni standard per regioni ed enti locali, relativo ai livelli essenziali delle prestazioni e alle funzioni fondamentali, rappresenta il modo per effettuare un'efficace spending review nel sistema delle autonomie territoriali e, come tale, può e deve procedere se possibile accelerando le scadenze previste, estendendone, comunque, principi e strumenti attuativi anche all'apparato centrale dello Stato, vero centro di spesa pubblica;
    vista l'urgenza imposta dalla crisi, si rende necessaria un'accelerazione nell'attuazione della legge delega attraverso il suo completamento entro la fine della legislatura XVII, nei termini espressi anche dal Ministro per gli affari regionali e le autonomie, Delrio, che, più volte, ha ribadito che è necessario far ripartire il federalismo basato sui principi della perequazione e della responsabilità, in quanto il centralismo ha fallito e non ha risolto i problemi, come, invece, appare ineludibile un nuovo patto con le autonomie locali;
    è necessario, pertanto, adottare velocemente tutti i decreti legislativi recanti disposizioni integrative e correttive che saranno ritenuti utili, consentendo così l'avvio della transizione verso il nuovo assetto in tutti i suoi aspetti, che sono complementari tra di loro e non possono essere affrontati in modo separato;
    si tratta di colmare i vuoti ancora esistenti rispetto alla legge delega, di verificare lo stato di attuazione degli atti amministrativi previsti dai decreti legislativi già approvati e di coordinare con appositi decreti legislativi le nuove norme legislative che sono nel frattempo entrate in vigore, come quelle relative all'assetto tributario dei comuni, con i meccanismi previsti dalla legge delega e dai relativi decreti legislativi,

impegna il Governo:

   a dare piena e completa attuazione alla legge delega sul federalismo fiscale n. 42 del 2009, adottando tutti i decreti legislativi recanti disposizioni integrative e correttive che saranno ritenuti utili e prevedendo, in particolar modo, interventi diretti ad eliminare l'applicazione dell'imposta municipale unica sulla prima abitazione e a garantire che il gettito derivante dall'applicazione dell'imposta stessa sulle seconde abitazioni rimanga interamente in capo ai comuni, nonché introducendo, a favore dei comuni stessi, la compartecipazione all'imposta sul reddito delle persone fisiche;
   a garantire agli enti locali le risorse del 2012 e che non siano questi a dover sopportare la mancata adozione dell'Imu sulla prima casa;
   a garantire che la nuova service tax sia una vera tassa federale, meno onerosa della somma di Imu e Tares, creando così un'imposta leggera e più equa con aliquote modulabili da parte degli amministratori con l'obiettivo di creare un sistema fiscale federale;
   ad assumere ogni iniziativa di competenza affinché l'attività della Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica, prevista dall'articolo 5 della legge delega sul federalismo fiscale n. 42 del 2009, sia efficace ed incisiva, considerato che la citata Conferenza concorre alla definizione degli obiettivi di finanza pubblica per comparto, anche in relazione ai livelli di pressione fiscale e di indebitamento, alla verifica periodica del nuovo ordinamento finanziario, proponendo eventuali modifiche o adeguamenti del sistema, e che è prevista l'istituzione di una banca dati condivisa, la quale risulta indispensabile per avviare efficacemente le nuove relazioni finanziarie tra i diversi livelli di governo;
   a verificare prioritariamente l'attuazione della procedura per l'individuazione dei costi e fabbisogni standard e degli obiettivi di servizio, secondo quanto previsto dal decreto legislativo 26 novembre 2010, n. 216, e dall'articolo 13 del decreto legislativo 6 maggio 2011, n. 68, e ad adottare, nel termine ineludibile di tre mesi dall'approvazione del presente atto di indirizzo, tutti gli atti conseguenti e necessari ai fini della loro compiuta determinazione, unico modo per avviare una vera ed efficace spending review delle amministrazioni statali, specie in campo sanitario, visti i dati contrastanti dei bilanci sanitari tra le diverse regioni relativamente ai costi per le forniture;
   nel percorso di completamento dell'attuazione del federalismo fiscale, ad agire con la massima urgenza per rendere operativo il criterio dei costi standard relativi al servizio sanitario e dei fabbisogni standard per comuni e province, affinché sia consentito agli enti territoriali di contenere le addizionali regionali e locali, inducendo tutti gli amministratori alla massima responsabilizzazione;
   a coordinare il tema della finanza locale, con le modifiche ordinamentali già contenute nell'articolo 23 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011, e con quelle in corso di approvazione nell'ambito della Carta delle autonomie locali e della riforma costituzionale, con particolare riguardo alla forma di Governo, alla previsione del Senato federale, alla riduzione del numero dei membri delle Camere, all'eliminazione degli enti intermedi inutili e, in generale, alla revisione della parte seconda della Carta costituzionale;
   per quanto riguarda la riforma organica delle istituzioni di governo di area vasta, introdotta dal decreto-legge n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011, a riconsiderare l'impatto che il trasferimento delle funzioni e delle risorse oggi gestite dalle province avrà sui bilanci e sull'organizzazione di regioni e comuni, già gravati dalle difficili condizioni di sostenibilità del loro patto di stabilità, posto che le nuove norme ingenerano confusione nel sistema delle autonomie e conseguenze pesanti per lo sviluppo dei territori, producendo notevoli costi aggiuntivi per lo Stato e per la pubblica amministrazione;
   ad adottare con gli strumenti di programmazione finanziaria tutti i provvedimenti per il coordinamento dinamico della finanza pubblica previsti dalla legge delega sul federalismo fiscale n. 42 del 2009 e dai decreti legislativi approvati, a partire dal percorso di convergenza degli obiettivi di servizio ai livelli essenziali delle prestazioni e alle funzioni fondamentali di cui all'articolo 117, secondo comma, lettere m) e p) della Costituzione (articolo 13 del decreto legislativo 6 maggio 2011, n. 68) e dall'obiettivo programmato della pressione fiscale complessiva, nel rispetto dell'autonomia tributaria delle regioni e degli enti locali (articolo 18 della legge delega sul federalismo fiscale n. 42 del 2009);
   ad assumere iniziative per eliminare da subito tutte le norme che bloccano oggi l'autonomia dei comuni e che non hanno effetti sui saldi di finanza pubblica e, in generale, a rivedere le regole del patto di stabilità interno, introdotte dal decreto legislativo n. 149 del 2011, in materia di meccanismi sanzionatori e premiali relativi a regioni, province e comuni;
   a pianificare una riforma strutturale e stabile nel tempo del patto di stabilità interno e che preveda l'equilibrio di bilancio come unico vincolo, l'esclusione dal computo delle spese senza debito e con risorse autonome per favorire gli enti virtuosi e l'adozione, anche tra più regioni, del patto di stabilità integrato al fine di migliorare il coordinamento della finanza territoriale;
   a completare il processo di riforma federalista superando definitivamente il sistema di finanza derivata in ragione di una piena autonomia finanziaria delle regioni e degli enti locali, senza aumentare la pressione fiscale complessiva, garantendo certezza di risorse e promuovendo lo sviluppo economico locale anche attraverso l'implementazione di nuovi ed appositi strumenti in grado di supportare le amministrazioni locali nel processo di acquisto dei beni e dei servizi al fine di attuare efficienti revisioni di spesa;
   a verificare il motivo della mancata emanazione dei decreti del presidente del Consiglio dei ministri che completano il percorso del federalismo demaniale previsto dal decreto legislativo 28 maggio 2010, n. 85, relativo all'attribuzione alle autonomie territoriali di un proprio patrimonio, alla luce della priorità che va assegnata ad una decisa azione di riduzione del debito pubblico;
   a cambiare l'approccio allo strumento dell'addizionale irpef da parte di regioni e comuni, oggi troppo spesso usata forzatamente per compensare carenze di bilancio, laddove dovrebbe invece costituire uno strumento attraverso il quale gli enti locali e territoriali costruiscono in autonomia un sistema di detrazioni atte a favorire e sostenere le categorie sociali più deboli o meritevoli di tutela;
   ad assumere iniziative per ripristinare il dettato del decreto legislativo 6 maggio 2011, n. 68, (Disposizioni in materia di autonomia di entrata delle regioni a statuto ordinario e delle province, nonché di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario), con particolare riferimento alla compartecipazione regionale all'iva, le cui modalità di attribuzione siano stabilite in conformità con il principio di territorialità;
   ad assumere iniziative per abrogare l'articolo 35 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 27 del 2012, recante «Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività» (cosiddetto decreto sulle liberalizzazioni), in quanto interviene, secondo i firmatari del presente atto, in contrasto con l'articolo 119 della Costituzione, accentrando la gestione delle tesorerie di regioni ed enti locali e riportando in vigore le norme degli anni Ottanta precedenti all'innovazione costituzionale citata;
   a verificare lo stato di attuazione di tutti i decreti legislativi approvati, comprensivi degli atti amministrativi previsti, al fine di definire un percorso per la loro reale definitiva entrata in vigore.
(1-00201)
«Guidesi, Giancarlo Giorgetti, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Buonanno, Busin, Caon, Caparini, Fedriga, Grimoldi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera, Rondini, Marguerettaz».
(4 ottobre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    nella XVI legislatura, al termine di un ampio confronto tra Governo, Parlamento, regioni ed enti locali, è stata approvata la legge 5 maggio 2009, n. 42, (delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell'articolo 119 della Costituzione), con la quale si è dato avvio ad un processo di ridefinizione degli assetti e delle potestà fiscali tra amministrazione centrale ed autonomie territoriali, al fine di dare attuazione al principio dell'autonomia finanziaria degli enti territoriali sancito nel Titolo V della Costituzione;
    in attuazione della citata legge delega, nel corso della XVI legislatura, sono stati emanati nove decreti legislativi che hanno realizzato la gran parte del progetto normativo delineato dalla legge n. 42 del 2009, senza che, tuttavia, possa al momento ritenersi completato il nuovo assetto del federalismo fiscale;
    al centro dell'intervento riformatore vi è il passaggio dai trasferimenti fondati sulla spesa storica a quello basato sull'individuazione dei fabbisogni standard al fine di garantire sull'intero Paese il finanziamento integrale dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali e delle funzioni fondamentali degli enti locali;
    alcuni aspetti fondamentali per la costruzione del nuovo assetto non sono ancora definiti, anche a causa dell'oggettiva complessità tecnica delle tematiche e degli innumerevoli interessi da regolare e a causa di un assetto normativo che ha subito svariate modificazioni producendo un quadro mutevole e, al momento, ancora non a regime;
    in campo sanitario, il 7 novembre 2013, la Conferenza delle regioni e delle province autonome ha deliberato di procedere da subito all'introduzione dei costi standard nella sanità, in modo sperimentale per il 2013 e in via definitiva a partire dal 2014, superando le divergenze dei mesi scorsi. Le regioni si sono anche dette pronte ad individuare le regioni di riferimento per l'applicazione dei costi standard, indispensabili per aprire una nuova fase nella sanità regionale in ragione della quale non si potranno disperdere risorse;
    è innegabile che sulla piena attuazione del federalismo fiscale abbia inciso negativamente l'aggravarsi della situazione economica e sociale che ha imposto drastici interventi di riequilibrio dei conti pubblici, con la necessità di reperire ingenti risorse e di realizzare risparmi di spesa, che hanno comportato un considerevole inasprimento della pressione fiscale;
    va, tuttavia, rilevato che il federalismo fiscale, se attuato coerentemente, costituisce di per sé un imponente processo di razionalizzazione della spesa e di una parte importante del sistema fiscale. In particolare, il passaggio dalla spesa storica ai fabbisogni standard è la vera spending rewiew per il comparto degli enti territoriali (dove si colloca oltre un terzo della spesa pubblica italiana); è un intervento strutturale che modifica, nel lungo periodo, il sistema istituzionale, con un impatto su grandi temi quali: i comportamenti, la responsabilità, la trasparenza, la democraticità e il controllo elettorale. I costi e i fabbisogni standard permettono il risultato epocale del superamento dell'irrazionalità del finanziamento in base alla spesa storica;
    nella relazione finale del gruppo di lavoro sulle riforme istituzionali, istituito il 30 marzo 2013 dal Presidente della Repubblica in tema di federalismo fiscale si legge: «La riforma della finanza locale e regionale avviata con la legge 42/2009 sul federalismo fiscale e con i successivi decreti legislativi è stata frenata dalla crisi economico-finanziaria. Il processo di consolidamento dei conti pubblici ha investito la finanza decentrata. In particolare la riduzione delle risorse riconosciute a Regioni e Comuni e i nuovi vincoli loro imposti hanno costretto gli enti locali a riduzioni di spesa, soprattutto di investimento, e a un aumento della pressione fiscale in un quadro di progressiva ricentralizzazione della finanza pubblica. La crisi potrebbe costituire, invece, una ragione per esaltare le ragioni del federalismo fiscale. Questa riforma, infatti, rafforza la responsabilità delle autonomie territoriali nella gestione dei propri bilanci a partire da una ripartizione delle risorse pubbliche tra tutti i livelli di governo e tra enti decentrati ispirata a criteri di equità e di efficienza. La riforma non va lasciata nel limbo; va invece ripresa come componente essenziale delle politiche per il rilancio del Paese»;
    il Presidente del Consiglio dei ministri, Enrico Letta, nel corso dell'intervento programmatico tenuto il 29 aprile 2013 alla Camera dei deputati, affermò: «Semplificazione e sussidiarietà debbono guidarci al fine di promuovere l'efficienza di tutti i livelli amministrativi e di ridurre i costi di funzionamento dello Stato. Questo non significa perseguire una politica di tagli indifferenziati, ma, al contrario, valorizzare comuni e regioni per rafforzare le loro responsabilità, in un'ottica di alleanza tra il Governo, i territori e le autonomie ordinarie e speciali. Bisogna altresì chiudere rapidamente la partita del federalismo fiscale rivedendo il rapporto fiscale tra centro e periferia, salvaguardando la centralità dei territori delle regioni e valorizzando le autonomie speciali»;
    i due processi riformatori avviati, quello del federalismo fiscale e quello istituzionale, pur seguendo ognuno con i propri tempi, devono, tuttavia, procedere lungo binari paralleli: non è possibile spingere sul federalismo fiscale se, contestualmente, non si vara la Carta delle autonomie locali. Così come non si possono applicare i principi di autonomia e responsabilità quando vi è ancora incertezza sulle funzioni che gli enti locali dovranno svolgere;
    l'approvazione della Carta delle autonomie locali consentirà di superare la separazione finora operata tra il federalismo fiscale e il processo di riallocazione e riorganizzazione delle funzioni tra i diversi livelli di governo, nonché di revisione della struttura organizzativa a più livelli di governo della Repubblica e di riduzione dei centri di spesa, il quale, di per sé, potrebbe consentire una riduzione della spesa corrente e, di conseguenza, della tassazione a livello substatale;
    la responsabilità e l'autonomia dei governi locali e regionali in campo fiscale, che sono tra i principi ispiratori della legge delega, risulterebbero utili per attivare il circuito di controllo dei cittadini sulle prestazioni delle amministrazioni e per renderle, di conseguenza, più efficienti e più capaci anche di ridurre la spesa e gli sprechi, secondo il concetto cardine del federalismo «vedo-pago-voto»;
    il meccanismo dei costi e dei fabbisogni standard per regioni ed enti locali, relativo ai livelli essenziali delle prestazioni e alle funzioni fondamentali, può rappresentare un modo efficace per effettuare la spending review nel sistema delle autonomie territoriali, attraverso la determinazione di parametri che tengano conto di comportamenti di spesa virtuosi;
    il coordinamento dinamico della finanza pubblica e la collaborazione tra i vari livelli di governo della Repubblica, al fine di distribuire in modo equo il carico del necessario riequilibrio finanziario e anche di contenere la pressione tributaria, sono essenziali soprattutto in un momento di crisi come l'attuale;
    la perequazione verso i territori con minore capacità fiscale per abitante che la Costituzione affida allo Stato, al fine di garantire coesione e solidarietà tra aree forti e aree deboli del Paese, è uno dei pilastri della legge n. 42 del 2009. È perciò indispensabile dare priorità al tema della perequazione nel successivo percorso di attuazione del federalismo fiscale, per evitare che la funzione statale di riequilibrio venga progressivamente del tutto meno. Bisogna, peraltro, tenere conto che in assenza di un previo adeguamento del sistema finanziario e fiscale delle regioni a statuto speciale ai principi e alle regole dell'articolo 119 della Costituzione e alle relative leggi di attuazione, non sarà possibile attuare un equilibrato sistema a livello nazionale;
    è viva l'esigenza di pervenire alla definizione di un quadro normativo certo e stabile nei rapporti finanziari tra i diversi livelli di governo, atteso che i ripetuti interventi legislativi, anche a breve distanza di tempo, operati prevalentemente mediante la decretazione d'urgenza, hanno determinato situazioni di precarietà ed incertezza;
    risulta, quindi, necessario adottare i decreti legislativi recanti disposizioni integrative e correttive che saranno ritenuti utili, consentendo l'avvio della transizione verso il nuovo assetto in tutti i suoi aspetti, che sono complementari tra loro e non possono essere affrontati in modo separato;
    si tratta di colmare i vuoti ancora esistenti rispetto alla legge delega, di verificare lo stato di attuazione degli atti amministrativi previsti dai decreti legislativi già approvati e di coordinare con appositi decreti legislativi le nuove norme che sono nel frattempo entrate in vigore, come quelle relative all'assetto tributario dei comuni, con i meccanismi previsti dalla legge delega e dai relativi decreti legislativi,

impegna il Governo:

   a dare piena e completa attuazione alla legge delega sul federalismo fiscale n. 42 del 2009, adottando tutti i decreti legislativi recanti disposizioni integrative e correttive che saranno ritenuti utili e approvando tempestivamente tutti gli atti amministrativi previsti, in modo da garantire l'effettiva operatività del sistema di federalismo fiscale;
   a valorizzare, nelle more di una riforma costituzionale che ridisegni l'impalcatura dello Stato, introducendo un Senato federale o delle autonomie, e della piena attuazione della legge delega sul federalismo fiscale, il ruolo della Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica, la cui prima riunione si è tenuta il 10 ottobre 2013, posto che tale organo, che vede al suo interno Ministri e rappresentanti politici degli enti territoriali con competenze specifiche, può diventare un valido strumento per rendere partecipi gli enti territoriali delle scelte, anche difficili, che il nostro Paese è tenuto ad adottare;
   a rendere pienamente operativi i criteri dei costi standard e dei fabbisogni standard e degli obiettivi di servizio, adottando tutti gli atti necessari all'avvio di un'efficace revisione della spesa delle amministrazioni regionali e locali, specie in campo sanitario, considerato che l'operatività del criterio dei costi standard relativi al servizio sanitario e dei fabbisogni standard per i comuni e le province dovrebbe, altresì, consentire agli enti territoriali di contenere la pressione fiscale derivante dalle imposte di propria competenza, in particolare dalle addizionali, e indurre gli amministratori alla massima responsabilizzazione;
   ad assumere iniziative per rivedere in materia di meccanismi sanzionatori e premiali relativi a regioni, province e comuni, le regole del patto di stabilità interno, che non dovrà più essere sottoposto a continue variazioni e dovrà porre alle autonomie territoriali gli stessi vincoli complessivi a livello di singoli comparti che valgono per il bilancio dello Stato, agevolando l'esercizio dell'autonomia locale e lo sviluppo della spesa per investimenti;
   a completare il sistema di armonizzazione dei bilanci e della contabilità di regioni ed enti locali, tenuto conto che tale processo inciderà, modernizzandoli, sui bilanci degli enti stessi, accrescendone il livello di trasparenza e di ordine;
   a coordinare il tema della finanza locale con le modifiche già contenute nell'articolo 23 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011, e con quelle in corso di approvazione nell'ambito della Carta delle autonomie locali e della riforma costituzionale;
   ad assumere iniziative per riconsiderare la disciplina in materia di tesoreria unica, introdotta dall'articolo 35 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, per verificare i reali effetti sui bilanci comunali, valutando la possibilità di diverse forme di compensazione delle eventuali minori disponibilità per i comuni;
   ad adottare i provvedimenti per il coordinamento dinamico della finanza pubblica previsti dalla legge delega sul federalismo fiscale n. 42 del 2009 e dai decreti legislativi approvati, con particolare riferimento al percorso di convergenza degli obiettivi di servizio ai livelli essenziali delle prestazioni e alle funzioni fondamentali di cui all'articolo 117, secondo comma, lettere m) e p), della Costituzione (articolo 13 del decreto legislativo 6 maggio 2011, n. 68) e alla determinazione dell'obiettivo programmato della pressione fiscale complessiva, nel rispetto dell'autonomia tributaria delle regioni e degli enti locali.
(1-00235) «Palese, Giammanco, Costa».
(11 novembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    la finanza regionale e locale è stata caratterizzata, nel corso di questi ultimi anni, da un importante processo di riforma diretto a dare attuazione al principio dell'autonomia finanziaria degli enti territoriali sancito nel Titolo V della Costituzione;
    il nuovo assetto dei rapporti economico-finanziari tra lo Stato e le autonomie, incentrato sul superamento del sistema di finanza derivata e sull'attribuzione di una maggiore autonomia di entrata e di spesa a comuni, province, città metropolitane e regioni, nel rispetto dei principi di solidarietà e di coesione sociale, è stato individuato dalla legge 5 maggio 2009, n. 42, di attuazione del federalismo fiscale, e dai successivi decreti legislativi approvati nel corso della XVI Legislatura;
    il processo, tuttavia, è ancora lontano dall'essere compiuto: rimangono, infatti, indeterminati degli elementi essenziali per la ridefinizione degli assetti e delle potestà fiscali tra amministrazione centrale ed autonomie territoriali, come l'individuazione, con legge, dei livelli essenziali delle prestazioni nei settori diversi dalla sanità;
    la legislazione delegata, inoltre, non ha risolto alcune delle questioni normative poste dalla legge delega, ovvero presenta problemi di coordinamento sia tra i vari decreti (quali quello sul fisco municipale e sulla fiscalità regionale), sia tra i decreti e la legislazione generale in vigore nella materia (ad esempio, per il federalismo demaniale e per gli interventi speciali);
    i provvedimenti attuativi, ancora, prevedevano il rinvio a numerosi altri decreti e regolamenti, anche relativamente ad elementi cruciali per la funzionalità del nuovo assetto, che, in molti casi, non sono stati adottati;
   infine, l'intensificarsi dell'emergenza finanziaria ha fatto sì che, sul quadro definito dalla legge delega e dai relativi provvedimenti di attuazione, intervenissero con leggi ordinarie rilevanti modifiche, le quali, senza cambiare l'impianto complessivo, hanno dato luogo a un quadro normativo mutevole e, al momento, ancora non a regime, come dimostra la vicenda relativa alla tassazione immobiliare, che, ad oggi, non ha trovato una definitiva soluzione;
    in sostanza, la riforma del federalismo fiscale presenta un bilancio non soddisfacente sul piano della realizzazione: il 2013 sarebbe dovuto essere l'anno della completa attuazione normativa della riforma mentre, allo stato, nessun decreto correttivo e integrativo è stato emanato; mancano ancora 70 tra decreti ministeriali, regolamenti e convenzioni; i tagli delle risorse e la legislazione emergenziale del biennio 2011-2012 hanno drasticamente ridimensionato la consistenza finanziaria di alcuni dei meccanismi del federalismo e sono intervenuti direttamente e ripetutamente su alcune delle componenti fondamentali della riforma;
    solo nell'ottobre 2013, con un ritardo di due anni, è stata insediata la Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica, pensata come sede istituzionale di confronto tra Stato e autonomie territoriali per tutte le questioni finanziarie, quali il riparto delle manovre di aggiustamento, la verifica dei risultati raggiunti, il funzionamento della perequazione e la premialità;
    pesa sull'interruzione del processo anche il mancato insediamento, ad oggi, della Commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale;
    è in corso di esame alla Camera dei deputati una proposta di revisione dell'assetto istituzionale di comuni, province e città metropolitane e delle relative funzioni amministrative, che rende ancora più urgente una stabilizzazione del quadro normativo dei rapporti tra lo Stato e gli enti territoriali;
    l'attuale contesto economico-finanziario dovrebbe esaltare, e non indebolire, le ragioni del federalismo fiscale, ossia il rafforzamento della responsabilità delle autonomie territoriali nella gestione dei propri bilanci, a partire da una ripartizione delle risorse pubbliche tra livelli di governo e tra enti decentrati ispirata a criteri di equità;
    un più ordinato e razionale ridisegno delle relazioni finanziarie intergovernative costituisce il prerequisito per un governo della finanza pubblica coerente con gli obiettivi della disciplina fiscale e del sostegno alla crescita economica,

impegna il Governo:

   a dare piena e completa attuazione alla legge 5 maggio 2009, n. 42, adottando tutti i decreti legislativi recanti disposizioni integrative e correttive utili e approvando, in modo tempestivo, tutti gli atti amministrativi previsti, in modo da garantire l'effettiva operatività del sistema di federalismo fiscale;
   a completare il processo di determinazione dei fabbisogni standard comunali, ad individuare i livelli essenziali delle prestazioni nei settori regionali che ne sono ancora privi, in particolare l'assistenza, e a definire le capacità fiscali standard a livello comunale e regionale;
   ad adottare iniziative per definire i sistemi perequativi regionali e comunali;
   ad adottare i provvedimenti per il coordinamento dinamico della finanza pubblica previsti dalla legge delega sul federalismo fiscale n. 42 del 2009 e dai decreti legislativi approvati, con particolare riferimento al percorso di convergenza degli obiettivi di servizio ai livelli essenziali delle prestazioni e alle funzioni fondamentali di cui all'articolo 117, secondo comma, lettere m) e p), della Costituzione e alla determinazione dell'obiettivo programmato della pressione fiscale complessiva, nel rispetto dell'autonomia tributaria delle regioni e degli enti locali;
   a dare effettiva operatività alla Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica integrandola nel processo di bilancio, per dare contenuto concreto al processo di co-decisione multilivello della finanza pubblica e per introdurre quelle innovazioni istituzionali e procedurali che permettano l'effettiva considerazione degli obiettivi di servizio, dei livelli essenziali delle prestazioni e dei percorsi di convergenza ai costi e ai fabbisogni standard;
   ad adottare iniziative per prevedere una riforma del patto di stabilità interno maggiormente rispettoso dell'autonomia locale, funzionale alla crescita economica e coerente con il quadro delle regole di disciplina fiscale disegnato dalla legge 24 dicembre 2012, n. 243;
   a coordinare la facoltà di introdurre addizionali all'Irpef da parte di regioni e comuni, in particolare modo per quanto riguarda la struttura delle addizionali per scaglioni e aliquote, nonché la facoltà di introdurre detrazioni, con l'obiettivo, da un lato, di non pregiudicare l'autonomia finanziaria di regioni e comuni e, dall'altro, di semplificare gli adempimenti da parte dei sostituti d'imposta, nonché di riportare le addizionali a funzioni allocative, riducendone l'impatto sulla progressività del sistema tributario, anche in relazione a quanto previsto dal disegno di legge delega per la riforma del sistema fiscale;
   a realizzare il sistema di finanziamento della spesa in conto capitale degli enti territoriali, in particolare per quanto riguarda la perequazione infrastrutturale, così da rispondere alla forte sperequazione delle dotazioni infrastrutturali tra le diverse aree del Paese;
   ad accelerare l'attuazione dei principi del federalismo fiscale nelle regioni a statuto speciale e nelle province autonome, assegnando priorità al completamento degli accordi in fase di discussione ai tavoli di confronto istituiti presso la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome, in base all'articolo 27 della legge delega sul federalismo fiscale n. 42 del 2009.
(1-00236)
«Causi, Marchi, Martella, Lorenzo Guerini, Misiani, Bargero, Bonifazi, Capozzolo, Carbone, Colaninno, De Maria, De Menech, Marco Di Maio, Marco Di Stefano, Fragomeli, Fregolent, Ginato, Gutgeld, Lodolini, Pelillo, Petrini, Ribaudo, Rostan, Rughetti, Sanga».
(11 novembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    la legge delega 5 maggio 2009, n. 42, ha avviato un percorso di ridefinizione dell'assetto dei rapporti economici e finanziari tra lo Stato, le regioni e gli enti locali, volto a completare, nell'arco di un quinquennio, il processo di valorizzazione del sistema delle autonomie territoriali, l'abbandono del sistema di finanza derivata ed il superamento del criterio della spesa storica in favore dei costi standard per il finanziamento delle funzioni fondamentali di regioni ed enti locali, anche al fine di realizzare un modello finanziario improntato al principio di responsabilità dei singoli livelli istituzionali e ad una maggiore autonomia di entrata e di spesa, nel rispetto dei principi di solidarietà e di coesione sociale;
    l'approvazione della sopra citata delega, che risponde a un più ampio e coerente disegno evolutivo in senso autonomistico e federalistico dell'ordinamento della Repubblica, rappresenta un momento istituzionale di grande rilevo nel processo di riforma iniziato nel 2001 con la riforma del Titolo V della Costituzione e l'occasione storica per una razionalizzazione del sistema finanziario pubblico, in cui il federalismo fiscale è considerato un fattore di responsabilizzazione delle amministrazioni;
    il nuovo sistema di ripartizione delle risorse verso gli enti territoriali che ne deriva è basato su principi che dovranno regolare l'assegnazione di risorse perequative agli enti dotati di minori capacità di autofinanziamento e predispone gli strumenti attraverso cui sarà garantito il coordinamento fra i diversi livelli di governo in materia di finanza pubblica, ma anche sull'individuazione dei fabbisogni standard necessari a garantire, sull'intero territorio nazionale, il finanziamento integrale dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali e delle funzioni fondamentali degli enti locali;
    molti ravvisano che le criticità che gli amministratori locali stanno vivendo in questa fase di transizione al federalismo siano da ricondurre alla mancata e contestuale approvazione della cosiddetta Carta delle autonomie locali, la sola in grado di dare la risposta necessaria per realizzare quel federalismo istituzionale che definisca le competenze e le funzioni dei diversi livelli istituzionali ed evitare in futuro sprechi e sovrapposizioni;
    infatti, il mancato avvio del parallelismo tra federalismo fiscale e federalismo istituzionale ha creato in alcuni casi una situazione ingestibile. L'entrata in vigore anticipata dell'imu ne ha costituito un esempio, rispondendo a logiche solo marginalmente legate alla finanza dei comuni, quali gli obiettivi generali di risanamento del bilancio statale e quelli di ridistribuzione del carico fiscale, imponendo anzi agli stessi comuni vincoli di bilancio più stringenti e minori risorse a fronte di una maggior pressione fiscale gravante sulla collettività locale, e prevedendo, inoltre, una sorta di «coabitazione» con lo Stato sul medesimo cespite, regole di gestione complicate e influenza su una buona parte del fondo di riequilibrio, il tutto lasciando, peraltro, in ombra temi prioritari, come la scelta dello schema di perequazione da adottare e delle modalità con le quali utilizzare i fabbisogni standard;
    il sopra citato avvio anticipato della norma ha impresso una notevole modificazione all'impianto dell'intera imposizione municipale, così come delineata dal decreto sul federalismo municipale, stabilendo la riserva allo Stato di una quota del tributo locale mirata non solo a far riappropriare l'erario dell'intero gettito dell'Irpef sui redditi fondiari dei beni non locati, ma anche ad incrementarne l'entità rispetto alla situazione preesistente, mantenendo tutte le principali leve di comando del tributo;
    le imposte sulla proprietà immobiliare costituiscono il perno della fiscalità locale nella maggiore parte dei Paesi europei, poiché esiste un evidente collegamento fra la base imponibile (dettata dal valore dell'abitazione) e l'attività svolta dall'ente che riscuote il gettito. Inoltre, la possibilità per il contribuente di commisurare l'onere fiscale al beneficio ricevuto in termini di servizi pubblici locali rappresenta un importante incentivo a scelte di bilancio responsabili da parte degli enti e solamente grazie al rapporto diretto del contribuente con il proprio territorio e con la propria amministrazione è possibile attuare un fisco più oggettivo per tutti, marginalizzando le aree di evasione e di elusione;
    quanto premesso dimostra che, negli ultimi anni, in controtendenza rispetto al progetto federalista, complice soprattutto la crisi economica che ha imposto a tutte le istituzioni di farsi carico dell'equilibrio dei conti pubblici e del rilancio della crescita del Paese, si è registrato un incessante deterioramento delle relazioni tra Stato centrale ed istituzioni territoriali, anche a causa di politiche di austerity, che, attraverso la decretazione d'urgenza, hanno imposto tagli alle loro risorse, amplificato lo spazio d'intervento e l'ingerenza dello Stato, affossando, nei fatti, il federalismo fiscale delineato nell'articolo 119 della Costituzione e, più in generale, tradendo il più ampio progetto federalistico ispiratore della riforma del Titolo V della Costituzione;
    le sopra citate politiche hanno prodotto un «evitamento» degli enti territoriali ed una crisi istituzionale che rischia di mettere in discussione i modelli di autonomia e favorisce un progressivo e pericoloso accentramento, affidato, peraltro, quasi esclusivamente al controllo finanziario attraverso la riduzione della spesa, atteggiamento questo che, invece di premiare il comportamento autonomo e responsabile, accentua l'ingessatura dei meccanismi burocratici e pretende di governare il pluralismo sociale ed economico del Paese con norme centralistiche, imposte dall'alto;
    l'incessante logica dei tagli statali ai trasferimenti locali ha fortemente penalizzato e compromesso l'intero assetto delle autonomie locali che non riescono, a fronte di esigue risorse, a rispondere, con l'erogazione dei servizi essenziali di propria competenza, alle istanze ed ai bisogni sempre più complessi dei cittadini; pertanto, qualsiasi processo di riordino istituzionale, seppure necessario, rischia di essere fallimentare se costruito in un'ottica di ulteriore riduzione delle risorse a disposizione dei soggetti istituzionali periferici;
    le manovre economiche approvate dai governi Berlusconi e Monti hanno determinato, anche grazie alla centralizzazione delle risorse, peraltro aggravata dalle norme sulla tesoreria unica, effetti devastanti sul sistema finanziario delle autonomie locali, che solo per le province, ad esempio, hanno determinato, nel solo biennio 2011/2012, una riduzione di risorse strutturali per 915 milioni di euro, nonché di obiettivi del patto di stabilità interno per 1,5 miliardi di euro;
    a dispetto del vero federalismo e del principio di sussidiarietà, oggi le autonomie locali sono diventate una sorta di presidi democratici svuotati di poteri che contrastano da soli e senza adeguate risorse gli effetti della crisi e dei tagli operati dalle sopra citate manovre economiche. Infatti, il combinato disposto dei tagli alle entrate e delle regole del patto di stabilità interno ha prodotto effetti perversi e irragionevoli, come l'impossibilità a svolgere alcun ruolo a sostegno dello sviluppo locale, ad accompagnare i processi sociali e di mutamento che si producono nelle realtà locali e ad assicurare la continuità e la qualità dei servizi erogati alla cittadinanza;
    la stessa Carta costituzionale prefigura un federalismo fiscale di alto profilo, autonomistico ma nel contempo solidale, che garantisce la perequazione delle diverse capacità fiscali dei territori e prevede fondi speciali per le aree in situazioni di particolare disagio socio-economico;
    il superamento del sistema di finanziamento delle funzioni e delle competenze comunali, basato sulla finanza derivata, sia statale che regionale, è il principale obiettivo del processo di attuazione dell'articolo 119 della Costituzione, che prevede l'attribuzione ad ogni istituzione, «senza vincolo di destinazione», di risorse sufficienti a «finanziare integralmente le funzioni assegnate»;
    i Governi che si sono avvicendati all'indomani del varo della legge n. 42 del 2009, nell'attuare la relativa delega legislativa si sono discostasti dal solco tracciato loro dal Parlamento, disattendendo in tal modo le aspettative di quanti, credendo nello spirito riformatore della legge, guardano oggi ad essa come ad un'occasione mancata;
    il federalismo rischia di rivelarsi una gigantesca soluzione pasticciata, buona per tutti i gusti, dove tutti si riconoscono per quota a seconda di ciò che sono riusciti ad ottenere; un modello confuso di federalismo in parte «competitivo» (sul terreno del rapporto tra pressione fiscale e qualità dei servizi offerti), in parte «solidale e cooperativo» per far fronte ai divari persistenti in termini di reddito, servizi e infrastrutture e per garantire a tutti i territori uguali punti di partenza;
    dalla lettura dei decreti attuativi fino ad oggi varati dal Governo, emerge che il passaggio dalla finanza derivata alla finanza decentrata non sembra venire contestualmente supportato da una precisa ed attenta definizione delle cosiddette funzioni essenziali finanziabili. La stessa legge delega sul federalismo fiscale, infatti, sconta tale anomalia mal definendo i contorni del finanziamento delle funzioni degli enti locali, contorni, peraltro, non ben delineati neanche dal decreto di attuazione sul finanziamento delle funzioni di comuni, province e città metropolitane;
    fino ad oggi non si è voluto affrontare, come auspicato, né il tema delle diseguaglianze sociali né di quelle territoriali, queste ultime superabili solo grazie all'avvio di una reale perequazione infrastrutturale, versante, quest'ultimo, sul quale occorre agire se si vuole evitare che il federalismo diventi un'asticella che obbliga gli enti territoriali meno virtuosi a mettere tasse per raggiungere la soglia minima degli standard e dei servizi;
    è, inoltre, indispensabile rivedere il sistema fiscale definendo quale rapporto debba sussistere tra funzioni attribuite e risorse economiche necessarie al loro esercizio e prevedendo forme di autonomia impositiva per i diversi livelli che non ricadano, come oggi, soprattutto, sui redditi dei contribuenti;
    pur in presenza di un corpus normativo che ha sostanzialmente affrontato pressoché tutti gli aspetti indicati nella legge delega sul federalismo fiscale, essendo stati emanati circa nove decreti, il percorso attuativo del federalismo fiscale non può ritenersi completato, in quanto l'implementazione della nuova disciplina risulta particolarmente complessa come nel caso della mancata individuazione dei fabbisogni standard che, unita all'ancora non intervenuta definizione con legge dei livelli essenziali delle prestazioni, nei settori diversi dalla sanità, ove peraltro la vigente disciplina è risalente al 2001, rende fortemente incompiuto il nuovo assetto federalista;
    un altro rilevante tema concerne, infine, la mancata attuazione del meccanismo di coordinamento finanziario dinamico della finanza pubblica posto dal «patto di convergenza», di cui all'articolo 18 della legge n. 42 del 2009, che prefigura un complesso disegno concertativo multilivello tra Stato ed autonomie territoriali;
    la concreta realizzazione della finanza decentrata ha presentato in alcuni casi problemi tecnici di oggettiva complessità, che in molti casi hanno reso necessario, come nel caso dei fabbisogni standard, del funzionamento dei fondi perequativi per gli enti locali o dell'armonizzazione dei sistemi contabili la previsione di lunghi periodi transitori e di fasi di sperimentazione prima dell'entrata a regime;
    nella riformulazione dei parametri di virtuosità ai fini del patto di stabilità, la legge di stabilità per il 2013 prevede che, a partire dal 2014, si dovrà dare prioritaria considerazione alla convergenza tra spesa storica e fabbisogni standard;
    ad oltre dieci anni oramai dall'approvazione del nuovo Titolo V della Costituzione, è necessaria una riflessione sull'assetto della Repubblica che coniughi unità e decentramento istituzionale, in cui i differenti livelli di governo operino in sinergia e non in contrapposizione, nella definizione di un punto di equilibrio che può e deve essere raggiunto anche attraverso un'adeguata individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni da garantire su tutto il territorio nazionale;
    l'attuazione del Titolo V della Costituzione, tuttavia, potrà svilupparsi compiutamente se, contestualmente al processo di attuazione del federalismo fiscale avviato dalla legge n. 42 del 2009, si procederà, con altrettanta coerenza e ampio confronto, all'attuazione degli articoli 114, 117 e 118 della Costituzione, garantendo la necessaria armonia tra i due provvedimenti e tra questi e quelli ad essi collegati, riguardanti, in particolare, la legge di contabilità e finanza pubblica e l'attuazione della legge di ottimizzazione del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni;
    c’è necessità, innanzitutto, di garantire una forte governance complessiva al processo di attuazione del federalismo che coinvolga in modo paritario e leale le regioni e gli enti locali; di contro, senza una chiara sede di regia unitaria è forte il rischio di incagliare definitivamente la riforma del Titolo V della Costituzione;
    la questione cruciale è che il tema dell'autonomia non può essere declassato a semplice problema di risorse: l'attuazione del titolo V della Costituzione, avviato dalla recente legge sul federalismo fiscale, esige che si proceda tramite un ampio dibattito parlamentare e un confronto con gli enti locali che si coniughi con il dettato costituzionale di cui all'articolo 5 che recita: «La Repubblica, una e indivisibile, che riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento»,

impegna il Governo:

   nell'ambito di una razionalizzazione e riorganizzazione dell'assetto istituzionale del territorio e della distribuzione delle funzioni tra i diversi livelli di governo attraverso la compiuta riforma del Titolo V della Costituzione, ad ultimare il processo di riforma federalista, valorizzando le autonomie locali come istituzioni pubbliche in grado di garantire i diritti fondamentali dei cittadini, capaci di porsi come motore di sviluppo delle economie locali, salvaguardando e rilanciando il loro valore di prossimità territoriale rispetto alle domande espresse dalle comunità locali, anche in chiave di sussidiarietà;
   a respingere qualsiasi tentazione di arretramento rispetto al decentramento responsabile e partecipato delle scelte politiche da parte dei territori, garantendo loro non solo l'individuazione funzionale delle modalità di erogazione dei servizi, ma anche il controllo sociale sul modo di organizzarne e gestirne la spesa;
   a promuovere una revisione del sistema fiscale definendo, per gli enti locali, quale rapporto debba sussistere tra funzioni attribuite e risorse economiche necessarie al loro esercizio, prevedendo forme di autonomia impositiva per i diversi livelli, le cui storture non ricadano, come avviene oggi, sui redditi dei contribuenti;
   a ricondurre l'imposizione fiscale sugli immobili alla natura di tassazione municipale avente come finalità il finanziamento dei servizi comunali strettamente connessi al territorio su cui insistono i beni immobili che costituiscono la sua base imponibile;
   ad assumere le opportune iniziative anche normative, al fine di chiarire che l'intero ammontare del gettito in astratto riconducibile agli immobili di proprietà dei comuni e siti nei loro territori non concorre alla compensazione delle risorse comunali attraverso il fondo di riequilibrio di cui all'articolo 13, comma 17, del decreto-legge n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011;
   nell'ambito della definizione dei livelli minimi e la conseguente definizione dei costi standard, a perseguire l'obiettivo complessivo di non penalizzare più attraverso il ricorso ai tagli lineari le esperienze degli enti virtuosi, ma a fare di queste esperienze punti di riferimento da diffondere anche nelle realtà meno concorrenziali sul versante dei costi e della qualità dei servizi.
(1-00237)
«Paglia, Lavagno, Ragosta, Pilozzi, Kronbichler, Marcon, Melilla, Boccadutri, Di Salvo, Piazzoni».
(11 novembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    il processo di decentramento legislativo e amministrativo avviato sin dalla fine degli anni Novanta non si è tradotto affatto in un parallelo trasferimento di entrate e spesa dalla potestà e disponibilità delle amministrazioni centrali dello Stato a quelle periferiche (regioni ed enti locali), con effetti positivi in termini di razionalizzazione e riduzione tanto della spesa quanto della pressione fiscale, bensì si è tradotto, prima, nella stratificazione di una crescente disponibilità di spesa delle amministrazioni periferiche su quella già elevata delle amministrazioni centrali, e, successivamente, nella speculare stratificazione di una crescente potestà impositiva delle amministrazioni periferiche su quella già elevata delle amministrazioni centrali, con effetti negativi di esplosione tanto della spesa pubblica complessiva quanto della pressione fiscale complessivamente esercitata dai diversi livelli di governo statali e territoriali sui cittadini e sulle imprese;
    tre sono tra le principali ragioni di questo vero e proprio auto-goal, che tanto danno ha recato al Paese, contribuendo in misura determinante all'esplosione della spesa pubblica che si è registrata in particolare modo negli anni dal 2001 al 2006 e alla conseguente esplosione della pressione fiscale dal 2006 in avanti, quando sono cominciate, con intensità crescente di pari passo con l'aggravarsi del contesto di crisi, le inevitabili politiche restrittive di riequilibrio dei conti pubblici culminate, all'apice delle difficoltà e delle turbolenze finanziarie, con le manovre varate nella seconda metà del 2011 dal Governo Berlusconi prima e dal Governo Monti poi;
    una prima ragione va individuata in un'infelice ripartizione delle competenze legislative tra Stato e regioni e, in particolare modo, nell'enumerazione eccessivamente ampia delle materie di competenza concorrente, il cui radicale sfoltimento si palesa come uno dei presupposti imprescindibili per consentire che i processi di decentramento si traducano realmente in avvicinamenti dei livelli di governo ai cittadini, con possibili ricadute positive in termini di razionalizzazione e riduzione della spesa e della pressione fiscale su di essi esercitata, invece che in duplicazione di costi burocratici e, quindi, in stratificazioni di nuova spesa su spesa, con conseguente stratificazione di tasse su tasse quando il riequilibrio dei conti diviene condizione imprescindibile e non più rinviabile;
    una seconda ragione, che trova in parte le proprie premesse nella prima, va individuata nel fatto che le riforme degli anni Novanta (la cosiddetta riforma «Bassanini») e del 2001 (riforma del Titolo V della Costituzione) hanno sensibilmente decentrato la spesa, ma non hanno fatto altrettanto in termini di decentramento del personale pubblico e delle risorse finanziarie;
    una terza ragione, che trova in parte le proprie premesse nella seconda, va individuata nella persistente asimmetria quantitativa tra volumi di spesa sviluppati dai singoli livelli di governo statale e territoriale e potestà impositiva da essi direttamente esercitata sul cittadino, con quel che ne consegue in termini di opacità per quest'ultimo delle dinamiche finanziarie interne al bilancio dello Stato e sostanziale deresponsabilizzazione dei decisori politici per le scelte di competenza di ciascuno: ancora oggi, il 40 per cento delle entrate di regioni ed enti locali è rappresentato da trasferimenti invece che da entrate proprie;
    con la riforma del 2009 (legge n. 42 del 2009) si è inteso creare i presupposti per potere correggere queste storture e dare forma a un federalismo fiscale capace di stimolare un'effettiva responsabilità a livello locale, attraverso l'esercizio dell'autonomia fiscale, l'imposizione di una piena trasparenza nell'assegnazione delle risorse a ciascun ente locale e l'abbandono graduale del circolo vizioso della spesa storica;
    a tutt'oggi, e nonostante l'avvenuta emanazione di numerosi decreti attuativi, la trama complessiva della legge delega n. 42 del 2009 per l'attuazione del federalismo fiscale è ancora lungi dall'essere attuata nel suo complesso, mentre si avvicina anche il termine del 21 novembre 2014, entro cui è prevista la possibilità di emanare decreti legislativi integrativi e correttivi;
    in particolare, il passaggio dai criteri fondati sulla spesa storica ai concetti di costo e fabbisogno standard appare fondamentale, ai fini di un'apprezzabile riduzione quantitativa della spesa pubblica e, conseguentemente, della pressione fiscale, secondo logiche però qualitative e di efficienza, in contrapposizione alle logiche di tagli lineari, presenti soprattutto per quanto riguarda i trasferimenti agli enti locali, idonei a creare talvolta inefficienze addirittura maggiori dei risparmi che generano;
    è necessario, pertanto, adottare velocemente tutti i decreti legislativi recanti disposizioni integrative e correttive che saranno ritenuti utili, consentendo così l'avvio della transizione verso il nuovo assetto in tutti i suoi aspetti che sono complementari tra di loro e non possono essere affrontati in modo separato, tenendo anche conto che la crisi dei conti pubblici, esplosa in tutta la sua evidenza nella seconda metà del 2011, ha portato all'adozione di una serie di misure emergenziali, finalizzate al loro riequilibro, che hanno pesantemente inciso sui bilanci di regioni ed enti locali, con tagli nelle disponibilità di spesa e interventi di natura tributaria non pienamente allineati agli obiettivi di fondo della riforma disegnata dalla legge n. 42 del 2009,

impegna il Governo:

   a dare piena e completa attuazione alla legge delega sul federalismo fiscale n. 42 del 2009, adottando tutti i decreti legislativi recanti disposizioni integrative e correttive che saranno ritenuti utili;
   ad assumere iniziative per dare vita quanto prima ad una vera service tax federale, il cui gettito sia per intero destinato ai comuni e alla perequazione tra i medesimi e che non sia una mera sommatoria, ridenominazione o scomposizione per parti delle attuali imu e tares;
   a verificare prioritariamente l'attuazione della procedura per l'individuazione dei costi e dei fabbisogni standard e degli obiettivi di servizio, valutando anche l'opportunità di stabilire un principio di flessibilità per tipologia di prestazione e diversità territoriale, secondo quanto previsto dal decreto legislativo 26 novembre 2010, n. 216, e dall'articolo 13 del decreto legislativo 6 maggio 2011, n. 68, ed adottare, nel termine ineludibile di tre mesi dall'approvazione del presente atto di indirizzo, tutti gli atti conseguenti e necessari ai fini della loro compiuta determinazione;
   nel percorso di completamento dell'attuazione del federalismo fiscale, ad agire con la massima urgenza per rendere operativo il criterio dei costi standard relativi al servizio sanitario e dei fabbisogni standard per comuni e province, affinché sia consentito agli enti territoriali di contenere le addizionali regionali e locali, inducendo tutti gli amministratori alla massima responsabilizzazione;
   a coordinare il tema della finanza locale con le modifiche ordinamentali già contenute nell'articolo 23 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011, e con quelle in corso di approvazione nell'ambito della Carta delle autonomie locali e della riforma costituzionale, con particolare riguardo alla forma di Governo, alla previsione del Senato federale, alla riduzione del numero dei membri delle Camere, all'eliminazione degli enti intermedi inutili e, in generale, alla revisione della parte seconda della Carta costituzionale;
   per quanto riguarda la riforma organica delle istituzioni di governo di area vasta, introdotta dal decreto-legge n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011, a riconsiderare l'impatto che il trasferimento delle funzioni e delle risorse oggi gestite dalle province avrà sui bilanci e sull'organizzazione di regioni e comuni, già gravati dalle difficili condizioni di sostenibilità del loro patto di stabilità, posto che le nuove norme ingenerano confusione nel sistema delle autonomie e conseguenze pesanti per lo sviluppo dei territori, producendo notevoli costi aggiuntivi per lo Stato e per la pubblica amministrazione;
   ad adottare con gli strumenti di programmazione finanziaria tutti i provvedimenti per il coordinamento dinamico della finanza pubblica previsti dalla legge delega n. 42 del 2009 e dai decreti legislativi approvati, a partire dal percorso di convergenza degli obiettivi di servizio ai livelli essenziali delle prestazioni e alle funzioni fondamentali di cui all'articolo 117, secondo comma, lettere m) e p) della Costituzione, (articolo 13 del decreto legislativo 6 maggio 2011, n. 68) e dall'obiettivo programmato della pressione fiscale complessiva, nel rispetto dell'autonomia tributaria delle regioni e degli enti locali (articolo 18 della legge delega n. 42 del 2009);
   a promuovere una revisione delle regole del patto di stabilità interno, introdotte dal decreto legislativo n. 149 del 2011, in materia di meccanismi sanzionatori e premiali relativi a regioni, province e comuni;
   a completare il processo di riforma federalista superando definitivamente il sistema di finanza derivata in ragione di una piena autonomia finanziaria delle regioni e degli enti locali, senza aumentare la pressione fiscale complessiva, garantendo certezza di risorse e promuovendo lo sviluppo economico locale anche attraverso l'implementazione di nuovi ed appositi strumenti in grado di supportare le amministrazioni locali nel processo di acquisto dei beni e dei servizi al fine di attuare efficienti revisioni di spesa;
   ad adottare, nell'ambito delle riforme concernenti la disciplina di bilancio delle pubbliche amministrazioni, ogni utile iniziativa volta ad implementare le procedure telematiche di comunicazione annuale dei dati, finalizzate alla creazione di un'anagrafe telematica della spesa, dei debiti e dei contratti di ogni genere e tipo, ivi compresi quelli di consulenza e di lavoro subordinato;
   a cambiare l'approccio allo strumento dell'addizionale irpef da parte di regioni e comuni, oggi troppo spesso usata forzatamente per compensare carenze di bilancio, laddove dovrebbe, invece, costituire uno strumento attraverso il quale gli enti locali e territoriali costruiscono in autonomia un sistema di detrazioni atte a favorire e sostenere le categorie sociali più deboli o meritevoli di tutela;
   ad assumere iniziative per ripristinare il dettato del decreto legislativo 6 maggio 2011, n. 68, (disposizioni in materia di autonomia di entrata delle regioni a statuto ordinario e delle province, nonché di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario), con particolare riferimento alla compartecipazione regionale all'iva, le cui modalità di attribuzione siano stabilite in conformità con il principio di territorialità;
   a verificare lo stato di attuazione di tutti i decreti legislativi approvati, comprensivi degli atti amministrativi previsti, al fine di definire un percorso per la loro reale definitiva entrata in vigore.
(1-00238)
«Zanetti, Dellai, Balduzzi, Sottanelli, Andrea Romano, Sberna, Rossi, Librandi, De Mita, Fauttilli, Piepoli».
(11 novembre 2013)

INTERROGAZIONI A RISPOSTA IMMEDIATA

   CAPELLI. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   il nomenclatore tariffario attualmente in vigore è quello stabilito dal decreto ministeriale n. 332 del 27 agosto 1999, pubblicato nella Gazzetta ufficiale del 27 settembre 1999, dal titolo: «Regolamento recante norme per le prestazioni di assistenza protesica erogabili nell'ambito del servizio sanitario nazionale: modalità di erogazione e tariffe». Esso individua nel dettaglio le categorie di persone che hanno diritto all'assistenza protesica, le prestazioni che comportano l'erogazione dei dispositivi riportati negli elenchi 1, 2 e 3 e le modalità di erogazione;
   l'articolo 11 stabilisce che: «Il nomenclatore è aggiornato periodicamente, con riferimento al periodo di validità del piano sanitario nazionale e, comunque, con cadenza massima triennale, con la contestuale revisione della nomenclatura dei dispositivi erogabili»;
   l'aggiornamento previsto all'articolo 11 non è mai stato effettuato; di conseguenza, da oramai 14 anni prezzi, tecnologie e presidi ortopedici sono rimasti sostanzialmente gli stessi;
   la mancanza di tale aggiornamento ha provocato con il passare degli anni un danno sia per i disabili, sia per le aziende erogatrici di dispositivi ortopedici, poiché ha generato una distorsione del libero mercato, e, fatto ancora più grave, il mancato aggiornamento periodico del nomenclatore, non essendo in linea con il costante progresso tecnologico, inibisce alle migliaia di disabili italiani l'accesso a nuovi strumenti di supporto, che, da un lato, potrebbero migliorare notevolmente la qualità della vita e, dall'altro, creano una condizione di disparità sociale, dal momento che solo le famiglie con maggiori possibilità economiche sono in grado di fornire a queste persone ausili tecnologicamente più moderni, in quanto sostengono la differenza di spesa del presidio;
   il decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158, recante «Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute», convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012, n. 189, ha stabilito all'articolo 5, comma 2-bis, che: «Il Ministro della salute procede entro il 31 maggio 2013 all'aggiornamento del nomenclatore tariffario di cui all'articolo 11 del regolamento di cui al decreto del Ministro della sanità 27 agosto 1999, n. 332»;
   la giurisprudenza, nel corso degli anni, ha sistematicamente riconosciuto le ragioni delle imprese e degli assistiti, richiamando ad un più attento rispetto della normativa vigente. In tal senso il tribunale di Napoli, con ordinanza del 12 marzo 2012, ha riconosciuto il diritto del cittadino con disabilità ad ottenere un ausilio non previsto dal nomenclatore tariffario, ma dimostrato con certificazione medica necessario per il miglioramento della sua salute: «Il diritto alla salute rappresenta un valore preminente rispetto a qualunque interesse di contenimento della spesa pubblica, interesse tutelato dalla predisposizione di specifici elenchi di farmaci e di presidi che lo Stato eroga a totale suo carico. Conseguentemente, sussiste il pieno diritto alla somministrazione di un presidio che, sebbene non inserito nel nomenclatore allegato al regolamento approvato con decreto ministeriale n. 332 del 1999, costituisca l'unico mezzo per salvaguardare il bene salute del cittadino». Così anche il tribunale amministrativo regionale della Sicilia, con riferimento alla cosiddetta assistenza indiretta. Con la sentenza n. 144 del 2012, il tribunale amministrativo regionale della Sicilia afferma come l'assistito possa scegliere liberamente l'ausilio ritenuto più congeniale ai suoi bisogni (tra quelli riconosciuti omogenei), senza doverlo scegliere tra quelli proposti dalle regioni e dalle aziende sanitarie locali, che non sono più tenute ad acquistare in blocco l'intera quantità di dispositivi, ma solo ad intervenire col saldo dell'eventuale eccedenza di prezzo rispetto a quello stabilito per quel tipo di ausilio con bando di gara. Secondo il tribunale amministrativo regionale, questa sentenza trova la propria giustificazione nella necessità che i pazienti siano meglio garantiti dalla possibilità di una vasta scelta di tipologie e di marche – sicuramente superiore a quella di cui si potrebbero giovare nell'ipotesi della concentrazione dell'offerta in uno o poche imprese – e dalla possibilità di un servizio per la manutenzione ordinaria e straordinaria a cifra di un'idonea rete distributiva»;
   il Ministro interrogato, nell'audizione tenutasi il 31 luglio 2013 al Senato della Repubblica presso la Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, ha sottolineato come la questione del nomenclatore tariffario sia una cosa di cui si parla poco, ma che ha un'importanza fondamentale. Ha ricordato che nell'aprile 2008 il Ministero aveva elaborato una proposta di modifica degli elenchi di dispositivi di assistenza protesica – inserita all'interno del provvedimento di revisione complessiva dei livelli essenziali di assistenza, dell'insieme delle attività, dei servizi e delle prestazioni che il servizio sanitario nazionale eroga a tutti i cittadini gratuitamente o con il pagamento di un ticket – ma lo schema di decreto fu oggetto di rilievi da parte della Corte dei conti;
   nel marzo 2010 l'approvazione di un ulteriore provvedimento fu, invece, sospesa dalla valutazione del Ministero dell'economia e delle finanze circa la maggiore spesa indotta dal provvedimento a carico del sistema sanitario nazionale;
   il Ministro si è poi soffermato ad analizzare i costi che l'aggiornamento del nomenclatore comporterebbe, sostenendo che sono stati stimati 321 milioni di euro l'anno, costi che vanno messi, soprattutto, in relazione con il continuo avanzamento della ricerca tecnologica nel campo degli ausili;
   con riferimento agli impegni futuri in tale ambito, il Ministro interrogato ha annunciato la volontà di aprire un tavolo con la conferenza Stato-regioni per ridefinire la programmazione delle spese del sistema sanitario nazionale e di volersi occupare del nomenclatore all'interno di tale programmazione. Infine, ha riferito di voler includere, all'interno del nuovo patto per la salute, cui il Ministero della salute sta lavorando, per il prossimo quinquennio l'aggiornamento del nomenclatore –:
   quali iniziative concrete il Ministro interrogato abbia posto in essere per dar corso agli impegni annunciati in sede di audizione, al fine di provvedere all'aggiornamento del nomenclatore tariffario, ai sensi del regolamento di cui al decreto ministeriale n. 332 del 1999, anche alla luce di quanto previsto nel decreto-legge n. 158 del 2012, che aveva stabilito come termine per la revisione il 31 maggio 2013, in modo da ricomprendere nel nomenclatore anche i più moderni presidi ortopedici e dispositivi di ausilio e di permettere una giusta remunerazione. (3-00438)
(12 novembre 2013)

   BINETTI, VARGIU, MONCHIERO, GIGLI e SCHIRÒ PLANETA. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
   ricorre in questi giorni la Giornata mondiale del diabete, con iniziative previste in tutta Italia. Sono numerosissimi i volontari e i professionisti sanitari coinvolti. La Giornata mondiale del diabete – supportata da Nazioni Unite, International diabetes foundation e Organizzazione mondiale della sanità – si celebra in tutto il mondo il 14 novembre;
   si tratta della più grande manifestazione del volontariato in campo sanitario. La Giornata mondiale del diabete è, infatti, una delle poche nel suo campo a non sollecitare contributi, ma anzi a offrire gratuitamente servizi. L'evento classico della giornata è la «glicemia in piazza», che si è evoluta fino a includere una serie di test effettuati sul momento che permettono di scoprire se chi fa il test ha il diabete o di valutare quale sia il rischio di svilupparlo;
   il rapporto «Il diabete in Italia 2000-2011», realizzato dall'Istituto nazionale di statistica (Istat), fornisce una fotografia dettagliata dell'evoluzione del diabete nel nostro Paese negli ultimi 11 anni;
   nel 2011 è stato calcolato che la diffusione del diabete aumenta al crescere dell'età: dopo i 75 anni almeno una persona su cinque è affetta dalla malattia. Su 100 diabetici, 80 avevano più di 65 anni e 40 più di 75. Sotto i 74 anni il diabete è più diffuso tra gli uomini. Sono circa 3 milioni gli italiani che soffrono di diabete. Al Sud ci sono circa 900 mila diabetici; al Nord-Ovest 650 mila persone hanno il diabete, al Centro 600 mila, al Nord-Est 450 mila e nelle Isole circa 350 mila;
   il numero delle persone decedute per il diabete è passato da 17.547 nel 2000 a 20.760 nel 2009. Per poter prevenire il diabete servono un'adeguata educazione alimentare, sport e attività fisica;
   presso il Senato della Repubblica è stato presentato un documento strategico di intervento integrato per l'inserimento dell'adolescente diabetico a scuola promosso dal coordinamento tra le associazioni italiane giovani con «Diabete Italia», in condivisione con i Ministeri della salute e dell'istruzione, dell'università e della ricerca, che ha l'obiettivo di garantire il pieno godimento del diritto alla salute psico-fisica, l'accesso protetto dei percorsi scolastici e la rimozione di ogni ostacolo per la piena integrazione sociale del bambino, adolescente e ragazzo con diabete –:
   se non ritenga opportuno incentivare campagne d'informazione e di prevenzione sul diabete, soprattutto quello di tipo 2, mettendo l'accento sull'importanza di stili di vita corretti, attraverso lo sport, un'adeguata attività fisica e una corretta alimentazione, nonché sull'importanza del test glicemico già dai primi anni di vita, per poi monitorare la glicemia nelle diverse fasi della vita e poter così diagnosticare tempestivamente la comparsa del diabete, fin dai suoi primi sintomi. (3-00439)
(12 novembre 2013)

   FEDRIGA, GIANCARLO GIORGETTI, ALLASIA, ATTAGUILE, BORGHESI, BOSSI, MATTEO BRAGANTINI, BUONANNO, BUSIN, CAON, CAPARINI, GRIMOLDI, GUIDESI, INVERNIZZI, MARCOLIN, MOLTENI, GIANLUCA PINI, PRATAVIERA e RONDINI. — Al Ministro per l'integrazione. — Per sapere – premesso che:
   da alcuni articoli apparsi recentemente sui quotidiani, si apprende che il centro di identificazione ed espulsione di Gradisca d'Isonzo (Gorizia) è stato, di fatto, reso inagibile e praticamente distrutto dagli stessi clandestini lì ospitati nel corso delle numerose e violente rivolte scoppiate negli ultimi mesi;
   non si tratta di un fatto isolato, poiché domenica scorsa anche i clandestini ospitati nel centro di identificazione ed espulsione di via Corelli a Milano hanno dato fuoco a lenzuola, asciugamani e materassi del settore D del centro e solo l'intervento tempestivo dei vigili del fuoco, che hanno subito sedato le fiamme, ha evitato conseguenze ancora più gravi;
   in particolare, si apprende, sempre da articoli di stampa, che in poco più di 60 giorni, sono già cinque gli incendi appiccati al centro di identificazione ed espulsione di via Corelli, concentrati tra il 7 e il 29 settembre 2013, e che ormai quattro dei cinque settori (da 28 posti ciascuno) sono inagibili;
   come per il centro di identificazione ed espulsione di Gradisca, anche in questo caso i clandestini ospitati saranno trasferiti, date le condizioni di inagibilità delle strutture ed in attesa dell'effettiva espulsione dal territorio italiano, in altre analoghe strutture, sempre se vi sia la disponibilità recettiva;
   di fatto, tali episodi sono una resa dello Stato verso chi mette sistematicamente atti di danneggiamento e violenza ed il messaggio che passa con questi provvedimenti di trasferimento è che, anche se non si rispettano le leggi italiane e le regole, si può ottenere tutto, tanto che tali episodi di devastazione sono ormai sempre più frequenti;
   sempre nei giorni scorsi a Bruxelles presso il Parlamento europeo, durante il convegno organizzato dall'associazione LasciateCientrare-European alternatives, il Ministro interrogato ha dichiarato che in materia di centri di identificazione ed espulsione «la normativa nazionale dovrebbe meglio adeguarsi allo spirito di quella europea», senza però meglio specificare quali siano i suoi concreti intendimenti, con ciò alimentando le speranze di una possibile loro definitiva chiusura ed i sempre più frequenti episodi di devastazione e violenza, come quelli sopra specificati;
   è la stessa direttiva comunitaria 2008/115, cosiddetta direttiva rimpatri, a prevedere la necessaria presenza e operatività in territorio nazionale dei centri di identificazione ed espulsione, che, in particolare, all'articolo 15 e 16 dispone in materia di «trattenimento», prevedendo che avvenga «in appositi centri di permanenza temporanea» «per il tempo necessario all'espletamento diligente delle modalità di rimpatrio»;
   pertanto, la permanenza nei centri di identificazione ed espulsione è condizione necessaria per procedere all'identificazione del clandestino e al suo effettivo rimpatrio, poiché, sempre ai sensi della sopra citata direttiva, «occorrono norme chiare, trasparenti ed eque per definire una politica di rimpatrio efficace quale elemento necessario di una politica d'immigrazione correttamente gestita» –:
   quali siano gli intendimenti del Ministro interrogato riguardo alla propria proposta più volte annunciata di procedere alla chiusura dei centri di identificazione ed espulsione, alla luce degli ultimi avvenimenti e della richiamata legislazione comunitaria, e se non ritenga di condannare fermamente tali episodi gravissimi, indice secondo gli interroganti di una totale mancanza di volontà di integrazione e di rispetto delle regole vigenti nel nostro Paese da parte di soggetti entrati clandestinamente nel nostro territorio. (3-00440)
(12 novembre 2013)

   ROSTELLATO, CIPRINI, BECHIS, BALDASSARRE, RIZZETTO, TRIPIEDI e COMINARDI. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   nelle ultime decretazioni di urgenza, il Governo ha provveduto al parziale rifinanziamento della cassa integrazione guadagni in deroga;
   il quotidiano La Stampa di domenica 10 novembre 2013 ha rilanciato l'allarme, citando situazioni emergenziali: dal Mezzogiorno al Nord industriale, la cassa integrazione in deroga è al collasso. Centinaia di migliaia di famiglie sono rimaste senza redditi, benché sia stato loro promesso di aver legalmente titolo a questa forma «eccezionale» di sussidio;
   dal distretto del tessile a Como, al commercio nel Lazio, fino all'edilizia in Campania o in Sicilia, sono probabilmente circa 350 mila i lavoratori che subiscono forti ritardi nel versamento degli ammortizzatori in deroga;
   si verificano situazioni al limite del collasso: secondo notizie di stampa apparse sui maggiori quotidiani nazionali, a Catanzaro un gruppo di lavoratori in cassa integrazione si è presentato all'assessorato al lavoro della Calabria e ha chiesto di visionare attestazione della sussistenza dei fondi per il pagamento degli ammortizzatori sociali; quando i funzionari locali hanno preso tempo, i cassaintegrati sono scesi in strada, hanno spostato transenne e cassonetti e hanno bloccato un'arteria di traffico per circa otto ore;
   nel frattempo, a Cosenza, altri cassaintegrati sono saliti sul tetto del palazzo dell'Inps e hanno minacciato di buttarsi se non fossero stati pagati. Solo in Calabria, 20 mila lavoratori in cassa o mobilità hanno smesso da nove mesi di ricevere sussidi che in teoria sarebbero già stati autorizzati;
   la detta emergenza riguarda oramai tutto il territorio nazionale ed urgono risposte serie da fornire ai lavoratori –:
   quale sia, ad oggi, l'esatto quadro numerico dei lavoratori aventi diritto, con espresso riferimento al numero di aziende che hanno fatto richiesta di accesso alla cassa integrazione guadagni in deroga ed al relativo reale fabbisogno economico utile a finanziare le richieste accolte.
(3-00441)
(12 novembre 2013)

   POLVERINI. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   nei giorni scorsi l'Istat ha diffuso le previsioni biennali del Paese sul mercato del lavoro, stimando una crescita del tasso di disoccupazione che raggiungerà quota 12,1 per cento nel 2013 e quota 12,4 per cento per il 2014, raggiungendo, quindi, il valore più alto di disoccupazione mai registrato dal 1977;
   la legge 28 giugno 2012, n. 92, all'articolo 2, ha riformato il sistema degli ammortizzatori sociali in caso di perdita del posto di lavoro, con il progressivo passaggio all'assicurazione sociale per l'impiego;
   la stessa norma, ma all'articolo 3, ha anche previsto la costituzione di fondi di solidarietà bilaterali per i settori non coperti dalla normativa in materia di integrazione salariale, prevedendo, però, una disciplina particolarmente complessa, cosa che sta rendendo difficoltoso l'avvio di questo strumento;
   la cassa integrazione in deroga ha permesso finora di mantenere il tasso di disoccupazione in linea con la media europea, ma l'autorizzazione da parte delle regioni è subordinata alla disponibilità di risorse, che, secondo recenti notizie di stampa, risulterebbero ormai esaurite;
   almeno fino al 2012, oltre al sostegno al reddito sono stati assicurati ai lavoratori coinvolti dei percorsi di riqualificazione professionale obbligatori;
   il ritardo che si è accumulato nei pagamenti da parte dell'Inps è quantificabile in otto-nove mesi, cosa che si riflette pesantemente sulla tenuta del potere d'acquisto dei lavoratori coinvolti, privi di ogni sostegno al reddito;
   è in via di definizione un decreto interministeriale sulle regole di accesso allo strumento della cassa integrazione in deroga –:
   quale sia la reale ed immediata disponibilità di risorse per l'anno in corso e per il 2014, in considerazione del fatto che le regioni lamentano un'insufficiente disponibilità a copertura delle domande presentate, e se, nella definizione del citato decreto interministeriale, si intenda aprire un tavolo di confronto con le competenti commissioni parlamentari, le regioni e le parti sociali, al fine di evitare che, attraverso il cambiamento delle regole, si restringa surrettiziamente la platea dei beneficiari, con grave danno per il sistema produttivo italiano e per i lavoratori coinvolti. (3-00442)
(12 novembre 2013)

   MIGLIORE, FERRARA, AIRAUDO, DI SALVO e PLACIDO. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   la cassa integrazione in deroga era stata immaginata per rispondere alle necessità di un welfare moderno e flessibile che rispondesse all'emergenza della grande crisi recessiva;
   da un articolo uscito sul quotidiano la Repubblica, «Cassa in deroga, giro di vite del Governo» dell'11 novembre 2013 si evince l'intenzione del Governo, nel 2014, di preparare il terreno in vista del passaggio ai nuovi istituti per i senza lavoro, i fondi di solidarietà e dell'aspi, l'assicurazione sociale per l'impiego, contenuti nella «riforma del mercato del lavoro Fornero», varata dal Governo Monti nel 2012;
   nei prossimi giorni è prevista la firma del decreto interministeriale recante i nuovi criteri per l'accesso alla cassa integrazione in deroga che coinvolge il Ministero del lavoro e delle politiche sociali e il Ministero dell'economia e delle finanze, di cui l'articolo su citato de la Repubblica anticipa la notizia di un «giro di vite» a partire dal 2014 incidente sia sulla durata del sostegno che sulla prorogabilità degli accordi. Anche se, in realtà, non è stato ancora chiarito dal Governo che il decreto interministeriale si applicherà solo per il futuro e non anche per il passato;
   in questi giorni sta emergendo, infatti, il caso di 350 mila lavoratori ammessi a godere della cassa integrazione in deroga nel 2013, rimasti senza pagamenti;
   per coprire il 2013 servirebbe circa un altro miliardo di euro secondo le stime di Gianfranco Simoncini, coordinatore della commissione lavoro della conferenza delle regioni e assessore al lavoro in regione Toscana, sostenendo che per molte decine di migliaia di lavoratori non ci sarà copertura e questo rischia di determinare un contenzioso tra aziende e lavoratori: i lavoratori chiederanno alle aziende di rifondere i soldi non ricevuti. Ci saranno aziende che licenzieranno e altre che saranno costrette a fallire;
   a parere degli interroganti, in base alle autorizzazioni di cassa integrazione in deroga, riconosciute dalle regioni sulla base della normativa vigente, il Governo non può decidere una riduzione delle coperture o, peggio, non trasferire le risorse indispensabili per erogare il sussidio alle persone che da mesi, ormai, non lo ricevono –:
   cosa intenda fare per garantire tutti i lavoratori che nel 2013 sono stati ammessi alla cassa integrazione in deroga, affinché ricevano quanto previsto, e quali misure concrete intenda mettere in atto per ricreare le condizioni di recupero dei posti di lavoro che inevitabilmente andranno perduti senza un intervento forte dello Stato. (3-00443)
(12 novembre 2013)

   GNECCHI, INCERTI, GIACOBBE, MAESTRI, BARUFFI, BELLANOVA, BOCCUZZI, CINZIA MARIA FONTANA, RUBINATO, MURER, MOGNATO, ALBANELLA, MICCOLI, MARTELLA, ROSATO e DE MARIA. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   con il messaggio n. 17606 del 4 novembre 2013, l'Inps ha dato un'interpretazione restrittiva della garanzia di salvaguardia prevista dall'articolo 22, comma 1, lettera a), del decreto-legge n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, riferendosi in modo particolare ai lavoratori che sono stati coinvolti nelle procedure di gestione di esuberi attraverso accordi in sede governativa stipulati entro il 31 dicembre 2011;
   nello specifico, l'istituto crea due platee distinte di lavoratori e lavoratrici all'interno dello stesso accordo: chi matura i requisiti previgenti durante la cassa integrazione, ma non matura i nuovi durante la mobilità, e chi matura i requisiti previgenti durante la cassa integrazione, ma matura anche i nuovi requisiti durante la mobilità. Praticamente chi ha più anni di contribuzione o è più avanti negli anni anagraficamente si ritrova a dover vivere qualche anno in più con l'ammortizzatore sociale, anziché con la pensione, solo ed esclusivamente per ridurre il numero dei salvaguardati, senza tener conto che la mobilità e la pensione potrebbero essere di importo diverso anche in modo significativo;
   si vanno così ad escludere dalla salvaguardia quei lavoratori che maturano i previgenti requisiti durante il periodo di cassa integrazione prima dell'ingresso in mobilità, nonostante la norma richiamata preveda: «a) ai lavoratori per i quali le imprese abbiano stipulato in sede governativa entro il 31 dicembre 2011 accordi finalizzati alla gestione delle eccedenze occupazionali con utilizzo di ammortizzatori sociali ancorché alla data del 4 dicembre 2011 gli stessi lavoratori ancora non risultino cessati dall'attività lavorativa e collocati in mobilità ai sensi degli articoli 4 e 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223, e successive modificazioni, i quali in ogni caso maturino i requisiti per il pensionamento entro il periodo di fruizione dell'indennità di mobilità di cui all'articolo 7, commi 1 e 2, della legge 23 luglio 1991, n. 223 ovvero, ove prevista, della mobilità lunga ai sensi dell'articolo 7, commi 6 e 7, della predetta legge n. 223 del 1991». Nel concetto di maturazione entro la fruizione dell'indennità di mobilità la norma comprende ovviamente, secondo gli interroganti, anche la cassa integrazione che è immediatamente precedente e senza soluzione di continuità con la mobilità;
   l'interpretazione data dall'istituto crea disparità di trattamento tra lavoratori che si trovano nella stessa identica situazione, creando nuove complicazioni che si vanno ad aggiungere alle tante già note, sulla gestione della problematica delle salvaguardie. L'istituto è, peraltro, consapevole che quando si sottoscrivono accordi che prevedono esuberi, vengono individuati i lavoratori con la maggiore anzianità contributiva e, di conseguenza, quelli più prossimi al raggiungimento dei requisiti per il diritto a pensione che sono inseriti nel processo, proprio per tutelare il diritto dei lavoratori più giovani al mantenimento del posto di lavoro;
   questa ulteriore, restrittiva e, davvero, incomprensibile interpretazione dell'Inps non fa altro che prolungare le sofferenze di questi lavoratori, convinti e fiduciosi che un accordo di esubero, firmato in sede ministeriale secondo le leggi vigenti in quel periodo, quindi con la garanzia dello Stato, debba essere rispettato e non possa creare differenze incomprensibili tra lavoratori inseriti nello stesso accordo –:
   se non ritenga il Ministro interrogato di intervenire urgentemente sull'Inps per modificare il messaggio n. 17606 del 4 novembre 2013, eliminando la palese discriminazione tra i lavoratori coinvolti e rispettando quanto previsto dall'articolo 22, comma 1, lettera a), del decreto-legge n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012.
(3-00444)
(12 novembre 2013)

   TOTARO e RAMPELLI. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
   la città di Prato ospita una numerosissima comunità cinese, che si stima ammonti al 20 per cento della popolazione locale, perlopiù immigrata, a partire dagli anni ’90 e impegnata, nella maggioranza pressoché assoluta dei casi, nel settore manifatturiero;
   il distretto industriale di Prato, una volta fiore all'occhiello del settore tessile nazionale, ha subito, nell'ultimo decennio, una perdita di quasi 1.500 milioni di euro di fatturato (mille dei quali in esportazioni), che, tradotta in risorse umane, significa un'emorragia di almeno diecimila posti di lavoro e la chiusura di oltre duemila aziende;
   secondo i dati raccolti per uno studio de Il Sole 24 ore, oggi a Prato un'azienda su otto è cinese e, su un dato complessivo di 3.500 aziende, solo 215 sono ancora attive nel settore tessile, mentre tutte le altre operano nel settore delle confezioni, con tessuti importati dalla Cina a basso prezzo, cuciti copiando i modelli degli stilisti famosi e rivenduti secondo un modello low cost che va dal produttore al consumatore;
   a fronte di un numero superiore a ottomila occupati, nelle aziende cinesi di Prato negli ultimi anni sono stati solo due gli infortuni sul lavoro denunciati e neanche un lavoratore risulta iscritto ad un sindacato;
   il giro d'affari delle imprese in mano ai cinesi è stimato in un miliardo e ottocento milioni di euro, dei quali, si sospetta, un miliardo in nero;
   il sorpasso delle aziende cinesi rispetto a quelle italiane, nonché la maggiore sopravvivenza alla crisi in atto delle prime rispetto alle seconde trova le sue ragioni, almeno per una parte, nel fatto che le aziende cinesi disattendono larga parte delle normative sia in materia di commercio, come, ad esempio, quella sugli orari di apertura dei negozi, sia rispetto alle tutele riconosciute ai lavoratori, posto che tale sorpasso si basa, per larghissima parte, sullo sfruttamento della manodopera clandestina e sui laboratori-dormitorio dove la gente vive e lavora senza distinzioni;
   si realizza, quindi, un fenomeno di vera e propria concorrenza sleale, che permette ai cinesi di vendere le proprie merci sottocosto, e a seguito della quale le aziende italiane, che adempiono a tutti gli oneri sociali e fiscali imposti dalle vigenti normative, sono destinate a soccombere;
   lo studio de Il Sole 24 ore ha dimostrato, infatti, che su cento aziende cinesi che aprono a fine anno ne rimangono solo quaranta, in segno di un turnover continuo messo in atto per sfuggire ai controlli –:
   se non ritenga di attivarsi affinché sia potenziata l'attività ispettiva nei territori interessati, al fine di combattere lo sfruttamento dei lavoratori e di ripristinare condizioni di parità di accesso al mercato per tutte le aziende. (3-00445)
(12 novembre 2013)