XVIII Legislatura

III Commissione

COMITATO PERMANENTE SUI DIRITTI UMANI NEL MONDO

Resoconto stenografico



Seduta n. 21 di Giovedì 21 novembre 2019

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Di Stasio Iolanda , Presidente ... 2 

INDAGINE CONOSCITIVA SULL'IMPEGNO DELL'ITALIA NELLA COMUNITÀ INTERNAZIONALE PER LA PROMOZIONE E TUTELA DEI DIRITTI UMANI E CONTRO LE DISCRIMINAZIONI
Di Stasio Iolanda , Presidente ... 2 
Giannì Alessandro , Direttore delle campagne di Greenpeace ... 3 
Borghi Martina , Responsabile della campagna foreste di Greenpeace ... 4 
Di Stasio Iolanda , Presidente ... 8

Sigle dei gruppi parlamentari:
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Lega - Salvini Premier: Lega;
Forza Italia - Berlusconi Presidente: FI;
Partito Democratico: PD;
Fratelli d'Italia: FdI;
Italia Viva: IV;
Liberi e Uguali: LeU;
Misto: Misto;
Misto-Cambiamo!-10 Volte Meglio: Misto-C10VM;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Noi con l'Italia-USEI: Misto-NcI-USEI;
Misto-Centro Democratico-Radicali Italiani-+Europa: Misto-CD-RI-+E;
Misto-MAIE - Movimento Associativo Italiani all'Estero: Misto-MAIE.

Testo del resoconto stenografico
Pag. 2

PRESIDENZA DELLA PRESIDENTE
IOLANDA DI STASIO

  La seduta comincia alle 9.15.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti
di
Greenpeace Italia.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno del giorno reca l'audizione, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sull'impegno dell'Italia per la promozione e tutela dei diritti umani e contro le discriminazioni, di rappresentanti di Greenpeace Italia.
  Saluto e ringrazio per la disponibilità a prendere parte ai nostri lavori il dottor Alessandro Giannì e la dottoressa Martina Borghi, rispettivamente Direttore delle campagne e Responsabile della campagna foreste di Greenpeace Italia.
  Ricordo che l'audizione odierna si inserisce nel filone della nostra indagine conoscitiva relativa all'evoluzione del diritto umanitario internazionale, con particolare riferimento alla tutela dell'ambiente come presupposto essenziale per garantire il diritto alla salute, all'acqua e al cibo. In questo contesto, segnalo ai nostri ospiti che lo scorso 17 ottobre, sempre in sede di Comitato diritti umani, abbiamo svolto l'audizione di rappresentanti dei popoli indigeni dell'Amazzonia, presenti a Roma in occasione del Sinodo voluto da Papa Francesco per sensibilizzare la comunità internazionale sulla tutela dell'ecosistema amazzonico e delle condizioni di vita dei popoli indigeni. I colleghi che hanno assistito all'audizione possono testimoniare che si è trattato di un evento molto significativo e anche commovente, che ci ha consentito di prendere piena consapevolezza della condizione di sofferenza nella quale versano i popoli indigeni dell'Amazzonia e delle loro legittime rivendicazioni per la promozione di uno sviluppo e di un'economia integrati.
  La vicenda degli indios è paradigmatica del fallimento di parte della comunità internazionale nell'adozione di efficaci misure di mitigazione dei cambiamenti climatici, che minacciano gravemente i diritti dei popoli, in particolare il diritto allo sviluppo. In questo senso diventa essenziale l'attività di quei soggetti della società civile, come Greenpeace, da sempre impegnati a sensibilizzare l'opinione pubblica circa l'esigenza di proteggere l'ambiente, indagando, denunciando e affrontando i crimini ambientali. Al riguardo segnalo ai nostri ospiti che nel settembre scorso ho scritto una lettera al Presidente del Consiglio, Conte, per sollecitare il Governo ad avviare la procedura di modifica dello Stato della Corte penale internazionale, allo scopo di inserire anche i crimini ambientali nella categoria dei crimini contro l'umanità. Analogamente, il 27 settembre scorso ho presentato il testo di una mozione sottoscritta da colleghi di tutti i gruppi di maggioranza, con la quale si impegna il Governo ad adottare, in cooperazione con gli altri partner internazionali e con il coordinamento dell'ufficio dell'Alto commissariato per i diritti umani, ogni utile iniziativa per sostenere gli attivisti ambientali e i difensori della Terra e dell'ambiente e tutelarli dalle aggressioni e dalle uccisioni.
  Ricordo ai colleghi che Greenpeace comprende ventisei organizzazioni nazionali e regionali indipendenti in oltre cinquantacinque Pag. 3 Paesi in Europa, in America, in Africa, in Asia e nel Pacifico, oltre a un organismo di coordinamento, Greenpeace International.
  Lo Statuto dell'articolazione italiana dell'organizzazione, istituita nel 1986, prevede due obiettivi fondamentali: promuovere la protezione della natura e della biodiversità, nonché la conservazione dell'ambiente in modo socialmente equo ed ecologicamente durevole, a vantaggio e beneficio delle generazioni presenti e future; promuovere il conseguimento del disarmo nucleare e della pace. Per assicurare il massimo di indipendenza e neutralità nella propria azione, l'organizzazione non accetta fondi da governi, aziende e istituzioni internazionali, ma viene finanziata esclusivamente tramite le quote versate dagli associati, nonché donazioni, contributi, lasciti ed erogazioni liberali da parte di privati cittadini, enti privati ed enti pubblici.
  Fatta questa doverosa premessa, sono lieta di dare la parola ai nostri ospiti, affinché svolgano i loro interventi. Grazie.

  ALESSANDRO GIANNÌ, Direttore delle campagne di Greenpeace. Grazie. Sono Alessandro Giannì, Direttore delle campagne di Greenpeace Italia. Ringrazio per l'opportunità di questa audizione. Solo una correzione: Greenpeace non accetta soldi da enti pubblici, in nessuna maniera, ma solamente da soggetti privati o da fondazioni intestate a soggetti privati, che è un sistema molto poco usato in Italia, praticamente non ci è mai capitato di aver accettato questo tipo di fondi. Quindi in Italia riceviamo contributi solamente da soggetti privati: circa 88-89 mila persone in questo momento.
  Come veniva giustamente ricordato, la missione di Greenpeace è la difesa dell'ambiente e di una pacifica convivenza su questo pianeta ed è un'attività che svolgiamo a livello globale. Nel corso di questa attività, ovviamente ci siamo imbattuti più volte in situazioni critiche dal punto di vista della difesa dei diritti. Come veniva giustamente ricordato, noi comunque consideriamo la difesa dell'ambiente come difesa di un diritto fondamentale per una qualità della vita degna, ma – purtroppo – ci è capitato più volte di incrociare situazioni dove singoli individui o intere comunità erano a rischio. Per esempio, ricordo che la prima Rainbow Warrior fu affondata poco dopo che Greenpeace aveva spostato alcune popolazioni in pericolo che abitavano nell'atollo di Rongelap, in Polinesia, un'area di test nucleari.
  Per tutti questi motivi, Greenpeace in Italia ha contribuito a fondare la rete «In Difesa Di»: un network di una trentina di associazioni molto diverse tra loro, che si occupano di temi ambientali, come Greenpeace, ma anche di difesa dei diritti umani, solidarietà internazionale, cooperazione e quant'altro, con l'idea di stimolare, anche nel nostro dibattito nazionale, una riflessione su questi temi a livello pubblico, ma anche nelle istituzioni, come in questo caso – e ringraziamo – si sta facendo. Per la stessa ragione, Greenpeace è tra i promotori di una rete ancora più informale, «Restiamo umani», che si è attivata quando ci sono stati degli attacchi – che noi riteniamo insensati – alle ong che si occupano di ricerca e salvataggio di vite umane nel Mediterraneo. Greenpeace è un'associazione nata sul mare: chi vi parla ha avuto numerose esperienze sul mare, sa cosa vuol dire stare in mare in difficoltà e sa che violare alcuni principi mette a rischio non solo le persone che in quel momento sono in pericolo, ma mette a rischio – in teoria – tutto il resto della comunità, perché violando quei principi di solidarietà in mare, si rischia di innescare delle ritorsioni che poi sono incontrollabili nelle loro conseguenze. Questo è un problema di portata generale su certe violazioni di diritto internazionale, di cui bisognerebbe tener conto.
  La questione specifica delle migrazioni, oggetto di queste polemiche, rientra assolutamente nelle questioni ambientali. Sono sempre di più le situazioni in cui le persone sono costrette a sfollare – il primo passo verso la migrazione, che invece è un attraversamento delle frontiere – per questioni ambientali. I dati del 2015 sono stati oggetto di uno specifico rapporto di Greenpeace, pubblicato in occasione del G7 di Taormina: nel 2015 – allora erano gli ultimi dati disponibili – c'erano 8,5 milioni di persone ogni anno che sfollavano per via di Pag. 4conflitti, ma ce n'erano 19 che sfollavano per ragioni ambientali. Questo numero comprende anche alcune cose che non hanno niente a che fare con impatti ambientali, come terremoti o eruzioni vulcaniche, però la gran parte di questo numero, in realtà, è collegato a crisi ambientali e, sempre più spesso, a crisi climatiche.
  Forse avrete già avuto modo di sapere che c'è stato un lavoro pubblicato in Italia da un climatologo italiano, Pasini, e da un suo collaboratore, Amendola, che per la prima volta allega, in maniera diretta, le ondate di siccità – quindi impatto climatico – alle ondate migratorie verso il Mediterraneo provenienti dal Sahel, dall'Africa subsahariana. Quindi ormai ci sono evidenze piuttosto nette che il clima è un acceleratore di questi conflitti, ma anche una causa, purtroppo, sempre più evidente e diretta di flussi migratori.
  Noi abbiamo incrociato situazioni critiche dal punto di vista della violazione dei diritti umani in varie attività. Per esempio, nel settore della pesca abbiamo denunciato – insieme ad altri, ovviamente – la presenza di tali violazioni nella filiera della produzione del tonno in scatola – soprattutto i pescherecci dell'area asiatica – e più recentemente per quel che riguarda le filiere della produzione delle farine di pesce, in parte anche destinate al mercato europeo e italiano, poi in parte anche riesportate. Però, sicuramente, come veniva detto prima, la questione che più spesso abbiamo incontrato, riguarda il tema della deforestazione: c'è un problema critico di espropriazioni, oltre che di diritti direi anche di identità delle popolazioni coinvolte. Su questo, la mia collega Martina sicuramente saprà darvi più dettagli. Grazie.

  MARTINA BORGHI, Responsabile della campagna foreste di Greenpeace. Buongiorno. Io sono Martina Borghi e per Greenpeace Italia mi occupo di foreste. In questo momento stiamo vivendo una grossa crisi climatica ed ecologica, stiamo perdendo tantissima biodiversità. Proprio quest'anno l'Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (IPIBES) ha pubblicato un rapporto in cui segnala, in maniera allarmante, la perdita di biodiversità.
  La deforestazione è un problema molto legato all'espansione dell'agricoltura industriale: l'80 per cento della deforestazione a livello mondiale è causata dall'agricoltura industriale.
  Agricoltura industriale, però, non significa – purtroppo – produzione di cibo destinato a esseri umani; significa che ci sono delle commodity – delle materie prime – che vengono prodotte in maniera intensiva, con gravi impatti sui diritti umani e la biodiversità.
  Quest'anno abbiamo lanciato un rapporto che si chiama «Conto alla rovescia verso l'estinzione» in cui segnaliamo gli impatti della produzione principalmente di sei commodity: la carne, la soia, l'olio di palma, il cacao, il legno, la polpa di cellulosa e la cellulosa. Alcune, come la polpa di cellulosa, è chiaro che non sono legate all'alimentazione umana, però sono legate a un problema come quello della produzione, il lato negativo del lavoro che si sta facendo contro la plastica, perché si è deciso di eliminare e di ripensare il sistema del packaging, di produrlo in carta, con un errore di base che vede le foreste come una fonte di energia e di risorse sempre rinnovabile, mentre purtroppo stiamo vedendo che non è così. Invece, c'è più ambiguità sulla soia e l'olio di palma: due materie prime agricole, che però vengono sempre più utilizzate, ad esempio, per la produzione di biodiesel, quindi non consumo umano; la soia in Europa è usata principalmente per la mangimistica, per animali spesso rinchiusi in allevamenti intensivi per produrre sempre più carne, quando abbiamo visto che anche la carne, già di per sé, è una di queste materie prime la cui produzione e il cui consumo creano gravi impatti sulla biodiversità e sui diritti umani.
  Abbiamo visto, con la campagna foreste, vari casi in cui deforestazione e diritti umani vanno di pari passo. Un caso molto grave – e, fortunatamente, in parte evidente – è quello del Brasile, dell'Amazzonia. Proprio un paio di giorni fa abbiamo rilasciato nuovi dati sulla deforestazione in Amazzonia, che provengono dall'Istituto brasiliano di ricerca scientifica e aerospaziale; Pag. 5sono dati di un nuovo programma legato a un'indagine satellitare. È emerso che nell'ultimo anno – quindi solo in un anno – sono stati distrutti circa 10 mila chilometri quadrati di foresta, una superficie leggermente superiore a quella dell'Isola di Cipro, per intenderci. La deforestazione è aumentata del 29,5 per cento. Questi sono dati particolarmente allarmanti. Abbiamo avuto la possibilità anche di parlare con un famoso climatologo brasiliano, che è parte dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), che ci fa notare che la foresta amazzonica è vicina a un punto che chiamano di «savanizzazione»: dalla foresta tropicale più grande del mondo, si rischia di stravolgere completamente questo bioma e si rischia che diventi una savana. Questo ha gravissimi impatti sul clima del pianeta, perché le foreste sono una di quelle che chiamiamo «soluzioni naturali» contro i cambiamenti climatici, grazie alla loro grandissima capacità di assorbire, di stoccare carbonio negli alberi, ma anche nel suolo.
  L'altro problema è relativo ai diritti dei popoli indigeni. Al momento, a livello internazionale, al di là del Brasile, le aree in cui le foreste sono meglio conservate e riescono meglio a svolgere la loro funzione di accumulatori, di protezione, di mantenimento del carbonio negli alberi e nel suolo, sono proprio le terre che sono state riconosciute ai popoli indigeni, che quindi vengono gestite direttamente dai popoli indigeni e da loro protette. Il problema è che questa protezione, questo ruolo di guardiani della foresta che i popoli indigeni ricoprono è sempre più minacciato. Questi popoli si trovano nel cuore della foresta, con il desiderio e la volontà di proteggerla, ma i loro territori sono sempre più invasi da rappresentanti e da sicari di varie industrie: da quella del legno a quella dell’agribusiness. Questo non vale solo per il Brasile, ma per tutti i popoli indigeni in diverse parti del mondo.
  In Brasile, il Consiglio indigenista missionario quest'anno ha prodotto un rapporto riguardante i dati del 2018: si parla di 135 persone indigene uccise, il 23 per cento in più rispetto al 2017. Purtroppo, quest'anno sembra che i dati vadano addirittura a peggiorare. Solo all'inizio del mese di novembre è stato ucciso un guardiano della foresta, Paulo Paulino Juajajara, proprio mentre l'articolazione dei popoli indigeni del Brasile, di cui fa parte Juajajara, viaggiava per l'Europa per diffondere la loro campagna: «Sangue indigeno, non una goccia di più».
  Abbiamo visto che voi avete già avuto la possibilità di ascoltare alcuni leader indigeni. L'articolazione dei popoli indigeni è molto importante e svolge un ruolo chiave in Brasile, perché è l'organizzazione che raccoglie dentro di sé la maggior parte dei popoli indigeni del Brasile, non solo quelli contattati, ma anche quelli «incontattati», ovvero quelli che volontariamente hanno deciso di non avere alcun contatto con la società occidentale e per i quali i popoli contattati svolgono una sorta di ruolo di cuscinetto, in modo che possano mantenere la loro indipendenza. Loro sono, ovviamente, i più fragili, sia di fronte alla crisi climatica, sia agli attacchi degli occidentali e delle industrie del legame e dell’agribusiness che invadono questi territori.
  Questa campagna dell'articolazione dei popoli indigeni del Brasile attraversa dodici Paesi europei e moltissime città, ed è iniziata proprio in Italia: a Roma e a Città del Vaticano, poi hanno visitato Torino, Bologna, per portare un messaggio molto importante sul riconoscimento delle terre.
  I popoli indigeni del Brasile hanno subito gravi violazioni e addirittura ci sono stati dei casi di genocidio tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta. Ad esempio, il popolo Karipuna contava migliaia di persone e dopo il contatto con la società occidentale ne rimasero solo otto. Adriano Karipuna, figlio di uno di questi otto sopravvissuti al genocidio, è venuto anche lui in Italia a parlarci della situazione. A loro, a causa di questo gravissimo precedente, la terra è stata riconosciuta e, nonostante ciò, continuano a subire attacchi, come il popolo Juajajara. Il popolo Juajajara, il popolo Karipuna e molti altri, sono nella situazione più fortunata, perché a loro la terra è stata legalmente riconosciuta dal Governo brasiliano e, nonostante ciò, molti dei loro rappresentanti, in particolare i leader di questi popoli, vengono uccisi mentre sorvegliano i confini della loro terra e sono Pag. 6spesso in una condizione molto difficile, perché anche l'intervento della polizia e dell'esercito è molto limitato. Per loro, fornire prove, se si tratta di omicidio – come se avvenisse in una città dove ci sono telecamere, dove ci sono testimoni – li lascia in una posizione di gravissimo svantaggio, anche a causa di palesi discriminazioni nei loro confronti, dato che la loro parola non vale tanto quanto la parola di una persona legata all'industria del legame o dell’agribusiness. Quindi si trovano in una situazione molto grave. Loro si considerano biodiversità, loro non si vedono come separati dalla foresta; è una cosa che noi, come società occidentale, abbiamo perso. Loro si considerano un tutt'uno, anche perché il loro stile di vita è perfettamente integrato con quello della conservazione della foresta. Hanno però bisogno di questo riconoscimento delle terre e spesso, nel momento in cui loro richiedono e iniziano la procedura formale, burocratica – che per loro implica, ad esempio, imparare il portoghese, che non è la loro lingua madre –, lo fanno, ma vedono questo processo burocratico rallentato o fermato, perché gli interessi dell’agribusiness e dell'industria del legname sono molto più forti, molto più ascoltati dal Governo rispetto a loro; in particolare, con questo Governo la situazione sta diventando ancora più critica.
  Veniamo quindi al ruolo dell'Europa in questo. Quest'estate abbiamo visto degli incendi molto gravi, molto intensi colpire l'Amazzonia. Contemporaneamente, stavano avvenendo incendi anche in altre parti del mondo e, purtroppo, sono stati molto meno portati all'attenzione del pubblico, dei media. In Amazzonia questi incendi stavano divampando; si è parlato di oltre 95 mila incendi dall'inizio dell'anno ad agosto in tutto il Brasile, la metà dei quali in Amazzonia.
  Nel frattempo, a fine agosto, si teneva in Francia il G7 e l'Europa non ha potuto fare a meno di parlare della situazione dell'Amazzonia e si è impegnata a destinare dei fondi per la protezione della foresta amazzonica; fondi che i rappresentanti dell'articolazione dei popoli indigeni del Brasile ci dicono che non ricevono, perché non arrivano mai direttamente a loro. Questi fondi sarebbero molto utili per loro perché, per esempio, se invece di difendere i loro confini territoriali, andandoci di persona, potessero monitorare con dei gps, sarebbe molto più agevole. In ogni caso, non sono le risorse economiche quelle di cui hanno principalmente bisogno; hanno bisogno del riconoscimento delle loro terre; hanno bisogno che tutti quei Paesi che acquistano prodotti dal Brasile, possano assicurarsi che queste materie prime, che questa carne, non vengano prodotte a scapito dei loro diritti.
  Nonostante l'Unione europea abbia da luglio un piano contro la deforestazione, si tratta di piani molto blandi, che non tengono conto, ad esempio, degli accordi commerciali. Infatti, in questo momento, l'Unione europea sta anche discutendo del trattato di libero scambio con il Mercosur, quindi con Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay. Questo trattato, così com'è ora, rischia di aumentare le importazioni, ad esempio, di carne e soia; questo è gravissimo. Durante il loro viaggio in Europa e la loro campagna «Sangue indigeno, non una goccia di più», i rappresentanti dei popoli indigeni del Brasile hanno espresso una grandissima preoccupazione rispetto a questo trattato. L'Europa non può mantenere una posizione così ambivalente, promettendo dei fondi e impegnandosi in trattati internazionali che non comprendono, nel loro testo e nella loro implementazione, degli accordi internazionali di ampia portata ed estremamente importanti, come gli Accordi di Parigi sul clima, la Convenzione sulla diversità biologica, la Dichiarazione di New York sulle foreste, gli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, in particolare anche quanto stabilito dalla Convenzione 169 dell'Organizzazione internazionale del lavoro che riguarda proprio i popoli indigeni. L'Europa non può impegnarsi a proteggere l'Amazzonia senza includere, nei propri trattati commerciali, quanto stabilito già a livello internazionale, quanto già concordato.
  In questo momento, per la tutela dei diritti dei popoli indigeni in varie parti del mondo, stiamo chiedendo all'Unione europea una posizione più coerente, una normativa che garantisca che i prodotti che Pag. 7arrivano sul mercato europeo non siano prodotti a scapito di foreste e diritti umani. Chiediamo anche che gli operatori con base nell'Unione europea debbano sottostare ad obblighi di tracciabilità e trasparenza lungo tutta la filiera. La soia, il latte, i prodotti lattiero-caseari: le aziende spesso sanno da dove viene il latte, ma non sanno da dove viene la soia con cui vengono alimentati gli animali da cui viene poi prodotto il latte e i suoi derivati.
  Chiediamo anche agli operatori finanziari di impegnarsi in questo senso, perché molte volte vediamo che banche, assicurazioni e anche il settore pubblico, continuano a supportare questo sistema e spesso i cittadini non sono consapevoli che la propria banca, o la propria assicurazione, stia investendo in attività che hanno forti impatti sul clima e sui diritti umani in varie parti del mondo.
  Questo vale quindi per le foreste del mondo, è una normativa che vogliamo protegga le foreste e renda l'Europa e i cittadini europei non più complici, spesso inconsapevoli, di questa deforestazione importata.
  Vorrei spendere delle parole anche su quanto succede in altre foreste, ad esempio in Indonesia. Quest'estate – come ormai purtroppo tutte le estati – la stagione secca in Indonesia è chiamata «la stagione del fumo», perché ci sono così tanti incendi che si crea una nube molto densa e molto fitta di cenere e fumo, che copre non solo l'Indonesia, ma anche i Paesi limitrofi, arrivando a creare addirittura dei problemi diplomatici fra Paesi. È una nebbia così densa, che le navi non possono attraccare, gli aerei non possono atterrare e le persone stanno subendo dei gravissimi danni alla loro salute. Nel nostro ultimo rapporto abbiamo parlato di 900 mila persone con gravi problemi respiratori, solo quest'anno. In Indonesia stanno aprendo dei reparti speciali negli ospedali, che vengono chiamate «case dell'ossigeno», dove le persone portano anche bambini molto piccoli – sono divisi tra bambini piccoli e persone adulte – per respirare ossigeno. Genitori che portano i figli in questi luoghi per far respirare loro l'ossigeno. Questo è chiaramente un attacco al diritto alla salute, per esempio, ed è legato alla deforestazione, alla produzione indiscriminata di olio di palma, ma anche di polpa di cellulosa, perché anche le piantagioni di alberi per la produzione di cellulosa sono un problema molto grave in Indonesia.
  In altri Paesi vediamo problematiche simili, ad esempio in Africa, in Costa d'Avorio, che è il Paese dove principalmente viene prodotto cacao. Come succede anche in Indonesia e in Brasile, le piantagioni di cacao, spesso sconfinano anche nelle aree naturali protette, nelle terre dei popoli indigeni e, che vengano riconosciute a loro o meno, essi sono sempre più obbligati ad allontanarsi, perché non dimentichiamo che piantagione significa anche un ampio utilizzo di prodotti fitosanitari, chimici, che hanno poi gravi impatti sulla biodiversità, sul suolo, sull'acqua. Popoli indigeni del Brasile ci raccontavano la loro impossibilità, ad esempio, di fare ricorso alla medicina tradizionale, perché ormai il suolo è contaminato, quindi le loro piante tradizionali medicinali, che conoscono molto bene, non hanno più gli stessi effetti, anzi; o l'impossibilità di potersi fare il bagno, o bere acqua, perché l'acqua ormai è contaminata. Spesso, i prodotti fitosanitari che vengono utilizzati sulle piantagioni, vengono spruzzati dall'alto da aerei, quindi non è un utilizzo veramente localizzato sulla piantagione, ma arriva a contaminare una zona molto più ampia.
  Stavo parlando dell'Africa, dove sono molte le popolazioni indigene costrette a lasciare le loro terre. Vediamo anche il caso del Camerun: piantagioni per la produzione di gomma, un'altra materia prima che importiamo molto in Europa.
  Sono situazioni che riguardano la violazione dei diritti umani e l'accesso all'acqua, alla salute, alla cultura, perché queste popolazioni vivono in una condizione sempre più svantaggiata, vengono obbligati a emigrare nelle grandi città, senza parlare spesso la lingua ufficiale del Paese, o parlandola in una maniera che non gli permette di trovare lavoro. Vediamo una situazione in cui le borse di studio per le popolazioni indigene, anche le popolazioni tradizionali forestali, sono sempre meno, vengono sempre più ridotte. Quindi, per questi popoli, emanciparsi o semplicemente Pag. 8 poter continuare a portare avanti il loro stile di vita è sempre più difficile ed è un problema anche culturale, perché per loro allontanarsi dalla propria terra significa dover rinunciare a parte della loro cosmo-visione, quindi a parte della loro religione. Loro, a differenza nostra e delle religioni occidentali, non individuano i luoghi sacri in uno specifico luogo, come può essere il tempio o la chiesa, o la sinagoga; loro hanno una visione molto più ampia, dove non è possibile indicare in un luogo specifico la presenza di una divinità. Quindi, per loro, quando la foresta viene distrutta, gli animali uccisi, gli alberi abbattuti, è come se per noi venisse distrutta una chiesa: una grave perdita anche culturale e un'impossibilità di portare avanti determinati rituali.
  Noi speriamo che questa situazione cambi. Dobbiamo ricordare che questa situazione si verifica, entro certi limiti, anche in Europa, perché ci sono dei popoli indigeni anche in Europa, come in Finlandia e in Svezia: il popolo sami, la cui sussistenza e cultura legata è in gran parte legata al pascolo delle renne. Nel Nord Europa vediamo che le foreste vengono distrutte e rimpiazzate da piantagioni. Ricordiamoci che tanti alberi non significa foresta. La biodiversità che ha una foresta non è paragonabile a quella di una piantagione. In Nord Europa queste piantagioni servono per la produzione soprattutto di legno e cellulosa, quindi per i nostri prodotti di carta monouso, che siano gli asciuga-tutto, i fazzoletti, i packaging in generale. Queste piantagioni di alberi rendono molto dal punto di vista commerciale, per esempio sono alberi con aghi molto lunghi e quando questi aghi cadono, coprono totalmente il sottobosco che le renne in branco non riescono più a passare attraverso determinati spazi e non trovano più nemmeno i muschi e i licheni di cui si nutrono. Questo significa una grave moria tra le renne, che devono essere alimentate con fieno, paglia, che però ha impatti negativi sulla loro salute, non è il cibo con cui sono abituate ad alimentarsi. Quindi il popolo sami – proprio qui in Europa, in Svezia, in Finlandia – perde i suoi diritti, nonostante siano organizzati, ci sia un Parlamento sami, una volontà di ascoltarli: nella pratica, i nostri consumi hanno un gravissimo impatto sulla loro vita e sulla loro sopravvivenza, di fatto e culturale.
  Ci auguriamo che l'Europa prenda una posizione molto più coerente e che l'Italia voglia esprimersi in questo senso, anche perché quest'anno il nostro Paese ha la presidenza della Amsterdam Declaration Partnership, quindi può giocare un ruolo molto importante. Il prossimo anno l'Italia ospiterà la pre-COP sul clima, quindi ci troviamo in una situazione in cui davvero, come Paese, possiamo far sentire la nostra voce in questo senso, nell'affrontare la crisi climatica e la crisi ecologica che stiamo attraversando nonché nella volontà di impegnarsi contro la deforestazione e contro la violazione dei diritti umani. Grazie.

  PRESIDENTE. Vi ringrazio davvero per la vostra testimonianza, che offrirà sicuramente numerosi spunti di riflessione al nostro Comitato, all'interno del quale ci occupiamo molto di tutto l'ambito della sostenibilità. Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 9.50.