TESTI ALLEGATI ALL'ORDINE DEL GIORNO
della seduta n. 102 di Martedì 22 ottobre 2013

 
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MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE IN MATERIA DI UTILIZZO DI ALCUNE TIPOLOGIE DI COMBUSTIBILI SOLIDI SECONDARI NEI FORNI DEI CEMENTIFICI

   La Camera,
   premesso che:
    il 14 marzo 2013 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il decreto ministeriale 14 febbraio 2013, n. 22, «Regolamento recante disciplina della cessazione della qualifica di rifiuto di determinate tipologie di combustibili solidi secondari (CSS), ai sensi dell'articolo 184-ter, comma 2, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni»;
    di fatto, il citato decreto istituzionalizza l'incenerimento dei combustibili solidi secondari nei forni dei cementifici, introducendo l'espediente della «dichiarazione di conformità» (articolo 4 del citato decreto ministeriale) che permetterebbe ai combustibili solidi secondari di «cessare di essere considerati rifiuti»;
    appena tre giorni prima della pubblicazione del decreto, l'11 febbraio 2013, la VIII Commissione permanente (Ambiente, territorio e lavori pubblici) della Camera dei deputati aveva dato parere contrario allo «Schema di Decreto del Presidente della Repubblica concernente il Regolamento recante disciplina dell'utilizzo di combustibili solidi secondari (CSS), in parziale sostituzione di combustibili fossili tradizionali, in cementifici soggetti al regime dell'autorizzazione integrata ambientale, ai sensi dell'articolo 214, comma 11, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 e successive modificazioni»;
    il citato schema di decreto del Presidente della Repubblica prevedeva «l'utilizzo dei CSS (...) in parziale sostituzione di combustibili fossili tradizionali, negli impianti di produzione di cemento a ciclo completo» (articolo 1);
    durante il dibattito sul citato schema di decreto del Presidente della Repubblica è emerso come «lo schema di provvedimento sia stato predisposto da oltre un anno e che nessuna ragione può essere addotta per giustificare la presentazione alle Camere soltanto al momento della conclusione della legislatura» e sono state espresse forti critiche «alle politiche perseguite dal Ministero dell'Ambiente e dal Governo nel suo complesso, le quali hanno sistematicamente eluso la questione della costruzione di un moderno ed efficace sistema di controlli ambientali»;
    la VIII Commissione della Camera dei deputati, nell'esprimere il proprio parere contrario, ha ribadito la necessità di «svolgere un approfondimento con adeguate forme di consultazione», ha espresso una chiara preoccupazione per «la rilevanza delle conseguenze del provvedimento sul funzionamento del sistema dei cementifici e della tutela ambientale e della gestione dei rifiuti», ha ritenuto «indispensabile il coinvolgimento delle Regioni» e ha chiesto di rinviare «alla prossima legislatura l'adozione del provvedimento in questione»;
    lo schema di decreto era stato proposto come regolamento di delegificazione ai sensi dell'articolo 17, secondo comma, della legge 23 agosto 1988, n. 400, recante «Disciplina dell'attività di Governo», così come previsto dall'articolo 214, comma 11, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante «Norme in materia ambientale» e il parere negativo espresso in materia nella competente sede parlamentare avrebbe dovuto indurre il Governo a sospendere l'emanazione del citato decreto ministeriale n. 22 del 2013, atto regolamentare di rango inferiore;
    l'operato del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare pro tempore, Clini, espressione di un Governo dimissionario, che avrebbe dovuto occuparsi unicamente di questioni ordinarie, non sembra ai firmatari del presente atto di indirizzo conforme né al chiaro indirizzo espresso nelle sedi parlamentari, né alle indicazioni espresse a livello comunitario; infatti, le sue manovre tendono esplicitamente verso la chiusura del ciclo dei rifiuti con la combustione (l'incenerimento nei cementifici) in netto contrasto con la risoluzione del Parlamento europeo P7–TA(2012)0223, adottata il 24 maggio 2012: la destinazione dei rifiuti all'incenerimento, ancorché con recupero di energia, è contraria alla citata risoluzione che, invece, propende per l'individuazione di una gerarchia dei rifiuti con l'obiettivo, entro il prossimo decennio, del definitivo abbandono delle pratiche di incenerimento di materie recuperabili;
    nella parte quarta del decreto legislativo n. 152 del 2006 e successive modificazioni e integrazioni, relativa alla gestione dei rifiuti, l'articolo 179 stabilisce i criteri di priorità nella gestione dei rifiuti in due ordini di interventi distinti, al quinto e sesto comma: «5. Le pubbliche amministrazioni perseguono, nell'esercizio delle rispettive competenze, iniziative dirette a favorire il rispetto della gerarchia del trattamento dei rifiuti di cui al comma 1 in particolare mediante:
    a) la promozione dello sviluppo di tecnologie pulite, che permettano un uso più razionale e un maggiore risparmio di risorse naturali;
    b) la promozione della messa a punto tecnica e dell'immissione sul mercato di prodotti concepiti in modo da non contribuire o da contribuire il meno possibile, per la loro fabbricazione, il loro uso o il loro smaltimento, ad incrementare la quantità o la nocività dei rifiuti e i rischi di inquinamento;
    c) la promozione dello sviluppo di tecniche appropriate per l'eliminazione di sostanze pericolose contenute nei rifiuti al fine di favorirne il recupero;
    d) la determinazione di condizioni di appalto che prevedano l'impiego dei materiali recuperati dai rifiuti e di sostanze e oggetti prodotti, anche solo in parte, con materiali recuperati dai rifiuti al fine di favorire il mercato dei materiali medesimi;
    e) l'impiego dei rifiuti per la produzione di combustibili e il successivo utilizzo e, più in generale, l'impiego dei rifiuti come altro mezzo per produrre energia.
   6. Nel rispetto della gerarchia del trattamento dei rifiuti le misure dirette al recupero dei rifiuti mediante la preparazione per il riutilizzo, il riciclaggio o ogni altra operazione di recupero di materia sono adottate con priorità rispetto all'uso dei rifiuti come fonte di energia»;
    la sopracitata gerarchia degli interventi prevede, all'esaurimento di tutte le opzioni alternative disponibili, la possibilità di contemplare i «rifiuti come fonte di energia», stabilendo, altresì, una ben definita consequenzialità delle azioni e delle misure che devono essere messe in campo dalla pubblica amministrazione; inoltre, le misure di cui al secondo comma sono specificatamente subordinate in maniera vincolante all'adozione delle prioritarie misure di cui al primo comma;
    le proposte politiche devono, quindi, essere finalizzate alla transizione dal concetto di rifiuto a quello di risorsa, che preveda una progressiva riduzione della quantità di rifiuti prodotti e una concreta azione di riutilizzo della materia attraverso trattamenti a freddo, pratica prontamente più sostenibile, economicamente vantaggiosa e orientata al bene comune di quanto sia qualunque scelta che comporti forme di incentivo alla combustione;
    nel testo del citato decreto ministeriale viene dichiarata l'intenzione di ottenere un elevato livello di protezione ambientale, mentre, al contrario, la letteratura scientifica internazionale conferma ogni giorno l'evidenza degli effetti nocivi e tossici della pratica dell'incenerimento dei rifiuti o loro derivati;
    la combustione di rifiuti nei cementifici comporta una variazione della tipologia emissiva di questi impianti, in particolare in merito all'emissione di diossine, composti organici clorurati e metalli pesanti; la produzione di diossine è direttamente proporzionale alla quantità di rifiuti bruciati;
    riguardo alle diossine, evidenze scientifiche dimostrano che – a differenza di quanto prospettano i sostenitori della combustione dei combustibili solidi secondari, secondo i quali le alte temperature dei cementifici diminuirebbero o addirittura eliminerebbero le emissioni di queste sostanze altamente nocive –, sebbene le molecole di diossina abbiano un punto di rottura del loro legame a temperature superiori a 850oC, durante le fasi di raffreddamento (nella parte finale del ciclo produttivo) esse si riaggregano e si riformano; inoltre, considerata la particolarità chimica delle diossine (inquinanti liposolubili, persistenti per decenni nell'ambiente e nei tessuti biologici, dove si accumulano nel tempo), l'eventuale riduzione quantitativa della concentrazione di diossine nelle emissioni dei cementifici sarebbe abbondantemente compensata dall'elevato volume emissivo tipico di questi impianti;
    è stato dimostrato che la combustione di combustibili solidi secondari nei cementifici causa un significativo incremento delle emissioni di metalli pesanti, in particolare mercurio, enormemente pericolosi per la salute umana;
    secondo i calcoli effettuati nell'ambito delle ricerche scientifiche, la combustione di una tonnellata di combustibili solidi secondari in un cementificio in sostituzione parziale di combustibili fossili causa un incremento di: 421 milligrammi nelle emissioni di mercurio, 4,1 milligrammi in quelle di piombo, 1,1 milligrammi in riferimento al cadmio; ulteriori particolari criticità dovute alla tipologia di rifiuti bruciati sono state riportate in merito alle emissioni di piombo;
    l'utilizzo dei combustibili solidi secondari in cementifici prevede l'inglobamento delle ceneri tossiche prodotte dalla combustione dei rifiuti, di solito smaltite in discariche per rifiuti speciali pericolosi, nel clinker da cemento prodotto; questo comporta rischi potenziali per la salute dei lavoratori e possibili rischi ambientali per l'eventuale rilascio nell'ambiente di sostanze tossiche; inoltre, le caratteristiche fisiche del cemento potrebbero essere alterate dalla presenza di scorie da combustione in modo tale da non renderlo universalmente utilizzabile;
    molte perplessità derivano dalle modalità con le quali il Governo ha varato la norma che consente l'utilizzo dei rifiuti come combustibili nei cementifici;
    il decreto ministeriale è stato approvato, come si è visto, dopo il parere contrario della VIII Commissione parlamentare della Camera dei deputati allo schema di decreto del Presidente della Repubblica per la disciplina dell'utilizzo di combustibili solidi secondari dell'11 gennaio 2013;
    in sostanza il decreto ministeriale, pur attraverso una formulazione differente, ha lo stesso obiettivo dello schema di decreto del Presidente della Repubblica «bocciato» in Parlamento: promuovere, come afferma la stessa premessa del decreto, «la produzione e l'utilizzo di combustibili solidi secondari (CSS) da utilizzare, a determinate condizioni, in sostituzione di combustibili convenzionali»;
    se nel primo schema di decreto si punta a convertire i cementifici in inceneritori con l'obiettivo di bruciare rifiuti per produrre energia, nel secondo decreto ministeriale del 14 febbraio 2013 si pone la questione della trasformazione di alcuni rifiuti, compresi quelli speciali, sulla base della classificazione di cui all'articolo 184 del decreto legislativo n. 152 del 2006, in combustibili solidi secondari, sottraendoli pertanto alla disciplina normativa sui rifiuti;
    secondo quanto disposto dall'articolo 13, primo comma, del citato decreto ministeriale n. 22 del 2013, «l'utilizzo (...) di CSS (...) è consentito esclusivamente negli impianti di cui all'articolo 3, comma 1, lettere b) e c) – cementifici e centrali termoelettriche – ai fini della produzione, rispettivamente, di energia termica o di energia elettrica»; mentre al secondo comma si afferma che «l'utilizzo del CSS-Combustibile (...) è soggetto al rispetto delle pertinenti disposizioni del decreto legislativo 11 maggio 2005, n. 133, applicabili al coincenerimento»; in sostanza, dalla lettura del combinato disposto dei citati atti normativi, emerge chiaramente la volontà di trasformare in modo strutturale i rifiuti prodotti in fonte energetica;
    l'orientamento assunto dall'Esecutivo contravviene, pertanto, le indicazioni date dalla direttiva 2008/98/CE del 19 novembre 2008, la quale, al punto 6 della premessa, afferma: «L'obiettivo principale di qualsiasi politica in materia di rifiuti dovrebbe essere di ridurre al minimo le conseguenze negative della produzione e della gestione dei rifiuti per la salute umana e l'ambiente. La politica in materia di rifiuti dovrebbe altresì puntare a ridurre l'uso di risorse e promuovere l'applicazione pratica della gerarchia dei rifiuti»; la gerarchia dei rifiuti è definita dall'articolo 4: a) prevenzione; b) preparazione per il riutilizzo; c) riciclaggio; d) recupero di altro tipo, per esempio il recupero di energia; e) smaltimento;
    appare, altresì, preoccupante e discutibile che un Governo dimissionario abbia affidato ad un semplice decreto ministeriale l'attribuzione ai produttori stessi di combustibili solidi secondari della possibilità di emettere la dichiarazione di conformità (allegato 4 del decreto ministeriale di cui sopra), con l'evidente esposizione al rischio dell'avvio di una procedura di infrazione comunitaria;
    forti perplessità emergono dall'ipotetica possibilità di rimettere sul mercato, anche comunitario, i «prodotti combustibili solidi secondari» senza tenere conto degli enormi costi ambientali e della probabile inefficienza, sotto il profilo energetico e ambientale, del trasporto – evidentemente su gomma – di questa fonte di energia;
    i cementifici sono impianti industriali altamente inquinanti e l'utilizzo di combustibili solidi secondari come combustibile permetterebbe, di fatto, l'innalzamento – da due a nove volte – dei limiti di emissione rispetto ai valori fissati per gli inceneritori;
    considerando solo gli ossidi di azoto, per un inceneritore il limite di legge è 200 mg/Nmc, mentre per un cementificio è tra 500 e 1800 mg/Nmc; inoltre, un cementificio produce di solito almeno il triplo di anidride carbonica rispetto ad un inceneritore classico, mentre la lieve riduzione dei gas serra ottenuta dalla sostituzione parziale dei combustibili fossili con rifiuti ridurrebbe le emissioni dei cementifici in maniera scarsamente significativa, considerata l'abnorme produzione annua di anidride carbonica da parte di questi impianti che, secondo i dati del Registro europeo delle emissioni e dei trasferimenti di sostanze inquinanti (PRTR) ammonta in Italia a circa 21.237.000 tonnellate l'anno; basta un piccolo aumento della capacità produttiva dei singoli impianti per recuperare abbondantemente la quantità di gas serra «risparmiata» dalla sostituzione parziale dei combustibili fossili con i rifiuti; questi ultimi, infatti, sono per gli imprenditori del cemento economicamente molto più vantaggiosi dei combustibili tradizionali e, dunque, agirebbero da concreto incentivo all'aumento della produzione;
    le emissioni di inquinanti gassosi da parte dei cementifici-inceneritori rimarrebbero molto più alte di quelle degli inceneritori; nel caso dei microinquinanti (metalli pesanti e diossine), a parità di concentrazioni nei fumi, i cementifici-inceneritori emettono volumi di fumi enormemente maggiori rispetto agli inceneritori classici; poiché la quantità assoluta di diossine e metalli pesanti è proporzionale sia alla quantità di rifiuti bruciati che al volume di fumi emessi, i cementifici-inceneritori, pur rispettando la parità di concentrazione espressa dai limiti di legge, emettono quantità assolute di microinquinanti (non biodegradabili e persistenti nell'ambiente) enormemente maggiori rispetto agli inceneritori classici; l'incenerimento di rifiuti varia, inoltre, la tipologia emissiva dei cementifici, creando in particolare criticità aggiuntive soprattutto per i metalli pesanti (principalmente piombo, arsenico e mercurio);
    del resto, da un punto di vista squisitamente comparativo, i limiti di emissione di inquinanti in atmosfera previsti per i cementifici (impianti di co-incenerimento) sono più alti rispetto a quelli previsti per i normali impianti di incenerimento; per le polveri totali il limite giornaliero dei cementifici è di 30 mg/m3 contro i 10 mg/m3 degli inceneritori, mentre per gli ossidi di azoto i limite è di 800 mg/m3 per gli impianti esistenti, di 500 mg/m3 per quelli nuovi, a fronte del limite di 200 mg/m3 degli inceneritori;
    inoltre, gli inceneritori devono rispettare per legge medie di emissioni giornaliere e semiorarie, mentre per i cementifici l'unico limite da rispettare è quello giornaliero, all'interno del quale è possibile «spalmare» la presenza di eventuali picchi emissivi;
    l'Italia ha il maggior numero di cementifici in Europa (i quali sono per una gran parte «conglobati» nel tessuto della città); inoltre, come ampiamente dimostrato, la combustione di rifiuti «per se» rappresenta un enorme disincentivo alle «buone pratiche» (riduzione, riuso, riciclo e riduzione della produzione dei rifiuti); l'Italia è, ad oggi, il terzo Paese europeo per numero di inceneritori operativi; la strategia di azione avviata dal Governo Monti raddoppierebbe, potenzialmente, il quantitativo di rifiuti avviati all'incenerimento in Italia, rendendo immediatamente disponibili all'incenerimento dei combustibili solidi secondari molti impianti su tutto il territorio nazionale, portando l'Italia al primo posto in Europa per incenerimenti di rifiuti e contravvenendo alle più recenti direttive europee, che chiedono agli Stati membri l'abbandono dell'incenerimento nel prossimo decennio,

impegna il Governo:

   ad avviare, in coerenza con le indicazioni presenti nel parere della VIII Commissione permanente (Ambiente, territorio e lavori pubblici) della Camera dei deputati citato in premessa, i necessari approfondimenti per valutare sia le possibili conseguenze, sul piano ambientale e sanitario, della scelta di consentire ai cementifici l'incenerimento dei cosiddetti combustibili solidi secondari, sia l'opportunità di un iter procedurale fortemente semplificato nonostante l'oggettiva complessità della questione;
   a realizzare una moratoria e a sospendere, fin da ora, ogni atto che vada nella direzione di consentire la «riconversione» dei cementifici in inceneritori, onde evitare che aziende ed imprese investano in un settore che potrebbe dimostrarsi incompatibile con l'esigenza di garantire la tutela della salute e dell'ambiente;
   a promuovere studi scientifici sulle effettive emissioni di sostanze inquinanti derivanti dall'uso dei rifiuti come combustibili, che tengano conto non solo del funzionamento degli impianti a regime e in condizioni di massima sicurezza, ma dei possibili rischi derivanti da malfunzionamenti o errori in fase di gestione;
   ad adottare, sempre ed in ogni caso, il principio di precauzione, così come previsto dall'articolo 191 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, evitando di esporre inutilmente le popolazioni che abitano in prossimità dei cementifici ad ulteriori pericoli per la propria salute.
(1-00030)
«Busto, Daga, De Rosa, Mannino, Segoni, Terzoni, Tofalo, Zolezzi, Alberti, Basilio, Nesci».
(7 maggio 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    nei mesi di gennaio e febbraio del 2013, a Camere ormai sciolte, l'allora Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare pro tempore, Corrado Clini, ha presentato al Parlamento per il parere uno schema di decreto del Presidente della Repubblica per l'utilizzo di combustibili solidi secondari, in parziale sostituzione di combustibili fossili tradizionali, in cementifici soggetti al regime di autorizzazione integrata ambientale;
    dopo un parere favorevole con condizioni, espresso molto rapidamente dalla XIII Commissione parlamentare (Territorio, ambiente, beni ambientali) del Senato della Repubblica il 16 gennaio 2013, senza peraltro che nessun senatore fosse intervenuto in discussione, la VIII Commissione permanente (Ambiente, territorio e lavori pubblici) della Camera dei deputati, il successivo 11 febbraio 2013, ha invece espresso parere contrario al medesimo schema di decreto del Presidente della Repubblica;
    da quel momento, di detto decreto del Presidente della Repubblica sui combustibili solidi secondari si sono perse le tracce e non è più stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale;
    la mancata pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del sopradetto decreto del Presidente della Repubblica sull'utilizzo in alcune categorie di cementifici dei combustibili solidi secondari, in parziale sostituzione di combustibili fossili tradizionali, nulla toglie alla sempre dichiarata ferma volontà dell'allora Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, Clini, di aver voluto proseguire nella scorciatoia dell'incenerimento dei rifiuti nei cementifici, bruciando rifiuti solidi urbani per alimentare i forni di cottura del clinker, cioè la componente principale del cemento;
    in Gazzetta Ufficiale, sono stati quindi pubblicati due decreti del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare: il decreto 14 febbraio 2013, n. 22, (Gazzetta Ufficiale del 14 marzo 2013), recante la disciplina della cessazione della qualifica di rifiuto di determinate tipologie di combustibili solidi secondari, dove vengono stabiliti – tra l'altro – i criteri da rispettare affinché determinate tipologie di combustibile solido secondario cessano di essere qualificate come rifiuto; il decreto 20 marzo 2013 (Gazzetta Ufficiale del 2 aprile 2013) che modifica l'allegato X della parte quinta del decreto legislativo n. 152 del 2006, in materia di utilizzo del combustibile solido secondario, che recepisce i criteri contenuti nel sopradetto decreto del 14 febbraio 2013, n. 22, che devono essere rispettati affinché determinate tipologie di combustibili solidi secondari cessino di essere qualificate come rifiuto e possono, quindi, essere riutilizzate;
    il decreto ministeriale n. 22 del 2013 stabilisce le condizioni e i requisiti in base ai quali dalle operazioni di trattamento di specifiche tipologie di rifiuti si ottiene il prodotto denominato combustibile solido secondario, nonché le relative condizioni di utilizzo a fini energetici nei cementifici soggetti ad autorizzazione integrata ambientale;
    il sopra indicato decreto n. 22 del 2013 riafferma, di fatto, la finalità dello schema di decreto del presidente della Repubblica, passato al Parlamento per il parere, di utilizzare il combustibile solido secondario come combustibile. La stessa premessa al decreto ministeriale n. 22 del 2013 sottolinea la necessità di «incoraggiare la produzione di combustibili solidi secondari (CSS) di alta qualità, aumentare la fiducia in relazione all'utilizzo di detti combustibili e fornire, con riferimento alla produzione e l'utilizzo di detti combustibili chiarezza giuridica e certezza comportamentale uniforme sull'intero territorio nazionale»;
    per i cementieri dell'Aitec (Associazione italiana tecnico economica cemento) si tratta di recupero energetico; per l'Associazione italiana medici per l'ambiente «la combustione di rifiuti nei cementifici comporta una variazione della tipologia emissiva di questi impianti, in particolare di diossine e metalli pesanti»;
    utilizzare i combustibili solidi secondari è dannoso per la salute e, soprattutto, è superato in quanto esistono moderne tecnologie e soluzioni alternative alla combustione che creano maggiori posti di lavoro e sono più sostenibili a livello economico e ambientale;
    la scelta dell'incenerimento dei rifiuti (combustibili solidi secondari) nei cementifici non è condivisibile se si considera la diversità esistente fra i limiti delle emissioni di inquinanti pericolosi per la salute previsti per i cementifici: polveri totali: mg 30/Nm3; biossido di zolfo: fino a mg 600/Nm3; ossido di azoto: mg 500/Nm3 per i nuovi impianti; mentre i limiti per gli stessi inquinanti prodotti dagli inceneritori sono: polveri totali: mg 10/Nm3; biossido di zolfo: mg 50/Nm3; ossido di azoto: mg 200/Nm3;
    i sostenitori della co-combustione di rifiuti sono soliti affermare che l'utilizzo di combustibile da rifiuti nei cementifici può consentire una riduzione dell'uso di combustibili fossili e, di conseguenza, una riduzione della produzione di anidride carbonica. Ciò che di solito viene taciuto è che un cementificio produce di solito circa il triplo di anidride carbonica rispetto ad un inceneritore. La sola cementeria Colacem di Galatina (Lecce), ad esempio, nel 2007 ha prodotto 774.000 tonnellate di anidride carbonica, circa il triplo delle emissioni di un inceneritore di grossa taglia come quello di Brescia (228.000 tonnellate di anidride carbonica nello stesso anno);
    l'utilizzo di combustibili solidi secondari per alimentare i forni di cottura dei cementifici produrrebbe, tra l'altro, gravi conseguenze in diverse aree del Paese, dove sono ubicati numerosi cementifici, in termini di inquinamento ambientale e di peggioramento degli attuali livelli di raccolta differenziata dei rifiuti;
    a ciò va aggiunta l'aggravante della mancanza, nel nostro Paese, di un serio ed efficace sistema nazionale di controlli ambientali;
    l'Italia è, peraltro, la nazione europea con più cementifici, con i suoi 58 impianti (22 per cento del totale degli impianti europei);
    dal punto di vista strettamente sanitario (escludendo dunque ogni considerazioni di tipo economico e sociale), una corretta gestione del ciclo dei rifiuti non dovrebbe assolutamente prevedere il loro incenerimento. Che si tratti di inceneritori «classici» o di cementifici, tale pratica è dannosa per l'ambiente e per gli esseri umani che lo popolano, come documentato da ormai innumerevoli testimonianze scientifiche;
    considerata l'abnorme produzione annua nazionale di anidride carbonica da parte di questi impianti, una minima riduzione è, dunque, una goccia nel mare, per giunta pagata a caro prezzo, soprattutto se si considera la sottrazione di rifiuti alla raccolta differenziata, al riciclo e al riuso (la vera valorizzazione dei rifiuti);
    peraltro, continuare a bruciare rifiuti è uno spreco di risorse e un alto costo in termini ambientali, inoltre, non si rispettano le disposizioni europee sul recupero della materia che è prioritario nella gerarchia d'intervento, continuando a ignorare anche la direttiva 96/62/CE sulle polveri sottili, finanche dopo la condanna dell'Italia da parte della Corte di giustizia dell'Unione europea del 19 dicembre 2012;
    si ricorda che la direttiva 2008/98/CE, con l'obiettivo di ridurre l'impatto ambientale dei rifiuti, ha imposto una particolare attenzione da parte degli Stati dell'Unione europea al rispetto del principio gerarchico (le cosiddette «quattro r») previsto dalla medesima direttiva (riduzione, riutilizzo, riciclaggio e recupero energetico);
    la sopradetta gerarchia dei rifiuti prevede che al primo posto, nell'ordine di priorità, vi siano la prevenzione – individuata in una serie di misure finalizzate alla riduzione della quantità di rifiuti anche attraverso il riutilizzo dei prodotti o l'estensione del loro ciclo di vita – e la preparazione per il riutilizzo, ovvero le operazioni di controllo, pulizia e riparazione attraverso cui i rifiuti sono preparati per essere reimpiegati senza altro pretrattamento. Seguono poi il riciclaggio, il recupero e, a seguire, lo smaltimento;
    la direttiva 2008/98/CE è stata recepita nell'ordinamento italiano dal decreto legislativo n. 205 del 2010, che ha conseguentemente apportato diverse modifiche al decreto legislativo n. 152 del 2006 (cosiddetto Codice ambientale);
    è evidente, quindi, come l'utilizzo dei rifiuti come fonte di energia deve essere valutato come finalità residuale, mentre il ricorso all'incenerimento dei rifiuti va in tutt'altra direzione rispetto alla corretta gestione del ciclo integrato dei rifiuti e all'indispensabile incremento della raccolta differenziata;
    l'uso dei combustibili solidi secondari nei cementifici rischia di tradursi in un ulteriore freno all'aumento dei livelli della raccolta differenziata come richiesti dalla normativa nazionale e comunitaria, allo sviluppo della filiera industriale del riciclo e al radicamento di una cultura ambientale e di un costume civico basati sull'uso consapevole dei beni, compresi gli stessi rifiuti,

impegna il Governo:

   ad escludere definitivamente, per quanto di competenza, la prosecuzione dell’iter di approvazione del decreto del Presidente della Repubblica sulla disciplina dell'utilizzo di combustibili solidi secondari, in parziale sostituzione di combustibili fossili tradizionali, in cementifici soggetti al regime di autorizzazione integrata ambientale, già presentato per il parere presso le Commissioni parlamentari competenti dal precedente Governo;
   a valutare attentamente – nella decisione di utilizzare in alcune categorie di cementifici i combustibili solidi secondari – gli effetti di tale scelta sulla salute pubblica, anche attraverso opportuni approfondimenti degli studi ambientali ed epidemiologici relativamente all'utilizzo di combustibili solidi secondari in determinati cementifici;
   ad assumere iniziative per escludere qualunque forma di «riconversione» dei cementifici in inceneritori;
   ad assumere, per quanto di competenza, iniziative per avviare adeguate forme di monitoraggio delle emissioni degli impianti di cui in premessa e gli opportuni controlli ambientali e sanitari nei territori interessati dagli impianti che utilizzano combustibili solidi secondari, anche al fine di un confronto di dati, laddove presenti, relativi alla qualità dell'aria e dell'acqua nelle aree interessate dai suddetti impianti prima dell'utilizzazione del combustibile solido secondario;
   a garantire, in raccordo con gli enti locali, adeguate e costanti modalità di informazione e pubblicità alle comunità locali, anche tramite i siti istituzionali dei comuni interessati, circa i risultati dell'attività di monitoraggio sanitario e ambientale in relazione alle emissioni conseguenti all'attività degli impianti che utilizzano combustibili solidi secondari;
   ad attuare, per quanto di competenza, opportune forme di controllo al fine di garantire che le caratteristiche del combustibile solido secondario, utilizzato dagli impianti di cui in premessa, rispondano effettivamente a quanto previsto dalla normativa vigente.
(1-00188)
(Nuova formulazione) «Zan, Zaratti, Pellegrino, Migliore, Nicchi, Piazzoni, Aiello, Di Salvo».
(23 settembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    nel mese di gennaio 2013 è stato presentato alle commissioni parlamentari competenti lo schema di decreto del Presidente della Repubblica concernente regolamento recante «disciplina dell'utilizzo di combustibili solidi secondari (CSS), in parziale sostituzione di combustibili fossili tradizionali, in cementifici soggetti al regime dell'autorizzazione integrata ambientale», atto del Governo n. 529, con termine per la trasmissione del parere il 13 febbraio 2013;
    la 13o Commissione del Senato della Repubblica, in data 16 gennaio 2013, ha espresso parere favorevole all'atto del Governo, mentre l'VIII Commissione della Camera dei deputati, in data 11 febbraio 2013, dopo ampia discussione, «ritenuto assolutamente necessario svolgere un approfondimento con appropriate forme di consultazione; valutata la rilevanza delle conseguenze del provvedimento sul funzionamento del sistema dei cementifici e della tutela ambientale e della gestione dei rifiuti; ritenuto indispensabile il coinvolgimento delle regioni e ritenuto quindi necessario rinviare alla prossima legislatura l'adozione del provvedimento in questione», ha espresso parere contrario;
    a seguito di tale posizione del Parlamento, il Governo non ha, quindi, proceduto, per quanto risulta ai firmatari del presente atto di indirizzo, all'approvazione definitiva del decreto del Presidente della Repubblica;
    tuttavia, in data 14 febbraio 2013, il Governo Monti ha emanato il «Regolamento recante disciplina della cessazione della qualifica di rifiuto di determinate tipologie di combustibili solidi secondari (CSS), ai sensi dell'articolo 184-ter, comma 2, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni», di cui al decreto ministeriale n. 22 del 2013, che, dettando la disciplina per trasformare i rifiuti urbani e speciali in combustibili solidi secondari, CSS-combustibile, riclassificando questi ultimi da rifiuti a sottoprodotti, consente in realtà a grandi impianti di cementifici e centrali termoelettriche, sotto determinate condizioni, di utilizzare il CSS-combustibile per la produzione di energia termica o elettrica, escludendo dalla disciplina dei rifiuti tali combustibili;
    tale comportamento del Governo Monti si presenta, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, come un atto di forza inopportuno e da stigmatizzare, poiché ha scavalcato le indicazioni e le direttive del Parlamento e, in realtà, ha conseguito la sostituzione di un atto «bocciato» dall'VIII Commissione della Camera dei deputati con un altro che, nel concreto, produce analoghi effetti;
    l'atto del Governo n. 529 aveva lo scopo di disciplinare e agevolare l'utilizzo dei combustibili solidi secondari (CSS) da parte dei cementifici, dettando, all'articolo 3, le condizioni affinché modifiche impiantistiche o edilizie realizzate all'interno del perimetro dei cementifici siano considerate modifiche non sostanziali ai fini dell'esclusione dagli obblighi e dai procedimenti disciplinati dalla parte II decreto legislativo n. 152 del 2006, concernenti la valutazione di impatto ambientale e l'autorizzazione integrata ambientale;
    tale atto del Governo n. 529, fatte salve le disposizioni dell'articolo 184-ter del decreto legislativo n. 152 del 2006 sulla cessazione della qualifica di rifiuto, manteneva comunque la classificazione del combustibile solido secondario (CSS) come rifiuto speciale, sottoponendolo alle condizioni di esercizio previste per il coincenerimento, di cui al decreto legislativo 11 maggio 2005, n. 133;
    lo scopo del decreto ministeriale n. 22 del 2013 è, soprattutto, quello di facilitare e promuovere l'utilizzo da parte dei grandi impianti di cementifici e centrali di una determinata tipologia di combustibile solido secondario, il CSS-combustibile, che, ai sensi dell'articolo 184-ter del decreto legislativo n. 152 del 2006, cessa di essere rifiuto e diventa un sottoprodotto, svincolandosi dalle limitazioni poste dalla normativa sui rifiuti, in virtù delle caratteristiche di qualità ambientale e dei controlli cui viene sottoposto l'intero ciclo di produzione di tale materiale e le caratteristiche di qualità degli impianti, ferme restando le condizioni di esercizio identiche a quelle previste per il coincenerimento di rifiuti, di cui al decreto legislativo 11 maggio 2005, n. 133;
    senz'altro, occorrono azioni concrete e mirate alla conservazione delle risorse terrestri e alla riduzione dei rifiuti da conferire in discarica, all'incentivazione dell'utilizzo delle fonti rinnovabili e delle biomasse, alla semplificazione e facilitazione dei processi autorizzativi per la produzione di energia da tali fonti (che rendono realizzabile un reale incremento di produzione), alla riduzione della dipendenza del Paese dalle materie fossili e, quindi, dall'estero, ma anche all'incentivazione dell'utilizzo di migliori tecnologie per la diminuzione delle emissioni inquinanti in aria, acqua, suolo, senza tuttavia penalizzare lo sviluppo economico e i diritti alla tranquillità dei cittadini, sia per un sufficiente approvvigionamento energetico del Paese, sia per la tutela della propria salute;
    in materia di rifiuti, le amministrazioni locali e le regioni del Nord hanno responsabilmente attuato forme di gestione del ciclo dei rifiuti che hanno raggiunto un'eccellenza riconosciuta a livello internazionale;
    la filiera della gestione dei rifiuti al Nord rispetta la differenziazione e la gerarchia stabilita dalle direttive comunitarie, che prevedono una sequenza di priorità, come prevenzione, preparazione per il riutilizzo, riciclaggio, recupero di altro tipo, per esempio il recupero di energia, e, infine, lo smaltimento;
    tale gerarchia deve essere rigorosamente seguita anche nella catena della produzione del combustibile solido secondario, allo scopo di evitare la disincentivazione della differenziazione e delle filiere di recupero delle materie riutilizzabili nei cicli di produzione;
    le regioni e gli enti locali del Nord hanno raggiunto un'autosufficienza nella gestione differenziata dei propri rifiuti, privilegiando il criterio della prossimità ai fini del recupero e dello smaltimento, che permette alle amministrazioni di ridurre i costi aggiuntivi di trasporto ed evita ai cittadini di prestare il proprio territorio per smaltire i rifiuti di altri territori;
    l'eccellenza raggiunta dai comuni del Nord nella gestione dei rifiuti, anche grazie a campagne di informazione e iniziative di coinvolgimento dei cittadini, rende ancora più evidenti le criticità riscontrate in altre aree del Paese, in particolare del Centro-Sud, che spesso hanno danneggiato non solo l'immagine ma anche l'economia dell'intero Paese, sia attraverso le procedure di infrazione e le multe che è costretta a pagare l'Italia alla Commissione europea, sia attraverso le ripercussioni al comparto turistico;
    chiaramente, dopo la riduzione, la selezione e il recupero di materia da rifiuto e l'utilizzo dell'umido per la produzione di biomassa e di compost, essendo impossibile recuperare il cento per cento di tutti i rifiuti, resta sempre una minima parte che è impossibile recuperare e, pertanto, occorre considerare anche la possibilità di produrre energia attraverso il trattamento dei rifiuti per poter evitare di riempire il territorio di discariche; questo deve avvenire in modo tale da fornire un'ulteriore opportunità a tutta la comunità, attraverso i termovalorizzatori, il teleriscaldamento, la produzione di energia termica o elettrica;
    la produzione di combustibili solidi secondari, combustibile solido secondario o CSS-combustibili, che, grazie a particolari tecnologie innovative ambientalmente sostenibili, diventano rifiuti speciali da urbani o addirittura cessano di essere rifiuti e diventano sottoprodotti e comunque possono essere utilizzati in sostituzione di combustibili convenzionali per finalità ambientali ed economiche, deve comunque rispettare il criterio di prossimità e non deve diventare la scusa per poter esportare fuori territorio i rifiuti solidi urbani; pertanto, gli impianti di trasformazione dei rifiuti urbani in combustibile solido secondario devono comunque restare all'interno di ciascuna regione dove vengono prodotti i rifiuti urbani;
    l'incenerimento del combustibile solido secondario per la produzione di energia termica comporta senz'altro una riduzione degli oneri ambientali ed economici legati allo smaltimento di rifiuti in discarica, un risparmio di risorse naturali e una riduzione della dipendenza del Paese da combustibili convenzionali ai fini dell'approvvigionamento energetico;
    chiaramente nel caso di incenerimento del combustibile solido secondario ai fini della produzione del clinker nei cementifici, ossia in impianti che non sono dedicati al solo incenerimento di rifiuti, esiste comunque una variazione della tipologia emissiva dell'impianto che occorre valutare nell'ambito dell'autorizzazione integrata ambientale da parte dell'autorità competente e stabilire le condizioni per poter attuare tale incenerimento senza provocare danni per l'ambiente e per la salute dei cittadini, tenendo conto che sta avvenendo una trasformazione dell'impianto originario che deve tenere conto anche delle condizioni al contorno e del fatto che spesso tali impianti sono situati in aree urbanizzate;
    fermo restando il fatto che già oggi i cementifici bruciano combustibile solido secondario e rifiuti, come farine animali o pneumatici fuori uso, la convenienza ambientale di trasformare i rifiuti in CSS-combustibile è quella della qualità; il CSS-combustibile rappresenta un sottoprodotto, conveniente anche commercialmente in quanto svincolato dalla disciplina dei rifiuti, di cui viene tracciato il percorso di produzione e sono noti la propria tipologia e il potere calorifico; l'utilizzo di CSS-combustibile garantisce, dunque, una maggiore tutela per l'ambiente e per un controllo superiore sulla tipologia dei materiali contenuti;
    in ogni caso, per ciascun impianto destinato a bruciare anche combustibile solido secondario o CSS-combustibile proveniente da rifiuti urbani o speciali, i limiti imposti dall'autorizzazione integrata ambientale per le emissioni devono tenere conto di tale possibilità e devono essere analoghi a quelli previsti per gli impianti dedicati, termovalorizzatori o inceneritori, indicando valori limite per le sostanze inquinanti che tengono conto di tutti i possibili effetti negativi sull'ambiente, anche con riguardo al traffico indotto relativo al trasporto del combustibile solido secondario e alla possibilità del trasporto su rotaia dei materiali, per garantire i cittadini circa la sostenibilità ambientale di ciascun impianto;
    in particolare, in pareggio del potere calorifico del carbone occorre 1,8 chilogrammi di combustibile solido secondario per ciascun chilogrammo di carbone; pertanto, c’è senz'altro un incremento del traffico indotto dal trasporto dei materiali che bisogna considerare nell'ambito delle autorizzazioni degli impianti da parte delle regioni;
    inoltre, l'esercizio dei controlli, affidato giustamente alle amministrazioni locali competenti, spesso, specialmente in alcune realtà territoriali del Paese, è piuttosto carente, permettendo l'inserimento della criminalità organizzata nel ciclo della gestione dei rifiuti;
    la possibilità di bruciare il combustibile solido secondario o CSS-combustibile nei cementifici si presenta, pertanto, come una situazione complessa che richiede un approfondito esame da parte del Governo e del Parlamento, che deve coinvolgere anche il mondo economico e gli enti territoriali interessati;
    per poter procedere alla produzione di combustibili solidi secondari di alta qualità, occorre acquisire la fiducia della popolazione in relazione all'utilizzo di detti combustibili e fornire, con riferimento alla produzione e all'utilizzo di detti combustibili, chiarezza giuridica e certezza comportamentale da parte degli operatori, a garanzia dei cittadini circa le buone pratiche utilizzate e la tutela della propria salute,

impegna il Governo:

a promuovere un approfondito dibattito sulla materia fornendo alle commissioni parlamentari competenti un quadro aggiornato sull'attuale utilizzo del combustibile solido secondario e del CSS-combustibile nei cementifici, sia in Italia, disaggregato per regioni, sia all'estero, anche sulla base di approfonditi studi scientifici specifici, con particolare riferimento:
   a) alle emissioni di sostanze inquinanti e alle possibili conseguenze sul piano ambientale, sanitario e sociale, anche a seguito di eventuali malfunzionamenti o errori di gestione;
   b) alle conseguenze sul piano organizzativo del trasporto dei materiali e alle ripercussioni del traffico indotto sulle realtà territoriali locali;
   c) alle restrizioni che occorre individuare circa la circolazione in altre regioni del combustibile solido secondario proveniente da rifiuti urbani, garantendo, comunque, il criterio di prossimità e che gli impianti di trasformazione dei rifiuti urbani in combustibile solido secondario siano comunque situati all'interno di ciascuna regione dove vengono prodotti i rifiuti;
   d) al rispetto rigoroso della gerarchia di gestione dei rifiuti prevista dalle direttive comunitarie nella catena della produzione sia del CSS-combustibile, sia del combustibile solido secondario, allo scopo di evitare la disincentivazione della differenziazione e delle filiere di recupero delle materie riutilizzabili nei cicli di produzione;
   e) agli strumenti di informazione e consultazione in relazione ai progetti in essere per l'utilizzo di combustibili alternativi da parte dei cementifici;
   f) al rafforzamento, con ogni strumento a disposizione e su tutto il territorio nazionale, del sistema dei controlli, sia sulle emissioni inquinanti dei cementifici mediante una rete di monitoraggio ambientale, sia sul processo di gestione dei combustibili solidi secondari utilizzati in tali impianti, sia sul rispetto della gerarchia nella gestione dei rifiuti ai fini della produzione del combustibile solido secondario.
(1-00189)
«Grimoldi, Giancarlo Giorgetti, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Buonanno, Busin, Caon, Caparini, Fedriga, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini, Prataviera, Rondini».
(23 settembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    l'articolo 183, comma 1, lettera cc), del codice dell'ambiente, di cui al decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, reca la definizione di combustibile solido secondario: «il combustibile solido prodotto da rifiuti che rispetta le caratteristiche di classificazione e di specificazione individuate delle norme tecniche UNI CEN/TS 15359 e successive modifiche ed integrazioni; fatta salva l'applicazione dell'articolo 184-ter, il combustibile solido secondario, è classificato come rifiuto speciale»;
    nella Gazzetta Ufficiale del 14 marzo 2013, n. 62, è stato pubblicato il decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare 14 febbraio 2013, n. 22, «Regolamento recante disciplina della cessazione della qualifica di rifiuto di determinate tipologie di combustibili solidi secondari (CSS), ai sensi dell'articolo 184-ter, comma 2, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni», che prima dell'emanazione è stato preventivamente notificato alla Commissione europea ed è stato approvato decorso il termine di «stand still»;
    come indicato nel titolo, il regolamento attua, dunque, l'articolo 184-ter (rubricato «Cessazione dalla qualifica di rifiuto») del codice dell'ambiente, stabilendo, nel rispetto degli standard di tutela ambientale e della salute, le condizioni alle quali alcune tipologie di combustibile solido secondario cessano di essere rifiuti e sono da considerare, a tutti gli effetti, un prodotto (la cosiddetta end of waste ai sensi della direttiva 2008/98/CE relativa ai rifiuti);
    nel regolamento sono, dunque, definite le condizioni e i requisiti in base ai quali, dalle operazioni di trattamento di specifiche tipologie di rifiuti, si ottiene il prodotto denominato combustibile solido secondario, nonché le relative condizioni di utilizzo in alcune specifiche tipologie di impianti industriali (cementifici e centrali termoelettriche) ritenute idonei, al fine di rispettare gli standard di tutela dell'ambiente e della salute umana;
    in particolare, sotto il profilo della tutela dell'ambiente e della salute, il decreto n. 22 del 2013 stabilisce che il combustibile solido secondario può essere utilizzato solo in impianti che rispettano le condizioni di esercizio stabilite nel decreto legislativo 11 maggio 2005, n. 133, in materia di co-incenerimento di rifiuti, che ha recepito nell'ordinamento nazionale la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 4 dicembre 2000, 2000/76/CE, sull'incenerimento dei rifiuti;
    l'articolo 13 del decreto n. 22 del 2013 stabilisce, inoltre, che possono utilizzare combustibile solido secondario solo gli impianti soggetti ad autorizzazione integrata ambientale, obbligati, come tali, al rispetto delle migliori tecnologie disponibili (best available techniques, bat);
    pertanto, l'utilizzo del combustibile solido secondario deve, comunque, rispettare i valori limite di emissioni in atmosfera indicati o calcolati secondo quanto descritto nell'allegato 2 del citato decreto legislativo n. 133 del 2005;
    per poter procedere all'utilizzo del combustibile solido secondario, inoltre, gli impianti devono rispettare anche le prescrizioni, più restrittive, contenute nella rispettiva autorizzazione integrata ambientale: ai sensi dell'articolo 13 del decreto n. 22 del 2013, infatti, possono utilizzare combustibile solido secondario solo gli impianti soggetti ad autorizzazione integrata ambientale, obbligati, come tali, al rispetto delle migliori tecnologie disponibili (best available techniques, bat);
    in materia di emissioni dei cementifici e di eventuali variazioni della loro tipologia, numerosi sono gli studi che analizzano gli effetti dell'utilizzo di combustibili alternativi nei cementifici; da ultimo, nel 2011, uno studio condotto dal «Network for business sustainability» (Canada) in collaborazione con il Politecnico di Bari (facoltà di ingegneria meccanica) ha raffrontato le pubblicazioni internazionali in materia. Sono stati giudicati rilevanti ai fini dello studio più di 110 articoli tecnici, rapporti di associazioni internazionali di ricerca e organizzazioni governative, pubblicazioni di ricercatori universitari, life cycle analysis, la maggior parte dei quali conclude che le emissioni dai camini di anidride carbonica, ossido di azoto, diossido di zolfo, metalli, diossine e furani sono generalmente inferiori rispetto a quelle generate con l'utilizzo di combustibili fossili;
    sulla questione, in particolare delle diossine generate nel processo di combustione, i processi di combustione che avvengono a temperature molto elevate, quali quelli dei cementifici, e l'utilizzo del combustibile solido secondario con dosaggi e proporzioni prestabilite e controllate non favoriscono la formazione di diossine, quanto, invece, la distruzione e la completa ossidazione delle molecole inquinanti di natura organica eventualmente presenti; con riferimento agli ossidi di azoto, l'istruttoria del decreto ministeriale si è basata su esperienze tecniche condotte in Italia e in tutta Europa che evidenziano una diminuzione dei livelli emissivi in caso di utilizzo di combustibile solido secondario, come rilevato anche dal Politecnico di Torino (Genon, Brizio, 2008) e dalla provincia di Cuneo (settore tutela ambiente, atti Forum PA 2009);
    il bilancio emissivo e ambientale preso a riferimento per la stesura del decreto ministeriale n. 22 del 2013 è risultato, complessivamente, a favore dell'impiego del combustibile solido secondario nei cementifici, sia sotto l'aspetto del miglioramento dell'impatto emissivo degli stessi rispetto alla normale conduzione con combustibili fossili, sia sotto l'aspetto dell'eliminazione delle emissioni del processo di incenerimento, sia, in particolare, per quanto riguarda gli impatti della messa in discarica dei rifiuti altrimenti non impiegati nella filiera di produzione ed utilizzo del combustibile solido secondario;
    inoltre, è necessario ricordare che la produzione e l'utilizzo del combustibile solido secondario sono soggetti non solo a tutte le attività di controllo previste dall'ordinamento, ma anche a una serie di ulteriori e specifici controlli previsti nello stesso decreto ministeriale n. 22 del 2013;
    la produzione dei rifiuti ha mostrato, negli ultimi decenni, una crescita vertiginosa: dalla metà degli anni ’90 ad oggi, quella italiana è quasi raddoppiata, con conseguenze naturalmente molto gravi dal punto di vista ambientale e della salute, in particolare perché la maggior parte dei rifiuti prodotti è sottoposta a smaltimento in discarica; nel 2010, in base ai dati Ispra, oltre 17,5 milioni di tonnellate di rifiuti urbani sono stati smaltiti in discarica; nel 2009, sono stati prodotti 128,5 milioni di tonnellate di rifiuti speciali totali e la quota di rifiuti speciali destinata al recupero di energia rappresenta solo l'1,5 per cento, mentre il 9,6 per cento è la quota di rifiuti speciali destinata allo smaltimento in discarica;
    in Italia, tra l'altro, alla questione della produzione e dello smaltimento dei rifiuti si lega un problema molto grave, quello dello smaltimento illegale di rifiuti industriali, che rappresenta un pericoloso campo d'attività delle ecomafie e uno tra i business illegali più redditizi; naturalmente, ciò ha gravi ripercussioni nel campo della sicurezza ambientale e sanitaria, dal momento che i rifiuti, anziché essere trattati e gestiti secondo le norme di legge, finiscono per essere fonte di inquinamento dell'aria, di contaminazione delle acque sotterranee, di inquinamento dei fiumi e delle coltivazioni agricole, rischiando di contaminare con metalli pesanti, diossine e altre sostanze cancerogene anche i prodotti alimentari;
    il problema dello smaltimento dei rifiuti in Italia e le emergenze che in molti casi vi sono connesse richiedono la predisposizione di una politica complessiva in materia, con le soluzioni integrate che tengano in debita considerazione gli obiettivi fissati anche a livello europeo e la «gerarchia» indicata nella normativa in materia di prevenzione e gestione dei rifiuti, in particolare, la direttiva 2008/98/CE: dalla prevenzione, alla preparazione per il riutilizzo, al riciclaggio, al recupero (tra cui, appunto, il recupero di energia) e, infine, come soluzione ultima, lo smaltimento;
    è compito di ciascuno Stato membro adottare quelle misure che favoriscano il miglior risultato ambientale complessivo e, a tale fine, ai sensi dell'articolo 4, secondo comma, della stessa direttiva, può essere necessario che flussi di rifiuti specifici «si discostino dalla gerarchia laddove ciò sia giustificato dall'impostazione in termini di ciclo di vita in relazione agli impatti complessivi della produzione e della gestione di tali rifiuti»;
    l'enorme produzione di rifiuti, in particolare nella situazione italiana, richiede dunque la gestione di un regime transitorio che permetta lo sviluppo compiuto delle politiche e delle azioni necessarie a garantire la soluzione di lungo termine al problema, attraverso la riduzione della produzione di rifiuti, il riuso, l'aumento della raccolta differenziata e del riciclo, consentendo di risparmiare materie prime e ridurre l'uso delle discariche – e, quindi, anche lo sfruttamento e l'inquinamento del suolo – ed effettivamente costruire un ciclo dei rifiuti integrato, virtuoso e sostenibile;
    pur essendo prioritario massimizzare il riciclo e le politiche di prevenzione nella produzione, è altresì importante iniziare ad utilizzare il combustibile solido secondario in parziale co-combustione negli impianti industriali esistenti, proprio al fine di sostituire una parte dei combustibili fossili e inquinanti utilizzati fino ad oggi, tra i quali petroleum coke, polverino di carbone ed altri;
    tale scelta permette, tra l'altro, di limitare il ricorso alle discariche e agli inceneritori, evitando di inchiodare il ciclo dei rifiuti all'opzione meno preferibile (smaltimento) con il rischio di bloccare le possibilità di sviluppo del riciclaggio o delle politiche di prevenzione;
    in concreto, l'effetto dell'utilizzo del combustibile solido secondario nei cementifici non ha tali effetti negativi sullo sviluppo della raccolta differenziata: da un lato, la disciplina europea e quella nazionale impongono comunque obiettivi minimi di raccolta differenziata che devono essere rispettati; dall'altro, la raccolta differenziata della frazione umida potrebbe, al contrario, essere incentivata. In tal senso, l'articolo 6, secondo comma, del decreto ministeriale n. 22 del 2013 richiama espressamente l'articolo 179 del codice dell'ambiente, proprio al fine di evitare che la produzione del combustibile solido secondario avvenga nel mancato rispetto della gerarchia indicata a livello europeo nella gestione dei rifiuti;
    il ciclo integrato dei rifiuti prevede che il recupero energetico si effettui a valle del processo di corretta raccolta e riciclo dei rifiuti, ovvero sulla percentuale del 25-30 per cento restante;
    tale percentuale va poi trattata: il combustibile solido secondario è, infatti, un tipo di combustibile prodotto dai rifiuti non pericolosi e ottenuto attraverso un complesso e controllato processo di produzione. Per essere classificato come combustibile solido secondario, il combustibile da rifiuti deve possedere determinate caratteristiche e parametri qualitativi, che sono prescritti nelle norme tecniche europee che regolamentano il suo processo produttivo;
    l'utilizzo di rifiuti nei cementifici è una pratica largamente diffusa ed è riconosciuta a livello europeo come best available technique, favorendo la riduzione delle emissioni di gas serra nonché di anidride carbonica prodotte dalle discariche; nei Paesi europei più avanzati, il tasso di sostituzione termica dei combustibili fossili con i combustibili solidi secondari nelle cementerie ha raggiunto nel 2011: l'83 per cento in Olanda, il 62 per cento in Germania, il 63 per cento in Austria, il 40 per cento in Polonia, il 30 per cento in Francia, il 22 per cento in Spagna (dati aggiornati al 2011 in base alle fonti ufficiali Aitec). Nel 2012, solo il 10 per cento dell'energia termica necessaria per la produzione del cemento in Italia proviene da fonti energetiche alternative, il restante 90 per cento circa è ottenuto con l'utilizzo di combustibili fossili non rinnovabili;
    la gestione dell'utilizzo del combustibile solido secondario ha alimentato, insieme ad un ampio dibattito, alcune preoccupazioni riguardo all'impatto delle emissioni sui livelli di tutela dell'ambiente e della salute, in particolare nelle comunità locali più prossime agli impianti;
    risulta, pertanto, necessario adottare tutte le iniziative volte ad aumentare la fiducia in relazione all'utilizzo di detti combustibili e fornire, con riferimento alla produzione e all'utilizzo di combustibile solido secondario, chiarezza giuridica e certezze scientifiche, in particolare riguardo alle emissioni dei cementifici e alle eventuali variazioni della loro tipologia,

impegna il Governo:

   ad effettuare un'approfondita comparazione in merito alle condizioni tecnologiche ed operative che disciplinano l'impiego del combustibile solido secondario in altri Paesi europei;
   ad avviare approfondimenti tecnici multidisciplinari per verificare se e a quali condizioni l'utilizzo del combustibile solido secondario nei cementifici non determina rischi per la salute e per l'ambiente, con particolare riferimento alle effettive emissioni di sostanze inquinanti derivanti dall'uso dei rifiuti come combustibili, che tengano conto non solo del funzionamento degli impianti a regime e in condizioni di massima sicurezza, ma anche dei possibili rischi derivanti da malfunzionamenti, fuori servizio e gestione dei transitori;
   a fornire, a seguito di tali accertamenti preliminari, un quadro aggiornato sull'attuazione, da parte dei settori industriali coinvolti, del potenziale costituito dal combustibile solido secondario, fornendo anche informazioni circa i processi autorizzativi avviati a seguito dell'entrata in vigore del decreto ministeriale n. 22 del 2013, nonché a rendere alle competenti Commissioni parlamentari ogni necessario elemento informativo relativo alle verifiche tecniche attuate e al vaglio dei risultati di tali verifiche, nonché ai dati di utilizzo del combustibile solido secondario, anche sulla base delle comunicazioni annuali previste dall'articolo 14 del decreto ministeriale n. 22 del 2013 a carico dei produttori e degli utilizzatori di combustibile solido secondario;
   ad adottare tutte le iniziative necessarie a tutela della salute e dell'ambiente, anche integrative, o, se necessario, di modifica del decreto ministeriale n. 22 del 2013;
   a prevedere adeguati strumenti di informazione e consultazione in relazione ai progetti di utilizzo, nell'ambito dei singoli cementifici, dei combustibili alternativi, tra cui i combustibili solidi secondari, in luogo dei combustibili tradizionali (carbone, petroleum coke ed altri), in particolare prevedendo forme di coinvolgimento delle regioni interessate a tali processi;
   a garantire la completa e verificata applicazione della normativa ambientale relativa all'esercizio degli impianti di produzione di cemento a ciclo completo, nonché ad assumere iniziative normative ad hoc per garantire, altresì, la completa trasparenza e aderenza alle severe norme comunitarie in materia di emissioni, nei processi di autorizzazione, che, nel caso di istanza da parte del gestore dell'impianto di utilizzo, dovranno essere considerati dall'autorità competente uno ad uno;
   a procedere rapidamente alla costituzione del comitato di vigilanza e controllo previsto all'articolo 15 del decreto ministeriale n. 22 del 2013, avente il compito di garantire il monitoraggio della produzione e dell'utilizzo del combustibile solido secondario ai fini di una maggiore tutela ambientale – nonché la verifica dell'applicazione di criteri di efficienza, efficacia ed economicità, di intraprendere le iniziative idonee a portare a conoscenza del pubblico informazioni utili o opportune in relazione alla produzione e all'utilizzo del combustibile solido secondario, anche sulla base dei dati trasmessi dai produttori e dagli utilizzatori di cui all'articolo 14 del medesimo decreto, nonché di assicurare il monitoraggio sull'attuazione della disciplina dettata dal decreto, garantire l'esame e la valutazione delle problematiche collegate, favorire l'adozione di iniziative finalizzate all'applicazione uniforme e coordinata del regolamento e sottoporre eventuali proposte integrative o correttive della normativa;
   a rafforzare con ogni strumento a disposizione, in particolare in materia di emissioni inquinanti, il processo di costruzione di un moderno ed efficace sistema di controlli ambientali in tempo reale, al fine di garantire ai cittadini effettive ed efficaci forme di tutela della salute e assieme dell'ambiente, anche con la prescrizione di precise procedure tecniche che impongano agli operatori l'obbligo di rendere disponibili on line i dati raccolti;
   a definire linee guida che specifichino, per gli impianti utilizzatori del combustibile solido secondario, tecnologie di processo e di trattamento degli effluenti gassosi, liquidi e solidi, tali da garantire la qualità e la quantità delle emissioni nel rispetto delle normative di settore;
   nel rispetto del decreto ministeriale n. 22 del 2013, a mettere in atto misure che evitino che gli standard di qualità ambientali definiti dalle vigenti normative siano raggiunti attraverso meri effetti di diluizione del combustibile solido secondario con i tradizionali combustibili;
   a intraprendere le iniziative idonee a portare a conoscenza delle popolazioni interessate tutte le informazioni relative alla produzione e all'utilizzo del combustibile solido secondario;
   a definire, d'intesa con le regioni, modalità e limiti quantitativi di utilizzo del combustibile solido secondario, tenendo conto delle percentuali di raccolta differenziata raggiunte, al fine di garantire il conseguimento degli obiettivi comunitari e nazionali di raccolta differenziata e di recupero della materia.
(1-00193)
«Borghi, Latronico, Matarrese, Carrescia, Alli, Arlotti, Baldelli, Dorina Bianchi, Mariastella Bianchi, Braga, Bratti, Castiello, Cominelli, D'Agostino, Dallai, Decaro, Distaso, Gadda, Ginoble, Tino Iannuzzi, Manfredi, Mariani, Marroni, Mazzoli, Morassut, Moretto, Realacci, Giovanna Sanna, Vella, Zardini».
(25 settembre 2013)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE A FAVORE DEI LAVORATORI FRONTALIERI

   La Camera,
   premesso che:
    sono quasi 60.000 i lavoratori delle aree di confine del nostro Paese, cosiddetti «frontalieri», che quotidianamente si recano per lavoro in Svizzera, principalmente nei Cantoni Ticino e dei Grigioni;
    negli ultimi anni, il numero dei frontalieri che lavorano nella Confederazione svizzera è cresciuto in misura notevole (6-7 per cento nel 2012) anche a causa della grave crisi economica-occupazionale che ha investito il nostro Paese e che, oggi, non mostra segni concreti di superamento;
    il fenomeno del frontalierato nel nostro Paese è ancora più ampio se si considerano gli 85.000 lavoratori di tutti i territori italiani di confine (Piemonte, Lombardia, Veneto, Trento, Bolzano, Friuli e Romagna) che quotidianamente attraversano i confini nazionali per andare a lavorare, oltre che in Svizzera, in Francia, in Austria, in Slovenia o a San Marino; questi lavoratori svolgono oltretutto un'importante funzione di compensazione in un mercato del lavoro interno caratterizzato da un elevato tasso di disoccupazione ed un crescente ricorso agli ammortizzatori sociali;
    i settori coinvolti riguardano principalmente l'attività manifatturiera e le costruzioni, oltre che sempre più il terziario: in Ticino, in particolare, l'andamento recente dei permessi ai frontalieri mostra l'incremento più alto in settori quali ricerca e sviluppo, attività di engineering e attività finanziarie, offrendo un'opportunità ai giovani laureati, i quali a loro volta diventano una risorsa ben impiegata dai vicini elvetici;
    divenuto ormai un fenomeno strutturale del mercato del lavoro ed un aspetto rilevante nei rapporti con la Svizzera, il lavoro frontaliero costituisce un importante contributo allo sviluppo di questi Paesi e rappresenta un'elevata risorsa per l'economia delle province di confine;
    la presenza di un consistente numero di frontalieri ha indotto in passato lo Stato italiano e la Confederazione svizzera a stipulare numerosi accordi bilaterali per regolare varie questioni riguardanti, tra l'altro, la previdenza sociale, l'imposizione fiscale e l'indennità di disoccupazione;
    in Svizzera, il mercato del lavoro è determinato da una flessibilità estrema, poiché ogni contratto di lavoro può essere risolto da ciascuna delle parti contraenti senza la presenza di una giusta causa o di un giustificato motivo, con il solo preavviso di tre mensilità al massimo;
    ciò significa che, ovviamente, aumenta la richiesta di lavoratori frontalieri italiani nel periodo in cui l'economia svizzera è florida, ma, nelle fasi di crisi, i primi a perdere il posto di lavoro sono proprio i frontalieri, che, peraltro, non possono usufruire degli ammortizzatori sociali vigenti in Svizzera;
    la legge 5 giugno 1997, n. 147 (norme in materia di trattamenti speciali di disoccupazione in favore dei lavoratori frontalieri italiani in Svizzera rimasti disoccupati a seguito della cessazione del rapporto di lavoro) all'articolo 1 prevede che: «Ai fini dell'attuazione di quanto previsto dall'accordo fra Italia e Svizzera sulla retrocessione finanziaria in materia di indennità di disoccupazione per i lavoratori frontalieri, con protocollo, scambio di note e accordo amministrativo, firmati a Berna il 12 dicembre 1978, reso esecutivo con decreto del Presidente della Repubblica 8 febbraio 1980, n. 90, l'istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) è incaricato di provvedere alla corresponsione dei trattamenti speciali di disoccupazione di cui alla presente legge in favore dei lavoratori frontalieri italiani divenuti disoccupati in Svizzera a seguito di cessazione non a loro imputabile del rapporto di lavoro». E, inoltre, al comma 2 del predetto articolo viene disposto che: «Presso l'INPS è istituita, per l'intero periodo di validità dell'accordo di cui al comma 1, la gestione con contabilità separata per l'erogazione dei trattamenti speciali di disoccupazione a favore dei lavoratori frontalieri italiani in Svizzera, finanziata dalla retrocessione da parte elvetica delle quote di contribuzione versate dai lavoratori». Inoltre, al comma 4 del predetto articolo viene disposto che «La corresponsione dei trattamenti speciali di disoccupazione, a norma della presente legge, è limitata all'esaurimento delle disponibilità della gestione di cui al comma 2»;
    la legge n. 147 del 1997 disciplina le categorie di lavoratori che possono fruire dei trattamenti di disoccupazione speciali, la durata degli stessi e le modalità per richiederli; nello specifico, i lavoratori frontalieri erano assoggettati ad una trattenuta mensile sul salario ricevuto in Svizzera che veniva poi, in parte, trasferita all'Istituto nazionale della previdenza sociale, su una contabilità separata, destinata al pagamento dell'indennità di disoccupazione speciale;
    il protocollo addizionale all'allegato II dell'Accordo sulla libera circolazione delle persone, entrato in vigore il 1o giugno 2002, tra la Confederazione svizzera, da un lato, e l'Unione europea e i suoi Stati membri, dall'altro, in materia di disoccupazione, ha previsto una proroga, per un periodo di sette anni a decorrere dal 1o giugno 2002, dell'accordo bilaterale sulla retrocessione finanziaria (circolare n. 78 del 2003). Terminata la proroga di sette anni dell'accordo italo-svizzero, sulla retrocessione finanziaria in materia di indennità di disoccupazione per i lavoratori frontalieri, dal giugno 2009, la Confederazione svizzera è tenuta ad applicare i regolamenti comunitari di sicurezza sociale, che contengono anche norme specifiche in materia di disoccupazione dei lavoratori frontalieri. Pertanto, la Confederazione svizzera non potrà più trasferire i contributi, ancorché questi continueranno ad essere oggetto di detrazione sulla busta paga dei lavoratori frontalieri;
    nei rapporti tra Stato italiano e Confederazione svizzera, Paese membro dello spazio economico europeo, attualmente si applicano i regolamenti comunitari in materia di coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale. La disciplina delle indennità di disoccupazione per i lavoratori frontalieri è contenuta negli articoli 65 e seguenti del regolamento (CE) n. 883/2004. In tale articolo viene previsto che il disoccupato, già frontaliero, ha diritto alle prestazioni di disoccupazione a carico dello Stato di residenza e che le stesse devono essere corrisposte dall'istituzione competente di tale Stato come se, nel corso della sua ultima attività lavorativa, il lavoratore fosse stato soggetto alla legislazione dello Stato di residenza;
    il lavoratore deve, quindi, soddisfare le condizioni richieste dalla legislazione del Paese di residenza per conseguire il diritto alle prestazioni di disoccupazione;
    per accertare se tali condizioni siano soddisfatte, l'istituzione del Paese di residenza tiene conto dei periodi di assicurazione compiuti sotto la legislazione dell'altro Paese, considerandoli come periodi di assicurazione compiuti sotto la legislazione da essa applicata, a prescindere dalla circostanza che l'interessato risulti già assicurato nel quadro di tale legislazione. Il sopra citato regolamento (CE) n. 883/2004 prevede, poi, all'articolo 65, paragrafi 6 e 7, che la Confederazione svizzera rimborsi all'Italia l'intero importo delle prestazioni erogate da quest'ultima durante i primi tre mesi di disoccupazione per ogni soggetto interessato, altresì i primi cinque mesi se il soggetto, durante i 24 mesi precedenti, ha maturato contributi nella Confederazione svizzera per almeno 12 mesi;
    con circolare dell'Inps 4 aprile 2013, n. 50, l'Istituto precisava che «il disoccupato residente in Italia che sia frontaliero in Svizzera – in quanto persona che, nel corso della sua ultima attività lavorativa, risiedeva in uno Stato membro (Italia) diverso da quello competente (Svizzera) e continua a risiedere in tale Stato membro – riceve le prestazioni in base alla legislazione dello Stato membro di residenza come se fosse stato soggetto a tale legislazione durante la sua ultima attività lavorativa» e che, pertanto, «il diritto, la misura e la durata della prestazione saranno determinati, come per i lavoratori rimasti disoccupati in Italia, per i diritti maturati con decorrenza fino al 31 dicembre 2012, secondo le norme che disciplinano l'indennità di disoccupazione ordinaria. A decorrere dal 1o gennaio 2013 le prestazioni saranno concesse secondo le disposizioni, previste dalla legge 28 giugno 2012, n. 92, per l'indennità di disoccupazione ASpI e mini ASpI»;
    gli uffici territoriali dell'Inps operanti nelle province di confine con la Svizzera, a partire dal mese di settembre 2012, hanno sospeso ai lavoratori frontalieri disoccupati l'erogazione dell'indennità speciale di disoccupazione, che è stata sostituita con la disoccupazione ordinaria e, a decorrere dal 1o gennaio 2013, con il nuovo sussidio di disoccupazione (ASpI) istituito con la cosiddetta legge di riforma Fornero;
    tali nuove misure penalizzano fortemente i lavoratori frontalieri, la cui indennità di disoccupazione subisce una decurtazione del 20-25 per cento e una riduzione del periodo di applicazione da 12 a 8 mesi;
    in sede di risposta all'interrogazione parlamentare n. 5-00124, nella seduta del 4 giugno 2013 in Commissione lavoro pubblico e privato, è emerso che le somme residue sulla gestione istituita presso l'Inps, ex legge n. 147 del 1997, ammontano a 270 milioni di euro;
    il Ministero dell'economia e delle finanze ha precisato che tali somme, seppur accantonate, non potranno essere destinate a nuove e ulteriori ragioni di spesa;
    la destinazione d'uso di tali somme è già, di fatto, mutata, in quanto le somme accantonate a titolo di fondo speciale sono andate a confluire nella disoccupazione ordinaria sino al dicembre 2012 e, nei fondi ASpI e mini ASpI, dal 1o gennaio 2013, in virtù della legge n. 92 del 2012;
    la legge n. 92 del 2012 non abroga il sistema di gestione separata e, pertanto, le somme rimesse dalla Svizzera all'Italia devono essere tenute completamente separate da ogni altro tipo di gestione contabile;
    nel tentativo di equiparazione del lavoratore italiano e di quello frontaliero si è creata una disparità ancor più grande, in quanto le trattenute in busta subite dai frontalieri sono diverse da quelle subite dal lavoratore italiano;
    le somme versate dai lavoratori frontalieri e destinate al fondo disoccupazione speciale devono essere utilizzate sino ad esaurimento con gestione separata e con trattamento indennitario pari a quello erogato in virtù degli accordi bilaterali, in quanto, sebbene gli accordi bilaterali non siano più in vigore, i fondi versati sono presenti nelle casse dell'Inps nella somma di 270 milioni di euro, con previsione di erogazione, come previsto dalla legge n. 147 del 1997;
    la mancata erogazione dell'indennità causa, ovviamente, grave disagio a moltissimi cittadini lombardi già colpiti duramente dalla perdita del posto di lavoro, in una fase economica dove è ancora più difficile il reinserimento lavorativo, sia in Italia, sia nella vicina Svizzera;
    il lavoro frontaliero rimane spesso una realtà lontana dalle istituzioni centrali e periferiche dello Stato, che non sempre introducono una specifica disciplina legislativa in grado di riconoscerne pienamente il valore, né il ruolo che svolge nel contesto economico e sociale delle aree territoriali ove è presente;
    sarebbe necessario definire un quadro di diritti e doveri chiari legati a questa peculiare condizione di lavoro e dare delle soluzioni ai problemi in essere, generati principalmente dalla mancanza di una regolamentazione specifica;
    i territori di confine, da cui ogni giorno partono i frontalieri diretti a lavorare in Svizzera, sono peraltro territori virtuosi, con un residuo fiscale attivo molto elevato e con percentuali bassissime di evasione fiscale, paragonabili, appunto, a quelle della Svizzera;
    il 6 settembre 2013, il quotidiano di informazione on-line Mattinonline, edizione svizzera, riportava la notizia che la Svizzera continuerebbe a pagare all'Inps le indennità di disoccupazione per i frontalieri italiani, ma che l'ente previdenziale non utilizzerebbe tali soldi a beneficio dei frontalieri italiani, insinuando il dubbio che con queste risorse sia effettuato il pagamento delle pensioni di invalidità agli immigrati;
    nel 2012, la Camera dei deputati aveva approvato un testo di legge (il cui iter si è arrestato al Senato della Repubblica per la fine della XVI legislatura) finalizzato a migliorare i trattamenti di disoccupazione dei lavatori frontalieri in Svizzera rimasti disoccupati a seguito della cessazione del rapporto di lavoro, utilizzando le disponibilità esistenti nella gestione con contabilità separata istituita presso l'Inps ai sensi della citata legge n. 147 del 1997,

impegna il Governo:

   a chiarire se le somme residue sulla gestione separata dell'Inps, dedicate alla disoccupazione speciale per i frontalieri italiani, siano confluite ingiustificatamente in altri fondi o utilizzate, anche parzialmente od indirettamente, per altri scopi, e, in caso affermativo, quali e a quale titolo;
   a provvedere affinché il fondo destinato all'erogazione del trattamento speciale di disoccupazione a favore dei lavoratori frontalieri sia e resti separato ed utilizzato come previsto dalla legge n. 147 del 1997 ancora vigente;
   ad applicare il principio in base al quale i soldi trattenuti ai frontalieri debbano essere utilizzati solo ed esclusivamente a favore dei frontalieri stessi, principalmente per integrare gli ammortizzatori sociali ad essi destinati, ristabilendo una diretta e più equa corrispondenza tra le alte trattenute subite in Svizzera e quanto loro versato a titolo di ammortizzatore;
   ad impegnarsi affinché, per quanto di competenza, in ogni futuro provvedimento a carattere fiscale e previdenziale, adottato nel nostro Paese, le migliaia di lavoratori frontalieri di tutti i territori del nostro Paese, che lavorano in Svizzera, in Francia, in Austria, in Slovenia o a San Marino, non siano trascurati, penalizzati o privati dello stesso grado di diritti e di tutele di tutti gli altri cittadini, come purtroppo è spesso accaduto fino ad oggi.
(1-00183)
«Molteni, Giancarlo Giorgetti, Gianluca Pini, Fedriga, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Buonanno, Busin, Caon, Caparini, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Prataviera, Rondini».
(13 settembre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    sono circa 80.000 le lavoratrici e i lavoratori italiani che ogni giorno attraversano i confini nazionali per prestare la loro attività lavorativa all'estero con il permesso di frontaliere;
    di questi, oltre 45.000 provengono dalle province di Como, Varese e Sondrio;
    il frontalierato è, a tutti gli effetti, un fenomeno strutturale del mercato del lavoro ed un aspetto rilevante nei rapporti dell'Italia con i Paesi di confine; ha rappresentato nel corso del tempo e rappresenta tuttora un importante contributo allo sviluppo di questi Paesi ed un'elevata risorsa per l'economia delle province italiane di confine;
    la particolare condizione di vita e di lavoro dei frontalieri li espone, tuttavia, ad una serie complessa di problematiche di natura fiscale, previdenziale, di sicurezza sociale e regolazione del lavoro, derivanti dal fatto di essere a tutti gli effetti cittadini italiani ma prestatori di lavoro in uno Stato estero;
    nonostante la rilevanza del fenomeno, il nostro Paese non dispone di una specifica disciplina legislativa in grado di riconoscere pienamente il valore e l'importanza del lavoro frontaliero per il contesto economico e sociale delle aree territoriali ove è presente; al contrario, diversi provvedimenti governativi adottati negli ultimi anni hanno ignorato la specificità dello status di lavoratore frontaliere, generando talvolta una sottovalutazione, se non un aggravamento dei tanti problemi aperti;
    a titolo esemplificativo le recenti controversie maturate in ordine al riconoscimento dell'indennità di disoccupazione speciale per i frontalieri attivi in Svizzera, così come le contraddittorie comunicazioni fiscali circa la dichiarazione di conti-stipendi e le velate accuse d'infondati privilegi, hanno evidenziato l'esistenza di uno spettro assai più ampio di problematiche;
    è opportuno stimolare un più convinto impegno per arrivare al più presto all'approvazione di uno statuto dei lavoratori frontalieri, che definisca un quadro di diritti e doveri chiari legati a questa peculiare condizione di lavoro e dia soluzione ai problemi in essere, generati principalmente dalla mancanza di una regolamentazione specifica,

impegna il Governo:

a promuovere l'apertura di un tavolo di confronto, con le rappresentanze delle associazioni sindacali e dei lavoratori dei territori di confine e le regioni territorialmente coinvolte, con l'obiettivo di predisporre l'impianto di uno statuto dei lavoratori frontalieri utile alla ripresa dei negoziati internazionali in grado di produrre accordi bilaterali con i Paesi di confine, che prevedano una specifica ed appropriata disciplina del lavoro frontaliero.
(1-00013)
«Braga, Guerra, Marantelli, Gadda, Orlando, Arlotti, Dell'Aringa, Baretta, Senaldi, Gianni Farina, Tentori, Fragomeli, Garavini, Brandolin, Borghi, Basso».
(2 aprile 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    la legge 5 giugno 1997, n. 147, in materia di trattamenti speciali di disoccupazione in favore dei lavoratori frontalieri italiani in Svizzera, riporta le norme di attuazione di quanto previsto dall'accordo fra Italia e Svizzera sulla retrocessione finanziaria in materia di indennità di disoccupazione per i lavoratori frontalieri (protocollo, scambio di note e accordo amministrativo, firmati a Berna il 12 dicembre 1978, reso esecutivo con decreto del Presidente della Repubblica 8 febbraio 1980, n. 90);
    il protocollo addizionale all'allegato II dell'Accordo sulla libera circolazione delle persone, entrato in vigore il 1o giugno 2002, tra la Confederazione svizzera da un lato e l'Unione europea e i suoi Stati Membri dall'altro, in materia di disoccupazione, ha previsto una proroga, per un periodo di sette anni a decorrere dal 1o giugno 2002, del sopracitato accordo bilaterale sulla retrocessione finanziaria;
    allo scadere dei sette anni, nonostante le richieste, da parte italiana e, infine, anche congiuntamente con il Governo francese, la parte svizzera non ha ritenuto di prorogare la validità degli accordi bilaterali, che disciplinavano la retrocessione finanziaria dei contributi dei lavoratori frontalieri all'assicurazione svizzera contro la disoccupazione;
    pertanto, a partire dal giugno 2009, si è completata l'applicabilità alla Svizzera dei regolamenti comunitari di sicurezza sociale, che prevedono norme specifiche in materia di disoccupazione a favore dei lavoratori frontalieri (articolo 71 del regolamento n. 1408 del 1971);
    a decorrere dal 1o aprile 2012, ai sensi della decisione n. 1 del 2012, adottata il 31 marzo 2012 dal comitato misto sulla libera circolazione delle persone, istituito ai sensi dell'Accordo tra l'Unione europea e i suoi Stati membri, da un lato, e la Confederazione Svizzera, dall'altro, i nuovi regolamenti comunitari si applicano anche alla Svizzera;
    a quest'ultima si estendono, quindi, le disposizioni del regolamento (CE) n. 883 del 2004 in materia di prestazioni di disoccupazione, incluse quelle di cui all'articolo 65 per «Disoccupati che risiedevano in uno Stato membro diverso dallo Stato competente», che delineano, tra l'altro, il regime di tutela della disoccupazione per la generalità dei lavoratori frontalieri;
    in particolare, ai sensi del paragrafo 2 e del paragrafo 5, lettera a), del predetto articolo 65, il disoccupato residente in Italia che sia frontaliero in Svizzera – in quanto persona che, nel corso della sua ultima attività lavorativa risiedeva in uno Stato membro (Italia) diverso da quello competente (Svizzera) e continua a risiedere in tale Stato membro – riceve le prestazioni in base alla legislazione dello Stato membro di residenza come se fosse stato soggetto a tale legislazione durante la sua ultima attività lavorativa;
    tali prestazioni sono erogate dall'istituzione del luogo di residenza. In particolare, a far data dal 1o aprile 2012, ai sensi della richiamata decisione n. 1 del 2012 e del regolamento (CE) n. 883 del 2004, l'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) applica anche ai lavoratori frontalieri in Svizzera il regime di tutela della disoccupazione previsto dal citato articolo 65;
    in base al predetto articolo, il diritto, la misura e la durata della prestazione saranno determinati, come per i lavoratori rimasti disoccupati in Italia, per i diritti maturati con decorrenza fino al 31 dicembre 2012, secondo le norme che disciplinano l'indennità di disoccupazione ordinaria. A decorrere dal 1o gennaio 2013, le prestazioni saranno concesse secondo le disposizioni, previste dalla legge 28 giugno 2012, n. 92, per l'indennità di disoccupazione ASpI e mini ASpI;
    con riferimento alla precedente disciplina applicata sotto la vigenza dell'Accordo fra Italia e Svizzera, la legge n. 147 del 1997, ai fini dell'attuazione di quanto previsto sulla retrocessione finanziaria in materia di indennità di disoccupazione per i lavoratori frontalieri, è stata istituita presso l'Inps una gestione separata per provvedere alla corresponsione dei trattamenti speciali di disoccupazione in favore dei lavoratori frontalieri italiani divenuti disoccupati in Svizzera, a seguito di cessazione non a loro imputabile del rapporto di lavoro;
    tale gestione era finanziata dalla retrocessione da parte elvetica delle quote di contribuzione versate dai lavoratori e la corresponsione dei trattamenti era limitata all'esaurimento delle disponibilità di tale gestione. Attualmente, secondo quanto di recente confermato dal Governo, la gestione segnerebbe ancora un saldo contabile positivo di 270 milioni di euro;
    la legge n. 147 del 1997 prevedeva che il diritto al trattamento speciale di disoccupazione fosse subordinato allo svolgimento in Svizzera di un'attività soggetta a contribuzione per almeno un anno nei due anni precedenti l'inizio dello stato di disoccupazione. La durata del trattamento speciale di disoccupazione era di trecentosessanta giorni, comprensivi delle domeniche e degli altri giorni festivi, e il suo importo giornaliero è stabilito, per ciascun anno, dal consiglio di amministrazione dell'Inps. Ai lavoratori che fruivano dei trattamenti speciali di disoccupazione venivano corrisposti gli assegni per il nucleo familiare, con onere a valere sulle disponibilità della gestione separata;
    con riferimento alla possibilità di utilizzare le somme residue sulla gestione istituita presso l'Inps con la legge n. 147 del 1997 per l'erogazione dei trattamenti speciali di disoccupazione a favore dei lavoratori frontalieri italiani in Svizzera, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha riferito che, secondo il Ministero dell'economia e delle finanze, tali somme, seppure accantonate, non potranno essere destinate a nuove e ulteriori ragioni di spesa. Ciò in quanto l'INPS, con quelle somme, «deve garantire il riconoscimento dei trattamenti di disoccupazione secondo il regime previsto a legislazione vigente»;
    tale interpretazione ministeriale non appare, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, del tutto corretta, dal momento che i trattamenti di disoccupazione transfrontalieri non sono più distinti dagli altri erogati alle lavoratrici e ai lavoratori italiani. Inoltre, sulla gestione si generano notevoli risparmi grazie alla minor spesa determinata dalla corresponsione dell'ASpI e della mini ASpI (anziché l'indennità di disoccupazione speciale) e il minor numero di mensilità durante le quali deve essere corrisposta, considerando che – a seconda dei casi – i primi 3 o 5 mesi di indennità di disoccupazione sono a carico della Svizzera;
    le risorse della gestione sono di un ammontare tale da poter consentire un loro utilizzo – anche parziale – per far fronte alla peculiare e specifica situazione disoccupazionale dei frontalieri, ad esempio, ampliando il numero dei casi in cui è possibile fruire del trattamento di disoccupazione modificando in tutto o in parte i requisiti per poterne goderne, aumentando gli importi dell'indennità o prevedendo l'aumento della durata massima del trattamento con un aumento progressivo al crescere dell'età a partire dai 50 anni (50, 55, 60 anni). Questo in considerazione delle maggiori difficoltà che tali lavoratori trovano, in ragione dell'età, a essere rioccupati e a rientrare nel mercato del lavoro. In particolare, tale aumento deve essere più che proporzionale al crescere dell'età, in modo da accompagnare il lavoratore fino alla maturazione del diritto alla pensione,

impegna il Governo:

a destinare, con il primo provvedimento utile, quota parte delle risorse della gestione istituita presso l'INPS con la legge n. 147 del 1997 a favore dei lavoratori frontalieri italiani in Svizzera, ad esempio ampliando il numero dei casi in cui è possibile fruire del trattamento di disoccupazione, modificando in tutto o in parte i requisiti per poterne godere, aumentando gli importi dell'indennità o prevedendo l'aumento della durata massima del trattamento, nonché un aumento progressivo del medesimo al crescere dell'età a partire dai 50 anni (50, 55, 60 anni), in considerazione delle maggiori difficoltà per tali lavoratori a trovare una nuova occupazione e rientrare nel mercato del lavoro, in modo da accompagnare il lavoratore fino alla maturazione del diritto alla pensione.
(1-00204)
«Di Salvo, Lacquaniti, Kronbichler, Airaudo, Placido».
(11 ottobre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    è considerato frontaliero il soggetto residente in Italia che non soggiorna all'estero, ma che presta l'attività, in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto, nelle zone di frontiera e in altri Paesi limitrofi. Ad oggi, però, non esiste una definizione univoca di lavoro frontaliero. Ogni convenzione, che si stipula con Paesi stranieri al fine di disciplinare il suddetto fenomeno, detta, di volta in volta, una definizione, creando incertezza nel mondo del diritto;
    da un punto di vista strettamente numerico la realtà dei lavoratori frontalieri non è certamente insignificante. Basti pensare che circa 80.000 sono le lavoratrici e i lavoratori italiani che ogni giorno attraversano i confini nazionali per prestare la loro attività lavorativa all'estero con il permesso di frontalieri; di questi 48.000 in Canton Ticino provenienti dalle province di Como, Varese e Verbano-Cusio-Ossola, 6.500 nei Grigioni, provenienti soprattutto dalla provincia di Sondrio e in piccola parte da quella di Bolzano, 1.500 nel Vallese, provenienti dalla zona di Verbano-Cusio-Ossola. A questi si aggiungono i più di 6.000 cittadini italiani che dall'Emilia-Romagna e dalle Marche si recano a lavorare nella Repubblica di San Marino, i 3.700 che giornalmente dalla provincia di Imperia si recano a lavorare, soprattutto, nel Principato di Monaco e in Francia (1.500), nonché altre centinaia di italiani che per lo stesso motivo si recano in Austria, in Slovenia e nella Città del Vaticano;
    il lavoratore frontaliero è, come risulta anche dai dati sopra menzionati, un fenomeno strutturale del mercato del lavoro ed un aspetto rilevante nei rapporti dell'Italia con i Paesi di confine; ha rappresentato nel corso del tempo e rappresenta tuttora un importante contributo allo sviluppo di questi Paesi ed un'elevata risorsa per l'economia delle province italiane di confine;
    la particolare condizione di vita e di lavoro dei frontalieri li espone, tuttavia, ad una serie complessa di problematiche di natura fiscale, previdenziale, di sicurezza sociale e regolazione del lavoro, derivanti dal fatto di essere a tutti gli effetti cittadini italiani ma prestatori di lavoro in uno Stato estero;
    nonostante la rilevanza del fenomeno, il nostro Paese non dispone di una specifica disciplina legislativa in grado di riconoscere pienamente il valore e l'importanza del lavoro frontaliero per il contesto economico e sociale delle aree territoriali ove è presente;
    al contrario, diversi provvedimenti governativi adottati negli ultimi anni hanno, in alcuni casi, ignorato la specificità dello status di lavoratore frontaliero, generando una sottovalutazione ovvero, in taluni casi, un aggravamento dei tanti problemi aperti che la questione pone. Basti pensare, al riguardo, alle recenti controversie maturate in ordine al riconoscimento dell'indennità di disoccupazione speciale per i frontalieri attivi in Svizzera, così come la questione della franchigia di esenzione per i redditi di lavoro dipendente prodotti all'estero in zone di frontiera;
    tutte queste ragioni non possono che indurre a stimolare un più convinto impegno per arrivare al più presto all'approvazione di uno «statuto dei lavoratori frontalieri», che definisca un quadro di diritti e doveri chiari legati a questa peculiare condizione di lavoro e dia soluzione ai problemi in essere, generati principalmente dalla mancanza di una regolamentazione specifica,

impegna il Governo:

   a promuovere l'apertura di un tavolo di confronto, con le rappresentanze delle associazioni sindacali e dei lavoratori dei territori di confine e le regioni territorialmente coinvolte, con l'obiettivo di predispone l'impianto di uno «statuto dei’ lavoratori frontalieri» che preveda una specifica ed appropriata disciplina del lavoro frontaliero;
   a garantire, in attesa della definizione dello statuto, in continuità con gli anni passati, la franchigia prevista per i lavoratori frontalieri.
(1-00205)
«Pizzolante, Costa, Bernardo, Biasotti, Bosco, Giammanco, Lainati, Mottola, Polverini, Vignali».
(11 ottobre 2013)

MOZIONI CONCERNENTI INIZIATIVE PER UNA POLITICA INDUSTRIALE VOLTA ALLA RIQUALIFICAZIONE E ALLA REINDUSTRIALIZZAZIONE DEI POLI CHIMICI

   La Camera,
   premesso che:
    la chimica è un comparto produttivo essenziale per il sistema industriale del Paese. Non vi è settore industriale che non sia fortemente legato alla chimica e, tra questi, spiccano proprio quei settori del made in Italy: dall'agro-alimentare, all'industria tessile, delle calzatura e della moda, al settore del mobile e dell'arredamento, al settore della meccanica di precisione, al bio-medicale – senza, peraltro, dimenticare i settori più tradizionali e radicati quali, ad esempio, l'industria automobilistica, edile, dell'elettrodomestico, della ceramica, della carta – agli imballaggi e all'agricoltura;
    l'Italia è, tra i Paesi europei più industrializzati, quello con il più elevato deficit della bilancia commerciale sia nell'insieme del settore chimico, nel 2012 circa 10 miliardi di euro, sia della chimica di base, 12,5 miliardi di euro (a livello europeo la chimica e la chimica di base registrano, invece, surplus pari, rispettivamente, a 44 miliardi di euro e a 12 miliardi di euro). I comparti delle pitture e dei detergenti e cosmetici sono quelli che registrano il maggiore surplus (circa 2,5 miliardi di euro) che attenua il disavanzo registrato dall'intero comparto;
    da un punto di vista dell’export, l'industria chimica italiana, pur registrando un deficit nella bilancia commerciale, mostra una propensione al commercio con l'estero; nel periodo 1990-2009 il rapporto tra export e produzione totale è passato dal 18 per cento al 40 per cento e la sua incidenza sul totale dell’export dell'industria manifatturiera italiana è cresciuta da poco più del 6 per cento nel 2000, fino a sfiorare il 10 per cento nel 2011;
    il processo di dismissioni, attuato dall'Eni negli ultimi decenni, ha provocato gravi conseguenze non soltanto dal punto di vista occupazionale e per la bilancia commerciale di settore, ma anche per la competitività del comparto e dell'intero sistema produttivo del Paese;
    la chimica italiana rappresenta una parte rilevante del panorama della ricerca e dell'innovazione: in assenza di grandi investimenti, il settore produce oltre il 20 per cento dei brevetti dell'industria manifatturiera ed impiega oltre 4.000 addetti in ricerca e sviluppo;
    la ridotta presenza di investimenti in ricerca e innovazione si concretizza nell'annunciato taglio al Centro ricerche Giulio Natta di Ferrara e nella ridefinizione del cracker di Marghera. Il piano Versalis sui territori da Eni presidiati (Sicilia, Mantova, Ravenna e Ferrara) si inserisce in questo quadro strutturale, reso più urgente dalla novità che nel settore della chimica, dei materiali plastici e delle specialties si stanno orientando le attenzioni e la ricerca dei grandi gruppi europei, che non rinunciano alla petrolchimica e, contemporaneamente, guardano ai possibili terreni competitivi dei prossimi anni;
    l'importanza dell'industria chimica in Italia dal punto di vista dell'occupazione è fortemente diminuita, passando dal 4,5 per cento del 1971 al 2,6 per cento del 2009 dell'intero sistema industriale italiano;
    la piccola e media impresa chimica (localizzata prevalentemente a nord del Paese), continua a mostrare segni di vitalità (surplus commerciali, crescente orientamento ai mercati esteri). Nel 1971 la piccola e media impresa impiegavano il 29 per cento degli addetti, nel 2009 tale percentuale è passata al 69 per cento del totale degli addetti della chimica in Italia. La maggiore incidenza delle piccole e medie imprese è attribuibile, in realtà, alle dismissioni della grande impresa: dal 1981 al 1996 la grande impresa chimica ha perso il 43 per cento degli addetti, la piccola e media impresa circa il 9 per cento. L'industria chimica italiana, riducendosi il peso dei colossi industriali della cosiddetta chimica di base e intermedia (Eni, Mossi&Ghisolfi, LyondellBasell, Solvay), si va configurando come un sistema di imprese di piccole e medie dimensioni, fortemente orientate all'innovazione e ai prodotti speciali;
    il costo dell'energia, tra i più alti in Europa, incide fortemente sull'economia della chimica di base, mentre gioca un ruolo meno importante per i cosiddetti prodotti speciali, dove il livello di scala ottimale non è molto elevato e giocano un ruolo assai più importante i cosiddetti aspetti «intangibili» di know-how, che non i grandi investimenti fissi;
    l'industria chimica italiana (che sta operando importanti processi di riconversione di impianti industriali non competitivi, in bioraffinerie dedicate alla produzione di chemical da fonti rinnovabili) può creare le condizioni per ricadute positive a livello di occupazione, dell'ambiente, della redditività dei prodotti e dell'integrazione con la chimica tradizionale, dando nuove opportunità anche a settori maturi dell'economia;
    a supporto delle forti potenzialità offerte da una maggiore integrazione tra prodotti chimici da fonti rinnovabili e tradizionali, il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca ha promosso un cluster sulla chimica verde a seguito del bando dello stesso Ministero sui cluster tecnologici. Una volta operativo, il cluster, al quale hanno aderito più di 100 soggetti (imprese, istituzioni di ricerca, regioni, università e associazioni), diventerà un interessante soggetto per le istituzioni italiane ed europee con elevate potenzialità nella creazione di sinergie tra le imprese e tra gli strumenti di ricerca pubblica e privata nel campo della bioeconomia e della chimica verde;
    la realtà economica espressa dal comparto delle materie plastiche e della gomma in Italia è assai complessa ed articolata e va ben oltre la semplice produzione dei materiali;
    l'industria di produzione delle materie plastiche è tipicamente un'industria «capital intensive» e richiede ingenti investimenti miliardari, anche se con pochi addetti diretti;
    in Italia ci sono circa 5.000 aziende di trasformazione di plastica e gomma, che occupano oltre 600 mila addetti, mentre l'industria di produzione delle materie plastiche e gomma impiega 10 mila-12 mila addetti (circa 5.000 Versalis, 2.300 Mossi&Ghisolfi, 1.200 LyondellBasell, più quelli rappresentati dalle realtà minori come Radici Chimica, Solvay Specialty Polymers, Novamont ed altri);
    sussiste sproporzione tra il numero di addetti alla produzione ed il numero di addetti alla trasformazione, in un rapporto 1:50-1:60. Se si aggiungono i dati del settore della produzione di macchine e ausili alla trasformazione delle materie plastiche, settore che contribuisce al prodotto interno lordo italiano per 4 miliardi di euro e con un saldo commerciale import-export positivo per l'Italia di circa 2 miliardi di euro, si comprende che la produzione di materie plastiche costituisce un volano formidabile per l'occupazione e per la bilancia commerciale italiana;
    il mercato italiano consuma annualmente all'incirca 7 milioni di tonnellate di materie plastiche e gomma (secondo Paese in Europa dopo la Germania) e ne produce 3 milioni di tonnellate (fonte: PlasticsEurope). Questo dato costituisce motivo di preoccupazione, sia per la bilancia commerciale italiana, sia per la competitività delle aziende italiane di trasformazione, già penalizzate dal costo dell'energia (il più alto in Europa) e dal costo del lavoro (cuneo fiscale). Se a ciò si aggiunge la grave crisi dei produttori di materie plastiche, si comprende come tutto ciò rischia di compromettere il lavoro non di 10 mila, bensì di più di 600 mila persone;
    considerando i soli polimeri di largo impiego, in Italia si producono polietilene (Eni-Versalis), polipropilene (LyondellBasell), polietilene tereftalato (Mossi&Ghisolfi), poliammide (Radici Chimica), polistirene (Eni-Versalis). Polietilene, polipropilene e cloruro di polivinile (pvc) rappresentano, in termini di fatturato, la prima, la seconda e la terza materia plastica al mondo;
    è completamente scomparsa, invece, la produzione di cloruro di polivinile, di cui peraltro l'Italia è forte consumatrice. L'industria italiana, in periodi di congiuntura economica sfavorevole come quello attuale, consuma circa 800.000 tonnellate all'anno di cloruro di polivinile e, dopo il triste epilogo delle vicende di Vinyls Italia, non ne produce più;
    nel 2012, l'Italia ha registrato un deficit della bilancia commerciale pari, per il polietilene, a circa 900.000 tonnellate (1 miliardo di euro), e per il polipropilene, a oltre 700.000 tonnellate (circa 762 milioni di euro);
    l'industria delle materie plastiche in Italia è afflitta da decenni di immobilismo (da oltre 20 anni non si realizzano nuovi impianti di poliolefine, né di poliestere) e gli impianti esistenti sono ampiamente sottodimensionati rispetto agli impianti che vengono avviati oggigiorno nel resto del mondo. In più, la produzione italiana delle poliolefine (le materie plastiche più utilizzate) è basata sugli impianti di cracking di Marghera, Priolo e Brindisi, impianti sui quali da anni si dibatte sul mantenimento o la chiusura, provocando continue fibrillazioni nelle aziende e nei lavoratori che da tali produzioni dipendono;
    si stima che 200 mila tonnellate in più di poliolefine producono 12.000 addetti diretti, più i servizi, più le attività a valle e a monte, ma è vero anche il contrario: la scomparsa delle 220.000 tonnellate del sito di Terni di proprietà della LyondellBasell non ha coinvolto solo i 70 addetti del sito produttivo, ma ha compromesso o messo a rischio oltre 12.000 posti di lavoro. Stessa cosa avverrebbe a Brindisi ed analogo discorso si può fare per Ferrara, Ravenna o qualsiasi altro polo chimico;
    la difesa dei siti produttivi abbraccia un campo economico, sociale e politico enorme, di cui si è finora sottovalutata la vastità e l'importanza per il sistema Paese italiano. Per le migliaia di imprese trasformatrici a valle, la presenza di un fornitore sul territorio nazionale costituisce un rilevante fattore di competitività. La competitività delle aziende italiane, costrette in misura sempre maggiore ad approvvigionarsi all'estero, sarebbe sempre più compromessa. Basti pensare che il 40 per cento delle materie plastiche (quasi 3 milioni di tonnellate) va nell'imballaggio, quindi nel comparto agro-alimentare, come anche nella moda e nell'abbigliamento;
    in questo quadro non roseo riguardante la produzione italiana delle materie plastiche, una nota positiva è rappresentata dalla cosiddetta «chimica verde» e dalla bioeconomia, con particolare riguardo ai vantaggi e al potenziale per l'Italia della conversione di siti non competitivi in bioraffinerie integrate nel territorio, funzionali alla produzione delle cosiddette bioplastiche e di altri prodotti ad alto valore aggiunto, quali gli intermedi chimici bio, i biolubrificanti ed altro;
    nel merito, la Commissione europea ha lanciato, il 13 febbraio 2012, la prima strategia dedicata alla bioeconomia: «Innovating for Sustainable Growth: A Bioeconomy for Europe» (COM(2012) 60 final). Il peso economico del settore viene stimato dall'Unione europea con un fatturato di circa 2.000 miliardi di euro ed oltre 22 milioni di persone impiegate, che rappresentano il 9 per cento dell'occupazione complessiva della comunità europea. Viene, inoltre, stimato che per ogni euro investito in ricerca e innovazione nella bioeconomia, con adeguate politiche di sostegno a livello nazionale ed europeo, la ricaduta in valore aggiunto nei settori di comparti, quali quello dei prodotti bio-based, sarà pari a dieci euro entro il 2025. In base a tale strategia, per mantenere la propria competitività l'Unione europea dovrà trasformarsi in una società caratterizzata da basse emissioni di carbonio, nella quale la crescita sostenibile e la competitività stessa siano alimentate sinergicamente da industrie che usano in modo efficiente le risorse e dal ricorso a prodotti bio-based;
    in tale settore la Novamont, realtà industriale attiva dal 1989, è oggi tra i leader mondiali dei biopolimeri e degli intermedi chimici da fonte rinnovabile. Nel 2012 il fatturato di Novamont spa ha superato i 160 milioni di euro, a fronte di un organico di 270 addetti, il 23 per cento dei quali impiegato in attività di ricerca e sviluppo, investendo il 6,5 per cento del proprio fatturato. La Novamont è impegnata in progetti di riconversione di siti chimici dismessi e non più competitivi quali Terni, Porto Torres, Bottrighe. L'obiettivo è agire in zone fortemente intaccate dalla crisi, valorizzando le risorse e le competenze locali attraverso investimenti in bioraffinerie dedicate alla produzione di prodotti ad alto valore aggiunto, con benefici per l'intera filiera e la collettività: dal mondo agricolo, alla trasformazione in prodotti, con ricadute su diversi settori applicativi (bioplastiche, biolubrificanti e altro), alla produzione di compost di qualità dalla frazione organica del rifiuto, fino alla ricerca e alla formazione delle nuove generazioni;
    Versalis dal 2011 opera nel settore della «chimica verde» attraverso Matrica (joint venture al 50/50 con Novamont). Versalis punta a trasformare assieme a Novamont il sito di Porto Torres in un polo di chimica verde per la produzione di bio-intermedi, bio-lubrificanti, bio-additivi e bio-plastiche, con un investimento di 500 milioni di euro. Eni-Versalis ha avviato anche nuovi progetti di sviluppo nel settore delle gomme da fonte rinnovabile;
    iniziative analoghe sono in corso anche da parte del gruppo Mossi&Ghisolfi che, tramite Beta Renewables, una joint venture tra Chemtex, società di ingegneria, e R&D del Gruppo Mossi&Ghisolfi, e il fondo Texas Pacific Group, ha investito oltre 140 milioni di euro nello sviluppo della tecnologia Proesa(®). La società ha costruito a Crescentino (Vercelli), il più grande impianto al mondo (40 mila tonnellate all'anno) per la produzione di bioetanolo di seconda generazione, che è entrato in funzione alla fine del 2012;
    la chimica verde va fortemente sostenuta, ma non può essere considerata sostitutiva della chimica tradizionale;
    la chimica verde, e con essa tutta la ricerca, rappresenta comunque un investimento per il futuro nel medio e lungo termine. Non si può, però, chiedere ad essa di risolvere i problemi attuali della chimica italiana, anche se può dare un importante contributo,

impegna il Governo:

   ad avviare una politica industriale finalizzata a riqualificare e reindustrializzare i poli chimici, concordando i percorsi con le amministrazioni locali e regionali, dando come priorità la bonifica dei siti contaminati;
   a mettere in campo strumenti di sostegno per la tenuta della chimica nazionale, evitando, ove possibile, ulteriori chiusure di impianti e promuovendo la realizzazione degli investimenti necessari a riportare a livello competitivo le produzioni presenti in Italia;
   a promuovere l'avvio di processi di reindustrializzazione e sviluppo in una logica di filiera e nei settori della chimica fine, delle specialità e della chimica verde, avviando, a tal fine, iniziative per favorire i rapporti tra grandi imprese e piccole e medie imprese;
   a sviluppare una nuova politica di sostegno all'innovazione che tenga in considerazione i legami tra le varie filiere industriali, supportando la diffusione dell'innovazione in tutto il sistema industriale italiano, e favorendo le aggregazioni tra piccole e medie imprese per accelerare il trasferimento di know-how all'interno di ciascuna filiera;
   a ridurre il differenziale del costo dell'energia con gli altri Paesi concorrenti, adottando in tempi certi un piano energetico nazionale modificando l'attuale Strategia energetica nazionale;
   ad accelerare le bonifiche dei siti chimici di interesse nazionale, promuovendo la rivisitazione dei processi produttivi in chiave di sostenibilità ambientale e favorendo l'insediamento, all'interno di tali siti (o nelle loro immediate vicinanze), di piccole e medie aziende, creando un anello virtuoso di crescita sia per la piccola e media impresa, grazie alla presenza di centri ricerche, servizi, energia e disponibilità di personale altamente specializzato, sia per la grande industria, grazie alla riduzione dei costi di logistica, alla produzione mirata al servizio del territorio ed a una maggiore stabilità del mercato;
   a favorire l'insediamento di piccole e medie imprese nei poli chimici, chiedendo all'Eni di agevolare l'acquisto delle proprie aree per i potenziali acquirenti, così come è avvenuto nel comprensorio del petrolchimico di Priolo;
   a semplificare le procedure burocratiche di autorizzazione per le nuove imprese, al fine di facilitare gli investimenti e attrarre nuovi capitali italiani ed esteri nel settore;
   a battersi in sede europea per interventi normativi a sostegno di imprese e di poli chimici che rispettino le norme ambientali, evitando delocalizzazioni e trasferimenti in Paesi meno rigorosi nella regolamentazione ambientale e favorendo forme di agevolazione fiscale mirate alle imprese che hanno deciso di insediarsi nel nostro Paese;
   a sviluppare una politica nazionale di sostegno alla bioeconomia che tenga in considerazione il ruolo chiave delle bioraffinerie nel generare valore a livello locale, attraverso filiere corte che coinvolgano il mondo agricolo e le collettività, e che permetta lo sviluppo di processi di innovazione incrementale indotta lungo tutta la filiera, favorendo le aggregazioni tra piccole e medie imprese per accelerare il trasferimento di know-how all'interno di ciascuna filiera;
   a focalizzare le politiche italiane nel campo della gestione integrata dei rifiuti solidi urbani, mettendo al centro la trasformazione in compost di qualità della frazione organica in una logica di risorse per altre filiere e non come un problema (si veda l'organico e la produzione di compost);
   a fissare target per incentivare, mediante apposite normative e standard, la sostituzione di prodotti critici per l'ambiente, derivanti da fonti fossili, con prodotti bio perseguendo gli obiettivi comunitari per un'economia «low carbon» entro il 2050;
   ad attivare misure di incentivo alla domanda (a partire dal rafforzamento del Green public procurement) di prodotti bio-based di nicchia, quali biolubrificanti, bioerbicidi e pacciamatura agricola, mutuando in azioni le raccomandazioni formulate dal Lead market initiative ad-hoc advisory group for bio-based products della Commissione europea, per permettere di trainare lo sviluppo nel mercato finale di prodotti ad alto valore aggiunto con alte performance e ridotto impatto ambientale, sulla base di standard adeguati;
   a sostenere fortemente l'attivazione e l'attuazione del cluster della chimica verde, in quanto strumento chiave per permettere sviluppi su settori prioritari per l'Italia;
   ad attivare un tavolo di alto livello tra stakeholder chiave sul tema della chimica verde, mutuando il panel di alto livello sulla bioeconomia da poco lanciato dalla Commissione europea, coinvolgendo i diversi Ministeri competenti per assistere il Governo all'elaborazione di una strategia nazionale sulla bioeconomia;
   a sostenere a livello europeo la partnership pubblica-privata sul bio-based, chiamata anche Bridge, il cui obiettivo è quello di aiutare le industrie europee a colmare il «divario di innovazione» tra lo sviluppo tecnologico e la commercializzazione di prodotti ad alto valore aggiunto e cercare in questo ambito di valorizzare le azioni del cluster della chimica verde al fine di permettere un allineamento di azioni a livello nazionale ed europeo;
   a riattivare presso il Ministero dello sviluppo economico l'osservatorio chimico nazionale soppresso dai precedenti Governi come strumento di monitoraggio, valutazione e di proposta per l'intera filiera della chimica, valorizzando e potenziando le competenze tecniche già presenti in modo da elaborare ed attuare una politica industriale di filiera in ottica di medio lungo periodo, posto che è utile avere una regia pubblica che superi l'attuale approccio dove ogni emergenza viene gestita esclusivamente per il singolo sito che la subisce.
(1-00162)
«Speranza, Bratti, Colaninno, Valiante, Benamati, Borghi, Mariani, Braga, Fregolent, Sereni, Realacci, Dallai, Mariastella Bianchi, Carrescia, Montroni, Basso, Mariano, Moretto, Folino, Giovanna Sanna, Manfredi, Cassano, Cominelli, Zardini, Gadda, Senaldi, Cenni, Martella, Ginoble».
(2 agosto 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    l'industria chimica in Europa, ma anche in Italia, ha un ruolo chiave per lo sviluppo economico e per il miglioramento della qualità della vita, rendendo disponibili sostanze, prodotti, materiali innovativi e nuove soluzioni tecnologiche per tutti i settori produttivi. Attraverso le sue sostanze e i suoi prodotti, infatti, genera innovazione nei settori a valle che sono la colonna portante del manifatturiero. La chimica è infrastruttura tecnologica e, quindi, strumento di politica industriale;
    l'industria chimica italiana, con un valore della produzione pari a 52,8 miliardi di euro nel 2012, si conferma il terzo produttore europeo, dopo la Germania e la Francia, e il decimo a livello mondiale. Il settore, con 2.800 imprese e 113 mila addetti, rappresenta il 6 per cento circa dell'intero fatturato dell'industria manifatturiera nazionale ed è il quarto esportatore italiano dopo meccanica, metallurgia e alimentare. Il settore vede la presenza bilanciata di imprese a capitale estero (36 per cento del valore della produzione), medio-grandi gruppi a capitale italiano (26 per cento) e piccole e medie imprese italiane (38 per cento). La dimensione media di impresa sfiora i 50 addetti;
    la chimica è un settore ad elevata intensità di ricerca: la quota di addetti dedicati alla ricerca e allo sviluppo, pari al 4,3 per cento, è più che doppia della media manifatturiera (1,9 per cento) e in 10 anni la quota di imprese chimiche attive nella ricerca è aumentata di 10 punti percentuali e ha raggiunto il 48 per cento, una quota più che doppia della media industriale (23 per cento) e superiore anche a settori high tech come la farmaceutica e l'elettronica (44 per cento). In ambito europeo, è seconda solo alla Germania per numero di imprese attive nella ricerca e nello sviluppo, oltre 800, davanti a Francia e Spagna;
    il 2012 si è chiuso con un calo della produzione pari al 2,8 per cento in valore e del 5,3 per cento in termini di volumi, dovuto al crollo della domanda diffuso praticamente a tutti i settori clienti, compresi quelli legati ai consumi finali che, negli anni passati, avevano risentito meno della crisi. La caduta della domanda interna si è riflessa anche sulle importazioni, in calo nel 2012 del 2,3 per cento a valore, e ha portato con sé il miglioramento del deficit commerciale, che si attesta a 10,3 miliardi di euro rispetto agli 11,6 miliardi di euro del 2011;
    in Italia, la produzione chimica non mostra ancora segnali di stabilizzazione. La prima parte del 2013 registra, dopo un recupero di inizio anno, un calo del 3,3 per cento in volume in presenza di prezzi pressoché stazionari. Prosegue la caduta della domanda interna (-6 per cento in volume nel primo quadrimestre), contestualmente si è registrato un calo nelle importazioni che – nei primi 4 mesi dell'anno – perdono il 2,8 per cento in valore. La produzione in Italia si colloca attualmente su livelli prossimi al 2009 con un divario, rispetto al 2007, pari al 17,5 per cento in quantità e al 6 per cento in valore. Parte del calo nelle quantità riflette la razionalizzazione delle produzioni, molte abbandonate per concentrarsi su prodotti a maggiore contenuto di innovazione e ricerca;
    l'industria chimica risente, altresì, del ridimensionamento di importanti settori utilizzatori – in primis l'auto e il sistema delle costruzioni – e dei crescenti problemi di liquidità di molte imprese clienti, che si traducono in ritardati nei pagamenti, in rischi di insolvenza e in estrema prudenza negli acquisti;
    il protrarsi della crisi a livello europeo frena l’export, tenuto conto che l'Unione europea rappresenta il mercato di destinazione di oltre il 60 per cento delle esportazioni chimiche italiane. Nonostante la buona performance sui mercati extra-Unione europea (+5,5 per cento in valore), il primo quadrimestre 2013 ha segnato un +1,7 per cento in valore, dopo aver chiuso il 2012 in crescita dell'1,6 per cento. L'industria chimica è, infatti, il comparto con la più elevata incidenza di imprese esportatrici (54 per cento), dopo la farmaceutica, e in 10 anni la quota di export sul fatturato è aumentata di 11 punti percentuali, consentendo al settore di diventare meno dipendente da una domanda interna;
    la debolezza riguarda principalmente la chimica di base, mentre si confermano in forte espansione i settori della chimica fine e specialistica. La dicotomia tra mercato interno ed estero si traduce in una forte variabilità nelle performance delle imprese chimiche, anche all'interno dello stesso settore. Le imprese molto orientate all’export o dotate di impianti all'estero presentano, infatti, livelli di attività e di redditività meno penalizzanti;
    tutto ciò ha avuto pesanti ripercussioni dal punto di vista occupazionale: infatti, nel nostro Paese, rispetto all'intero sistema industriale italiano l'incidenza dei lavoratori nel settore è diminuita passando dal 4,5 per cento del 1971 al 2,6 per cento del 2009;
    continua a mostrare segni di vitalità la piccola e media impresa chimica: crescono le nicchie di piccole e medie aziende che trainano la rinascita dell’export e dell'occupazione e fanno parte di una mutazione della chimica italiana che, a partire dagli anni ’80, vede protagonisti tanti industriali medi, o addirittura piccoli, diventati decisivi nel settore;
    un numero fotografa il trend: le imprese che hanno saputo darsi una nuova specializzazione produttiva occupano il 63 per cento degli addetti del settore contro il 37 per cento degli occupati nella chimica di base. Ma non è solo il contributo in posti di lavoro a rendere orgogliosi i piccoli e medi addetti: le loro aziende sono stati capaci anche di diventare i fornitori più importanti di tutti i comparti industriali del made in Italy. L'abbigliamento, le piastrelle, l'industria del mobile e l'occhialeria vanno avanti anche grazie all'innovazione che arriva dai prodotti intermedi (chimici), a quei nuovi materiali decisivi per rinnovare il mito dell'eleganza e della creatività italiana, progressi fatti nel campo dell'innovazione. E nelle classifiche europee dell'innovazione i piccoli della chimica italiana vengono al secondo posto, dietro solo ai competitor tedeschi;
    nell'industria chimica gli acquisti di materie prime ricoprono il 60 per cento del valore della produzione e le spese per gli acquisti di servizi (energia inclusa) il 21 per cento. La chimica è il primo settore industriale per consumo di gas naturale e il secondo per consumo di energia elettrica. L'energia rappresenta una voce di costo importante per il settore chimico, pari in media al 5 per cento del valore della produzione (esclusi gli utilizzi come materia prima);
    l'incidenza del costo dell'energia sul valore aggiunto, pari al 27 per cento, evidenzia il forte impatto negativo che un divario di costo dell'energia rispetto agli altri Paesi provoca nell'industria chimica italiana in termini di competitività e di minore capacità di remunerare i fattori produttivi (definita, appunto, dal valore aggiunto);
    nonostante i processi di liberalizzazione, in Italia il costo dell'elettricità per le imprese industriali è più elevato della media degli altri Paesi europei di oltre il 30 per cento ed è quasi il doppio rispetto alla confinante Francia. Il prezzo del gas naturale è più allineato alla media europea, tuttavia risulta elevato nel confronto internazionale con i Paesi extra-europei. Inoltre, recentemente sono stati introdotti extra-costi legati anche in questo caso al finanziamento delle rinnovabili che rischiano di danneggiare la competitività anche in ambito europeo;
    quanto all'Italia, spiegano gli industriali italiani, su un fatturato di 53 miliardi di euro, la bolletta energetica della chimica nel 2012 è stata di 5,3 miliardi di euro. Un'incidenza del 10 per cento, che è la media tra il 70-80 per cento della chimica del fluoro e il 2 per cento della cosmetica;
    anche la logistica è strategicamente importante per l'industria chimica, con un'incidenza di costo sul fatturato compresa tra il 10 e il 15 per cento. A causa di arretratezze infrastrutturali mai colmate, infatti, il costo della logistica in Italia è fortemente superiore a quello degli altri maggiori Paesi europei e ciò ne penalizza fortemente la competitività a livello internazionale;
    le difficoltà sopra evidenziate non hanno impedito all'industria chimica italiana, attraverso gli importanti processi di riconversione di impianti non competitivi, di essere lo stimolo alla creazione di condizioni per ricadute positive a livello di occupazione, dell'ambiente, della redditività dei prodotti e dell'integrazione con la chimica tradizionale, dando nuovo impulso anche a settori maturi dell'economia;
    in linea con i più recenti indirizzi della Commissione europea in tema di bioeconomia, nel 2013 si è costituito, su impulso del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, il cluster tecnologico nazionale «Chimica verde», che si propone l'obiettivo di incoraggiare lo sviluppo delle bioindustrie in Italia attraverso un approccio interdisciplinare e globale all'innovazione. I soggetti aderenti al cluster vedono, nella costruzione di bioraffinerie di seconda e terza generazione integrate nel territorio e dedicate principalmente ai prodotti innovativi ad alto valore, un'opportunità per affermare un nuovo modello socio-economico e culturale, prima ancora che industriale, dando una corretta priorità all'uso delle biomasse, nel rispetto della biodiversità locale e delle colture alimentari e con la creazione di nuovi posti di lavoro;
    è opportuno, quindi, promuovere le tecnologie che valorizzino completamente le biomasse e che dimostrino di essere sostenibili e competitive. Questo evitando che i sussidi, se utilizzati in maniera errata, creino distorsioni di mercato, spreco di risorse pubbliche e alterino le condizioni di concorrenza tra i diversi comparti produttivi. Di fatto, l'industria chimica permette un utilizzo molto più efficace delle biomasse rispetto ad un utilizzo puramente energetico. Una corretta programmazione di filiera e una strategia che prevengano distorsioni della concorrenza e del mercato sono necessarie per applicare in modo oggettivo i criteri di sostenibilità fissati dall'Unione europea;
    nel quadro dell'iniziativa europea, dunque, la chimica delle biomasse è da considerarsi un tassello molto importante della chimica sostenibile e questo settore deve essere sviluppato in una logica complessiva che unisca biotecnologie, bioraffinerie, biocarburanti e bioprodotti chimici in modo coordinato;
    la filiera della plastica in Italia e in Europa ha grandissima importanza per numero di imprese, fatturato e occupati e vanta una forte tradizione in termini di innovazione;
    l'Italia è al terzo posto in Europa per numero di occupati, fatturato e valore aggiunto delle fasi di produzione e trasformazione delle materie plastiche, è il secondo mercato di consumo ed è il secondo produttore di macchinari, con eccellenze industriali e della ricerca, anche di livello mondiale;
    nel 2012, l'andamento del mercato delle materie plastiche in Italia è stato deludente. Complessivamente, la domanda di polimeri in forma primaria da parte dei trasformatori è stata di poco superiore alle 5.600 Kton (- 7 per cento rispetto al 2011). Le cause sono molteplici e sono da ricercarsi, oltre che nella contrazione dei consumi delle famiglie, nel ristagno del settore delle costruzioni, nel deludente andamento della produzione industriale e nei tagli agli investimenti in infrastrutture;
    in questo quadro critico la nota positiva per quanto riguarda la produzione di materie plastiche è rappresentata dalla cosiddetta chimica verde e dalla bioeconomia, con particolare riferimento alla conversione di siti non competitivi in bioraffinerie integrate nel territorio, funzionali alla produzione delle cosiddette bioplastiche e di altri prodotti ad alto valore aggiunto;
    nel merito, la Commissione europea ha lanciato, il 13 febbraio 2012, la prima strategia dedicata alla bioeconomia «Innovating for sustainable growth: a bioeconomy for Europe» (COM(2012) 60 final). Il peso economico del settore viene stimato dall'Unione europea con un fatturato di circa 2.000 miliardi di euro ed oltre 22 milioni di persone impiegate, che rappresentano il 9 per cento dell'occupazione complessiva dell'Unione europea. Viene, inoltre, stimato che per ogni euro investito in ricerca e innovazione nella bioeconomia, con adeguate politiche di sostegno a livello nazionale ed europeo, la ricaduta in valore aggiunto nei settori di comparti quali quello dei prodotti biobased sarà pari a dieci euro entro il 2025. In base a tale strategia, per mantenere la propria competitività l'Unione europea dovrà trasformarsi in una società caratterizzata da basse emissioni di carbonio, nella quale la crescita sostenibile e la competitività stessa siano alimentate sinergicamente da industrie che usano in modo efficiente le risorse e dal ricorso a prodotti biobased;
    la chimica verde rappresenta, dunque, un supporto prezioso per il rilancio della chimica italiana,

impegna il Governo:

   a favorire nuove iniziative per sostenere la competitività dell'industria chimica italiana;
   ad avviare una politica industriale finalizzata a riqualificare e reindustrializzare i poli chimici concordando i percorsi con le amministrazioni locali e regionali, dando come priorità la bonifica dei siti contaminati;
   a promuovere l'attuazione di percorsi di reindustrializzazione e di sviluppo nei settori della chimica fine, delle specialità e della chimica verde;
   a sviluppare una politica di forte sostegno all'innovazione, che veda la ricerca come elemento fondamentale, anche attraverso la destinazione di fondi e di incentivi;
   a mettere in campo strumenti, anche di natura normativa, finalizzati a ridurre il forte impatto negativo del costo dell'energia sulla produzione dell'industria chimica italiana, in particolare per i consumatori energy intensive, al fine di conservare il posizionamento competitivo;
   a procedere con tempestività alla bonifica dei siti chimici di interesse nazionale;
   a provvedere allo snellimento delle procedure burocratiche, con particolare riferimento alla riduzione degli oneri amministrativi, a tutela degli impianti e delle produzioni già esistenti e di quelli di nuova costituzione, con riguardo alla chimica fine e delle specialità, al fine di attrarre capitale e facilitare i nuovi investimenti sia italiani che esteri;
   a promuovere a livello europeo interventi normativi di supporto sia alle imprese sia ai poli chimici che siano in regola con le norme ambientali;
   a sostenere fortemente lo sviluppo delle bioindustrie in Italia, anche attraverso un approccio interdisciplinare e globale all'innovazione;
   a sostenere a livello europeo la public private partnership Bridge 20/20 (Biobased and renowable industries for development and growth), il cui obiettivo è quello di aiutare le industrie europee a colmare il «divario di innovazione» tra lo sviluppo tecnologico e la commercializzazione di prodotti ad alto valore aggiunto e cercare in questo ambito di valorizzare le azioni del cluster «Chimica verde», al fine di permettere un allineamento di azioni a livello nazionale ed europeo.
(1-00212)
«Brunetta, Vignali, Abrignani, Dorina Bianchi».
(21 ottobre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    come sempre la chimica, bene intermedio per eccellenza, si sta dimostrando come una cartina di tornasole dell'evoluzione del quadro congiunturale, che, nonostante alcuni segnali di ripresa, resta preoccupante;
    la crisi economica ha avuto un effetto dirompente sulla chimica. Guardando agli ultimi anni, dopo un 2012 in contrazione del 3 per cento in valore e del 5 per cento in volume, la produzione chimica nazionale non mostra ancora segnali di stabilizzazione: la fase di recupero ad inizio 2013, infatti, si è rivelata solo temporanea e la prima parte del 2013 segna un calo del 3,3 per cento in volume, in presenza di prezzi pressoché stazionari;
    a pesare in modo determinante sul settore è la caduta della domanda interna, che coinvolge praticamente tutti i settori chimici, comprese le filiere connesse ai consumi finali (detergenti, cosmetici, alimentare e imballaggio), le quali avevano superato quasi indenni la recessione del 2008-2009. Il crollo della domanda interna si riflette anche sulle importazioni, che, nei primi quattro mesi del 2013, hanno perso il 2,8 per cento in valore, dopo aver chiuso il 2012 con un calo del 2,3 per cento;
    ad incidere sull'industria chimica italiana è il ridimensionamento di importanti settori utilizzatori, come l'auto e le costruzioni, nonché i crescenti problemi di liquidità di molte imprese clienti, che spingono molte di esse a ritardare i pagamenti nei confronti dei loro fornitori;
    il prolungarsi della recessione a livello europeo ha frenato le esportazioni, tenuto conto che l'Unione europea rappresenta il mercato di destinazione di oltre il 60 per cento delle esportazioni chimiche italiane. Un positivo andamento si registra, invece, nel mercato extraeuropeo. In sofferenza è principalmente la chimica di base, mentre si confermano in espansione i settori della chimica fine e specialistica;
    con particolare riferimento ai comparti della chimica che vendono al made in Italy, oltre alla situazione di crisi attuale, pesano gli aspetti strutturali legati al decentramento degli insediamenti industriali; strategia questa che ha comportato una riduzione della domanda da parte dell'industria, con conseguenze assolutamente dannose per la produzione e l'occupazione;
    lo scenario economico descritto e le dinamiche in atto nel Paese hanno determinato una revisione al ribasso delle stime di crescita per il 2013. Infatti, contrariamente alle buone aspettative iniziali, il 2013 si chiuderà con un altro arretramento della produzione chimica in Italia intorno al 2 per cento in volume e valutabile nell'1,5 per cento circa in valore;
    a tale situazione si aggiunge il costo dell'energia, tra i più alti in Europa, che è ormai divenuto insostenibile per le aziende di settore, specie per quelle legate alla chimica di base, rappresentando una delle principali cause della loro perdita di competitività nei confronti delle concorrenti europee ed estere;
    le drammatiche vicende della Vinyls Italia hanno lasciato un segno sulle possibilità di ripresa del comparto. Il gruppo chimico del ciclo del cloro, unico produttore in Italia di pvc, da quattro anni in amministrazione straordinaria, è ora in esercizio provvisorio, con 500 addetti ripartiti nei tre stabilimenti di Porto Torres, Porto Marghera e Ravenna, ad esclusione dell'indotto. La vertenza Vinyls è divenuta ormai il simbolo della crisi della chimica italiana e, più in generale, riflette la mancanza di un'organica azione politica di rilancio del sistema industriale del Paese;
    i processi di riconversione di impianti industriali non competitivi, che nel caso di Vinyls Italia hanno portato all'apertura di un negoziato con l’Oleificio Medio Piave, società che svolge attività di estrazione dell'olio vegetale da semi oleosi, potrebbero aprire la strada alla realizzazione di importanti progetti industriali ed occupazionali di grande impatto per l'economia del Paese;
    la regione Lombardia ha promosso con successo l'adozione di accordi di sviluppo territoriale per favorire l'insediamento di nuove attività di impresa nelle aree industriali dismesse, realizzando diversi interventi, sia di carattere finanziario che di semplificazione amministrativa, per attrarre e mantenere sul territorio le attività e le risorse necessarie alla crescita e allo sviluppo dello stesso;
    è impensabile che l'Italia rinunci al suo ruolo da protagonista nel settore della chimica, perdendo il valore strategico di questo importante comparto, fondamentale per riportare il Paese su più alti livelli competitivi;
    dopo gli interventi di politica economica funzionali ad evitare un avvitamento della crisi, è necessario adottare quanto prima strumenti di politica industriale che siano in grado di salvaguardare le imprese del territorio e l'occupazione,

impegna il Governo:

   a realizzare una politica industriale per la riqualificazione e la reindustrializzazione dei poli chimici, concordando con le regioni e gli enti locali i percorsi da attuare, anche sulla base delle positive esperienze realizzate a livello territoriale, che abbiano come priorità la bonifica dei siti contaminati;
   ad adottare iniziative di rilancio della chimica italiana, promuovendo la realizzazione degli investimenti necessari a restituire competitività al settore ed evitando il ripetersi di scenari simili a quelli verificatisi nella vicenda Vinyls, dove è a rischio il futuro di molti lavoratori;
   a sostenere la competitività delle produzioni italiane attraverso l'adozione di misure di riduzione del costo dell'energia, riportandolo sui livelli degli altri Paesi concorrenti;
   ad assumere iniziative per orientare le imprese verso un'attività di ricerca scientifica strutturata con l'adozione di incentivi automatici e di programmi specifici;
   a sostenere in sede europea interventi normativi a sostegno di imprese e di poli chimici che rispettino le norme ambientali, evitando delocalizzazioni e trasferimenti in Paesi meno rigorosi nella regolamentazione ambientale e adottando incentivi, anche di natura fiscale, in favore delle imprese che stabiliscano i loro insediamenti in Italia;
   ad adottare opportune iniziative per la semplificazione del quadro normativo di riferimento al fine di restituire maggiore competitività alla imprese della chimica italiana, al pari degli altri Paesi europei.
(1-00213)
«Rondini, Prataviera, Guidesi, Allasia, Attaguile, Borghesi, Bossi, Matteo Bragantini, Buonanno, Busin, Caon, Caparini, Fedriga, Giancarlo Giorgetti, Grimoldi, Invernizzi, Marcolin, Molteni, Gianluca Pini».
(21 ottobre 2013)

   La Camera,
   premesso che:
    la chimica italiana ha una lunga storia fatta di numerosi insediamenti industriali sparsi in tutta la penisola oltre che di ricerca e sviluppo ai massimi livelli, basti pensare al premio Nobel Natta che inventò nel 1963 il polipropilene isotattico ed il polietilene ad alta densità;
    a livello mondiale questo comparto rappresenta ancora una realtà industriale dinamica, con un mercato di oltre 3.000 miliardi di dollari;
    oggi si vive una contraddittoria dicotomia: da un lato la chimica mondiale che è in sviluppo grazie, soprattutto, ai crescenti consumi globali di prodotti chimici nei Paesi emergenti, dall'altro l'Europa, e l'Italia in particolare, che vede sempre maggiori difficoltà per il comparto;
    il continuo sviluppo del settore, a livello globale, è legato all'effetto traino della domanda crescente nei cosiddetti Paesi emergenti in cui si è sviluppata rapidamente una fiorente industria chimica, là dove, congiuntamente ad un ridotto costo del lavoro, è possibile, in alcuni casi, disporre di materie prime – in particolare di petrolio – ed energia a costi estremamente competitivi;
    in Europa, invece, il prezzo del greggio ha ormai raggiunto stabilmente prezzi superiori ai 100 dollari al barile, che tenderanno verosimilmente ad aumentare ancora nei prossimi anni grazie alla crescente domanda di energia e di consumi in Paesi, quali Cina, India, Brasile ed altre economie emergenti, penalizzando al contempo l'industria chimica comunitaria e nazionale che utilizza proprio il greggio come materia prima, la cosiddetta petrolchimica;
    è opportuno ricordare che proprio la petrolchimica ha comportato ingenti danni ambientali e di salute in diverse località italiane, come Porto Marghera, Porto Torres, Gela e Priolo. I territori delle città sopra menzionate hanno avuto una media di mortalità della popolazione per malattie tumorali ben al di sopra di quella nazionale;
    in Italia non esiste ad oggi un quadro completo e aggiornato a livello nazionale dello stato di attuazione degli interventi di bonifica. A ciò si aggiunge un quadro di applicazione della normativa vigente particolarmente vasto e complesso, nel quale sarebbe auspicabile un processo di semplificazione, al fine di accelerare le attuali procedure amministrative, la cui farraginosità sta rallentando ulteriormente l'attuazione degli interventi stessi;
    nell'ambito di un riordino normativo della materia, con l'articolo 2 del decreto-legge n. 208 del 2008 sulle risorse idriche – convertito, con modificazioni, dalla legge n. 13 del 2009 – è stata introdotta una procedura alternativa a quella previgente in materia di copertura di oneri di bonifica e risarcimento del danno ambientale nei siti di interesse nazionali. La novità ha riguardato l'introduzione della stipula di contratti di transazione con le imprese direttamente interessate, in ordine al rimborso degli oneri di bonifica e di ripristino di ogni ulteriore azione risarcitoria per il danno ambientale;
    attualmente sussiste una prioritaria esigenza di alleggerimento e riordino della normativa e della procedura amministrativa di bonifica, a cui deve associarsi la necessità di garantire che le attività di vigilanza e di controllo sulle relative operazioni nei siti siano svolte da strutture e da realtà adeguate e competenti;
    da un punto di vista industriale e sanitario, i procedimenti di riciclo e recupero meccanico della plastica potrebbero rappresentare una grande opportunità di rilancio dell'intero comparto industriale del nostro Paese;
    dai sopra citati procedimenti la plastica da «rifiuto» non può che diventare «risorsa». Esempi dei prodotti derivanti dai procedimenti chimici possono essere polimeri, come il polietilentereftalato (pet, utilizzato per esempio per contenitori per liquidi o vaschette per frigo o forno), il polietilene ad alta densità (hdpe, utilizzato per esempio per imballaggi o tubazioni agricole) e il polietilene a bassa densità (ldpe, utilizzato per esempio per sacchetti, contenitori o materiali plastici di laboratorio);
    oggi il 55 per cento della plastica usata viene riciclata mentre il restante 45 per cento incenerita. Con le attuali procedure di riciclo e trasformazione si potrebbe arrivare al recupero della quasi totalità della plastica raccolta con la differenziata;
    altra problematica del mercato della plastica è il cosiddetto contributo Conai (Consorzio nazionale imballaggi). I produttori, infatti, devono pagare circa 110 euro per ogni tonnellata di plastica prodotta al consorzio (non molto, considerando che già nel 2010 il corrispettivo in Italia era di 160 euro per ogni tonnellata, la media dei Paesi dell'Unione europea era di 222 euro per ogni tonnellata, ma la media tra i principali Paesi europei era di 440 euro per ogni tonnellata), il quale a sua volta dovrebbe girare buona parte del contributo ai comuni per contribuire alle spese di gestione dei processi di raccolta differenziata;
    nel 2011, però, dei circa 800 milioni raccolti da Conai, solo 100 sono arrivati ai comuni. Il resto pare sia compreso in ipotetiche «spese di gestione». Quindi, solo il 37 per cento del totale raccolto da Conai va ai comuni, che rappresenta poi concretamente solo il 20 per cento delle spese di gestione della raccolta differenziata;
    in Francia, ai comuni arriva il 92 per cento del contributo corrispondente al nostro, che contribuisce a coprire i procedimenti di raccolta e riciclo per il 70 per cento dei costi;
    negli ultimi anni stanno emergendo sul mercato italiano e internazionale settori dell'industria chimica e plastica, che, al contrario di quelli riferiti al recupero e al riciclo, fanno sorgere perplessità sia riguardo i consumi delle materie prime, sia per il livello occupazionale raggiunto;
    dal punto di vista dei consumi è emblematico l'esempio delle cosiddette «bioplastiche», cioè le plastiche biodegradabili. Questo è un settore industriale che sta trovando in questi ultimi anni un notevole sviluppo nel nostro Paese, ma che necessita per la sua produzione di ingenti materie prime organiche, come l'amido di mais, per le quali si vedrebbe la necessità di dedicare grandi quantità di colture altrimenti destinate alla produzione alimentare. Si arriverebbe, quindi, alla situazione paradossale di completare sul territorio la filiera per la produzione delle bioplastiche, per poi importare materie prime, al fine di poter consumare prodotti tipici delle cucine locali italiane, come la polenta;
    dal punto di vista occupazionale, oggi tra gli addetti alla produzione e alla trasformazione vi è un rapporto di 1 a 50. Tali dati fanno pensare che sarebbe più conveniente investire sul recupero e la trasformazione dei prodotti plastici, piuttosto che partire dalla materia prima vergine;
    attualmente in Italia circa il 40 per cento dei 7 milioni di tonnellate di plastiche prodotte ogni anno è destinata agli imballaggi;
    difendere il livello occupazionale di questo settore industriale non può e non deve significare mantenere invariata la produzione annuale di plastiche vergini, in quanto questo significherebbe minare ancora di più le filiere del riciclo locale e nazionale, contribuendo paradossalmente a fornire rifiuto agli inceneritori;
    pertanto, se la chimica da fonti rinnovabili o chimica verde potrebbe rappresentare una soluzione alla reindustrializzazione dei poli chimici nel medio e lungo periodo, se accompagnate a politiche di bonifica e di riciclaggio, nessuna obiezione, anche perché l'obiettivo della chimica verde è ridurre le emissioni di anidride carbonica in atmosfera, grazie all'affrancamento dalle fonti fossili come materia prima, nonché valorizzare le risorse del territorio, riducendo al contempo il peso dell’import di materie prime, come il greggio;
    prima di intraprendere degli investimenti è necessario verificare la validità tecnico-scientifica della cosiddetta chimica verde;
    tale definizione esiste da più di vent'anni, ma non vuol dire che in questo campo tutto sia stato fatto. Anzi, al contrario, quel che si può mettere in atto per rendere i processi produttivi in ambito chimico maggiormente «verdi» è ancora molto. Da un lato, le difficoltà tecnico-scientifiche rimangono forti e numerose: le tecnologie adottate fino a ora non sono state scelte a caso, ma al contrario sono state preferite ad altre perché più semplici e di maggior rendimento. Dall'altro, ci possono essere inevitabili resistenze di ordine economico: l'industria chimica deve per sua natura badare anche al risultato economico, che garantisce maggiori guadagni,

impegna il Governo:

   ad avviare un tavolo di concertazione nazionale a cui partecipino, oltre ai rappresentanti della grande e piccola industria chimica, anche le parti sociali, le università, i laboratori e gli istituti di ricerca, con l'obiettivo di definire un piano di sviluppo compatibile con le esigenze del comparto;
   ad adottare le misure necessarie per garantire che grandi e piccoli produttori chimici si facciano carico in applicazione del principio «chi inquina paga» delle operazioni e delle spese economiche legate alla bonifica dei siti utilizzati per la produzione, impedendo, al contempo, qualsiasi forma di agevolazione del passaggio di proprietà del sito stesso prima che siano state completate le operazioni di recupero ambientale;
   a sostenere la «chimica verde» in ossequio alla strategia della biochimica lanciata dalla Commissione europea, con l'istituzione di un tavolo tecnico presso il Ministero dello sviluppo economico che ne analizzi la validità tecnico-scientifica, al fine di individuare gli interventi più efficaci per lo sviluppo di tecnologie semplici e di maggior rendimento per la riconversione dei poli chimici;
   a realizzare un piano di investimenti per il sostegno della ricerca pubblica e privata nel settore della chimica verde, con particolare attenzione alla necessità di promuovere sinergie tra discipline diverse, quali l'ingegneria, la chimica, le biotecnologie, l'agraria e la biologia;
   ad intraprendere ogni iniziativa per accelerare i processi di bonifica dei siti chimici di interesse nazionale, concordando i percorsi con gli enti locali e le regioni;
   ad individuare nuove linee di sviluppo industriale del Paese, in particolare nel campo della cosiddetta green economy, dell'ecoinnovazione e dell'efficienza energetica, dei nuovi materiali, delle bioingegneria e della nuova chimica verde, facilitando la nascita di piccole e medie imprese nel campo ed incentivando le imprese al passaggio a produzioni maggiormente sostenibili ed eco-efficienti.
(1-00214)
«Crippa, Da Villa, Fantinati, Prodani, Mucci, Vallascas, Della Valle, Petraroli, Nuti».
(21 ottobre 2013)