XVIII Legislatura

III Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 14 di Mercoledì 4 dicembre 2019

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Grande Marta , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA POLITICA ESTERA DELL'ITALIA PER LA PACE E LA STABILITÀ NEL MEDITERRANEO
Grande Marta , Presidente ... 3 
Cottatellucci Claudio , rappresentante della Comunità di Sant'Egidio ... 3 
Grande Marta , Presidente ... 7 
Boldrini Laura (PD)  ... 7 
Ehm Yana Chiara (M5S)  ... 8 
Formentini Paolo (LEGA)  ... 9 
Quartapelle Procopio Lia (PD)  ... 9 
Cabras Pino (M5S)  ... 10 
Grande Marta , Presidente ... 10 
Cottatellucci Claudio , rappresentante della Comunità di Sant'Egidio ... 10 
Grande Marta , Presidente ... 12

Sigle dei gruppi parlamentari:
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Lega - Salvini Premier: Lega;
Forza Italia - Berlusconi Presidente: FI;
Partito Democratico: PD;
Fratelli d'Italia: FdI;
Italia Viva: IV;
Liberi e Uguali: LeU;
Misto: Misto;
Misto-Cambiamo!-10 Volte Meglio: Misto-C10VM;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Noi con l'Italia-USEI: Misto-NcI-USEI;
Misto-Centro Democratico-Radicali Italiani-+Europa: Misto-CD-RI-+E;
Misto-MAIE - Movimento Associativo Italiani all'Estero: Misto-MAIE.

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DELLA PRESIDENTE
MARTA GRANDE

  La seduta comincia alle 15.05.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione sul canale della web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti della Comunità di Sant'Egidio.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla politica estera dell'Italia per la pace e la stabilità nel Mediterraneo, l'audizione di rappresentanti della Comunità di Sant'Egidio.
  Insignita con il premio Balzan e il premio UNESCO per la pace, la Comunità di Sant'Egidio è in prima linea in molte aree calde del pianeta ed è diventata un soggetto molto significativo nella soluzione di guerre civili e conflitti internazionali: dal Mozambico all'Algeria, dal Guatemala al Burundi, dall'Albania al Kosovo, dalla Liberia alla Costa d'Avorio, dalla Repubblica Centrafricana al Togo, dalla Guinea al Niger, fino all'impegno – non meno pacificatore – per sconfiggere l'aids in Africa e soprattutto per estendere a livello globale la moratoria sulla pena di morte.
  Fatte queste doverose premesse, sono lieta di dare la parola al professor Cottatellucci.

  CLAUDIO COTTATELLUCCI, rappresentante della Comunità di Sant'Egidio. Grazie, presidente. Anzitutto, vi ringrazio per questa audizione, che è un'occasione assolutamente gradita e opportuna per confrontarsi e comunicare alcune delle riflessioni che sono state alla base dell'iniziativa dei corridoi umanitari.
  Parto dalle motivazioni più remote per arrivare alle questioni del presente. Le motivazioni più remote erano collocabili negli anni tra il 2014 e il 2015 con l'incremento dei naufragi in mare, delle morti nel Mediterraneo e anche dell'espansione di un traffico di esseri umani, da tanti punti di vista intollerabile. Non insisto su questo, perché so che è un sentimento largamente condiviso. Il problema era capire come fosse possibile rendere accessibile il diritto d'asilo. Questo è il nodo, perché il diritto di asilo si è andato, a nostro giudizio, significativamente rafforzando nella normativa non solo convenzionale, con la sottoscrizione della Convenzione di Ginevra, ma anche eurounitaria con le direttive che riguardavano qualifiche, procedure e accoglienza. Quindi il sistema di protezione si stava raffinando e allargando nei criteri, il problema è che non era accessibile, se non a chi arrivasse sul territorio europeo. Quindi, mentre teoricamente aumentavano le possibilità di protezione, praticamente diventavano inaccessibili, perché la presentazione della domanda era impedita a chi non fosse già arrivato in Europa o era consentita solo a condizione, in molti casi, di affrontare viaggi difficilissimi e di consegnarsi in mano ai trafficanti.
  Questa è la questione da cui siamo partiti per capire, data questa riflessione tra il 2014 e il 2015, se fosse possibile costruire un modello di intervento che rendesse accessibile questo diritto. Lo abbiamo fatto riflettendo sulla legislazione presente a livello nazionale, ma soprattutto a livello Pag. 4europeo. Come forse già saprete, il punto di riferimento privilegiato di questa riflessione è stato il Codice visti, approvato e poi soggetto ad una recente revisione, che nel 2015 aveva già una sua versione consolidata e che all'articolo 25 consentiva, per ragioni umanitarie – così dice il regolamento – il rilascio di un visto di validità temporanea limitata che permetteva l'ingresso in un Paese europeo in condizioni assolutamente regolari. Il Codice visti prevedeva questo strumento, del quale si è fatto un uso molto saltuario e scarso – non solo da parte dell'Italia, ma da parte di tutti i Paesi europei – per lo più connesso a gravissime ragioni di salute, ma in maniera molto limitata e con una lettura forse anche riduttiva dello strumento come tale.
  Noi abbiamo avviato quindi una riflessione, trovando corrispondenza e attenzione dal Governo italiano, dai Ministeri degli affari esteri e dell'interno, cercando di comprendere se questo strumento potesse consentire un ingresso regolare, e quindi un'alternativa al mercato e al traffico di esseri umani. Questo è avvenuto allora e questo si è concretizzato nella conclusione, nel dicembre del 2015, del primo protocollo che l'Italia, con i Ministeri degli affari esteri e dell'interno, ha concluso con Comunità di Sant'Egidio, Tavola valdese e Federazione delle Chiese evangeliche. Quel protocollo fissava dei criteri base che, a distanza ormai di diversi anni – quando sono arrivate in Italia quasi duemila persone e in Europa più di tremila sulla falsariga di quello schema – è nella buona sostanza confermato.
  Quali sono i criteri fondamentali. Il primo è consentire l'ingresso legale, quindi utilizzare questa disposizione per consentire l'ingresso legale. Questa disposizione è passata al vaglio della Corte di giustizia europea, che ha ritenuto che non fosse direttamente riconducibile al diritto comunitario; tuttavia la Corte – nella sentenza pronunciata su un caso che vedeva convenuto in giudizio il Belgio, non l'Italia, ma su una vicenda che in un certo senso si può dire parallela – ha riconosciuto la facoltà agli Stati di disporre, nell'ambito della loro normativa, di strumenti analoghi a questo.
  Dicevo, un principio fondamentale è quello dell'ingresso legale. L'altro principio è che si deve consentire l'ingresso a persone che abbiano caratteristiche tali da renderli idonei alla protezione internazionale, quindi c'è una valutazione di eleggibilità delle domande, sulla base delle storie e delle condizioni personali, al fine di comprendere se, quando presenteranno domanda di protezione internazionale sul territorio dello Stato membro d'Europa – l'Italia o gli altri Paesi che poi hanno aderito –, ci saranno le condizioni per l'accoglimento della domanda stessa. Nell'accezione completa del sistema della protezione internazionale, quindi sicuramente le condizioni di rifugio previste dalla Convenzione di Ginevra, ma anche le condizioni di protezione sussidiaria previste dalle direttive dell'Unione, in specie dalla direttiva sulle qualifiche. Questo è uno dei criteri che abbiamo utilizzato. Le associazioni sottoscrittrici del protocollo si sono fatte carico – sapete bene – a titolo gratuito, senza nessun concorso da parte di soggetti pubblici delle spese, di un lavoro di presenza nei Paesi di transito per conoscere le vicende personali e familiari e comprendere se quelle persone, una volta raggiunto il territorio europeo, sarebbero state meritevoli di protezione internazionale. I risultati di questi anni ci dicono che le domande presentate davanti alle Commissioni territoriali per l'asilo qui in Italia hanno dato risultati di pieno accoglimento, perché sono storie molto gravi e molto laceranti quelle delle persone che vengono ammesse al progetto dei corridoi umanitari, a volte nella forma del rifugio pieno, altre volte nella forma della protezione sussidiaria, mai con livelli inferiori o diversi dalla protezione sussidiaria. Quindi il sistema ha consentito di chiedere protezione a chi altrimenti non l'avrebbe potuto fare o l'avrebbe potuto fare solo a prezzo della vita. Questo è il cuore della vicenda, il nodo della questione.
  Tra i criteri di eleggibilità, oltre alle caratteristiche per chiedere la protezione internazionale, abbiamo introdotto la categoria della vulnerabilità. Categoria anche questa molto approfondita nel diritto e nella giurisprudenza europea. Si tratta per Pag. 5lo più di donne sole con i loro figli, oppure soggetti anche avanti negli anni e in difficoltà, tutte persone che comunque hanno lasciato il loro Paese da molto tempo e non hanno alcuna possibilità di farvi rientro. Il primo protocollo ha riguardato il Libano, quindi il luogo di attività è stato soprattutto Beirut, ma non solo, i campi dove sono collocati soprattutto siriani e, in minima parte, anche iracheni da anni. Qui abbiamo storie in cui le persone lasciano il loro Paese tre, quattro anni prima e poi hanno periodi lunghissimi di permanenza nel Paese cosiddetto di «transito» o di «primo asilo», come altri lo definiscono. Parliamo di situazioni stabilmente precarie, che possono durare tre, quattro anni. Quindi i colloqui che abbiamo fatto al fine di valutare l'ammissibilità dei soggetti al programma dei corridoi umanitari hanno riguardato soggetti che avevano una lunga permanenza nel Paese di transito. In questo siamo stati aiutati dall'esperienza di alcune comunità o realtà locali, che già erano presenti nei campi. Anche stabilmente presenti, nel senso che ci sono volontari e persone che vivono stabilmente – non potrei dire con i rifugiati, perché non lo sono – con i profughi. Per esempio la Comunità Giovanni XXIII, che ha una presenza da lungo tempo in alcuni campi in Libano, al confine con la Siria.
  Siamo stati aiutati anche dal lavoro dell'UNHCR. Su questo il protocollo è molto preciso, dice che verranno prese in considerazione anche le situazioni esaminate da UNHCR, almeno in quello che viene chiamato nella procedura il colloquio o riconoscimento «prima facie». Tenendo conto poi della necessità di rivisitare queste storie, perché è chiaro che tra i colloqui e il momento dell'ammissione alla protezione trascorre un tempo lunghissimo e le situazioni si vanno trasformando con il tempo. Quindi noi a volte abbiamo utilizzato anche valutazioni espresse prima facie dall'UNHCR, con la necessità di un aggiornamento. Ci siamo dati delle regole di lavoro che prevedono che i colloqui siano sempre più di uno, parliamo di almeno tre colloqui per valutare la consistenza e l'ammissibilità della domanda. Tutto questo è il lavoro che precede la partenza.
  In questo lavoro che precede la partenza abbiamo anche costruito una procedura sui generis che non c'era prima, perché i consolati italiani non hanno un'esperienza di accoglimento ai fini della protezione internazionale di domande, dal momento che l'Italia non conosce la forma dell'asilo consolare, quindi è chiaro che non c'è una storia di questo tipo. Però lavorando bene insieme, anche grazie alla collaborazione dei Ministeri, abbiamo costruito un sistema che permette di raccogliere le domande, di fare tutte le verifiche sulle condizioni di sicurezza, non solo personale ma dal punto di vista della sicurezza come prevenzione pubblica, come difesa sociale, prima della partenza, per cui chi parte è stato molto valutato, dal punto di vista delle associazioni ma anche dal punto di vista dei sistemi di intelligence e di sicurezza interni, perché possa essere garantito che chi entra in questo Paese non sia in alcun modo una minaccia.
  Abbiamo costruito questa procedura, l'abbiamo fatta a partire da Beirut, e in una seconda fase, quando siamo andati a concludere un secondo protocollo che riguarda la Conferenza episcopale con la Comunità di Sant'Egidio – in particolare la Caritas, ma per conto della Conferenza episcopale – lo abbiamo fatto a partire da un altro Paese di transito: l'Etiopia. Sapete che l'Etiopia è uno dei Paesi che ha un livello di presenza di rifugiati dai Paesi limitrofi tra i più alti: si tratta di sud sudanesi, di eritrei, talvolta di yemeniti, perché quello è un transito possibile, sono tutte persone che anche loro sono in Etiopia per lunghi periodi, parliamo di alcuni anni. Quindi si è aperto questo secondo campo di lavoro. Un primo protocollo per seicento persone è stato esaurito, un nuovo protocollo è stato rinnovato, ed è in corso di attuazione. Tutti e due i progetti, prima quello con il Libano poi quello con l'Etiopia, sono ormai alle fasi finali del secondo rinnovo. Questo per dare l'idea che, sebbene si tratti di numeri piccoli di fronte all'immane tragedia che abbiamo davanti, dal punto di vista dell'accumulazione dell'esperienza e delle prassi Pag. 6non siamo più nella fase dell'avvio. Ormai abbiamo costruito un modello che ci sembra molto interessante.
  C'è stato un contagio di questa esperienza a livello europeo. Partita dall'Italia, è stata fatta propria anche dalla Francia, nella diversità degli ordinamenti interni, perché ho detto che l'Italia non conosce il modello dell'asilo consolare, la stessa cosa non potrei dire esattamente per la Francia, che invece ha una prassi parzialmente diversa, però con alcune varianti lo schema è quello: assicurare l'ingresso legale in condizioni di sicurezza; assicurare la compatibilità con gli standard della protezione internazionale, così come conosciuti a livello convenzionale ed eurounitario; e poi – l'altra cosa di cui non ho ancora parlato – la questione dei processi di inclusione. È del tutto chiaro che, se la persona che viene considerata ammissibile al programma è conosciuta prima della partenza non solo dal punto di vista dell'eleggibilità rispetto alla protezione internazionale, ma anche del sistema di aspettative, che vuol dire legami personali, linguistici, familiari che hanno con il territorio europeo genericamente inteso. Quindi noi facciamo uno screening delle domande cercando di comprendere non solo se quelle persone meritano l'accoglienza internazionale – saranno poi le Commissioni a decidere – ma se il loro progetto di vita si sposa con l'idea di una permanenza stabile per un po’ di tempo in questo Paese. Quindi cerchiamo di comprendere se l'Italia è per loro una terra di arrivo e di destinazione gradita da tanti punti di vista. Questo è molto importante, lo dico rispetto alle preoccupazioni europee – che conosciamo benissimo – sulla questione dei movimenti secondari che producono le peregrinazioni dei «dublinanti», che ritornano indietro dopo anni e anni talvolta anche di un buon inserimento in un altro Paese, magari perché sono andati in Germania o in Svezia. La questione fondamentale è lavorare bene sul sistema di aspettative, perché solo questo permette di capire se veramente la destinazione che si propone è gradita e quindi consente anche di costruire un progetto di integrazione. Il progetto di integrazione comincia con gli sponsor, perché – come sappiamo – la normativa interna non ha in questo momento una disposizione che regoli la figura dello sponsor, e per la verità non lo ha neanche la normativa dell'Unione europea, anche se l'esperienza dei corridoi umanitari è stata studiata recentemente dalla Commissione europea proprio nella logica di comprendere se sia possibile uno strumento di normazione secondaria con una direttiva in ambito europeo. Comunque in questo momento non c'è, né a livello nazionale né a livello europeo. Quello che c'è, però, è una prassi. Nel realizzare questo progetto abbiamo fatto sicuramente conto sulle nostre energie come Comunità e come soggetti aderenti, ma anche perché molte persone ci hanno cercato (famiglie, singoli, associazioni, parrocchie, ordini religiosi) dicendosi disponibili ad accogliere e ad accompagnare, perché il discorso ovviamente non è l'accoglienza come sistemazione alloggiativa, ma è l'accompagnamento in un processo in cui queste persone devono ridefinire il loro progetto di vita. Si tratta di imparare un'altra lingua, di accettare che i propri figli vadano in una scuola, che magari imparino l'italiano più velocemente dei genitori, e dall'altra parte progettare dei percorsi anche di inserimento sociolavorativo.
  Alcune delle persone che sono arrivate con i corridoi umanitari oggi frequentano l'università, altre hanno trovato lavori di qualità, molti – la gran parte – lavorano, i bambini sono tutti immediatamente a scuola. Non c'è una situazione di standby all'arrivo, l'iscrizione scolastica è immediata. Noi abbiamo verificato come questo produce un'energia e una capacità propositiva molto positiva e aiuta anche a riconcepire e a ridefinire nei nuclei familiari il loro progetto di vita, perché diventa un elemento molto importante.
  Questo per dire alcune delle cose che mi sembrano tra le più significative del progetto. Aggiungo che si vanno moltiplicando, essendo comunque largamente insufficienti, i sistemi di cosiddetta «ammissione umanitaria» – usiamo questa definizione generale – che contengono diverse cose. Si vanno moltiplicando nel senso che oggi mi Pag. 7sembra che siano almeno tre le tipologie che si vanno costruendo: il resettlement, che è storicamente quello che ha più storia alle spalle e che ha nell'UNHCR un referente privilegiato, che si differenzia – ragiono per differenze per spiegare le complementarietà – dai corridoi umanitari, perché c'è un riconoscimento ab inizio, prima della partenza attraverso l'UNHCR, sicuramente nel perimetro del rifugio, quindi della Convenzione di Ginevra, che però è un perimetro abbastanza aperto su questo tema. Il resettlement impegna gli Stati, come sapete; soddisfa la condizione dell'ingresso legale, la prima delle due condizioni che vi dicevo. Mi sembra che noi stiamo provando a tenere insieme ingresso legale e inclusione sociale. Questo è l'altro pezzo importante. L'altro strumento è quello delle evacuazioni, che sono state fatte in situazioni di gravità e di emergenza – lo sappiamo – per la Libia, le hanno fatte i Governi, l'ha fatto il Governo italiano. L'evacuazione è portare in salvo da una situazione, quale può essere quella libica, persone che sono nelle condizioni che conosciamo.
  Noi crediamo che questo sistema si debba rafforzare e comporre al suo interno. Mi sembra che la complementarietà degli strumenti in questi anni si sia andata affinando.
  L'orizzonte europeo è già a portata di mano, perché vi ho detto della Francia, del Belgio, una piccola esperienza ad Andorra: c'è un interesse diffuso a livello europeo per questi strumenti, che però riguarda i singoli Governi e i singoli Paesi.
  Una delle questioni fondamentali che si pongono per il futuro è, intanto, arrivare a definire meglio le basi legali di uno strumento che consenta l'ingresso. Vi ho detto del riferimento al Codice visti, ma questo è stato un passaggio possibile, non l'unico; l'altra è la questione di un quadro più chiaro dei sistemi di sponsor, perché questi sono capaci di attivare e mobilitare risorse dalla società civile che noi abbiamo verificato preziose. Non abbiamo difficoltà a dire che non saremmo riusciti a fare i numeri che abbiamo fatto, se non avessimo avuto persone che si sono offerte di aiutarci. Tutto questo però avviene all'insegna di un rapporto meramente volontario, basato sulla fiducia e sui rapporti reciproci, preziosissimo, ma che oggi non ha ancora un sistema di riconoscimento legale.
  Queste erano le cose che mi premeva dirvi in apertura, poi sono qui per le domande.

  PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre questioni o formulare osservazioni.

  LAURA BOLDRINI. Grazie, presidente. Grazie, professore, per questa illustrazione. Mi scuso di essere arrivata in ritardo.
  Ho avuto piacere a sentirla in merito a queste esperienze che Sant'Egidio sta mettendo in atto – in modo direi pionieristico – con questo connubio pubblico/privato che sembra funzionare molto bene, anche perché dalla parte privata abbiamo comunque una buona disponibilità di fonti economiche di provenienza cattolica. Questo chiaramente consente questo esercizio.
  Lei ha accennato al resettlement: io in questa sede ci tengo – per il mio background – a specificare che l'esercizio che voi state facendo come Sant'Egidio è assolutamente meritorio, ma – come Lei stesso ha avuto modo di ricordare – è chiaramente un esercizio limitato nei numeri, e d'altra parte non potrebbe essere diversamente, e vista la magnitudo delle crisi in cui state operando, questo può essere solamente un esercizio per portare altri soggetti a seguire il vostro esempio. Questo non esime lo Stato, che io credo debba farsi carico, essendo in un contesto internazionale, per cui noi siamo esposti nel bacino del Mediterraneo, e lo Stato può esercitare questo ruolo in modo compiuto attraverso il resettlement, come Lei stesso ha detto. Il resettlement è un progetto molto antico per l'UNHCR che consente alle persone bisognose di protezione, che hanno già avuto dei colloqui in un Paese di transito, di poter essere trasferite legalmente in altri Paesi che si fanno carico non solo del loro trasferimento, non solo della loro prima accoglienza, ma anche del processo di integrazione e inclusione sociale. Lo Stato normalmente Pag. 8 copre i primi due anni di costi – l'Italia l'ha già fatto – attraverso l'inclusione sociale. Noi dovremmo capire che si tratta di un sistema estremamente utile da attuare, quindi occorre anche fare in modo di avere da parte del Governo più disponibilità non solo verso quanto voi state facendo e sostenervi con risorse adeguate, ma anche allargare la sfera d'azione ai progetti di resettlement.
  Lo sponsor oggi non c'è. C'è stato, professore, Lei se lo ricorda: la legge Turco-Napolitano prevedeva lo sponsor, ed era quel sistema che ci consentiva di dare accesso al territorio italiano attraverso il permesso di soggiorno per motivi di ricerca di lavoro. C'era lo sponsor, quindi il migrante economico che voleva cercare lavoro, poteva farlo legalmente e, se poi trovava impiego, stipulava il contratto di lavoro e rimaneva sul territorio. Altrimenti scadeva il suo contratto e se ne doveva andare. Se non se ne andava, diventava illegale, quindi sottoposto a tutte le conseguenze del caso. Quindi lo sponsor. In Commissione Affari costituzionali stiamo discutendo di questo, di poter reintrodurre questo istituto, nell'ottica di una riforma complessiva della legge Bossi-Fini.
  Lei ha parlato dell'evacuazione umanitaria. Io vorrei ricordare che nel 2011 si fece una grande evacuazione umanitaria dalla Libia: circa settecento/ottocentomila persone lasciarono la Libia per ritornare nei Paesi di origine, erano quasi tutti lavoratori che, a seguito del bombardamento, decisero di far rientro a casa. L'UNHCR fece il ponte aereo e il ponte navale riportando a casa, grazie ai finanziamenti dei Governi, tutta questa gente. L'evacuazione si può fare anche quando ci sono sfide meno impegnative, io credo che la condizione delle persone detenute oggi in Libia richieda uno sforzo in questo senso. L'UNHCR e tutte le Agenzie delle Nazioni Unite hanno fatto un appello per svuotare quei centri, chiuderli e portare altrove le persone che ci sono dentro.
  Io mi auguro che noi si riesca come Paese, come Governo ad accogliere questo appello e dare un segnale chiaro di attenzione alla Libia rispetto al fatto che queste persone non possono continuare un'esistenza in condizioni che sono state definite, dagli esperti delle Nazioni Unite, inumane e degradanti. Quindi l'evacuazione sarebbe auspicabile in questo caso.
  Professore, nel ringraziarvi per quello che fate, spero che ci possa essere una intensificazione delle attività che state svolgendo. Mi fa piacere vedere che questa buona pratica si stia diffondendo anche in altri Paesi, e mi auguro anche che, nel fare questo, lo Stato in quanto tale riesca a capire che l'unico modo possibile per limitare le morti in mare e l'irregolarità che affligge il nostro Paese è quello di organizzare i trasferimenti legali dei richiedenti asilo e, attraverso lo sponsor, dei migranti economici.

  YANA CHIARA EHM. Anch'io ringrazio molto per questo racconto che per me personalmente è molto importante. Io trovo che finalmente riusciamo a guardare anche la questione migratoria dalla parte dei rifugiati, da un altro punto di vista.
  Mi è piaciuto molto il fatto che Lei abbia enfatizzato la necessità di guardare anche i loro bisogni, perché molto spesso, considerato il momento che viviamo a livello mondiale, è una difficoltà oggettiva, ma d'altro canto parliamo pur sempre di esseri umani e, in questo caso, di persone che provengono da storie con alta vulnerabilità.
  Personalmente con la mia collega ho avuto il piacere di visitare sia l'Etiopia sia il Libano, e ho avuto anche il piacere di conoscere Mediterranean Hope in Libano, con il quale, se non erro, collaborate per questi corridoi. Credo che sia molto interessante vedere come questo progetto sia diventato un modello dal quale internazionalmente viene preso spunto. Questo mi consente di passare alla domanda: come riuscire a trovare le vie legali affinché si possa gestire al meglio la questione migratoria, e ovviamente contrastare quella irregolare. La soluzione corridoi umanitari è una delle possibilità concrete che abbiamo visto, che tra l'altro funziona molto bene. Quindi forse è uno spunto anche per noi per riuscire a farlo passare da progetto efficiente, ma – lo ricordava la collega Pag. 9Boldrini – purtroppo molto piccolo rispetto all'esigenza che c'è in questo momento, a un progetto più ampio e riuscire a convertirlo come una delle pratiche più efficaci per far sì che le persone arrivino. Di qui la domanda: secondo Lei quali sono i punti per far sì che questo progetto, che questo modello possa diventare più ampio? Faccio questa domanda perché sono anche al corrente che ci sono due temi importanti: il primo è quello della durata, che a volte, magari alla fine delle varie interviste, può prevedere anche un cambio nell'esito. Quindi prima forse era idoneo, poi, magari per cambiamenti intercorsi, non lo è più oppure non è più interessato, dunque come riuscire a rendere più efficiente questo processo. Il secondo quesito, su cui attualmente c'è un'alta attenzione – e questa non è una cosa negativa, ma giusto per capire – riguarda il concetto di alta vulnerabilità. Questo include tante persone, specialmente nelle zone di conflitto – quindi Iraq, Afghanistan, Siria, eccetera – ma ne esclude altri per motivi di scelta. La domanda è: potrebbe essere ampliato anche questo bacino?
  Altra domanda. Nella vostra esperienza ci sono stati degli ostacoli normativi nel contesto nel quale avete operato? Cosa potrebbe essere migliorato in quell'ambito?
  La terza domanda, un po’ meno tecnica, scaturisce dall'esempio della Grecia, dove il nuovo Governo ha pensato a questo nuovo modello di rimpatrio abbastanza massiccio; quando però viene posta la domanda «chi volete rimpatriare», perché sono al 50 per cento donne, bambini e siriani e iracheni, la risposta non c'è alla fine, perché, secondo le normative, queste persone che provengono dall'Est – quindi Siria, Iraq, Afghanistan, ma anche Libano e Yemen – sono considerate come rifugiati, quindi devono essere accolte e anche protette.

  PAOLO FORMENTINI. Ringrazio davvero per aver affrontato la questione in modo molto serio, preciso, senza alcuna polemica politica e da un punto di vista tecnico. Ringrazio anche i colleghi perché, per una volta, non si è strumentalizzato e fatto gioco politico. Cercherò anch'io di non farlo ed essere più neutro possibile.
  Penso che tutti qui possiamo unirci in un ringraziamento per quanto avete fatto, ricordiamo anche che nel precedente Governo uno dei risultati storici della Comunità di Sant'Egidio è stato di avere l'accordo sia da parte del ministro Salvini sia da parte del ministro Trenta: forse l'unica volta – e non è una battuta – in cui i due Ministri si trovarono d'accordo.
  Detto ciò, noi stiamo affrontando – e lo diciamo sempre in questa Commissione – un fenomeno epocale, al quale dobbiamo dare delle risposte. Questa – si è detto – è una risposta piccola, parziale, i numeri sono più grandi. Benissimo. Voi che soluzioni vedete oltre a questa proposta, per far sì che diminuiscano le morti nel Mediterraneo? Con molta serenità, credete che le politiche attuate dal precedente Governo, e parzialmente ancora in vigore, per far sì che si chiudano le rotte di migrazione illegale e per contrastare il traffico di esseri umani possano avere un'efficacia, combinata a questa vostra proposta?

  LIA QUARTAPELLE PROCOPIO. Ringrazio moltissimo per questo intervento che ci aiuta a capire in concreto come si fanno i corridoi umanitari. Tutti quanti abbiamo visto i risultati straordinari di questa iniziativa, per certi versi visionaria, nel senso che in tanti, dal 2011, dicevano che bisognava agire in questo senso, ma nessuno ha avuto mai il coraggio di farlo; ora lo state facendo e c'è un avanzamento anche in sede europea di questa modalità, che è la modalità con cui tutti vorremmo che avvenissero gli ingressi regolari nel nostro Paese.
  La mia domanda è molto semplice, ed è la ragione per la quale abbiamo chiesto questa audizione, che si iscrive all'interno di un percorso di lavoro della Commissione sulla questione Libia; voi e la Tavola valdese a giugno avevate scritto una lettera al Presidente del Consiglio sulla possibilità di aprire dei corridoi umanitari europei dalla Libia: più in generale, qual è la vostra valutazione sulla possibilità che effettivamente ci siano dei corridoi umanitari dalla Libia, in quali tempi, che sensazioni avete, Pag. 10e, nello specifico, che grandezza possono avere tali corridoi? So che voi non siete attivi in Libia – se ho capito bene – quindi vorrei un vostro parere all'interno della valutazione che stiamo facendo anche noi per capire come il Governo italiano possa contribuire a chiudere i campi in Libia, con quali tempi: stiamo parlando di un percorso di anni, oppure, se ci fosse la volontà politica, di un'iniziativa che si può svolgere in poco tempo? E poi la fattibilità, perché stiamo parlando della Libia, non del Libano né dell'Etiopia.

  PINO CABRAS. Gli interventi che ci sono stati descritti iniziano e si concludono con una loro coerenza interna, mobilitando delle risorse significative. Funzionano. Quello che non riesco a capire è in che misura sono scalabili, quanto costano e quante risorse occorrerebbero per svuotare certi bacini dove insiste l'immigrazione che non riesce a trovare uno sbocco, una sua soluzione. Centinaia di persone rispetto a un quadro, in Libano, di un milione e mezzo di profughi sono – lo dico con grandissimo rispetto – poca cosa: quali risorse servirebbero? Questo è un tema che si pone per qualsiasi iniziativa che funzioni, viene da dire anche nel campo imprenditoriale. Dove si riesce a fare investimenti nel settore 4.0 abbiamo esempi di qualche startup che funziona: questa è una startup in un'accezione positiva, ma altra cosa è fare un intervento di massa. Questa dimensione io la vorrei capire, perché su questo poi dovrebbero adattarsi le politiche e anche le rivendicazioni rispetto a un'Europa micragnosa che dedica le sue risorse a certi progetti e non ad altri, che eroga miliardi ma non nei settori giusti: questo potrebbe essere il campo da dimensionare e da capire bene.

  PRESIDENTE. Non credo ci siano altri interventi, darei quindi la parola al nostro ospite per la replica.

  CLAUDIO COTTATELLUCCI, rappresentante della Comunità di Sant'Egidio. Grazie, Presidente. Io ringrazio per le domande, perché sono tutte molto in sintonia con i ragionamenti che abbiamo sviluppato in questa audizione. Dirò anche che ad alcune domande non so dare risposta, con molta franchezza.
  Vado in ordine e parto dalle più difficili. Quanto questa soluzione è compatibile con la situazione della Libia, che non è Addis Abeba né Beirut. Prima ho provato a ripercorrere gli strumenti della missione umanitaria parlando di evacuazioni, di corridoi umanitari e di resettlement, a me sembra che situazioni di questa massa e di questa drammaticità intanto richiedano l'impegno degli Stati, a cui la società civile può dare qualche contributo, ma non può essere il contributo prevalente, e direi gli Stati al plurale. È una questione veramente sovranazionale. Secondo, la parola che più mi avvicina alla situazione libica non è «corridoi umanitari» ma «evacuazione». Sono di questa idea per quello che vi ho detto prima, perché i corridoi umanitari si basano su un attento lavoro di preparazione a monte, che presuppone che le persone siano non dico in sicurezza assoluta, ma almeno in condizioni di possibile attesa. Per quello che sappiamo dei luoghi di detenzione in Libia, possiamo dire che ogni giorno di meno sarebbe bene. Per questo credo che i corridoi umanitari, quando fossero europei, dovrebbero avere delle caratteristiche per quanto riguarda la preparazione, la predisposizione di quelli che vengono chiamati i dossier, le risorse, eccetera significativamente diverse dall'esperienza dei corridoi umanitari come l'abbiamo realizzata noi. In termini quantitativi ma anche in termini qualitativi rispetto alla questione della preparazione e dell'istruttoria. Questo per marcare una differenza che c'è. Dopo di che è stato ricordato che noi abbiamo posto la parola «corridoi umanitari europei» come appello ed era un appello all'umanità, a trovare una soluzione a questa situazione. Credo che quello che debba essere realizzato, però, è, sia per le dimensioni e sia per le caratteristiche della situazione libica, particolarmente diverso. Peraltro in Libia non esistono altri consolati aperti, da quello che so, oltre a quello italiano. Questa è un'altra questione significativa dal punto di vista della disposizione Pag. 11 delle risorse in campo. Noi a Beirut abbiamo rapporti con il consolato francese quando vanno in Francia, per esempio. Questo per dire delle differenze.
  Io non so dire quali sono i costi, se si dovesse fare un incremento su vasta scala di questa soluzione. Voglio dire che faccio fatica a definire la latitudine dei costi non solo rispetto a quello che si dovrebbe spendere, ma anche alla quantità di sofferenza e di dolore che si potrebbe risparmiare. Questo è veramente difficile da stimare. Le prime famiglie che sono venute nel gennaio del 2016 ci hanno detto «volevamo partire e non l'abbiamo fatto dopo che sono morti...», e ci hanno fatto l'elenco dei parenti che erano morti nell'Egeo. Credo che nella costruzione dei corridoi o comunque delle vie legali d'ingresso dobbiamo ragionare non solo nel senso di chi li può percorrere adesso, ma anche a beneficio di chi, avendo una speranza di percorrerli in futuro, non si consegna ai trafficanti. Questo mi sembra un passaggio significativo. Lo vogliamo chiamare beneficio, se proviamo a ragionare in termini di costi/benefici? Forse sì. Sono vite salvate, perché, se c'è una ragione per cui si può attendere – fossero dodici o ventiquattro mesi – forse non si parte. O comunque non ci si consegna in queste condizioni, perché la situazione del mercato del traffico è tremenda. Questo lo dico solo per problematizzare la domanda, a cui non ho una risposta. Ragioniamo sui costi, ma ragioniamo forse anche su una speranza di risparmio di vite umane, quando ci fossero dei canali stabili, permanenti, quindi con la possibilità di attendere l'esito di una domanda.
  Alcune altre domande riguardavano il tema della vulnerabilità. Noi l'abbiamo preso in considerazione non come un fattore nettamente alternativo ai criteri di eleggibilità delle domande. Comunque le domande devono essere eleggibili. Quindi o rifugio o protezione sussidiaria. Questi sono i due gradini dentro cui si devono andare a collocare le vulnerabilità personali e familiari, perché si tratta di scegliere anche quelli che comunque soffrono maggiormente nell'attesa. Quindi abbiamo usato questo come criterio aggiuntivo e complementare. Questo mi premeva chiarirlo.
  L'altra questione era sugli ostacoli normativi. Noi abbiamo l'impressione che ci siano in parte ostacoli normativi, e sono quei due che ho detto prima: da un lato, il visto umanitario ha fatto da chiave d'ingresso, ma oggi non è uno strumento a regime, almeno per quello che ci ha detto la giurisprudenza europea; dall'altro, la mancanza di un quadro normativo di riferimento sul sistema dello sponsor. Queste mi sembrano le due grosse lacune di sistema. Però quello che noi stiamo sperimentando con i corridoi umanitari, sicuramente nella limitatezza dei numeri, è anche l'insensatezza dell'applicazione delle normative. Questa è un'altra questione su cui dobbiamo riflettere. Potete immaginarvi le pressioni di persone che vogliono essere ammesse ai corridoi: ci viene chiesto di ammettere ai corridoi persone che hanno già riconosciuti i loro familiari in Italia, che però, per la lunghezza delle procedure – di cui all'articolo 29 della versione attuale del decreto legislativo n. 286 del 1998 – non consentono il ricongiungimento. Per farvi un esempio concreto, qualche settimana fa non siamo riusciti a ricongiungere un anziano genitore ultrasessantenne, che vive nella regione tra Turchia e Siria – quindi territorio di guerra – la cui figlia sta in Italia, perché questa figlia ha la disgrazia di avere una sorella che risiede lì. Siccome l'articolo 29 prevede che bisogna dare la prova che il familiare non sia in grado – e immaginatevi la prova in un territorio come quello tra la Siria e la Turchia – di sopperire al genitore, questo è un sovraccarico di domanda che non appartiene ai corridoi umanitari. Noi vorremmo usare i corridoi umanitari veramente per chi non ha altra strada, ma si tratterebbe di usare con ragionevolezza, con senso di umanità lo strumento che c'è: il ricongiungimento familiare. Quella è una madre che rischia di non vedere più la figlia, perché a questo punto si è scavata tra i due una distanza incolmabile. Quindi per esempio lo strumento dei ricongiungimenti.
  La seconda questione su cui riflettere è il binomio libertà di circolazione e libertà Pag. 12di stabilimento a livello europeo. L'equiparazione della protezione ai lungo soggiornanti, prevista dalla direttiva del 2011, produce una situazione di blocco sui movimenti che solo in parte è comprensibile. Noi facciamo un progetto di eleggibilità delle domande cercando di capire se il Paese in cui vogliono venire è veramente l'Italia, chiedendo di starci, ma chiunque di noi soffrirebbe a pensare che per cinque anni non se ne può allontanare, se non per tre mesi, altrimenti diventi irregolare. Bisognerebbe immaginare, quantomeno per l'area della protezione, criteri di maggiore flessibilità. Flessibilizzare la questione della libertà di movimento e stabilimento, flessibilizzare la questione dei ricongiungimenti familiari probabilmente sarebbero azioni quasi di moltiplicatore rispetto a quello che si mette in piedi con i corridoi umanitari. Queste sono due strade percorribili direi quasi a legislazione invariata, quasi solo sulla base dell'applicazione delle normative.
  L'ultima questione sono i tempi, che sono stati giustamente ricordati. Avrete sentito della notizia dell'arrivo oggi – per iniziativa della Santa Sede, che noi stiamo aiutando – dalle isole greche di un certo numero di persone che sono sul territorio europeo, che hanno fatto la domanda: i tempi di attesa a Lesbo e a Moira sono a ventiquattro, ventotto mesi, e si tratta di persone che vengono dall'Afghanistan, dal Ghana. C'è da modificare qualcosa normativamente? Sì, forse c'è anche da usare meglio quello che c'è già, poiché, di fronte a prassi quantomeno rigide, per non dire ostruzionistiche, occorre utilizzare anche quello di buono che c'è.

  PRESIDENTE. Ringrazio il nostro ospite per queste informazioni utilissime al nostro lavoro, e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 16.