XVIII Legislatura

III Commissione

COMITATO PERMANENTE SUI DIRITTI UMANI NEL MONDO

Resoconto stenografico



Seduta n. 20 di Giovedì 7 novembre 2019

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Di Stasio Iolanda , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULL'IMPEGNO DELL'ITALIA NELLA COMUNITÀ INTERNAZIONALE PER LA PROMOZIONE E TUTELA DEI DIRITTI UMANI E CONTRO LE DISCRIMINAZIONI

Audizione di rappresentanti di organizzazioni della società civile egiziana.
Di Stasio Iolanda , Presidente ... 3 
Piquemal Leslie , rappresentante del ... 4 
Mefreh Ahmed , direttore esecutivo del ... 5 
Al Kashef Muhammad , avvocato dei diritti umani ... 6 
Di Stasio Iolanda , Presidente ... 8 
Boldrini Laura (PD)  ... 8 
Comencini Vito (LEGA)  ... 10 
Ehm Yana Chiara (M5S)  ... 11 
Palazzotto Erasmo (LeU)  ... 12 
Di Stasio Iolanda , Presidente ... 14 
Al Kashef Muhammad , avvocato dei diritti umani ... 14 
Piquemal Leslie , rappresentante del ... 14 
Mefreh Ahmed , direttore esecutivo del ... 15 
Di Stasio Iolanda , Presidente ... 16

Sigle dei gruppi parlamentari:
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Lega - Salvini Premier: Lega;
Forza Italia - Berlusconi Presidente: FI;
Partito Democratico: PD;
Fratelli d'Italia: FdI;
Italia Viva: IV;
Liberi e Uguali: LeU;
Misto: Misto;
Misto-Cambiamo!-10 Volte Meglio: Misto-C10VM;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Noi con l'Italia-USEI: Misto-NcI-USEI;
Misto-+Europa-Centro Democratico: Misto-+E-CD;
Misto-MAIE - Movimento Associativo Italiani all'Estero: Misto-MAIE.

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DELLA PRESIDENTE
IOLANDA DI STASIO

  La seduta comincia alle 9.10.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti di organizzazioni della società civile egiziana.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sull'impegno dell'Italia nella Comunità internazionale per la promozione e tutela dei diritti umani e contro le discriminazioni, l'audizione di rappresentanti di organizzazioni della società civile egiziana.
  Do quindi il benvenuto ad Ahmed Mefreh, direttore esecutivo del Committee for Justice, associazione indipendente per la difesa dei diritti umani in Medio Oriente e Nord Africa, basata a Ginevra; Muhammad al Kashef, avvocato dei diritti umani, ricercatore indipendente ed esperto di migrazioni nei Paesi di transito, in particolare per quanto riguarda le condizioni di detenzione dei migranti in tali Paesi; Leslie Piquemal, rappresentante per le relazioni con l'Unione europea del Cairo Institute for Human Rights Studies, una delle più note organizzazioni egiziane per i diritti umani; la delegazione della società civile egiziana è accompagnata da Franco Uda e Sara Prestianni, rappresentanti di ARCI.
  Secondo quanto anticipato dall'ARCI, la delegazione è in visita in Italia per interloquire con le nostre istituzioni e con la società civile italiana sulla situazione dei diritti umani in Egitto, a seguito dell’escalation repressiva in corso nelle ultime settimane, in particolare in risposta alle manifestazioni che hanno avuto inizio il 20 settembre 2019, a seguito delle quali sarebbero state arrestate più di tremila persone. Ricordo che il 24 ottobre scorso il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione sulla situazione umanitaria nell'Egitto del presidente al-Sisi.
  Il Parlamento europeo ha stigmatizzato che le autorità egiziane abbiano reagito con durezza ai movimenti di opposizione, violando le libertà fondamentali di espressione, di associazione e di riunione, tutte sancite dalla Costituzione egiziana nonché dal diritto internazionale in materia di diritti umani. Sono stati arrestati avvocati, giornalisti, attivisti e membri delle opposizioni, su cui pendono gravi capi d'accusa, ivi compresi i reati connessi al terrorismo. La sparizione forzata dei difensori dei diritti umani sembra essere diventata una prassi sistematica e la custodia cautelare e le misure preventive vengono utilizzate in misura eccessiva per impedire di svolgere le legittime attività in difesa dei diritti umani.
  La risoluzione menziona anche una recente denuncia dell'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, secondo cui dinanzi ai tribunali egiziani sono pendenti diverse cause concernenti individui condannati sulla base di prove che sarebbero state ottenute sotto tortura e che ora tali persone rischiano la pena di morte.
  La risoluzione del Parlamento europeo, tra le diverse richieste, ha invocato l'abrogazione della legge sulle Ong recentemente adottata e la sua sostituzione con un nuovo quadro legislativo, elaborato in autentica Pag. 4consultazione con le organizzazioni della società civile e conforme alla Costituzione egiziana e alle norme internazionali; ha chiesto alle autorità egiziane una moratoria sulle esecuzioni capitali; ha auspicato un riesame delle relazioni tra l'Unione europea e l'Egitto, chiedendo che i contributi finanziari che la Commissione europea destina al Paese siano erogati unicamente alla società civile e di assicurare che qualsiasi accordo tra l'Unione europea e l'Egitto in materia di migrazione ottemperi rigorosamente alle norme internazionali nel campo dei diritti umani.
  Con riferimento al caso, assai doloroso per il nostro Paese, dell'assassinio, a seguito di tortura, del nostro connazionale Giulio Regeni, il Parlamento europeo, prendendo atto del fatto che le autorità egiziane hanno ostacolato i progressi nelle indagini sul rapimento, la tortura e l'uccisione del giovane ricercatore italiano e della conseguente decisione del Parlamento italiano di sospendere le relazioni diplomatiche con il Parlamento egiziano, deplora la mancanza di un'indagine credibile e ribadisce l'invito alle autorità egiziane a far luce sui fatti e a chiamare i responsabili a risponderne, in piena collaborazione con le autorità italiane.
  Infine ritengo opportuno ricordare che l'Egitto sarà sottoposto il 13 novembre prossimo alla Revisione periodica universale – l'esame che si svolge in sede di Consiglio per i diritti umani alle Nazioni Unite – volta a verificare il rispetto degli obblighi assunti da ciascun Paese in tema di diritti fondamentali dell'uomo. Do quindi la parola ai nostri ospiti per i loro interventi.

  LESLIE PIQUEMAL, rappresentante delCairo Institute for Human Rights Studies. Ringrazio il Comitato per averci accolto oggi. È veramente importante per noi poter affrontare questi temi.
  Facciamo un passo indietro prima degli eventi del settembre 2019, quando abbiamo assistito a diverse fasi di escalation della repressione, delle violazioni dei diritti umani in Egitto, facendo grandi passi indietro rispetto ai progressi realizzati fino al 2012 sul fronte della democrazia e dello stato di diritto, tendenze che hanno consentito violazioni sistematiche e più gravi dei diritti umani dei cittadini, contro i difensori dei diritti umani e contro gli oppositori politici, ovvero dissidenti di ogni tipo. Un aspetto fondamentale è stata la chiusura della sfera pubblica: la libertà di associazione, di riunione pacifica, di stampa, tutte le libertà sono state ristrette sia on line che off line. Tutte queste libertà sono state oggetto di pesanti violazioni con l'approvazione di una serie di leggi molto restrittive, leggi anticostituzionali in quanto sono libertà che sono sancite dalla Costituzione e da accordi internazionali di cui l'Egitto è sottoscrittore. Quindi si è creato un contesto in cui le elezioni politiche, le elezioni presidenziali, ovvero un referendum sulle modifiche costituzionali come quello della primavera del 2019 hanno uno scarsissimo significato, perché, se non si può avere una campagna elettorale libera, se non c'è una libertà di comunicazione con i cittadini, se non si possono organizzare incontri o comizi, si può veramente operare come candidato dell'opposizione? È anche difficile contrastare delle modifiche costituzionali proposte dal sistema, dal potere. Quindi anche la sfera dell'agire politico è andata restringendosi in Egitto negli ultimi anni. Anche il diritto alla partecipazione politica, attraverso qualsivoglia canale, ha registrato grandi passi indietro.
  All'inizio dell'estate abbiamo assistito agli arresti di universitari, difensori dei diritti umani, giornalisti, cittadini appartenenti ai partiti democratici della sinistra liberale, perché avevano avuto l'idea di coordinarsi per le elezioni parlamentari del 2020; sono ancora in stato di detenzione con il capo d'accusa di essere dissidenti. Il fatto semplicemente di programmare una coalizione elettorale è stato penalizzato. C'è stato un aumento delle violazioni dei diritti umani, quali sparizioni forzate, torture, detenzioni arbitrarie, omicidi extragiudiziali, decessi nei luoghi di detenzione formali e informali, anche a causa della negazione deliberata dell'accesso alle cure mediche persino a figure note come il presidente Morsi, ma anche ai difensori dei diritti umani come Gamal Sorour, rappresentante dei nubiani, morto in carcere due Pag. 5anni fa. Quindi violazioni che sono cresciute dal punto di vista quantitativo e qualitativo.
  Esperti internazionali come il Comitato dell'ONU contro la tortura nel 2017 hanno riconosciuto che queste violazioni hanno carattere sistematico. Non ci sono canali per poter avere accesso alla giustizia o a mezzi di ricorso. Quindi c'è una frustrazione, una ostilità crescente contro l'apparato del potere da parte dei cittadini, ma, dato che la sfera dell'agire pubblico è chiusa, non ci sono più canali per una mobilitazione pacifica, per protestare, per esprimere istanze, per sollecitare riforme. Non si può aprire la strada alla costituzione di un movimento sociale neanche on line, perché cresce la sorveglianza elettronica con repressioni. Aderire a un partito, a un sindacato, anche la mera collaborazione con le Ong internazionali, ovvero la collaborazione con le procedure e i meccanismi delle Nazioni Unite in materia di diritti umani espone a rappresaglie e repressioni estremamente pesanti e gravi, con una escalation sempre più marcata negli ultimi mesi.
  Da ultimo un riferimento alla situazione sociale ed economica. In molti casi, quando i diplomatici europei si confrontano con gli omologhi egiziani per esprimere le loro preoccupazioni sulle violazioni dei diritti civili e politici, gli egiziani rispondono «d'accordo, ma il popolo vuole soltanto il pane, le cose concrete e materiali (case, strade, cibo, ospedali, scuole)». Su questi fronti, in realtà, non c'è un progresso, i militari hanno acquisito un peso preponderante nelle decisioni di politica economica, per cui la qualità di queste politiche economiche è veramente scarsa, improduttiva e le risorse pubbliche vengono monopolizzate da questi soggetti. In realtà la ratio di queste politiche è la sopravvivenza del regime e non un'autentica stabilità dello Stato, non rispondere alle esigenze fondamentali e ai bisogni della gente. E il fatto che poi manca ogni forma di accountability.
  Abbiamo parlato dei diritti umani, l'Egitto ha sottoscritto tantissime convenzioni internazionali sui diritti umani, ma finge – anche presso il Consiglio dei diritti umani dell'ONU – di rispettarle. Di qui la frustrazione.
  Il presidente al-Sisi nel 2014 ha fatto una campagna elettorale basata su due pilastri: stabilità e sicurezza e il popolo egiziano ha inteso questo concetto non soltanto come sicurezza fisica – la protezione dei cittadini dal terrorismo, sul quale peraltro non ci sono stati risultati pienamente soddisfacenti –, ma anche stabilità e sicurezza economica (posti di lavoro e servizi di base). In alcuni di questi settori sono stati realizzati dei piccoli passi avanti, ma non bastano, perché i cittadini vedono un'enorme crescita della corruzione e l'abuso di risorse pubbliche a livelli insostenibili. E questo è sfociato nelle manifestazioni del mese di settembre. Mi fermo qui e lascio la parola ai miei colleghi.

  AHMED MEFREH, direttore esecutivo delCommittee for Justice. Sono un avvocato egiziano, direttore esecutivo del Comitato per la giustizia, un'associazione di stanza a Ginevra che lavora per la difesa dei diritti umani in Medio Oriente e Nord Africa, con un focus adesso sull'Egitto.
  Come è ben noto, la situazione dei diritti umani in Egitto continua a destare gravi preoccupazioni con nuovi restrizioni sui media, su tutte le libertà e contro la società civile nel suo complesso. Numerosi difensori dei diritti umani e attivisti rappresentanti dei media sono stati arrestati con l'accusa di associazione con gruppi terroristici volta alla diffusione di false notizie o per rovesciare il Governo.
  Vorrei evidenziare che anche dopo le ultime modifiche costituzionali – approvate ad aprile scorso – la situazione non è cambiata. La modifica costituzionale ha previsto che al-Sisi rimarrà al potere indefinitamente e noi difensori dei diritti umani ci saremmo aspettati una reazione da parte degli alleati occidentali, della comunità internazionale, ma ciò non è avvenuto. Le manifestazioni di piazza del settembre scorso sono proprio il segnale di protesta rispetto all'assenza di cambiamenti, al fatto che la situazione è rimasta identica a quella del 2013.
  La risposta del Governo a queste manifestazioni pacifiche, iniziate il 20 settembre, Pag. 6 è stato il più brutale giro di vite degli ultimi cinque anni: più di quattromila arresti in dieci giorni, di cui centoquaranta donne e centoundici minori. La maggior parte di queste persone sono ancora in stato di detenzione e sono indagate per il reato di terrorismo. Le organizzazioni dei diritti umani, in Egitto e fuori dall'Egitto, hanno verificato dalle registrazioni che le forze di sicurezza egiziane hanno fatto ricorso alla violenza nella repressione di queste manifestazioni: ci sono state centinaia di sparizioni; ci sono stati arresti, perquisizioni arbitrarie a checkpoint; sono stati bloccati molti canali dei media ed è stato bloccato l'accesso alle chat e ad altri strumenti di comunicazione on line.
  Nel mese di settembre le autorità hanno arrestato sedici avvocati attivi nella difesa dei diritti umani, incluso Mahienour El-Masry e Mohamed El-Baqer, vittime di un arresto preventivo sulla base di capi d'accusa infondati, per aver criticato il Governo. Queste persone sono state accusate, anche perché lavorano insieme alla comunità internazionale, collaborano con le organizzazioni internazionali per trasmettere informazioni autentiche su quanto successo in Egitto nella repressione ai danni dei manifestanti. Mohamed El-Baqer, direttore del Centro Adalah per le libertà e i diritti in Egitto, è indagato dalla procura per aver pubblicato un rapporto sulla situazione dei nubiani che è stato presentato al gruppo di lavoro che si occupa della Revisione periodica universale in Egitto. Quindi non soltanto repressione sui manifestanti e sui dimostranti, ora il regime egiziano sta intimidendo e colpendo direttamente gli avvocati dei diritti umani in Egitto.
  In questo quadro è importante sottolineare che queste violazioni certo non sono uno strumento per dare stabilità al Paese. Deve esserci un dialogo autentico sui diritti umani con il Governo egiziano affinché ponga fine a questi crimini e a queste violazioni. Segnalo inoltre che il regime egiziano ha utilizzato il dossier delle organizzazioni dei diritti umani nel Paese come una pedina negoziale nelle trattative con i Governi stranieri e con i Paesi dell'Unione europea. Queste azioni contro gli attivisti nel settore dei diritti umani si basano sulla filosofia che non ci debbano essere istituzioni o centri indipendenti attivi in Egitto, tutti gli attori devono rimanere sotto uno stretto controllo governativo. Dopo la salita al potere di al-Sisi, nel 2014, si pensava che tutte queste leggi repressive nei diversi settori della sfera pubblica (sulle Ong ad esempio) sarebbero state modificate: in realtà questo non è avvenuto. Quindi noi riterremmo utile un dialogo autentico ed efficace con il regime egiziano per poter portare avanti un progetto, una cooperazione (anche a livello economico) per produrre dei cambiamenti nella situazione attuale. Questa per noi è l'unica cosa che conta nei contatti tra il regime e i Governi stranieri. Quindi concedere aperture e, in cambio, ottenere un impegno a modificare la situazione.
  Do adesso la parola al collega che approfondirà gli aspetti della cooperazione con l'Unione europea e il problema dei rifugiati, oltre ad altre questioni.

  MUHAMMAD AL KASHEF, avvocato dei diritti umani. Grazie per averci accolti qui oggi. Grazie per questa opportunità di poter raccontare la situazione in Egitto.
  Io sono un avvocato che si occupa di diritti umani, sono ricercatore sul tema delle migrazioni e sulla collaborazione tra Unione Europea ed Egitto. Come hanno detto i colleghi, la situazione in Egitto è difficile per tutti, c'è una repressione di massa che si verifica ormai da sei anni. Per l'Italia, per l'Unione europea l'Egitto è uno degli alleati più importanti nell'area del Mediterraneo per la gestione dei confini e per la cosiddetta «crisi dei rifugiati». Abbiamo ascoltato una serie di informazioni sulla condizione dei cittadini egiziani, che ha delle implicazioni sulle condizioni dei migranti e dei rifugiati. Per molto tempo l'Egitto è stato visto come la porta del Mediterraneo verso l'Europa, anche se spesso sembra essere più un buco nero, proprio a causa della mancanza di informazioni provenienti dal Paese.
  Fin dalla sua ascesa al potere al-Sisi ha visto la possibilità di poter presentare e di promuovere il suo regime e se stesso come Pag. 7un forte alleato, un forte collaboratore dell'Unione europea, soprattutto per quanto riguarda gli investimenti, il commercio, la sicurezza dei confini e altri temi regionali. Ci sono parecchi accordi bilaterali tra Italia ed Egitto già avviati durante l'era Mubarak, ad esempio il tema sulla riammissione del 2007 che è entrato in vigore nel 2008. L'Egitto è uno dei Paesi che ha fatto parte della task force del Processo di Khartoum. La marina egiziana effettua parecchie missioni di addestramento congiunte con molti Stati europei – l'Italia, la Francia, la Grecia, la NATO stessa – e sfortunatamente c'è un utilizzo sbagliato dei fondi che vengono ricevuti da parte egiziana: fondi che dovrebbero essere utilizzati per far fronte alla situazione dei rifugiati, per creare dei progetti per i rifugiati (compresi i progetti di istruzione e formazione), ma i rifugiati non ricevono letteralmente nulla. I rifugiati stanno vivendo un vero e proprio disastro finanziario, ne soffrono; non c'è un sistema di asilo nazionale in Egitto, quindi fanno affidamento soltanto sul Consiglio ONU per i diritti umani e lo stesso Consiglio ha detto varie volte che non può fare nulla, non riesce a proteggere i richiedenti asilo. Nonostante il riconoscimento internazionale dei rifugiati siriani all'estero come richiedenti asilo, in Egitto questo loro status viene negato e, quando abbiamo chiesto all'UNHCR il motivo per cui questa situazione persiste, la risposta è stata che lo Stato egiziano si rifiuta di riconoscere lo status di rifugiati ai siriani. Parlando con il Ministero degli Affari esteri egiziano, la loro risposta è stata che questo è un discorso di competenza dell'ONU e che non possono intervenire. Questi eventi si verificano spesso.
  L'Egitto è molto soddisfatto di questa situazione win-win a beneficio di entrambe le parti, Egitto e Unione europea e i singoli Stati europei, parlo della capacità dell'Egitto di controllare i confini, le politiche di sviluppo; inizialmente c'era una politica di porte aperte per poter accogliere il maggior numero possibile di migranti e di rifugiati dalla Siria e dallo Yemen, dalla Libia, dal Sudan, dalla Somalia, dall'Eritrea, dall'Etiopia per poter usare poi la situazione dei rifugiati e dei migranti come pedina di scambio con l'Unione europea.
  Abbiamo spesso sentito dire dal presidente egiziano che abbiamo oltre cinque milioni di rifugiati, ma ciò non corrisponde al vero. Secondo l'UNHCR ci sono soltanto 196 mila richieste di asilo, e solo il 5 per cento delle richieste rappresentano veri e propri rifugiati (la maggior parte di nazionalità africana, soprattutto dal Sud Sudan e dalla Somalia).
  Vediamo anche i vari progetti imprenditoriali. L'ENI per esempio ha investito pesantemente nel Paese. Tuttavia, non c'è un vero e proprio progetto di sviluppo, è un progetto di assistenza finanziaria sostenuta dal Governo italiano. Nel 2018, per esempio, esisteva un progetto per assistere i rifugiati siriani, in collaborazione con l'UNHCR e l'OIM, e il Governo italiano ha donato 1 milione di euro per l'assistenza finanziaria dei rifugiati siriani. In loco non abbiamo visto alcun tipo di miglioramento per quanto riguarda la situazione, anche finanziaria, dei rifugiati. Molti di loro soffrono proprio a causa della mancanza di assistenza e l'UNHCR spesso ci ripete che non ha nulla da offrirci, che dobbiamo aspettarci di ricevere assistenza da parte del World Food Program e che non possiamo aspettarci di ricevere fondi da parte sua.
  Nonostante tutta questa gestione scorretta dei rifugiati, perdura la percezione dell'Egitto come Paese sicuro: c'è il Processo di Khartoum, ci sono vari accordi di riammissione e molte persone vengono rimpatriate, deportate dall'Italia all'Egitto, proprio perché l'Egitto viene considerato come un Paese sicuro. L'anno scorso trecento persone sono state deportate in Egitto. Ma se l'Egitto non è sicuro, perché queste persone vengono rimandate in Egitto? Ci sono molti casi di detenzione arbitraria subita dai rifugiati. Non è possibile fare richiesta di asilo, quando si è detenuti. C'è anche la deportazione dei richiedenti asilo: anche se si proviene dalla Siria, dallo Yemen, da qualunque altro Paese, si è a rischio di deportazione dall'Egitto per motivi di sicurezza nazionale. L'Istituto per la sicurezza nazionale egiziano ha libertà di decidere Pag. 8chi può rimanere nel Paese e chi no. Ha un potere assoluto in tal senso.
  Nel 2016 ricorderete che è entrata in vigore una legge in Egitto per impedire la migrazione illegale e il traffico di esseri umani; dopo l'entrata in vigore di questa legge è stato attuato l'accordo ITEPA (International Training at Egyptian Police Academy ovvero l'addestramento internazionale presso l'accademia di polizia egiziana). Si tratta di un progetto implementato dalle autorità italiane ed egiziane, che prevede che funzionari di polizia italiani ed egiziani insieme offrano l'addestramento ad altre forze di polizia di ventidue Paesi africani. Per essere molto chiari, esiste un programma Italia-Egitto che viene attuato nella famigerata Accademia di polizia egiziana che è dotata di un tribunale segreto – il cosiddetto tribunale di alta sicurezza – al Cairo, dove ci sono dei luoghi di detenzione segreti sotterranei, luoghi in cui l'ex presidente egiziano Morsi è morto durante il suo processo pochi mesi fa. Quindi al Cairo c'è questo progetto in corso tra Italia ed Egitto per fornire addestramento a funzionari di polizia di altri ventidue Paesi africani, nel contesto della sicurezza legata alla migrazione. Questo viene finanziato dall'Italia, con fondi italiani. Non c'è soltanto l'addestramento tecnico, viene anche finanziato dal Governo italiano. Faccio riferimento soltanto alla quota italiana, soltanto all'Italia come Paese membro europeo; parlo soltanto dei rapporti tra Italia ed Egitto, non cito il rapporto tra Egitto e Unione europea o tra Egitto e altri Stati membri dell'Unione europea.
  Vediamo anche l'importante ruolo dell'Egitto in Libia. Siamo tutti a conoscenza della situazione libica. Ieri sono stati pubblicati dati statistici forniti dal portale globale sull'immigrazione, secondo i quali i migranti egiziani in Libia ormai sono sopra i centodiecimila ed equivalgono al 15 per cento del numero totale di migranti presenti in Libia (il secondo gruppo più grande di migranti presenti in Libia). Quindi, se vogliamo veramente occuparci del flusso dei migranti che attraversano il Mediterraneo, se diciamo di voler aiutare il regime egiziano a controllare i confini e se li lodiamo per il buon lavoro che stanno facendo, sappiate che la verità è che molti egiziani stanno attraversando il confine tra Egitto e Libia e non aspettano altro che trovare una collocazione sicura. Pensate che gli egiziani ormai considerano la Libia più sicura rispetto all'Egitto stesso.

  PRESIDENTE. Chiedo se ci sono colleghi che intendono intervenire. Onorevole Boldrini, prego.

  LAURA BOLDRINI. Grazie, Presidente. Ringrazio l'ARCI per averci dato la possibilità di ascoltare le testimonianze di persone che ogni giorno si devono rapportare con una situazione molto pericolosa in merito ai diritti fondamentali delle persone. Ho ascoltato con molta attenzione e credo che questa Commissione dovrà valutare con attenzione questi aspetti anche in relazione ai futuri appuntamenti che abbiamo con l'Egitto.
  Parlo per la mia esperienza di venticinque anni nelle Nazioni Unite, di cui quindici all'UNHCR: dunque mi rendo perfettamente conto della situazione che state denunciando, sia in merito alla violazione sistematica dei diritti degli oppositori del regime in Egitto, dei sindacalisti, di tutti coloro che si ribellano pubblicamente, sia in merito alla condizione di un popolo che si vede schiacciato sotto la narrazione de «le cose importanti sono altre» (cibo, casa, salute), che sono certamente rilevanti, ma è essenziale anche la libertà e la tutela dei diritti fondamentali.
  Capisco e simpatizzo con voi riguardo all'attacco che il regime sta sferrando contro le Ong in Egitto. Tutti i regimi sono allergici a chi non vuole assecondare la loro azione di forza, e le Ong sono spesso il primo bersaglio. Quindi vi ringrazio per quello che state facendo, per tenere alta l'attenzione sul fronte dei diritti di un popolo che meriterebbe molto altro.
  Noi abbiamo anche un contenzioso aperto con l'Egitto che riguarda la sorte di un nostro giovane ricercatore – Giulio Regeni – che è stato rapito, torturato e poi ci hanno detto che lo avevano ucciso per rubargli il portafoglio. Se queste sono buone Pag. 9relazioni tra Stati, mi chiedo quali siano le cattive! Un sistema di disinformazione e di depistaggio che va avanti da più di tre anni. Non c'è collaborazione tra le procure, quella del Cairo e quella di Roma; la procura di Roma ha individuato tre elementi che fanno parte degli apparati di sicurezza egiziani, chiedendo di procedere nei loro confronti e nulla è stato fatto dalla controparte. Siamo in procinto di avviare i lavori di una Commissione d'inchiesta parlamentare sul caso Regeni, che io spero inizi ad operare quanto prima: abbiamo approvato la legge, tra pochi giorni verrà convocata questa Commissione e si tratterà di eleggere il presidente e poi cominciare a lavorare. Questa Commissione parlamentare avrà gli stessi poteri della magistratura. Quindi avremo bisogno anche della vostra collaborazione, perché sicuramente questa Commissione d'inchiesta non si fermerà alle informative di regime, ma avrà bisogno della collaborazione delle associazioni della società civile.
  Per quanto riguarda i rifugiati in Egitto, informo i colleghi che l'Egitto riceve centinaia di migliaia di rifugiati da altri Paesi e vive una situazione di totale «no man's land» in alcune parti del Paese, incluso il Sinai dove non si sa che cosa succeda. Normalmente i richiedenti asilo vengono presi in ostaggio da bande armate e tenuti in detenzione fino a che non ricevono i soldi dalle famiglie che pagano il riscatto; le autorità egiziane su questa parte del territorio non hanno mai acceso i riflettori e quindi c'è una zona del Paese in cui i diritti dei migranti sono letteralmente calpestati.
  Egitto Paese sicuro. Personalmente ritengo che mai l'Egitto potrebbe essere inserito in una lista di Paesi sicuri. L'ultimo decreto attuativo, firmato da tre ministri di questo Governo, non include l'Egitto tra i Paesi sicuri. Non era ovvio che questo accadesse, abbiamo lavorato perché fosse così, perché oltre al fatto che alcune condizioni, come l'omosessualità, vengono ancora considerate reati – e questo basterebbe per non considerarlo sicuro –, c'è anche la situazione che ci avete illustrato voi.
  È vero, c'è l'accordo bilaterale di riammissione e questo ci deve far riflettere sul sistema di eleggibilità in Italia: quando c'è l'accordo di riammissione, i Paesi dicono «egiziani via», neanche si dà accesso alla procedura d'asilo. Abbiamo sentito che cos'è oggi l'Egitto e sappiamo che non si può decidere sulla base dell'accordo di riammissione. Si deve offrire accesso alla domanda d'asilo per chi proviene dall'Egitto, anche se abbiamo l'accordo bilaterale di riammissione, perché questo accade oggi in quel Paese, e questa è una palese violazione dei diritti fondamentali e, dunque, la Convenzione di Ginevra ci impone di dare accesso alla procedura d'asilo ai cittadini egiziani.
  Capisco la rabbia e la ribellione rispetto al fatto che si svolgano anche delle attività di formazione della Guardia costiera e della Polizia, la stessa Polizia che usa questi metodi. Qui siamo sempre sottoposti allo stesso dilemma, io non l'ho mai trovata la risposta in tanti anni di lavoro in questi contesti: si deve chiudere ogni relazione con un Paese che non rispetta i diritti o si deve fare in modo che, attraverso lo scambio e la formazione, si possa avviare la stagione del rispetto dei diritti? Quando nelle crisi umanitarie i genociders si rifugiavano nei campi dei rifugiati dopo il genocidio in Ruanda, la Comunità internazionale avrebbe potuto rifiutarsi di operare in presenza dei genociders? Sì, ma c'erano anche i civili, i bambini, le persone innocenti. Se tu non operi più, quelle persone staranno peggio. Quindi io non ho la risposta. Ho un grande conflitto su questo, però auspico che questo tipo di attività vengano fatte non nell'ottica di rafforzare un regime, ma – al contrario – di dare a chi opera in quel contesto degli strumenti per capire che occuparsi di sicurezza può essere un esercizio fatto nel rispetto dei diritti e non contro le persone.
  Vi ringrazio, perché ci avete dato l'opportunità di conoscere ancora più a fondo la condizione che vivono milioni di persone in Egitto e la condizione dei rifugiati che non sono – come dice il regime – milioni – sono molti di meno –, nei cui confronti però bisogna fare molto di più. Spero che Pag. 10avremo anche in futuro ulteriori occasioni di collaborazione, proprio nell'ambito di questa Commissione che stiamo per istituire nei prossimi giorni.

  VITO COMENCINI. Ringrazio gli attivisti che sono venuti a portare la loro testimonianza e ad illustrare la battaglia che stanno conducendo, al di là delle riflessioni che farò. Ovviamente mi complimento per il coraggio e la determinazione con cui portano avanti queste battaglie.
  Detto questo, è chiaro che si parla di un regime (quello dell'Egitto) – e non c'è dubbio che sia un regime, non stiamo parlando certo di un grande esempio di democrazia – ma ci tengo a sottolineare che l'Italia ha rapporti economici, politici, di collaborazione non solo con il regime egiziano, ma con molti altri su cui si potrebbe riflettere e aprire grandi discussioni sui diritti umani e sul loro rispetto. È evidente che in certi casi si discute, in altri casi si finge di non vedere, in altri casi ancora sono i media stessi che fingono di non vedere e siamo di fronte a dei paradossi. Ovviamente non voglio fare dei paragoni specifici, ma non si può far finta di non vedere il paradosso delle organizzazioni che dovrebbero intervenire nei confronti del regime saudita, che non mi sembra un grande esempio di democrazia, a differenza dell'Egitto. Le Nazioni Unite hanno nominato i rappresentanti dell'Arabia Saudita nel Consiglio per i diritti umani, cosa che potrebbe anche far sorridere se non fosse un'assurdità. È evidente che dall'altra parte – è inutile che ci prendiamo in giro, ne abbiamo discusso spesso in Parlamento – ci sono rapporti economici e interessi di vario genere: ad esempio le Ferrovie italiane che stanno collaborando alla realizzazione della metropolitana di Riad. Di fronte a questo talvolta si finge di non vedere.
  Oggi però non si può fingere di non vedere che la situazione è molto più complessa. Se parliamo di regimi, bisogna andare a vedere la loro origine o il perché di una situazione politica simile in Egitto. Quando al-Sisi è salito al potere, c'è stato un colpo di Stato, ma cosa c'è stato prima? Ci sono state le «Primavere arabe» che avrebbero dovuto portare la democrazia e la libertà in tutti questi Paesi. Questa è la democrazia e la libertà che hanno portato! Evidentemente non era solo questo, dietro chi manifestava per la libertà e la democrazia c'era anche chi invece voleva portare qualcos'altro: il fondamentalismo islamico. Sappiamo il pericolo di certa parte dei Fratelli musulmani, Erdoğan ne è un esempio: come regime in Turchia volevano portare avanti la legge coranica o comunque il fondamentalismo islamico. È chiaro che c'è un pericolo in questi territori ed è evidente che, seppure si tratti di un regime con numerose criticità, al-Sisi ha contrastato e combatte il terrorismo islamico. Questo non possiamo fingere di non vederlo. Ritengo che sia doveroso fingere di non vederlo, nonostante tutto il resto che giustamente viene detto, perché quello che purtroppo non è stato detto, ad esempio, è che c'è una minoranza – molto significativa – di cristiani copti che in tutti questi anni sono stati perseguitati. C'è stato un bagno di sangue nei loro confronti e c'è ancora adesso da parte del fondamentalismo islamico o del terrorismo islamista. Però purtroppo devo notare che non si è parlato di questa minoranza, di questo 10 per cento (in passato era anche una percentuale maggiore). Al-Sisi qualche mese fa è andato a inaugurare la più grande cattedrale cristiana, se non sbaglio, vicino al Cairo. Quindi è evidente che c'è stato un atteggiamento diverso rispetto al passato, dove si fingeva, e in parte mi risulta che ancora adesso una parte delle forze dell'ordine egiziane fingano di non vedere quello che succede ai cristiani perseguitati in questa regione. Di fronte a questo mi sento di dire che la questione è più complessa che il regime sta sferrando contro le Ong del dire che il regime sta sferrando contro le Ong «andiamo a vedere quel singolo Paese, diciamo che lì non sono rispettati i diritti umani e quindi lo richiamiamo». La questione è molto più complessa e bisognerebbe farlo con ogni Paese con cui abbiamo rapporti importanti. Ho fatto l'esempio dell'Arabia Saudita per la questione del fondamentalismo islamico, ma possiamo anche uscire da questa questione: andiamo a vedere la Cina, con cui mi sembra che stiamo stringendo Pag. 11 accordi importantissimi, dove non credo che i diritti umani siano così rispettati. Non mi sembra che abbiamo ancora incontrato gli attivisti dei diritti umani della Cina!
  Mi sento in dovere anche di fare una riflessione sulla questione dell'immigrazione, perché, a differenza di chi mi ha preceduto, credo che vada fatta una distinzione: non basta dire «migranti»; un conto è chi veramente scappa dalla guerra, chi scappa da situazioni di difficoltà; un altro conto è chi invece rientra all'interno dei flussi di immigrazione clandestina, di traffico di esseri umani, di business: contrastare tutto questo è un dovere. È un dovere certamente farlo con le misure giuste, è un dovere riuscire a distinguere e accogliere chi effettivamente è rifugiato, però questo non ci deve distogliere dal fatto che, se non bisogna fare di tutta l'erba un fascio, in questo caso c'è anche chi non scappa da una guerra o da una situazione emergenziale, che può portare anche un pericolo, perché il pericolo del terrorismo può passare anche attraverso l'immigrazione clandestina.
  In conclusione, una riflessione. Presenterò nelle sedi opportune – alla presidente della Commissione esteri – la richiesta di audizione dell'ambasciatore egiziano a Roma per capire anche il punto di vista della controparte sulla situazione in Egitto. Non c'è dubbio che in quello che è stato denunciato oggi ci sia del vero, degli aspetti gravi, ma mi piacerebbe sentire anche l'altra campana, se no rischiamo di fare dei singoli «processi» nei confronti di un Paese per la sua politica interna e di non vedere altri elementi che giustamente oggi non sono stati presi in considerazione.

  YANA CHIARA EHM. Anche da parte mia un ringraziamento per il lavoro che svolgete, per il racconto che ci avete fatto; le testimonianze sono sempre fondamentali per riuscire a capire meglio. Comprendo anche quanto detto dal collega Comencini sul fatto che è importante capire la situazione in tutti i suoi aspetti, quindi ritengo che sia importante riuscire ad avere un quadro completo. Voi oggi avete illustrato una parte del quadro, e questo è fondamentale.
  Piccole aggiunte, perché già i miei colleghi hanno toccato diverse tematiche importanti. Sulla questione Regeni siamo riusciti a istituire questa Commissione d'inchiesta, che sarà molto importante per chiarire questo caso, per noi molto rilevante. Svelo un piccolo retroscena, la Commissione lo sa già: all'epoca dei fatti ero studentessa, facevo il master, ho dedicato due papers di ricerca su Regeni e ricordo benissimo come il mio professore mi diceva che era importante analizzare Regeni, ma era essenziale analizzarlo come uno tra tanti. Quindi ho aperto questa parentesi che diventava sempre più grande, perché queste sparizioni forzate non finivano più, cosa che mi ha fatto comprendere quanto questa fosse una questione complessa, presente da tantissimo tempo. Non ne parliamo solo negli ultimi tempi, ma va avanti da tanti anni. Si è ovviamente deteriorata negli ultimi anni con la repressione sempre più forte attraverso l'autoritarismo.
  La riflessione che vorrei fare – che mi preme molto, e sono interessata alla vostra opinione – è che studiando la «Primavera araba» al Cairo mi stupirono le immediate conseguenze: si parlava di momenti di applicazione di democrazia, ma come l'applicazione di questa democrazia venisse a volte deviata, travisata: si è vista molta violenza, anche violenza sessuale e si è visto come uno Stato, nelle prove di democrazia, non sempre avesse questa facilità, perché il processo di democratizzazione è molto complesso. Infatti si vede molto spesso che ci sono più casi di fallimento che di successo.
  Mi interesserebbe molto conoscere anche il vostro punto di vista di un Paese che ha visto la possibilità di democratizzazione, rispetto alla quale poi c'è stata una chiusura. In altre parole, vorrei sapere la vostra opinione su come l'Egitto si può rapportare a questa rivendicazione di democrazia.
  Ultimo punto su cui vorrei soffermarmi è la questione migranti. Ieri abbiamo audito rappresentanti della Croce Rossa, abbiamo parlato della difficoltà di fissare parametri standard oppure storici per classificare Paesi sicuri e non sicuri e di come Pag. 12invece oggi i criteri sono cambiati, quindi a volte alcuni Paesi vengono classificati sulla base di parametri pregressi, quando invece le guerre non sono più le stesse, i conflitti sono cambiati. Ricordo benissimo quando la Germania decise di indicare l'Afghanistan come Paese sicuro, suscitando l'indignazione di tutti i cittadini che si chiesero come si potesse classificare così un Paese palesemente insicuro. Quindi questo può indurre – almeno per quanto mi riguarda – una riflessione su come approcciarsi oggi rispetto a questa classificazione, quali sono i parametri che dovremmo applicare.
  Sui migranti io capisco il collega Comencini, secondo il quale dobbiamo distinguere tra chi scappa dalla guerra e chi no, ma secondo me i parametri anche lì sono molto più ampi: la guerra non è più quella di un tempo; guardando proprio i trattati che abbiamo firmato, parliamo anche di accoglienza di chi scappa da una certa discriminazione – sessuale, religiosa, eccetera – e questa è una realtà ben presente anche in Paesi che non sono coinvolti in un conflitto. Secondo me la situazione è ben più complessa e si deve valutare non solo chi scappa dalla guerra e chi no, ma anche chi scappa da altre situazioni non inquadrabili nella guerra in senso stretto.
  L'ultimo punto importante è la questione dell'addestramento. Concordo con quanto detto dalla collega Boldrini: il dilemma di voler contribuire allo sviluppo, promuovere un maggior controllo, fare i giusti passi e poi ovviamente alcune cose vanno bene, altre forse vanno male, e lì forse servirebbe un maggior controllo nel verificare che, dopo l'addestramento, il programma abbia successo. Io sono stata all'inizio dell'anno in Iraq, dove ho visto l'addestramento e ho verificato quanto è stato importante nel rendere più efficiente l'apparato nazionale iracheno: questo non vuol dire che poi non ci siano state defezioni o difficoltà anche in quel senso. È vero che ci si trova davanti a questo dilemma: la volontà di voler contribuire in maniera positiva e poi vedere alcune criticità che ovviamente vanno affrontate. Anche una segnalazione, quindi, può essere importante affinché si possa riuscire a trovare la soluzione. Però non escluderei in toto la possibilità di realizzare programmi di addestramento.

  ERASMO PALAZZOTTO. Io ci tengo a ringraziare i nostri auditi per l'importante testimonianza che hanno riportato a questa Commissione.
  Più che delle domande vorrei fare delle riflessioni che riguardano i legami tra l'Italia e l'Egitto, legami storici profondi legati a interessi economici, geostrategici, di sicurezza – come ricordava prima qualche collega – e oggi anche legami tragici, perché è chiaro come la vicenda di Giulio Regeni unisce anche le società civili nell'essere vittime della stessa violazione dei diritti umani, vittime di un regime che in questo momento si trova ad avere anche una recrudescenza, se fosse mai possibile, rispetto a quanto già dimostrato in questi anni.
  Condivido molto le riflessioni della collega Boldrini rispetto al tema delle relazioni con un Paese dove vige una dittatura di questo tipo e del capire qual è il modo con cui le relazioni internazionali, la politica e la diplomazia possano intervenire per migliorare le condizioni, perché è evidente che quella di interrompere ogni relazione sul piano diplomatico, commerciale e quant'altro è la soluzione più semplice, ma questo non cambia le condizioni di chi vive in quel Paese. Allo stesso tempo è nel punto di equilibrio che va trovata una strada da percorrere. Lo dico anche rispetto alle parole del collega Comencini: io capisco che ci sono interessi particolari, economici, è inutile che ce lo nascondiamo, l'ENI – la nostra azienda di Stato – ha in questo momento le concessioni per il più grande giacimento di gas naturale del pianeta (il giacimento Zohr), ed è chiaro che quello ha condizionato e condiziona il piano delle relazioni tra l'Italia e l'Egitto. C'è un tema che riguarda la sicurezza, è chiaro che l'Egitto svolge in questo momento una funzione di equilibrio in una regione molto complessa. Ora io non penso che il tema sia il terrorismo islamico, penso più che altro a uno scontro geo-politico che talvolta c'entra con le correnti e le divisioni del mondo islamico, molto spesso invece c'entra con Pag. 13altre questioni legate a interessi geostrategici, militari ed energetici che giocano nella regione anche con le faglie delle storiche divisioni del mondo islamico. Però dobbiamo sapere che ci sono delle cose che non possiamo accettare. Lo dico con molto rispetto, onorevole Comencini: credo che Lei avrebbe un punto di vista diverso, se ogni mattina uscendo da casa dovesse preoccuparsi se a casa ci può tornare, se non finisce in una segreta, se non finisce con l'essere torturato per le sue idee politiche. Io Le auguro di non provare mai questa sensazione, però sono sicuro che, nel caso in cui ci si trovasse, se oggi si instaurasse in questo Paese una dittatura che mettesse al bando il suo partito, il suo movimento e la tortura tornasse ad essere praticata in Italia, probabilmente qualcuno Le verrà a dire che è fondamentale, perché altrimenti la Russia arriva da questa parte e Lei si troverebbe a dire «probabilmente i vostri interessi di sicurezza sono più importanti del fatto che qualcuno mi torturi». Non è così semplice e lineare.
  Credo che bisogna tenere un punto di equilibrio; bisogna sapere, quando si affrontano questioni di politica estera, qual è il livello di complessità delle vicende. Per noi c'è un punto importante: la vicenda di Giulio Regeni rappresenta anche un'opportunità. Lo dico perché quella tragedia, quella morte, al di là del fatto che occorre ottenere verità e giustizia per la famiglia, per questo Paese, per quello che ha rappresentato la storia di Giulio Regeni, è anche l'opportunità di rendere quel sacrificio utile a cambiare le cose in Egitto e a cambiarle anche nelle relazioni tra i nostri Paesi. Io mi auguro che la Commissione d'inchiesta abbia la capacità di coadiuvare un processo, di arrivare a definire una verità storica, che non significa aprire processi sommari: significa ripristinare un principio di verità che è la base per iniziare un percorso, anche, di ricostruzione di relazioni diplomatiche e, anche e soprattutto, per contribuire a una transizione democratica del Paese.
  Adesso il punto non è abbattere al-Sisi, perché la sua semplice caduta non determina un miglioramento delle condizioni. Lo abbiamo visto. Lei citava giustamente le «Primavere arabe»: il passaggio da una dittatura a un'altra ha peggiorato le condizioni, ci siamo ritrovati in un Paese che festeggiava la caduta di una dittatura e nell'arco di un anno si è trovato sotto una dittatura peggiore di quella precedente. Noi abbiamo avuto una grande occasione e l'abbiamo sprecata. Le «Primavere arabe» sono state un'occasione e un'opportunità che l'Europa non ha saputo cogliere: le rivolte dall'altra parte del Mediterraneo contro un sistema fondamentalmente ingiusto. Qui c'è una riflessione da fare: quelle manifestazioni non rivendicavano semplicemente democrazia, libertà civili e diritti, rivendicavano in primo luogo giustizia sociale. Quei moti di ribellione si sono mobilitati a partire da una crisi economica, non semplicemente dalla rivendicazione di libertà e di giustizia; il problema è che l'Europa si è tirata fuori da quella transizione, ha pensato che quei moti di rivolta, quelle ribellioni potessero essere semplicemente utili a cambi di regime che erano diventati un po’ ingombranti, dittatori con cui per anni si erano fatti affari e che avevano raggiunto un livello di potere sull'altra sponda del Mediterraneo e non obbedivano più agli ordini, quindi l'idea che quel cambio di regime potesse essere utilizzato per garantire interessi economici. È stato così per l'intervento in Libia contro Gheddafi; è stato così il passaggio egiziano; si è pensato di fare la stessa cosa in Siria, con le conseguenze che abbiamo visto. L'unico Paese che si è avviato a una transizione democratica e che oggi io credo sia un Paese da difendere e da sostenere, per l'esperienza straordinaria che sta mettendo in campo sull'altra sponda del Mediterraneo, è la Tunisia. Io credo che noi sbaglieremmo a non investire sulla Tunisia. Mi è altrettanto chiaro come la Tunisia non rappresenti un interesse geo-strategico, economico, energetico tale da intervenire, per cui – se dovessi dire la verità – non credo che il problema delle «Primavere arabe» sia stato l'islamismo, credo piuttosto che siano stati gli Stati europei occidentali che su quelle rivolte hanno giocato gli interessi economici, geo-strategici, politici e di sicurezza Pag. 14 e li hanno fatti pagare ai popoli dell'altra sponda del Mediterraneo. In Tunisia non c'è il petrolio e non c'è il gas. Dove abbiamo lasciato i popoli a costruire da soli la propria democrazia, i tunisini sono stati capaci di costruirsela, in maniera complessa, complicata, conflittuale, ancora oggi con grande difficoltà, ma quello è un Paese, è un popolo che va sostenuto – penso – anche perché per fortuna (loro) non ci sono interessi economici troppo rilevanti, per cui possiamo anche permetterci di farlo.

  PRESIDENTE. Non ci sono altri interventi, per cui do la parola agli ospiti per gli interventi in replica.

  MUHAMMAD AL KASHEF, avvocato dei diritti umani. Vorrei replicare a quanto è stato detto. Quando parlavamo del comportamento del regime nei confronti dei cittadini, non abbiamo fatto una distinzione tra cristiani e musulmani, perché nella mia testa sono tutti uguali i cittadini. Quanti cristiani sono stati accusati di appartenere alla fratellanza islamica, sono stati in prigione?
  L'onorevole Comencini ha parlato della visita di al-Sisi alla cattedrale visto come un segno di cambiamento di comportamento: mera e pura ipocrisia! Queste cose vengono fatte per mostrare un'immagine alla gente, agli alleati dell'Unione europea affinché la gente veda questa immagine di sostegno per le minoranze, ma purtroppo tutti i cittadini, compresi i cristiani copti, soffrono della repressione.
  Lei ha parlato della guerra, ma la definizione di guerra qual è? La sua collega Ehm ha detto che la guerra non si estrinseca soltanto nei bombardamenti o nel conflitto armato tra due Paesi, ma, se uno non è sicuro di poter tornare a casa, se devi temere di essere rapito dalla tua casa per passare anni in prigione senza un processo o perdere la vita per le tue idee politiche, non per essere un fondamentalista islamico o un estremista, finire in prigione o in una tomba per la tua ideologia, io direi che è peggio di una guerra. I cittadini egiziani fuggono dall'Egitto non per motivi economici: fuggono dall'Egitto verso la Libia non certo per conseguire un miglioramento economico, ma per cercare un luogo in cui rifugiarsi. Ci sono tanti migranti egiziani in tutto il mondo, non solo nell'Unione europea: Sudan, Mauritania, Namibia, Malesia, Corea del Sud, ma perché fuggono dall'Egitto, se l'Egitto è un Paese sicuro? Perché sono estremisti fondamentalisti?
  Quando poi parliamo di estremisti, di fondamentalisti e dell'antiterrorismo, da sei anni in Sinai c'è un conflitto aperto e il numero degli estremisti è aumentato da cinquecento a cinquemila. C'è una guerra aperta contro la società civile, c'è un'oppressione in tutti i centri urbani sotto l'ombrello dell'antiterrorismo, della lotta contro i fondamentalisti islamici. Io non sono d'accordo ovviamente con l'ideologia della fratellanza islamica, ma in fin dei conti sono paragonabili alla CDU tedesca. A me non piace sentire la parola «musulmano» associata al concetto di estremismo, a tutti gli stereotipi che servono solo a bloccare ogni dialogo. Non possiamo paragonare neanche l'Egitto all'Arabia Saudita. L'Arabia Saudita non è un Paese democratico. Ora vogliono presentarsi come Stato moderno, ma questo non è vero. Io vorrei che lei venisse in Egitto da cittadino europeo normale, non da uomo politico e cercare di interagire con i cittadini ordinari e a quel punto vedere di persona la situazione e poi giudicare. Giulio Regeni era un ricercatore, cittadino italiano, ha perso la vita proprio per tutte le cose che abbiamo detto, perché non direi che è soltanto uno Stato di sicurezza, è lo Stato del terrore: non si ha il diritto di essere all'opposizione, non si ha il diritto di dire a voce alta quello che tu pensi. Ci tenevo a replicare a quanto affermato dall'onorevole Comencini, e su questo mi fermo.

  LESLIE PIQUEMAL, rappresentante delCairo Institute for Human Rights Studies. Penso che potrebbe essere utile aggiungere alcuni dettagli per quanto riguarda la situazione dei cristiani e delle donne in Egitto. Sono due aspetti che dopo il 2013 le autorità egiziane presentano come settori in cui ci sono stati dei miglioramenti dopo il colpo di Stato. Ma quali sono stati questi Pag. 15miglioramenti concreti, al di là di una cattedrale? Bella, mi piace vedere una bella cattedrale, ma poi che c'è oltre a questo? Nel 2014 c'è stata una legge che rende reato penale le molestie sessuali, ma poi quali sono stati i risultati concreti dopo l'entrata in vigore questa legge? Dobbiamo considerare i fatti. Come diceva il collega, i cristiani sono vittime delle stesse violazioni dei diritti fondamentali politici, economici, sociali dei cittadini musulmani, perché quella è una linea di tendenza generale, e continuano ad essere vittime del problema pregresso della violenza settaria, quindi a livello di comunità locali, che poi magari viene innescata da un contenzioso materiale. In quei casi molto di rado si ricorre alla giustizia. Ovviamente i cristiani sono una minoranza e in un conflitto i cittadini tendono ad essere dalla parte dei più deboli. Viene applicato lo Stato di diritto per perseguire penalmente i cittadini che compiono atti di violenza contro una minoranza? Nella maggior parte dei casi di violenza settaria questo non avviene e siamo disposti a farle avere tutti gli studi e i dati in nostro possesso su questo aspetto.
  Lei ha parlato di un altro aspetto. C'è il terrorismo islamico in Egitto, non dobbiamo dire che non esiste: esiste. I cristiani sono stati vittime e bersaglio di questo tipo di attentati. Lo Stato egiziano ha la responsabilità di proteggere; le politiche antiterrorismo dovrebbero produrre dei risultati tangibili, concreti e in questi cinque o sei anni di guerra contro il terrorismo avremmo dovuto vedere un miglioramento reale nell'effettiva protezione dei civili, compresi i cristiani. Un esempio: nel 2018 c'è stato un attentato contro una processione di pellegrini cristiani che andavano a un monastero in Egitto, sono stati attaccati da estremisti musulmani e molti sono stati uccisi: è stato un vero shock. Non soltanto perché si è trattato di un crimine, ma perché l'anno prima, lo stesso giorno, nello stesso posto era successa la stessa cosa. Un anno prima le autorità hanno parlato di un delitto terribile, «reagiremo, garantiremo la sicurezza di questa strada, garantiremo che le processioni dei pellegrini che vanno al monastero saranno protette»: l'anno dopo è successa esattamente la stessa cosa, nello stesso luogo. Quindi, se dobbiamo parlare di antiterrorismo e di sicurezza, dobbiamo affrontare con serietà il tema della protezione della vita dei cittadini.
  Come ha detto l'onorevole Boldrini, noi ne sappiamo molto poco di quello che viene in Sinai, ma, se guardiamo le relazioni di Human Rights Watch del 2019, ci sono state violenze senza precedenti contro i civili, espulsioni forzate, crimini di guerra. Quindi violazioni che creano poi frustrazione, ostilità, perché i cittadini non possono avere una forma di compensazione o di giustizia, e questo alimenta la radicalizzazione che può sfociare nel terrorismo islamico. Quindi non vediamo un impatto significativo, concreto, misurabile delle politiche antiterrorismo e, per questo, noi sosteniamo l'esigenza di garantire i diritti umani, il giusto processo, lo Stato di diritto per poter rimediare a questa situazione anche per i cristiani.

  AHMED MEFREH, direttore esecutivo delCommittee for Justice. Per quanto riguarda la questione delle «Primavere arabe» in Egitto io stesso ho partecipato alle manifestazioni del 25 gennaio in piazza Tahrir: il nostro sogno era la libertà, se posso dirlo; sognavamo la democrazia, così come farebbe qualsiasi essere umano. Io appartengo alla generazione nata all'epoca di Mubarak e per trent'anni ho vissuto in quell'epoca e, quando ero studente universitario, sognavo di diventare un parlamentare come voi: ora sono in esilio, non posso tornare in Egitto, perché lavoro per difendere i diritti umani. La situazione è questa. Sono rifugiato in Svizzera ed è l'unico modo per un difensore dei diritti umani per poter parlare della situazione. Ma per me è difficile perché io sono all'estero, ma la mia famiglia è in Egitto. Nonostante questo, io sarei contentissimo di partecipare a qualunque incontro organizzato dalla vostra Commissione esteri con i rappresentanti del Governo egiziano; dobbiamo incontrarli, dobbiamo avere la possibilità di parlare con loro in qualsiasi occasione, perché loro si rifiutano di parlare con noi, di lavorare con noi. Ci considerano delle spie. Secondo loro noi lavoriamo fuori dall'Egitto Pag. 16 per diffondere un'immagine falsata della situazione.
  Il problema è che le autorità egiziane hanno mostrato di avere tolleranza zero per qualunque forma di opposizione politica pacifica in Egitto. È questo il problema. Non c'è alcun canale per poter fare qualunque cambiamento in Egitto. E non per colpa dei difensori dei diritti umani o per colpa dei partiti politici, non perché ci siano gli estremisti islamici: è proprio il modo del regime di al-Sisi di affrontare la situazione politica, quella economica e quella relativa ai diritti umani nel Paese.
  Noi abbiamo sempre sognato che l'Egitto potesse essere un Paese normale, democratico ed è per questo che lavoriamo nel campo dei diritti umani; per questo ho scelto di lavorare in questo campo, invece di fare l'avvocato ordinario, invece di andare in tribunale. Quindi sarei lieto di partecipare a qualunque incontro, di parlare con il Governo. Se organizzaste una cosa del genere, saremmo più che lieti di collaborare e di confrontarci con il Governo.

  PRESIDENTE. Ringrazio gli ospiti e i partecipanti e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 10.30.