XVIII Legislatura

XII Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 5 di Mercoledì 24 ottobre 2018

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Lorefice Marialucia , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULL'ATTUAZIONE DELLA LEGGE 15 MARZO 2010, N. 38, IN MATERIA DI ACCESSO ALLE CURE PALLIATIVE E ALLA TERAPIA DEL DOLORE, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALL'AMBITO PEDIATRICO

Audizione della professoressa Franca Benini, responsabile del Centro regionale Veneto di terapia del dolore e cure palliative pediatriche.
Lorefice Marialucia , Presidente ... 3 
Benini Franca , responsabile del Centro regionale Veneto di terapia del dolore e cure palliative pediatriche ... 3 
Lorefice Marialucia , Presidente ... 7 
Trizzino Giorgio (M5S)  ... 7 
Carnevali Elena (PD)  ... 7 
Bond Dario (FI)  ... 8 
Siani Paolo (PD)  ... 8 
Trizzino Giorgio (M5S)  ... 9 
Lorefice Marialucia , Presidente ... 9 
Benini Franca , responsabile del Centro regionale Veneto di terapia del dolore e cure palliative pediatriche ... 9 
Lorefice Marialucia , Presidente ... 11 

Audizione di rappresentanti della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (FNOMCeO) e dell'Istituto superiore di sanità:
Lorefice Marialucia , Presidente ... 11 
Borromei Fulvio , presidente dell'Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri di Ancona ... 11 
Popoli Patrizia , direttore del Centro nazionale ricerca e valutazione preclinica e clinica dei farmaci dell'Istituto superiore di sanità ... 13 
De Santi Anna , primo ricercatore del Dipartimento di neuroscienze dell'Istituto superiore di sanità ... 14 
Lorefice Marialucia , Presidente ... 17 
Trizzino Giorgio (M5S)  ... 17 
De Filippo Vito (PD)  ... 18 
Lorefice Marialucia , Presidente ... 18 
Borromei Fulvio , presidente dell'Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri di Ancona ... 18 
Popoli Patrizia , direttore del Centro nazionale ricerca e valutazione preclinica e clinica dei farmaci dell'Istituto superiore di sanità ... 19 
De Santi Anna , primo ricercatore del Dipartimento di neuroscienze dell'Istituto superiore di sanità ... 19 
Lorefice Marialucia , Presidente ... 20

Sigle dei gruppi parlamentari:
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Lega - Salvini Premier: Lega;
Partito Democratico: PD;
Forza Italia - Berlusconi Presidente: FI;
Fratelli d'Italia: FdI;
Liberi e Uguali: LeU;
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo Italiani all'Estero: Misto-MAIE;
Misto-Civica Popolare-AP-PSI-Area Civica: Misto-CP-A-PS-A;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Noi con l'Italia: Misto-NcI;
Misto-+Europa-Centro Democratico: Misto-+E-CD;
Misto-Noi con l'Italia-USEI: Misto-NcI-USEI.

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DELLA PRESIDENTE
MARIALUCIA LOREFICE

  La seduta comincia alle 14.05.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione della professoressa Franca Benini, responsabile del Centro regionale Veneto di terapia del dolore e cure palliative pediatriche.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sull'attuazione della legge 15 marzo 2010, n. 38, in materia di accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore, con particolare riferimento all'ambito pediatrico, della professoressa Franca Benini, responsabile del Centro regionale veneto di terapia del dolore e cure palliative pediatriche, che ringrazio per aver accolto l'invito della Commissione a intervenire all'audizione odierna.
  Pregherei la nostra ospite di contenere il proprio intervento entro dieci minuti, per dare modo ai deputati di porre delle domande, cui seguirà la replica. La professoressa Benini potrà consegnare alla segreteria di Commissione un documento scritto o farlo pervenire successivamente.
  Do quindi la parola alla professoressa Benini.

  FRANCA BENINI, responsabile del Centro regionale Veneto di terapia del dolore e cure palliative pediatriche. Tratterò esclusivamente di bambini, quindi terapia del dolore e cure palliative pediatriche. Vi rubo due minuti – so che avete già sentito molti miei colleghi – per centrare un po’ il problema. Non è una novità, ma certamente il cambiamento tecnologico che c'è stato in questo periodo ha determinato un calo importante della mortalità. La sopravvivenza dei bambini è aumentata di cento volte negli ultimi cento anni. Ma quello che ha determinato è anche la comparsa per i bambini, di nuovi bisogni assistenziali e di nuovi obiettivi di salute, che fino a qualche tempo fa non esistevano.
  Cominciamo a parlare ora – è una cosa abbastanza recente – di terapia del dolore e di cure palliative legate all'età pediatrica. Ebbene, la legge n. 38 risponde a questi bisogni, e risponde direi abbastanza bene, perché dà dei messaggi molto chiari. Il bambino è diverso dall'adulto e per la prima volta troviamo scritto che anche il minore ha diritto all'accesso alla terapia del dolore e alle cure palliative pediatriche. È la prima legge in Europa. Essa contiene anche degli accenni di tipo organizzativo che sono sicuramente all'avanguardia. Infatti, viene riconosciuta dall'ONU, per quanto riguarda le cure palliative pediatriche, una model law.
  Dolore: il 100 per cento dei bambini percepisce dolore. I feti, dalla ventitreesima settimana di gestazione, lo sentono. Prevalenza altissima: nell'80 per cento dei ricoveri negli ospedali i bambini hanno dolore, 60 per cento dei bambini che arrivano in pronto soccorso, 40 per cento dei bambini che arrivano dal pediatra di famiglia o dal medico di medicina generale.
  Sintomo pericolosissimo, perché un dolore non trattato nelle prime età della vita modifica la struttura del sistema nervoso Pag. 4centrale e periferico. Quindi, avremo degli adulti con delle caratteristiche di soglia algica completamente diverse. Il bambino quindi percepisce il dolore ed è drammaticamente pericoloso, e gli effetti si vedono a distanza.
  Abbiamo gli strumenti per correggere questa situazione? Sì. Nel 99 per cento dei casi, se noi siamo in grado di fare la diagnosi, riusciamo a togliere tutte le problematiche collegate al dolore. Quindi, è un problema che esiste, per il quale però esistono gli strumenti, nella quasi totalità dei casi.
  Cure palliative pediatriche. La definizione la salto perché penso che l'abbiate sentita più volte. Quello che vi voglio dire è che stanno aumentando i bambini, perché la sopravvivenza dei feti sta aumentando, ma trascina con sé un numero elevato di problematiche sensoriali e di handicap cognitivi neuromotori, e questo spostamento del limite si ha a tutte le età, con tutte le patologie. Quindi, si crea una popolazione di bambini che sono multiproblematici, difficilissimi da gestire e che devono vivere a casa. Sono bambini che hanno un rischio di ingresso in ospedale 300 volte superiore rispetto a un bambino sano. Le cure palliative non sono le cure dei bambini che stanno per morire, ma sono le cure dei bambini che hanno un'altissima problematicità assistenziale e che sono gravati da una patologia inguaribile.
  Vi dico questo perché c'è il grosso misunderstanding: cure palliative vuol dire che il bimbo sta per morire. No, ci occupiamo del tempo che il bambino e la sua famiglia vivono nell'inguaribilità.
  Vi fornisco i dati, ad esempio per la complessità assistenziale, del nostro centro. Abbiamo 150 bambini in linea ogni giorno; di questi, il 66 per cento ha una disabilità intellettuale, il 74 ha disturbi motori, più del 50 per cento dipende dalle macchine per respirare o per mangiare, quasi tutti hanno una protesica e più del 90 per cento ha dolore.
  Quanti sono i bambini? Sono tanti. In Italia sono più di 30.000, ma a parte questo è un trend in continuo aumento. Uno studio evidenzia come il trend negli ultimi dieci anni sia in aumento e lo sia soprattutto in una popolazione dai 5 anni in su, perché da 5 anni in giù non avevamo le macchine per far sopravvivere questi bambini.
  Le cure palliative risolvono molti problemi e danno qualità. A che punto è la legge n. 38? L'anno scorso abbiamo fatto uno studio e suddiviso il lavoro in quattro punti. Il primo: quante regioni hanno deliberato?
  Abbiamo valutato tutto quello che è uscito come delibere e abbiamo centrato la ricerca su quattro punti: È stata riconosciuta la rete? È stato riconosciuto il centro? Che tipo di risposta residenziale c'è? C'è un’équipe che va a casa? Praticamente il nucleo della legge.
  Ebbene, questi sono i numeri: diciassette regioni hanno approvato la normativa, ma declinata in maniera abbastanza eterogenea; soprattutto le risposte residenziali sono state deliberate in sette e l'assistenza domiciliare è ancora notevolmente ridotta. Abbiamo quindi una grossa disomogeneità e non è riconosciuto il principio della peculiarità.
  Non ci siamo accontentati e siamo andati a vedere quante di queste delibere fossero veramente attuate, e questo è stato un lavoro fatto telefonicamente, con delle verifiche multiple. I numeri calano ulteriormente: degli hospice che erano stati declinati in sette regioni, ne sono stati attuati quattro; quello che era stato definito come un'assistenza domiciliare specialistica in sette, viene realizzata in sei. Quindi, abbiamo un trend in peggioramento. Molte delibere, pur fatte in maniera eterogenea, non sono mai state applicate.
  Abbiamo dieci regioni che non hanno la rete di cure palliative; solo tre regioni e le due province autonome hanno una rete che funziona. Nelle altre regioni la rete è a macchia di leopardo. In tutto, attualmente in Italia ci sono 20 posti per 30.000 bambini di risposta residenziale in cure palliative pediatriche.
  Dove vanno questi bambini? Li abbiamo cercati all'interno degli hospice e del servizio per gli adulti, perché molti dicono che le strutture per gli adulti possono occuparsene. È un gravissimo errore: è come Pag. 5se avessimo bisogno di un estremo specialista per questo tipo di situazioni e lo affidassimo a uno specialista generalista ma che si occupa d'altro. I risultati, come vedete, sono banali; sono numeri del 2016-2017. L'accesso è del 5 per cento dei bambini eleggibili; il numero sale se si comprende come cure palliative solo l’end of life. Su ogni bambino che muore ce ne sono circa trenta eleggibili alle cure palliative. Pertanto, è riduttivo parlare di end of life.
  Abbiamo quindi valutato se questi bambini finivano nel circuito degli adulti. Purtroppo, o per fortuna nella mia visione, no. Quindi, la maggior parte dei bambini resta in ospedale, con dei ricoveri lunghissimi e circa il 50 per cento in ambito critico. Questo significa che vivono in terapia intensiva, pediatrica quando va bene, dell'adulto quando va male. Purtroppo i centri non ci sono, c'è una grave mancanza di risposte assistenziali.
  Quali sono le criticità di questa situazione? Abbiamo il problema, abbiamo una legge che molti Stati ci invidiano, probabilmente abbiamo anche un po’ di risorse. Perché non l'applichiamo? Ho fatto uno studio con l'Istituto superiore di sanità l'anno scorso per cercare di mettere insieme più visioni e capire dov'era il buco nero. Poi abbiamo approfondito il percorso in ambito formativo.
  È uscito anche un rapporto ISTISAN. Le barriere sono state identificate a quattro livelli. Il primo è culturale, il secondo è certamente dato dalla difficoltà della situazione, il terzo è focalizzato sulla formazione, il quarto sulla mancanza delle risposte da parte delle regioni.
  Il contesto socioculturale è innegabile. C'è un'attitudine a considerare la medicina come capace di risolvere qualsiasi problema, soprattutto se si tratta di un bambino. Purtroppo non è così. Esistono molti bambini che non guariscono ancora e c'è una carenza assoluta di informazioni.
  C'è un'indagine fatta sulla popolazione; quello che deve farci pensare è che un italiano su quattro, il 23 per cento, pensa che un bambino non sia in grado di percepire il dolore se non al di sopra dei sette anni e non sappia capire neanche l'entità della sofferenza di una malattia inguaribile. Abbiamo un grosso problema: faccio fatica a lasciar perdere il paziente, mio figlio, perché credo che la medicina sia invincibile e annullo la sua capacità di percezione.
  Provate a vedere quali sono state le fonti informative relative alle cure palliative: televisione, parenti e amici. Dobbiamo lavorare moltissimo sull'informazione attraverso chi fa questo lavoro. Sicuramente il bambino è un paziente complesso da tutti i punti di vista. Abbiamo tre attori: il bambino, la famiglia e il team.
  Il bambino – è inutile dirlo – ha un ruolo ancora banale in queste scelte. E la famiglia? La famiglia ha fatto un cambiamento drammatico e paga un conto altissimo. Abbiamo visto che una famiglia con questo genere di bambini ha nove ore al giorno di gestione del problema sanitario. È una famiglia che paga un costo sociale enorme, se non coperta dalle cure palliative, sia come rottura del nucleo, sia come rinuncia al lavoro da parte della madre o cambiamento totale delle prospettive future. È una famiglia che deve essere edotta e formata sulla gestione.
  Formazione. Il grosso problema è l'assoluta carenza di formazione nel percorso curricolare e molto spesso chi ha le competenze non può formare. C'è, quindi, una scarsa richiesta di entrare in questo circuito sia come persona che vuole essere formata sia come persona che può lavorare. Abbiamo, quindi, valutato brevissimamente l'entità del numero di ore dedicate a questi due obiettivi, dolore e cure palliative in ambito pediatrico, nel percorso di formazione dei medici durante la specialità e anche nel percorso infermieristico. Questi dati sono recentissimi, si focalizzano sull'anno accademico scorso, quindi 2017-2018. Uno su due sente parlare di cure palliative, quasi nessuno in ambito pediatrico, ma quasi esclusivamente nell'ambito della medicina legale oppure in percorsi opzionali. Il tempo medio dedicato è di quattro ore in sei anni. Capiamo che questo è drammaticamente insufficiente.
  Purtroppo le cose non cambiano nell'ambito dei cinque anni di specialità. Abbiamo Pag. 6 finito da pochissimo un'indagine su 37 scuole di specialità in Pediatria in Italia. Abbiamo fatto molta fatica a farci rispondere. Solo il 37 per cento delle referenti delle scuole di formazione ci hanno risposto e tutte ritengono che sia inderogabile una formazione in questi campi.
  Osservando quello che viene fatto nelle varie scuole di specializzazione, vediamo che solo una scuola permette alle persone di formarsi, dà un tutoraggio e permette di avere anche un anno per fare questo tipo di percorso. Succede che i pediatri non sanno che cosa sono le cure palliative. Un'indagine, fatta su un larghissimo numero di pediatri, mostra che solo il 18 per cento sa che cosa significa cura palliativa. In quel periodo abbiamo fatto anche un'indagine su un gruppo di persone che andavano al supermercato. La risposta era analoga: 18 per cento.
  A livello infermieristico le cose vanno un po’ meglio. Nove scuole su quarantotto parlano di cure palliative, nessuna parla di bambini. Poi ci sono i percorsi post-laurea. Ci sono tre università che fanno percorsi post-laurea, ma questi sono percorsi che costano moltissimo. Una scuola chiede 6.000 euro all'anno e le persone non hanno, molto spesso, né fondi, né tempo da poter dedicare a questa formazione super specialistica. Materiale ce n'è a iosa. Esiste un buonissimo documento che abbiamo fatto anche in Italia con la SICP (Società italiana di cure palliative). Abbiamo una carenza di offerta formativa e una carenza di persone formate. Chi paga il conto? Il paziente.
  Gli ultimi lavori, di quest'anno e dell'anno scorso, dicono che un bambino su quattro ha una valutazione corretta del dolore. Il trattamento del dolore in ospedale avviene in un caso su tre.
  Per quanto riguarda le cure palliative, questi sono dati italiani, come abbiamo visto anche dall'ultima valutazione, meno del 5 per cento dei bambini ha accesso alle cure palliative. C'è una grossa variazione in rapporto alla patologia in causa. Sono più «fortunati» i bambini oncologici di quelli non oncologici. Gli oncologici rappresentano solo il 18 per cento dei nostri bambini. Tutti gli altri sono una miscellanea di bambini con problemi neurologici. L'accesso dipende dalla residenza, se un bambino abita al nord è più fortunato, e dipende dall'età, i bambini piccoli non hanno le cure palliative e cominciano ad averle dai dodici anni in su.
  È una questione di soldi? No. La letteratura è chiara: non è una questione di soldi. Se si fanno dei programmi a lungo termine, di tre o sei anni, si abbattono i numeri di ricoveri. Vi porto solo la nostra esperienza in Veneto, super velocemente, dove questa attività c'è già ormai da molti anni. Abbiamo un calo drammatico dei ricoveri: da 9,7 ricoveri all'anno arriviamo a 0,6 ricoveri all'anno di bambini presi in carico. Abbiamo un calo di giornate passate in terapia intensiva. Abbiamo la presenza in ambito scolastico sociale. Se tirate fuori un bambino dalla socialità è morto. Questo è un suo diritto, così come è un diritto avere un adeguato controllo del dolore, che avviene nel 73 per cento dei casi. La ripresa del lavoro della madre, anche questo è un diritto, è avviene nel 64 per cento dei casi.
  Quali sono le mie proposte? Un po’ sorrido a darvele. Non ho nessuna possibilità di dirvi che cosa si deve fare. Vi do delle idee che non so neanche se siano attuabili. Perché non pensare di mettere delle risorse dedicate solo all'ambito pediatrico? Perché quando c'è il grande calderone è logico che la numerosità vince. I bambini fortunatamente sono pochi, ma non devono pagare il conto del fatto che sono pochi. Chi se ne occupa deve avere un riconoscimento dei ruoli. Dobbiamo imparare a misurarci di più. Quasi nessuno inserisce i dati nei flussi ministeriali. Solo così possiamo dire se lavoriamo bene o lavoriamo male. Perché non applicare tutti gli indicatori? Poi, logicamente, c'è la condivisione, la ricerca.
  Un'ultima parola la vorrei spendere sulla formazione e sull'informazione. Penso che la chiave di volta sia informare la gente – non si deve aver paura di parlare di queste cose – e permettere di fare informazione e formazione durante la parte curricolare della formazione degli operatori della salute e soprattutto permettere che questa Pag. 7formazione venga fatta da chi fa questo lavoro e non da chi magari si propone di fare una lezione soltanto per fare.
  In questa scala di maturazione noi certamente il primo gradino lo abbiamo fatto. Dobbiamo salirne molti altri perché questo diventi veramente un diritto. Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie, professoressa Benini.
  Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  GIORGIO TRIZZINO. Ringrazio la professoressa Benini. Sono molto lieto di averla voluta qui, perché sapevo che la sua presenza sarebbe stata dirimente rispetto alle audizioni che abbiamo già effettuato nei giorni passati. Io le chiederei soltanto una cosa, ma non voglio una risposta, perché le rivolgo subito un'altra domanda: questo Paese si merita le cure palliative? Si merita le cure palliative pediatriche dopo quello che abbiamo visto in questi trent'anni, dopo il disinteresse che continua a persistere anche all'interno della classe politica?
  Non le faccio questa domanda, ma gliene faccio un'altra: il nostro Paese si può permettere le cure palliative pediatriche non avendo attuato ancora la rete per gli adulti? Perché – lo dica – non può una rete per adulti, un operatore che si occupa di adulti la mattina, il pomeriggio trasformarsi in un assistente per un bambino? Perché non lo può fare e non deve farlo? Qual è la soluzione? Certo, le quattro indicazioni che lei ci pone sono fondamentali, però pragmaticamente, per essere operativi il più velocemente possibile, come si potrebbe arricchire una rete per adulti di competenze pediatriche, ove le regioni non siano ancora in grado di strutturare hospice pediatrici?
  Inoltre, quegli hospice che si dichiaravano presenti erano censiti, ma non erano degli hospice. Qual era la ragione? Che cosa avete trovato in questi altri? Sub-intensive, rianimazioni? Questa è la domanda.

  ELENA CARNEVALI. Anch'io ringrazio davvero molto della illuminante, dettagliata e particolarmente realistica fotografia che ci ha dato del quadro italiano in riferimento alle cure palliative pediatriche, soprattutto per aver chiarito a questa Commissione non solo quanto ci sia da fare, e anche darci degli indirizzi, ma anche sottolineare come ancora purtroppo nel nostro Paese non ci sia assolutamente coscienza della necessità e della peculiarità che va riconosciuta al paziente pediatrico, che non può essere in qualche modo sovrapposto a quello adulto.
  Pongo alcune domande. La prima riguarda il passaggio dove giustamente diceva che c'è un problema di coscienza collettiva sociale. Il problema non può essere relegato esclusivamente alla dimensione clinica o sanitaria, quella per cui la conoscenza del dolore precoce, come ci ha detto, ha un'incidenza non solo sullo sviluppo cognitivo, ma anche sulle funzioni periferiche del nostro sistema nervoso.
  Va bene l'informazione e la formazione. Io continuo a toccare questo tasto che riguarda in particolare il rapporto, il primo elemento fiduciario che la famiglia incontra quando si trova a confrontarsi con un bambino inguaribile, e noi tutti purtroppo lo confondiamo con il paziente oncologico: il primo accesso avviene con i pediatri di famiglia. Al netto del fatto che c'è un'obbligatorietà formativa sia per i medici di base sia per i pediatri di libera scelta, perché non riusciamo ancora, ad oggi – sono tutte figure contrattualizzate con il Servizio sanitario nazionale – a definire, a individuare, a livello ministeriale, degli obiettivi formativi, valutati possibilmente, in modo che ci sia una conoscenza di base diffusa – vale tanto per i medici di base, quanto per i pediatri – in modo che la prima figura che una famiglia incontra sia una persona formata. Quello che ci siamo sentiti dire oggi qui da lei non diventa patrimonio di questa Commissione, ma diventa patrimonio collettivo, almeno delle famiglie che sono coinvolte.
  Seconda questione. Giustamente, lei ci ha comunicato l'impatto dell'incidenza che hanno la cura e l'accompagnamento per la famiglia, spesso per le donne, di un bambino incurabile. A mio parere, qui abbiamo Pag. 8ancora dei buchi, perché noi costringiamo davvero le donne e la famiglia a dei calvari. Non sono solo calvari legati all'insufficienza, di cui parlerò dopo (mi prenderò due minuti, abbiate pazienza), ma anche a ciò che eventualmente serve ancora oggi per non costringere le famiglie, le donne a decidere se occuparsi del figlio o essere tutelate anche sulla parte previdenziale – questo discorso vale anche per gli uomini – relativa al lavoro.
  Lei giustamente ci ha fatto vedere che – forse non abbiamo mai avuto l'occasione di approfondire il punto in modo così accurato – anche quando si indicano le reti in alcune regioni come queste non esistano. C'è sempre il tema che riguarda la materia concorrente: come il piano organizzativo e programmatico affidato alle regioni, quindi come il livello centrale può condizionare la realizzazione degli obblighi. Come lei diceva, non è solo una questione di natura economica. È giusto riservare risorse nell'ambito pediatrico, ma perché in qualche modo si possa essere più cogenti.
  L'ultimissimo tema riguarda la domiciliarità. L'obiettivo che credo di avere inteso è che, quando non serve, è inutile stare in ospedale. Noi abbiamo un problema enorme, ossia trovare il modo per abbattere le infezioni ospedaliere. Spesso, soprattutto per questi pazienti, a parte quelli che sono particolarmente immunodepressi o che devono stare in stanze particolari, non è necessariamente l'ambiente adatto. Gli strumenti all'interno dei livelli essenziali di assistenza prevedono l'ospedalizzazione a livello domiciliare, ma prevedono anche le cure intensive sulla base dei centri di valutazione. Io non ho ancora capito perché questa cosa non succede. Noi abbiamo gli strumenti normativi, magari insufficienti, ma quei 600 milioni alle regioni li abbiamo già dati per fare questo. Vorrei sapere il motivo, chi controlla e come possiamo fare per poter passare dal piano legislativo al piano della pratica.

  DARIO BOND. Ringrazio la dottoressa per la sensibilità e anche per la grande semplicità nell'esporre i dati, che molte volte possono essere anche di difficile comprensione.
  Con riferimento all'ultimo intervento, vorrei rivolgere una domanda e fare una breve considerazione. Molte delle questioni che lei ha portato alla nostra attenzione sono risolvibili attraverso un'azione delle regioni. Nella programmazione sociosanitaria – voglio proprio soffermarmi sul termine «sociosanitaria» – l'attenzione è stata dedicata molto all'adulto e poco al bambino.
  Ultimamente nelle regioni si sta diffondendo – parlo della mia regione, che sta facendo il nuovo Piano sociosanitario – una trasformazione del rapporto tra regione, programmazione sanitaria e pediatra. In qualche maniera, si vuole trasformare il rapporto con il pediatra. Siccome ci sono pochi pediatri, l'intenzione è quella di utilizzarli meglio, inglobandoli in una sorta di collaborazione continuativa h24.
  La domanda che le pongo è la seguente: quale stimolo può dare il ministero, lo Stato alle regioni perché si possa costruire effettivamente una rete? Lei faceva riferimento a tre regioni piccole più le due province autonome. Se mi rifaccio ai dati dell'adulto, invece, ho una dimensione completamente diversa, ho una legislazione completamente diversa di alcune regioni, ad esempio la mia, il Veneto, che è una delle regioni più avanzate da questo punto di vista.
  Questa Commissione, questo Parlamento, il Senato, il Governo cosa possono fare per le regioni, per portarle ad un ragionamento di costruzione di questa rete? Il tutto non può essere lasciato sempre alla libera iniziativa di un singolo assessore, di un gruppo di pediatri o di un gruppo di genitori che, sensibilizzati da una grave malattia, bussano alla porta del politico di turno. Non può essere. Se così è, noi non siamo una Repubblica, ma siamo un'associazione di poteri.
  Le chiedo: qui, in questa Commissione, con questo Governo, che azione possiamo fare? Forse lei mi risponderà che non è compito suo, ma le chiedo una risposta dal punto vista tecnico, non dal punto di vista della tecnica legislativa.

  PAOLO SIANI. Ti ringrazio moltissimo di essere venuta e di averci fornito questa Pag. 9bella panoramica. Ti rivolgo una domanda semplice. Io sono convinto che servano formazione e informazione. La formazione che abbiamo fatto nel 2014 è terminata. Vorrei sapere che esiti ha avuto, perché si è fermata e perché l'informazione che di fatto c'è stata per un periodo si è fermata.

  GIORGIO TRIZZINO. Presidente, vorrei soltanto precisare che oggi a Roma inizia il Congresso mondiale di cure palliative pediatriche. La professoressa Benini è parte attiva di questo Congresso mondiale. Non a caso si celebra a Roma. Anche questo elemento ci deve servire per riflettere.

  PRESIDENTE. Grazie per l'informazione.
  Do adesso la parola alla professoressa Benini per replicare alle domande che le sono state poste.

  FRANCA BENINI, responsabile del Centro regionale Veneto di terapia del dolore e cure palliative pediatriche. Provo a rispondere. Quando non so rispondere, lo dico.
  L'Italia si può permettere le cure palliative pediatriche? Io dico «sì». Si deve permettere le cure palliative. È un Paese in cui esistono i pediatri di famiglia. È un Paese in cui esistono ospedali pediatrici dedicati. È solo un modello di lavoro diverso, dove gli ospedali escono, vanno a casa del paziente e si integrano completamente con quello che c'è sul territorio.
  Porto l'esempio della regione in cui lavoro. Non esistono più, per quanto riguarda le cure palliative pediatriche, ospedale e territorio. Esiste un team, un network. Il bambino, praticamente, prende da quel network ciò di cui ha bisogno. Il 90 per cento è a domicilio? Il nostro team va a casa. C'è bisogno di una risposta residenziale? C'è. Solo di esami? Il team lo manda all'ospedale di area, fa l'esame e viene valutato dal team. C'è bisogno di una risposta diversa, perché la situazione non permette la gestione del dolore? Siamo vicini a un cambiamento, ad esempio, di ventilazione? Viene in hospice.
  Penso che le risorse ci siano. Manca il know-how. Molto probabilmente, anzi sicuramente, secondo me, ci vuole un'organizzazione diversa delle risorse disponibili. Questo permette di valorizzare le risorse territoriali che alle volte dedichiamo a problematiche che possono essere risolte in maniera diversa.
  Ruolo delle cure palliative negli adulti. Noi abbiamo imparato dalle cure palliative degli adulti. I bambini arrivano sempre circa vent'anni dopo in ambito medico rispetto a quello che viene riservato agli adulti. Siamo partiti, secondo me, con un piede diverso. Gli adulti parlano e hanno parlato per molto tempo solo di oncologici. Noi, per forza di situazione, non potevamo permettercelo, perché gli oncologici da noi sono il 18 per cento. Quindi, abbiamo un numero enorme di patologie che hanno bisogno di cure palliative.
  Molto spesso per cure palliative si intende che metto una mano sulla spalla. No, sono ventilazione, dialisi peritoneale, cateteri centrali, tutto fatto in profonda analgesia e a casa. I bambini vanno con questi presìdi a scuola, escono con gli amici, escono con la morosa. Ritornano a una vita il più possibile normale.
  Il ruolo degli adulti? Certo, di partnership, ma a ciascuno il proprio lavoro. I bambini hanno patologie diverse rispetto all'adulto. Entro i ventitré anni il 97 per cento delle persone con patologie inguaribili chiudono la loro storia muoiono. Abbiamo, quindi, ambiti di intervento diversi che devono lavorare in partnership. L'ambito pediatrico deve essere gestito da chi fa questo lavoro.
  Parliamo dell’hospice; ho accennato a hospice deliberati, ma mai costruiti. In Italia ci sono delibere che prevedono l’hospice, ma che non sono partite. Esistono forme di hospice un po’ diverse rispetto a quanto definito nell'intesa raggiunta nella Conferenza del luglio 2012, che sono le ultime stanze nei vari reparti. L’hospice non è questo. Abbiamo un tempo medio di permanenza in hospice di quattro giorni. L’hospice è il trampolino di lancio per il domicilio. Il 75 per cento dei nostri bambini, se devono morire, muoiono a casa, non in hospice. Pag. 10
  Clinica sanitaria. Grazie per la sua domanda. Il pediatra di famiglia è centrale. Come si fa a cambiare il ruolo? Noi siamo stati valutati da un team esterno, perché ho pensato che, valutandoci noi stessi, avremmo potuto avere un occhio di riguardo. Abbiamo, quindi, chiesto a un gruppo di persone esterne di valutarci e di valutare anche l'opera del pediatra. In dieci anni di attività della rete, il pediatra è entrato nella gestione di questi pazienti dal 23 per cento al 75 per cento. Che cosa è stato fatto? Formazione, sono stati fatti alcuni percorsi, ma soprattutto tutoraggio. Se io facessi il pediatra di base e dovessi gestire un end of life o mettere su una terapia oppioide a domicilio, probabilmente non avrei gli strumenti. Se io, invece, ho un h24 telefonico medico, infermieristico e psicologico che mi guida e, magari, viene a casa ad aiutarmi, sono disposta a farlo. Quindi, va bene la formazione, ma soprattutto la rete deve avere un h24 aperto ai professionisti.
  È possibile definirlo negli obiettivi formativi? Certo, perché poi, secondo me, loro ci guadagnano in attitudine ed evitano di fare il pediatra di famiglia solo per curare le tonsilliti. Ho visto che i nostri colleghi, nel momento in cui entrano nella rete, fanno una richiesta continua di inserimento di altri pazienti.
  Ruolo della donna. È inutile dirlo, ma quando si presentano questi problemi la donna è la persona che sta a casa nel 97 per cento dei casi. Per questo motivo abbiamo inserito, come regione, l'indicatore di ripresa del lavoro della donna considerandolo uno degli indicatori di qualità. Come si fa? L'ipotesi, secondo me, più attuabile, a basso costo e ad alto rendimento è quella di, in maniera molto onesta, fare un grading del livello di bisogni. Non valutare in base all'etichetta, ma valutare in base al bisogno del paziente e della famiglia e sulla base di questo fornire aiuti economici per avere quella che noi chiamiamo «baby-sitter speciale», che viene formata e tutorata dal centro. Ha il nostro cellulare, è lei che accompagna a scuola il bambino e che sta a casa. Questo permette alla madre di acquisire fiducia. La scelta della persona viene operata dalla famiglia.
  Abbiamo fatto numerosi esperimenti e abbiamo visto che funziona. Perché non funziona l'infermiere, l'OSS (operatore sociosanitario) e tutto quello che io posso mandare a domicilio? Innanzitutto, infermieri non ce ne sono. Sono costosissimi. Contemporaneamente, quando mi viene detto che bisogna avere la targhetta per fare certi lavori, dobbiamo ricordarci che abbiamo 30.000 famiglie alle quali abbiamo chiesto, nell'arco di tre mesi, di diventare esperte nella gestione dell'estrema problematicità. Abbiamo esperienze di bambini che crescono con questa badante speciale. Entrano a scuola e se stanno male non hanno il problema che la mamma o il papà perdano il lavoro, ma riescono a rimanere a casa con questa persona. Penso sia possibile trovare un modello diverso rispetto a questo, dando l'acquisizione di servizi alla famiglia, senza lasciarla da sola, ma sotto la tutela di un centro che h24 risponde a questi servizi.
  Costi. Abbiamo fatto un'analisi molto banale dei costi, perché è difficilissimo farla. Fatto un confronto, un bambino costa ogni giorno in terapia intensiva dai 1.500 ai 1.800 euro, un'analisi dei costi fatta a domicilio in un bambino ventilato, un h24 con bisogno di trasfusioni, mettendo tutto insieme, non supera i 500 euro al giorno. Quindi, anche dal punto di vista dei costi potremmo offrire una qualità che è difficile da trovare in altre realtà.
  A livello regionale che cosa si può fare? Alle volte mi succede di sentire che una regione è più brava dell'altra. Io penso che la cosa più importante sia fissare degli obiettivi comuni, degli indicatori comuni, condividere le esperienze positive senza alcuna presunzione e condividere soprattutto gli errori, e su quegli indicatori fare degli esperimenti.
  Lo so che è un discorso abbastanza complicato e forse poco attuabile nella realtà, ma a livello regionale, secondo me, è necessario il monitoraggio di uno, due, tre indicatori. Bisogna cercare questi indicatori in ambito clinico. Sappiamo che la morte a domicilio non è più un indicatore valido. Possiamo trovarne insieme degli altri. Questi tre indicatori devono essere condivisi Pag. 11 come indicatori che io definirei di dignità più che di qualità delle cure, di dignità del paziente.
  Formazione e informazione. Sono anni che dico: fino a quando non metteremo sul bricco di latte che prendiamo la mattina una frase semplice che dice che i bambini, anche se malati, possono vivere benissimo, le cose faranno fatica a cambiare. Quando mi presentano come terapista del dolore il mio ruolo è definito, ma quando mi presentano come esperta di cure palliative pediatriche chiunque – per primi i genitori – ha paura.
  L'informazione, secondo me, è la chiave di volta perché obbliga gli operatori della salute e i programmatori della salute, con giuste richieste, a cambiare gli obiettivi di salute oppure a modularli. A questo deve far campo sicuramente la formazione. La formazione deve fare un salto, ne sono certa. La formazione deve essere fatta da chi fa il lavoro.
  Purtroppo non abbiamo attualmente la specialistica in cure palliative, quindi succede che chi fa una formazione in questo campo fa un altro lavoro. Io che sono lo studente, l'infermiere, lo psicologo lo capisco a naso chi fa il mio lavoro o chi non lo fa. C'è una chiusura per quanto riguarda il mondo accademico sull'ingresso delle cure palliative. Esistono nel mondo delle cure palliative molte persone che hanno tutte le possibilità e le caratteristiche per entrare nel mondo accademico, ma purtroppo in questo momento non è possibile.
  Penso, quindi, che anche in ambito formativo questo sia un ostacolo che valga la pena porre sul piano della discussione.

  PRESIDENTE. Grazie, professoressa Benini, per il suo contributo.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione di rappresentanti della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (FNOMCeO) e dell'Istituto superiore di sanità.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione di rappresentanti della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (FNOMCeO) e dell'Istituto superiore di sanità.
  Saluto i rappresentanti della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri, che ringrazio per aver accolto l'invito della Commissione a partecipare all'audizione: Fulvio Borromei, presidente dell'Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri di Ancona ed Enrico De Pascale, direttore generale della FNOMCeO.
  Saluto anche Patrizia Popoli, direttore del Centro nazionale ricerca e valutazione preclinica e clinica dei farmaci dell'Istituto superiore di sanità, e Anna De Santi, primo ricercatore del Dipartimento di neuroscienze.
  Pregherei i nostri ospiti di contenere il loro intervento entro dieci minuti per dare modo ai deputati di porre delle domande, cui seguirà la replica del soggetto audito, che potrà anche consegnare alla segreteria della Commissione un documento scritto o farlo pervenire successivamente.
  Do la parola a un rappresentante della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri.

  FULVIO BORROMEI, presidente dell'Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri di Ancona. Buongiorno. Innanzitutto vorrei salutare gli illustri onorevoli che mi ascoltano in questa circostanza.
  Vorrei portare un contributo in qualità di rappresentante della Federazione nazionale degli Ordini dei medici e come presidente anche di un Ordine. Sono presidente dell'Ordine di Ancona, componente del Comitato centrale e anche medico palliativista, in quanto fondatore di un hospice. Da sedici anni, quindi, mi occupo anche di questa disciplina.
  Sicuramente la legge n. 38 del 2010 ha portato all'attenzione della classe medica, ma non soltanto della classe medica, un tema estremamente importante, che io reputo possa essere un tema capace di realizzare quella che io chiamo e considero una rivoluzione etica.
  Che cosa voglio dire? I princìpi che vengono espressi in questa legge – legge che certamente rappresenta un percorso culturale e professionale di un Paese, l'Italia, Pag. 12 dove già questa disciplina si era affermata in varie parti del territorio e quindi viene riconosciuta nella sua interezza, nelle sue qualità – riguardano le cure palliative e le terapie del dolore, che io sintetizzerei con il concetto di prendersi cura. Questo può essere un elemento che può permettere una nuova alleanza terapeutica medico-paziente, ma che può anche portare alla realizzazione di una comunità, perché non riguarda soltanto i medici, i professionisti e le altre professioni sanitarie.
  Questo concetto, se ben diffuso e ben permeato nella società, può a mio avviso rappresentare un elemento di costituzione di un nuovo modo di sentirsi parte di una comunità. Essere accolti, essere considerati, sentirsi parte e nello stesso tempo avere punti di riferimento in momenti della vita estremamente critici, a mio avviso, è un concetto che è bene che si diffonda. Ed è anche questo il motivo per cui noi siamo qui, per cercare intanto di testimoniare una nostra attività, una nostra presenza, un nostro impegno in questo senso, ma anche per sottolineare che il nostro servizio sanitario, pur con le sue criticità, rappresenta un punto fermo per creare una comunità importante e civile.
  Questo è il messaggio che vorrei portare. Chiaramente, per quanto riguarda lo sviluppo delle cure palliative, oggi sappiamo che i pazienti che possono essere considerati terminali – c'è un nuovo modo di considerarli pazienti critici, pazienti cronici che andranno verso una malattia evolutiva e non reversibile – sono il 40 per cento pazienti oncologici e il 60 per cento pazienti affetti da patologie come le gravi broncopatie, le gravi cardiopatie, le malattie neurologiche. Mentre l'aspetto oncologico, la cura dei pazienti oncologici in fase terminale, si è sviluppato e ha avuto una maggiore affermazione, abbiamo anche un 60 per cento di pazienti che, comunque, ha bisogno di cure palliative, sui quali dobbiamo riservare la nostra attenzione.
  Come fare? Indubbiamente, l'articolo 4 della legge n. 38 cerca, non soltanto nell'ambito delle professioni, ma anche in quello sociale, di far comprendere che cosa vogliano dire cure palliative e terapia del dolore. Questo, secondo me, si può realizzare coinvolgendo le associazioni di volontariato, coinvolgendo le altre istituzioni locali perché rappresenta un punto estremamente importante.
  Altro punto importante è la formazione pre-laurea e post-laurea. Noi non riusciremo a far passare il concetto di cure palliative se non faremo un'azione sia nella fase pre-laurea che nella fase post-laurea. Io so che il MIUR sta elaborando un progetto in questo senso e che per i professionisti delle generazioni future si potrà avere sostanzialmente una preparazione di base diffusa che permetta successivamente di essere pronti a cogliere questo.
  Nel frattempo, dobbiamo anche pensare di porre all'attenzione questa problematica facendo sì che i professionisti che attualmente sono attivi possono essi stessi portare avanti questo importante concetto del prendersi cura.
  Vorrei sottolineare che i master che vengono realizzati in varie università d'Italia dovrebbero avere una maggiore penetranza e dovrebbero essere elementi di applicazione pratica nell'ambito lavorativo.
  Vorrei fare un'altra riflessione: i primi a incontrare questi pazienti sono i pediatri di libera scelta e i medici di medicina generale. Secondo me, insieme alle organizzazioni sindacali rappresentative, alle associazioni scientifiche, in collaborazione con la FNOMCeO, va rivista la posizione di questi professionisti e va fatto anche un progetto di tipo formativo perché rappresentano i primi medici che incontrano e che possono poi permettere di indirizzare, di fare strada a queste persone.
  Capita, purtroppo, che una buona parte di questi pazienti arrivi al pronto soccorso, capita che buona parte di questi pazienti muoia nei reparti ospedalieri, quando l’habitat naturale per questi pazienti sarebbe innanzitutto il domicilio oppure luoghi come gli hospice, che sicuramente non possono ricoprire il fabbisogno. Per questo c'è bisogno di creare una rete che sia in grado di prendersi cura delle persone e soltanto in casi eccezionali l’hospice rappresenta un punto di riferimento. Pag. 13
  Tra l'altro, ritengo che gli hospice, se realizzati, possano rappresentare anche un punto di formazione professionale, di scambio interprofessionale, perché attraverso questa relazione tra professionisti si possa essere ancora più appropriati ed adeguati.
  Faccio un'altra riflessione generale. Tenete conto che il medico deve essere messo in condizione di operare al meglio e io spesso nei miei incontri professionali e istituzionali punto su un habitat lavorativo adeguato, dove le abilità e le conoscenze devono potersi esplicare al meglio. Pertanto, il tempo clinico e il tempo d'ascolto debbono essere tutelati anche da un'organizzazione adeguata per questo professionista.
  Per cui, quando noi parliamo, come in questo caso, di ambiti specifici dove andiamo a valutare questa disciplina, teniamo conto che le discipline di cui parliamo non possono essere applicate al meglio se non conserviamo e non permettiamo che ci sia un habitat lavorativo adeguato.
  Noi, come Federazione, siamo disponibili. Stiamo avanzando proposte a tutti i nostri presidenti, chiedendo di fare attenzione a questa problematica, perché la riteniamo di alto valore professionale, di alto valore etico e di alto valore sociale. Se questo percorso potrà essere realizzato in maniera appropriata, sicuramente anche la nostra società civile se ne avvantaggerà, oltre ad ottenere un miglioramento e una partecipazione di tutti a questo obiettivo.

  PATRIZIA POPOLI, direttore del Centro nazionale ricerca e valutazione preclinica e clinica dei farmaci dell'Istituto superiore di sanità. Porto il mio saluto personale e quello dell'Istituto agli onorevoli presenti. Vorrei anche testimoniare la volontà del nostro Istituto di mettersi a disposizione della politica per contribuire alla piena attuazione di una legge straordinaria, come la legge n. 38.
  Il mio intervento verterà principalmente sui farmaci utilizzati per la terapia del dolore, perché questo è il mio campo di interesse. La mia collega, poi, integrerà con altri aspetti.
  Il nostro Istituto, in collaborazione con l'AIFA (Agenzia italiana del farmaco), ha analizzato i dati relativi all'uso dei farmaci per la terapia del dolore e si è potuto constatare che, sebbene negli anni successivi alla promulgazione della legge n. 38 si sia assistito a un aumento abbastanza importante nel consumo di oppioidi; siamo passati da 0,9 dosi giornaliere per mille abitanti nei primi mesi del 2011 a più di due dosi giornaliere per mille abitanti negli anni successivi, attraverso un progressivo incremento. Si tratta di un aumento importante, quasi un raddoppio. Di fatto, l'ultimo rapporto OsMed, che è il rapporto sull'uso dei farmaci, testimonia che nel 2017 l'uso di questi farmaci è rimasto sostanzialmente identico a quello dell'anno precedente.
  Questo dato sembra effettivamente indicare una sottoutilizzazione di questi farmaci. Se è vero che il numero di nuovi casi di tumore negli ultimi anni è rimasto abbastanza costante, o perlomeno con incrementi abbastanza contenuti, è anche vero che il numero di pazienti che restano in vita, quindi che restano in terapia, fortunatamente, è in costante aumento. Di fatto, quindi, anche se i nuovi casi non sono molti, di sicuro i pazienti in terapia stanno aumentando. A fronte di questo aumento, il consumo degli oppiacei, invece, rimane uguale.
  Inoltre, se confrontiamo la prescrizione degli oppioidi nel nostro Paese con quella degli altri Paesi europei (già altre stime precedenti ci consideravano il fanalino di coda in Europa), i dati aggiornati al 2018 mostrano che, in effetti, il nostro Paese si posiziona nella parte bassa della classifica, con valori superiori soltanto a quelli di alcuni Paesi dell'est e nettamente inferiori a quelli di altri Paesi, come il Regno Unito, la Germania, l'Austria.
  Da questi due elementi, quindi, che sono, da una parte, la stabilizzazione dei consumi e, dall'altra, il paragone con gli altri Paesi europei, possiamo concludere che effettivamente c'è evidenza di un certo sottoutilizzo di questi farmaci nella terapia del dolore.
  Non disponiamo di dati specificamente concernenti la popolazione pediatrica, però a questo si potrebbe ovviare facendo uno Pag. 14studio specifico attraverso i sistemi di monitoraggio delle regioni. Questo ci permetterebbe di valutare effettivamente l'utilizzo nella popolazione pediatrica. Abbiamo già accesso a dati di due regioni, ma ovviamente questo si potrebbe ampliare e potremmo provare a fare una distinzione per classi di età. Anzi, l'ampliamento del numero di regioni coinvolte è essenziale. Sempre dai dati del rapporto OsMed abbiamo potuto constatare che c'è una disomogeneità enorme sul territorio nazionale nel consumo di questi farmaci, con il solito gradiente nord-sud che ben conosciamo. Sicuramente sarebbe importante avere dati da diverse regioni, anche collocate in maniera omogenea sul territorio nazionale.
  Inoltre, si potrebbe valutare l'utilizzo di oppioidi in coorti di pazienti pediatrici ricoverati con diagnosi di tumore oppure valutare l'uso degli oppioidi in pazienti che sono deceduti in ospedale, al fine di fornire alcuni elementi conoscitivi importanti che riguardano specificamente la popolazione pediatrica.
  Oltre a raccogliere e analizzare i dati relativi all'uso dei farmaci, il nostro Istituto potrebbe anche contribuire a delle campagne di informazione e comunicazione sulla terapia del dolore. Questo aspetto riteniamo sia importante. È necessaria, in effetti, una campagna informativa sull'uso corretto della terapia del dolore, per una serie di ragioni. La prima è che gli oppioidi, come sappiamo, sono gravati da una sorta di stigma sociale, per cui il loro uso non è visto sempre con favore.
  L'altro elemento, forse ancora più importante, è che l'approccio terapeutico corrente – mi riferisco, in questo caso, soprattutto ai pazienti oncologici – è di tipo convintamente interventistico, anche nei casi in cui, in effetti, non c'è nessuna reale possibilità di avere un impatto con un trattamento farmacologico curativo sulla sopravvivenza del paziente. Alcune volte trattiamo pazienti con un intento teoricamente curativo sapendo che non li potremo curare e che, anzi, probabilmente peggioreremo anche la loro qualità di vita perché i trattamenti sono gravati da una tossicità importante.
  Il mio ruolo è anche di coordinamento della Commissione dell'AIFA che si occupa della rimborsabilità dei farmaci. Adesso ci sono molti farmaci che vengono proposti ai pazienti in prima, seconda, terza, quarta linea di terapia. Quindi, pazienti che hanno fallito un primo trattamento e sono sottoposti ad altri. Di fatto, continuiamo ad agire con un intento curativo anche quando sarebbe molto più opportuno agire con un intento palliativo.
  In sostanza, come qualcuno ha osservato, giustamente, abbiamo evidentemente un problema ad accettare il concetto di morte. Questa cosa, ovviamente, per i pazienti pediatrici è ancora più importante.
  Il nostro Istituto, al di fuori dei farmaci, per esempio attraverso il nostro centro di clinical governance, potrebbe valutare e supportare la costruzione di percorsi destinati alle cure palliative, oppure potrebbe mettere in atto progetti di valutazione del funzionamento degli hospice attraverso il Centro di Health Technology Assessment (HTA) del nostro Istituto. Vi è, poi, tutta la parte di attività che riguarda l'informazione e la comunicazione, che potrà essere riferita dalla mia collega.

  ANNA DE SANTI, primo ricercatore del Dipartimento di neuroscienze dell'Istituto superiore di sanità. L'Istituto superiore di sanità ha prodotto un rapporto, di cui lascio la documentazione, che ha avuto un paio d'anni di gestazione. Il gruppo di lavoro che è stato costituito presso l'Istituto ha avuto l'obiettivo di redigere una specie di consensus in cui sono state analizzate le criticità che maggiormente limitano, a livello nazionale, lo sviluppo delle cure palliative.
  Vi è stato un iter nel corso del quale abbiamo analizzato la letteratura, tutto quello che esisteva nel mondo in ambito di cure palliative pediatriche. Abbiamo riscontrato carenze dividendole in settori: ambito culturale, formativo, processo diagnostico e presa in carico da parte dei servizi.
  Abbiamo preparato una bozza di consensus in merito a queste tipologie e poi abbiamo approfondito alcune macroaree sulle quali sono intervenuti diversi esperti del settore, creando un polo presso l'Istituto Pag. 15 superiore di sanità come ente in grado di raggruppare e studiare le criticità e i possibili interventi di fronte a queste criticità.
  Dato il tempo a disposizione, vi do alcune indicazioni relative a quanto è emerso. È stato svolto uno studio recente: il rapporto ISTISAN, tra l'altro scaricabile dal sito dell'Istituto, che si chiama «Le cure palliative pediatriche in Italia: stato dell'arte e criticità»; è un rapporto di sole trentanove pagine perché abbiamo voluto sintetizzare e dare l'opportunità a tutti di scaricarlo gratuitamente e di verificare quello che abbiamo fatto nei due anni di lavoro.
  C'è un aspetto sempre molto importante, ossia la difficoltà a livello culturale di considerare come possibili e inevitabili gli eventi morte nei bambini. Come sapete, la preoccupazione più grande consiste proprio nell'essere preparati al morire delle persone anziane. Il tema più grande che è stato posto quando abbiamo fatto queste analisi e abbiamo intervistato i genitori dei bambini con malattie inguaribili era: «Noi siamo impreparati di fronte al morire». Gli operatori sono impreparati di fronte al morire, soprattutto se si tratta di bambini.
  Si tratta di aspetti da considerare. Tra l'altro, bisogna anche riconoscere un ruolo al bambino. Il bambino – abbiamo lavorato anche con la dottoressa Benini, che avete appena ascoltato – difficilmente è considerato come una persona che può ammalarsi. Abbiamo difficoltà a rilevare quanto dolore prova un bambino e non diamo attenzione a questi aspetti importantissimi. Nella nostra società lo proteggiamo, ma vi è questa difficoltà ad accettare il suo ruolo di persona. Di solito, quindi, non viene coinvolto e vi è difficoltà a informarlo della sua malattia e delle conseguenze nel modo corretto. Non abbiamo gli strumenti per farlo. Dobbiamo attrezzarci.
  Inoltre, vi è anche una limitata conoscenza delle cure palliative pediatriche. Vi è una limitata conoscenza delle cure palliative tout court, ma soprattutto delle cure palliative pediatriche. In genere, meno del 60 per cento degli italiani ha sentito parlare di cure palliative e solo il 23 per cento ha un'idea sufficiente di che cosa si tratta. Si tratta di aspetti importanti. Dobbiamo analizzare il problema, ma non lo conosciamo. Il cittadino non sa di che cosa si tratta. Non solo muoiono bambini, il che rappresenta un problema enorme, ma anche nelle cure palliative dell'adulto siamo ancora molto carenti.
  È opinione comune che, in genere, la cura palliativa sia di pertinenza solo del malato terminale, ma non è così. C'è una scarsa conoscenza anche della normativa. Noi abbiamo una legge, la legge n. 38, sulle cure palliative riconosciuta dall'ONU. È una legge fatta molto bene, ma è disattesa nel nostro Paese. Solo il 15 per cento degli italiani conosce l'esistenza di questa legge. Vi parlo di numeri e di percentuali perché li abbiamo analizzati in questo studio.
  Abbiamo un problema di informazione. Dobbiamo insistere sul fatto di cambiare una cultura. Noi abbiamo un contesto culturale che rappresenta il nostro primo limite.
  Adesso sto andando avanti per flash, ma tutto questo viene dettagliato nel rapporto a vostra disposizione. Vi sono altri documenti importanti cui faccio cenno. È difficile da parte nostra affrontare bene questo problema, anche perché è un problema della medicina stessa, che ha un rapporto di onnipotenza. In genere, il medico è abituato a guarire, non è abituato ad intervenire dove sente che non c'è più guarigione. È questa la vera formazione che dobbiamo fare al personale sanitario.
  La medicina deve cambiare, nel senso del benessere. Lo so che la parola «benessere» nelle cure palliative sembra un po’ strana. L'Istituto superiore di sanità è l'organo che dà indicazioni al ministero della salute. Come sapete, il Ministero della salute, quando parla di salute – come afferma l'OMS – globale, parla di calendario della vita. Quindi, da quando si nasce a quando si muore bisogna fare in modo che le persone stiano bene. Che cosa vuol dire «fare in modo che le persone stiano bene»? Vuol dire preparare operatori a svolgere questo compito. Pag. 16
  Nel momento della nascita abbiamo tantissimi operatori preparati all'evento nascita, nel senso che abbiamo neonatologi, ostetrici, ginecologi. Non abbiamo operatori preparati al momento morte, soprattutto nei bambini, ma anche negli adulti. Questo è un aspetto importantissimo. Dobbiamo cambiare la cultura e dobbiamo insistere sulla formazione. Questi aspetti fondamentali in questa legge ci sono, ma abbiamo ancora tanto da lavorare.
  Abbiamo comunque un aumento dei bambini sottoposti a cure palliative, soprattutto tra i 16 e 19 anni. Pensiamo che anche gli operatori debbano essere preparati, ma sono aspetti complessi. Tutti i bambini presentano problematiche diverse. Siamo di fronte a malattie diverse. Non è una preparazione tout court.
  Dobbiamo insistere anche sugli aspetti sociali delle cure palliative, soprattutto pediatriche, perché laddove c'è un bambino in cure palliative pediatriche c'è un intero nucleo familiare che ha delle difficoltà enormi nell'affrontare questa problematica. Abbiamo un papà che potrebbe dedicare del tempo e quindi avere delle difficoltà sul lavoro, una mamma che potrebbe avere delle crisi depressive, dei fratelli che potrebbero avere dei problemi a scuola, perché si spostano interi gruppi familiari intorno all'attenzione di un bambino che sta male, con una serie di operatori e un lavoro di rete che è ancora molto carente. Sono questi i veri aspetti che vanno considerati.
  C'è una disomogeneità nel nostro territorio nazionale rispetto alle cure palliative, soprattutto pediatriche, ma anche nelle cure palliative in generale. Ci sono regioni attrezzate e regioni che, invece, devono ancora fare dei passi molto importanti. C'è un'offerta di prestazioni erogate in assistenza residenziale e domiciliare sempre disomogenea.
  Dei farmaci ha parlato la dottoressa Popoli. C'è, soprattutto, una mancanza di politiche di supporto alla famiglia. Noi interveniamo, in genere, nel sanitario, non interveniamo nel sociale tout court, quindi avremo bisogno di attrezzarci mettendo attenzione su entrambi questi aspetti, sociale e sanitario, che nelle cure palliative, io insisto, sia pediatriche che non pediatriche, sono sempre aspetti che vanno considerati nella globalità. Una famiglia che affronta questo problema...
  In alcune regioni non troviamo dati su bambini che muoiono. Ho letto le audizioni che avete avuto in precedenza. Quando si analizzano i dati di regioni come la Basilicata, dove non ci sono bambini che muoiono, è perché quei bambini devono essere portati in strutture di altre regioni. Noi dobbiamo lasciarli al loro domicilio, dobbiamo attrezzare una rete di cure palliative che permetta al bambino di morire a casa, di morire tra i familiari, di morire nella sua realtà. Soprattutto dobbiamo attrezzare gli operatori sulla formazione, perché è fondamentale. Quale tipo di formazione? Conoscenze sulla malattia inguaribile in età evolutiva, caratteristiche dello sviluppo psicoaffettivo del bambino o dell'adolescente, perché abbiamo visto che è un arco di età che varia e quindi gli operatori devono essere attrezzati per intervenire dal neonato all'adolescente.
  Inoltre, deve essere gestito il lutto. Non si parla molto di questo aspetto. Quando un bambino muore, un'intera famiglia deve essere continuamente supportata, almeno nei due anni successivi, deve essere aiutata ad affrontare questa problematica, perché rimangono degli aspetti importanti che non sono ancora considerati nel modo corretto.
  Ci deve essere un lavoro di gruppo, un’équipe che lavora, perché è l’équipe che dà forza alla possibilità di intervenire in maniera concreta con il bambino. Abbiamo degli aspetti importantissimi che vengono racchiusi nel rapporto.
  Ci sono una serie di criticità, delle disomogeneità, però ci sono anche delle strategie, perché noi abbiamo bisogno di un monitoraggio dei requisiti per l'accreditamento delle strutture delle reti di cure palliative del dolore del bambino nel nostro Paese; dobbiamo verificare i percorsi socioassistenziali e sanitari della terapia del dolore e delle cure palliative, che sono, ripeto, disomogenei nelle nostre regioni italiane. Abbiamo sempre delle regioni virtuose, ma dobbiamo invece aiutare a fare Pag. 17in modo che tutto sia sufficientemente adeguato.
  Mi fermo sul Centro specialistico di cure palliative. Bisogna attivare questi Centri che sono sulla carta, sono sulla legge e che sono ancora disattesi in molte realtà. Bisogna formare gli operatori. Questa è l'emergenza. Su questo, come Istituto superiore di sanità, stiamo lavorando per fare in modo che questa formazione sia una costante, perché tra le attività dell'Istituto, oltre alla ricerca, c'è anche la formazione degli operatori.
  L'Istituto si pone come ente che, a livello nazionale, può veramente dare un contributo importante su questo aspetto.
  Ci sono due documenti importanti che rappresentano strumenti per valutare la qualità della comunicazione. Noi costruiamo linee guida, check-list, per valutare momenti comunicativi importanti, da quando al bambino – o anche all'adulto – viene diagnosticata una malattia importante a quando non c'è più, quindi cosa dire anche nel momento del lutto. Vi lasciamo questi documenti. Noi costruiamo linee guida per diverse patologie, che sono strumenti importantissimi su cui bisogna porre maggiore attenzione.
  Possiamo fare un lavoro di gruppo a favore dell'informazione mediante canali di comunicazione. Dobbiamo utilizzare anche i nostri canali di comunicazione e tutto ciò che è possibile per creare veramente un cambiamento culturale, perché è quello di cui abbiamo bisogno nel nostro Paese.
  Concludendo, bisogna pensare a una formazione continua, allo sviluppo di progetti e alla realizzazione di percorsi unitari. Dobbiamo essere in grado di offrire il meglio che c'è in tutto il territorio e dobbiamo continuare con questa opera di formazione, informazione e divulgazione.
  Vi lascio questi documenti. Il manuale che potete scaricare dal sito dell'Istituto superiore di sanità è uno dei tanti. Noi li facciamo in riferimento a vari aspetti. Il gruppo lo abbiamo chiamato CARE (comunicazione, accoglienza, rispetto, empatia). Sono documenti gratuiti che l'Istituto superiore di sanità, attraverso il sito, realizza con esperti della patologia. In questo caso si tratta dell'oncologia, ma li facciamo per la sclerosi multipla, per la sclerosi laterale amiotrofica, per la riabilitazione. Li abbiamo fatti per HIV e AIDS. Adesso lo stiamo facendo, per la regione Sicilia, per i dipartimenti dei pronti soccorsi.
  In altre parole, impariamo a comunicare e insegniamo agli operatori a comunicare nelle diverse fasi della malattia. Diamo il massimo che possiamo, perché la formazione in questo momento è una delle risposte importanti a questo aspetto.
  Con questa considerazione concludo, lasciando tutta la documentazione necessaria affinché possa essere a vostra disposizione.

  PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni. Vi chiedo di essere particolarmente sintetici.

  GIORGIO TRIZZINO. Come lei sa, presidente, io sono sempre molto sintetico.
  Voglio approfittare di questa coesistenza, FNOMCeO e Istituto superiore di sanità, per porvi alcune domande veloci. Voi siete al corrente che il ministero della salute ha chiuso l'ufficio sulle cure palliative da qualche anno? Non vi siete chiesti perché? Cosa avete fatto? Avete chiamato il Ministero e avete chiesto il motivo della chiusura di questo ufficio?
  Avete mai fatto un'indagine nelle regioni per verificare se è stata attuata la parte che riguarda l'istituzione nelle strutture, nei centri regionali di coordinamento delle reti di cure palliative? Mi risulta che in molte regioni non ve ne sia traccia.
  A fronte di questi dati sugli oppiacei, avete telefonato al ministro per dirgli che la situazione è stazionaria, che il nostro è uno dei Paesi in coda in Europa e che immaginate di fare una campagna con FNOMCeO? Avete fatto qualcosa del genere?
  Lo sapete che nel nostro Paese ancora non esistono le tariffe sulle cure palliative e che la tariffa sull’hospice è la più bassa d'Europa, appena 210 euro al giorno? Ci siamo mai chiesti come può un hospice reggersi con una tariffa di questo tipo, con una media di dodici posti letto, a 210 euro Pag. 18al giorno? Come si può mantenere una équipe di medici e infermieri, una équipe multidisciplinare? Avete mai chiamato il ministro per dire che la situazione non può andare avanti così? Le tariffe non ci sono per il domiciliare. Ogni regione ha una tariffa a sé, se la inventa.
  L'Istituto superiore di sanità, il Consiglio superiore di sanità e il Ministero della salute hanno una grande responsabilità.
  Circa la campagna di comunicazione, ne è stata fatta una alcuni anni fa: un fallimento. Vi siete chiesti a chi avete affidato questa campagna? Non l'Istituto, naturalmente, ma il ministero. Perché è stata un fallimento? Non se n'è accorto nessuno, eppure è costata tanto allo Stato. Ecco, queste domande le riproporrò la prossima settimana al presidente uscente del tavolo tecnico sulle cure palliative, dottor Scaccabarozzi. Riproporrò esattamente le stesse domande, però mi interesserebbe sentire da voi almeno la prima parte di risposta. Grazie.

  VITO DE FILIPPO. Nessuna domanda. Qui siamo in una Commissione parlamentare, il collega Trizzino è persona di grande qualità e di grande competenza, ma non si tratta di ufficio. Non mi risulta, nella mia modestissima memoria, l'esistenza di un ufficio, se questa è la terminologia usata nella pubblica amministrazione. C'era un Comitato in via di allestimento, ma non mi risulta che ci fosse un ufficio, che si occupava specificamente ed esclusivamente di cure palliative.

  PRESIDENTE. Do la parola agli auditi per la replica.

  FULVIO BORROMEI, presidente dell'Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri di Ancona. Le domande che sono state poste sono interessanti. Io posso dire quello che la FNOMCeO ha fatto nell'ambito delle specifiche competenze. Non sapevo che questo ufficio fosse stato chiuso, però tengo a sottolineare che io da tempo sono un responsabile della Federazione nell'ambito delle cure palliative e oggi è la prima volta che vengo in audizione. Reputo questo momento estremamente importante, perché riguardo al concetto che ho espresso del fare comunità anche questo di oggi è fare comunità.
  Se sono qui a parlare a voi onorevoli parlamentari significa che c'è un'attenzione e che comunque questo problema viene sottoposto all'attenzione anche politica. Nell'ambito delle nostre competenze federative, abbiamo stimolato ogni presidente di ordine a individuare un referente o a costituire un gruppo di lavoro che fosse da stimolo alle realtà presenti nelle regioni. Come dicevo all'inizio, noi non abbiamo una competenza specifica nell'applicazione di questa legge, quindi siccome nel Paese ci sono competenze noi ci muoviamo nell'ambito delle nostre competenze.
  Siccome questa legge, come ho sottolineato, è una legge estremamente etica, quello che potevamo fare l'abbiamo fatto, cioè sollecitare i presidenti periferici ad analizzare e studiare le situazioni locali. La legge n. 38 è venuta nel 2010, ma il mio hospice l'ho fondato nel 2002, quindi c'era già una realtà che autonomamente, come succede in questo Paese, si muove e fa bene.
  Ci sono delle professionalità che esistono, si muovono, anche se non c'è una legge, e fanno bene. Quindi, come ordini, abbiamo sviluppato questa analisi parcellare nel territorio e sicuramente ha dato dei risultati, tanto che noi siamo riusciti a organizzare cinque convegni nazionali dove portiamo le esperienze varie, dove portiamo le tematiche varie. Noi ci siamo indirizzati ai nostri attori principali, che sono i presidenti, che a loro volta si sono mossi a livello regionale. Questo è quello che abbiamo fatto.
  Certamente, anche nelle riflessioni che ho riportato oggi, vi dico che ci sono queste competenze, che fra poco queste competenze potrebbero non essere sufficienti, ed è importante che si faccia attenzione sui corsi master, perché sapete benissimo che c'è una popolazione medica senior, come lo sono io, che può dare un contributo ancora per un arco di tempo di 7-10 anni, ma dobbiamo pensare anche a questo sviluppo.
  Anche in questo campo ci siamo mossi e se andiamo a riguardare nel passato le Pag. 19statistiche che abbiamo fornito ai vari Governi, ritengo che la Federazione in questo ambito abbia fatto la sua parte. Siccome sono un soggetto positivo, ritengo che questo incontro di oggi possa essere anche foriero di una progettualità nuova, dove analizziamo senza colpevolizzare le situazioni che ci sono e che possono essere migliorate nell'ottica che dicevo prima.
  Ecco, al momento mi sento di dire questo. Siamo a disposizione per collaborare. Se veniamo coinvolti nelle nostre funzioni, ci saremo sicuramente.

  PATRIZIA POPOLI, direttore del Centro nazionale ricerca e valutazione preclinica e clinica dei farmaci dell'Istituto superiore di sanità. Non ero a conoscenza della chiusura di questo ufficio, ma devo dire che non mi occupo di cure palliative bensì di ricerca e valutazione dei farmaci in generale.
  Circa il sottoutilizzo, aggiungo «apparente» perché in realtà non abbiamo dati certi; lo deduciamo dal fatto che c'è una stabilizzazione e da come siamo posizionati rispetto al resto dei Paesi. Su questo non abbiamo intrapreso delle azioni specifiche perché è un dato che abbiamo ricevuto relativamente da poco, con la pubblicazione dell'ultimo rapporto OsMed, però questo problema della disparità regionale e del sottoutilizzo dei farmaci è inserito insieme alle altre criticità nei rapporti pubblicati dall'Istituto. Quindi, non azioni dirette di sensibilizzazione del ministro, se è quello che lei suggeriva, ma non è un problema che l'Istituto non si è posto.

  ANNA DE SANTI, primo ricercatore del Dipartimento di neuroscienze dell'Istituto superiore di sanità. Parto da questa puntualizzazione sulle criticità, che sono quelle che cerchiamo di risolvere, perché siamo tutti qui con lo scopo comune di migliorare la qualità di vita delle persone. È il nostro obiettivo, la nostra mission.
  Ricordo anche che l'Istituto superiore di sanità è l'organo tecnico-scientifico che dà i pareri al ministero, cioè il ministero chiede le cose che poi vengono date sotto forma di ricerca e di formazione. Il dottor Spizzichino, che era responsabile di questo ufficio, poi ci ha informato di questa chiusura, però ha detto che il ministero avrebbe messo in atto anche altre tipologie di interventi (so che lei fa parte anche di una Commissione che dovrebbe anche migliorare questi aspetti). In particolare, il Ministero della salute (ci sono delle slide che avevo preparato) avrebbe assegnato un compito all'Istituto – c'è un manuale che si scarica dal sito www.con-fine.it – su questo importante progetto sulla conversazione di fine vita, che poi è stato assegnato a quattro regioni. C'è stata una formazione di 400 operatori sulle conversazioni di fine vita e terapia della dignità.
  Siamo di fronte ad aspetti nuovi della comunicazione. Noi abbiamo fatto corsi su come dirlo, sulle modalità, ma adesso facciamo di più. Stiamo restituendo alla persona che muore l’empowerment vale a dire «stai morendo, puoi fare i conti con la tua morte». Guardate che entrare nel mondo del morire è uno degli aspetti che compete a tutti, perché al riguardo siamo impreparati: siamo in una società che ha cercato in tutti i modi di tenere alta la parte del benessere e siamo impreparati a quella che invece è la parte del morire.
  Questo vuol dire che stiamo attrezzando gli operatori a ricevere questo tipo di conversazioni del fine vita, anche dei bambini, perché questo dovrebbe essere fatto anche nelle famiglie, per aiutare i genitori a supportare questo momento e supportare anche i bambini, che spesso vengono tenuti all'oscuro di questo aspetto.
  Un'altra delle tipologie innovative che l'Istituto, attraverso il Ministero della salute – il problema è la ricerca, il problema sono i fondi – ha condotto è stata la terapia della dignità. Un signore di nome Chochinov ha creato una cosa bellissima, che noi lasciamo a chi resta a memoria di noi. Anche nei bambini potrebbe essere fatta questa terapia, però soprattutto nei grandi: vuol dire attrezzare gli operatori a raccogliere le storie di vita delle persone che stanno morendo e lasciare un libretto; vuol dire anche che tutto il mondo della sanità accetta questa tipologia nuova di mantenere la memoria; vuol dire che una struttura Pag. 20 sanitaria accetta di mettere dei costi su questo; vuol dire che un primario accetta che il proprio operatore dedichi il tempo di cura a una persona che sta morendo; vuol dire approfondire la relazione, quindi fare in modo che, attraverso la capacità di un operatore di raccogliere le memorie, noi lasciamo qualche cosa che resta.
  Guardate che in questo momento non c'è niente che resta. Noi abbiamo perso la memoria. Il morire fa paura perché non l'abbiamo reso un'esperienza naturale. Anche attraverso questa terapia della dignità si cerca di restituire alla persona la capacità di dire «a queste persone voglio lasciare qualcosa di me», quindi fare in modo che ci siano delle innovazioni rispetto a questi aspetti comunicativi, che sono tanti e disattesi.
  So che lei mi chiedeva delle tariffe degli hospice, ma queste sono risposte che vi manderemo, perché abbiamo divisioni interne all'Istituto superiore di sanità. La dottoressa si occupa soprattutto di farmaci, io mi occupo di comunicazione e di formazione del personale nelle cure palliative. Quelli che ho preso come appunti sono tutti rimandi, però l'Istituto superiore di sanità è un organo tecnico-scientifico, che dà pareri al ministero, non imposizioni. Che il nostro presidente prenda il telefono e chieda è possibile, però lei adesso sta dicendo qualcosa che è di pertinenza dell'Istituto. L'ufficio di cui lei parlava è del Ministero della salute, mentre i reparti e le strutture che all'interno dell'Istituto si occupano di questo sono sempre attive, e anzi molto più attente, nel tempo. Questa era la mia risposta da lasciarle.

  PRESIDENTE. Ringrazio i nostri ospiti per essere intervenuti e dichiaro concluse le audizioni.

  La seduta termina alle 15.40.