XVIII Legislatura

III Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 1 di Giovedì 15 novembre 2018

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Grande Marta , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA POLITICA ESTERA DELL'ITALIA PER LA PACE E LA STABILITÀ NEL MEDITERRANEO

Audizione di rappresentanti dell'Istituto Affari Internazionali (IAI).
Grande Marta , Presidente ... 3 
Cabras Pino (M5S)  ... 3 
Formentini Paolo (LEGA)  ... 4 
Grande Marta , Presidente ... 4 
Greco Ettore , vicepresidente dell'Istituto Affari Internazionali ... 4 
Colombo Silvia , responsabile del programma di ricerca «Mediterraneo e Medio Oriente» dello IAI ... 5 
Dessì Andrea , ricercatore del programma di ricerca «Mediterraneo e Medio Oriente» dello IAI ... 7 
Colombo Silvia , responsabile del programma di ricerca «Mediterraneo e Medio Oriente» dello IAI ... 10 
Grande Marta , Presidente ... 13 
Greco Ettore , vicepresidente dell'Istituto Affari Internazionali (IAI) ... 13 
Grande Marta , Presidente ... 14 
Greco Ettore , vicepresidente dell'Istituto Affari Internazionali (IAI) ... 15 
Grande Marta , Presidente ... 15

Sigle dei gruppi parlamentari:
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Lega - Salvini Premier: Lega;
Partito Democratico: PD;
Forza Italia - Berlusconi Presidente: FI;
Fratelli d'Italia: FdI;
Liberi e Uguali: LeU;
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo Italiani all'Estero: Misto-MAIE;
Misto-Civica Popolare-AP-PSI-Area Civica: Misto-CP-A-PS-A;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Noi con l'Italia-USEI: Misto-NcI-USEI;
Misto-+Europa-Centro Democratico: Misto-+E-CD.

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DELLA PRESIDENTE
MARTA GRANDE

  La seduta comincia alle 14.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti dell'Istituto Affari Internazionali (IAI).

  PRESIDENTE. Avviamo oggi il ciclo di audizioni nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla politica estera dell'Italia per la pace e la stabilità nel Mediterraneo.
  L'ordine del giorno reca l'audizione di rappresentanti dell'Istituto Affari Internazionali (IAI).
  Saluto e ringrazio il dottor Greco, vicepresidente dello IAI, la dottoressa Silvia Colombo e il dottor Andrea Dessì, rispettivamente responsabile e ricercatore nell'ambito del programma di ricerca «Mediterraneo e Medio Oriente», per la loro disponibilità a prendere parte ai nostri lavori.
  Il programma «Mediterraneo e Medio Oriente» è tra i primi a essere stato sviluppato dallo IAI e risale alla data di fondazione dell'istituto, il 1965. Ha dato luogo a numerosi progetti di ricerca e riflette la percezione dell'Italia che le regioni a sud dell'Europa sono un fattore che influenza la sicurezza nazionale e occidentale e contribuiscono a modellare il processo d'integrazione europea.
  Il programma si pone due obiettivi: analizzare gli sviluppi politici, sociali ed economici dei Paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente come tali e come dimensione della sicurezza occidentale ed europea; costruire una rete caratterizzata da relazioni creative e dinamiche con le istituzioni e le principali personalità della regione nel campo della ricerca.
  I nostri ospiti potranno dunque offrire un contributo prezioso per inquadrare in un orizzonte coerente e strutturato i molteplici aspetti che l'indagine conoscitiva intende approfondire, dal terrorismo ai flussi migratori, dalle nuove rotte commerciali ai grandi progetti infrastrutturali e di approvvigionamento energetico.
  Prima di dare la parola ai nostri ospiti, chiedo ai colleghi Formentini e Cabras, in qualità di relatori sull'indagine conoscitiva, se intendono svolgere qualche considerazione introduttiva.

  PINO CABRAS. Credo che l'indagine conoscitiva sia un elemento fondamentale per collocare l'azione dell'Italia in questi anni. È importante riportare l'attenzione del Parlamento su un tema che per un certo periodo è stato eclissato per quanto riguarda l'autopercezione del ruolo del Mediterraneo. Nel frattempo, ci sono stati eventi in questi anni che abbiamo subìto, dopo anni in cui invece l'Italia aveva pienamente il proprio ruolo, discutibile quanto si vuole, ma di livello, nel Mediterraneo. Ci sono state delle guerre, degli eventi che hanno messo in secondo piano il nostro Paese, e questo è stato forse frutto di una scarsa autopercezione dell'Italia rispetto al proprio ruolo storico.
  Non hanno fatto bene il loro dovere, a mio avviso – ma credo che questa sia una cosa sentita da molti colleghi – gli organi di informazione per raccontare che cosa è Pag. 4avvenuto nel Mediterraneo in questi anni. La politica ha avuto alterne vicende, ma i governi sicuramente sono calati nella loro capacità di maneggiare le questioni mediterranee negli ultimi anni, quindi è importante riscoprire dove siamo, vedere dove si colloca la nostra profondità strategica lungo tutte le direttrici dei più importanti traffici che conosciamo, da quelli che vengono subìti a quelli in cui invece l'Italia può essere un crocevia importante anche in relazione all'Europa.
  Quest'indagine che vogliamo condurre sarà, quindi, una grande indagine di ascolto, con tutti i protagonisti che sanno studiare il tema del Mediterraneo, con referenti all'interno delle istituzioni, anche multilaterali, che agiscono sulle questioni mediterranee e che conoscono bene l'Italia.
  Questo è un primo appuntamento, ma credo che lo svilupperemo con un'agenda molto fitta, ragionevolmente per un paio d'anni, per avere uno spettro sufficiente di temi, che potrebbero essere alla fine anche raccolti in una pubblicazione di tipo saggistico.

  PAOLO FORMENTINI. Ringrazio il collega Cabras, che ha già inquadrato metodologicamente quello che intendiamo fare con quest'indagine conoscitiva.
  È evidente la centralità del Mediterraneo in questa fase storica, a livello geopolitico, soprattutto per il nostro Paese. Quel fronte sud spesso, anche all'interno dell'Unione europea, della NATO, e quindi delle organizzazioni internazionali, non è una priorità.
  Il nostro impegno sarà riportare, invece, al centro dell'attenzione del nostro Paese, ma soprattutto dei Paesi del nord Europa, una problematica che riguarda noi come primo impatto, ma riguarda sicuramente tutta l'Europa e tutto l'Occidente. Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie. Do ora la parola al dottor Greco, vicepresidente dello IAI.

  ETTORE GRECO, vicepresidente dell'Istituto Affari Internazionali. Grazie mille, presidente. Devo esprimere, a nome dell'Istituto affari internazionali, un sincero ringraziamento per quest'invito. Per noi è veramente un piacere e un onore poter contribuire a questo vostro esercizio di riflessione su una tematica, quella mediterranea, che in effetti costituisce oggetto delle nostre ricerche in maniera abbastanza sistematica sin dalla fondazione dell'Istituto.
  Abbiamo anche guardato questa nota illustrativa di questo particolare filone di riflessione che riguarda il Mediterraneo. Credo condividiamo pienamente l'impostazione, e cioè la necessità di guardare a questa come a un'area che in questi anni, già da molto tempo in realtà, è in profonda trasformazione e presenta dei fenomeni contraddittori, a volte difficili da interpretare, fenomeni appunto di interconnessione, di integrazione, che naturalmente risentono dei processi di globalizzazione, ma anche molto di frammentazione e di un'accentuata rivalità geopolitica – questo è un elemento che si è visto soprattutto negli ultimi tempi – tra gli attori fondamentali.
  Anche noi condividiamo pienamente quest'approccio analitico, la necessità di guardare all'area come a un'area sempre più globalizzata, connessa con altre aree. Basti pensare al Sahel, al Golfo e al ruolo che hanno gli attori globali, come la Cina, oltre a quelli più tradizionali, come gli Stati Uniti.
  Quest'area ha vissuto e ha risentito di processi politici che hanno avuto delle implicazioni a vastissimo raggio, inclusa la stessa Primavera araba, fenomeno che è stato unificante inizialmente e che io giudico, anche se questo non è da tutti condiviso, la manifestazione di una spinta dal basso, che in parte continua e può riprodursi, ma che in effetti poi non ha trovato un suo sbocco. Adesso, assistiamo, e in realtà abbiamo già assistito, a un ritorno anche a vecchi stili di Governo, di cui non è chiaro quanto poi siano sostenibili in questi Paesi dove appunto si sono manifestate queste spinte per un'innovazione e per un cambiamento.
  Quello che faremo oggi, come ci è stato chiesto, è cercare soprattutto di dare uno sguardo d'insieme sui principali fattori all'opera nell'area, anche rispetto ai fenomeni Pag. 5 di più lungo termine, tenendo conto che ovviamente anche di recente ci sono stati episodi ed eventi che hanno segnato profondamente l'area. Il nostro sforzo, quello dei miei colleghi, che sono più esperti e più specializzati di me negli studi sul Mediterraneo, sarà un po’ di fare riferimento anche a questi eventi più attuali, senza però limitarsi a questo, ma cercando di capire come questi si inquadrino e se in che misura siano riflesso di fenomeni più ampi, in modo che l'analisi possa soffermarsi in particolare su questi ultimi.
  Ovviamente, nel fare questo daremo anche delle valutazioni sulle dinamiche che agiscono a livello più subregionale o anche a livello dei singoli Paesi. Abbiamo sott'occhio tutti la situazione in Libia, dove sono in gioco enormi interessi italiani. Veniamo da una conferenza nella quale l'Italia è stata protagonista e ci interessa anche avere uno scambio di opinioni sugli esiti di questa conferenza.
  Ovviamente, faremo costantemente riferimento anche al ruolo, agli interessi e alle iniziative che l'Italia ha assunto, al loro impatto attuale e quello che ancora può avere in futuro.
  Per quanto riguarda la divisione del lavoro, adesso parlerà Silvia Colombo, la direttrice del programma «Mediterraneo e Medio Oriente» dell'Istituto, e poi Andrea Dessì, ricercatore nello stesso settore. Silvia Colombo si soffermerà più sull'area nordafricana, quindi sia Maghreb sia Egitto, mentre Andrea Dessì parlerà in modo particolare di Medio Oriente e Golfo.

  SILVIA COLOMBO, responsabile del programma di ricerca «Mediterraneo e Medio Oriente» dello IAI. Grazie, Ettore. Grazie, presidente. Buonasera a tutti. Grazie per quest'invito.
  La prima parte del mio intervento sarà dedicata un po’ a contestualizzare il Mediterraneo oggi. Come già da voi in maniera molto chiara espresso nel documento che ci invita a quest'indagine conoscitiva, è chiaro che il Mediterraneo come è oggi non è la stessa cosa di quello che era vent'anni fa, quando tutta questa concettualizzazione di uno spazio mediterraneo condiviso, quindi che fosse un ponte tra i Paesi europei e i Paesi della cosiddetta sponda sud, ha iniziato a prendere forma.
  Lo stesso concetto di Mediterraneo da un certo punto di vista deve essere un po’ messo in discussione. Penso che ciò valga anche per un Paese come l'Italia, che affonda proprio nel Mediterraneo, nella politica mediterranea le proprie radici e anche una parte del proprio destino politico. Sappiamo che, tra i tre pilastri fondamentali dell'azione esterna, comunque dell'impostazione della politica estera italiana, vi è sempre stata la dimensione mediterranea quale uno dei fattori fondamentali, anche proprio per la definizione delle altre due, ovvero quella europea e quella più di proiezione transatlantica.
  Oggi, però, il Mediterraneo va ricontestualizzato. La frammentazione che è subentrata, non soltanto dopo le Primavere arabe, ma soprattutto per l'insistere su quest'area di una serie di cambiamenti regionali e geopolitici, fa sì che sempre più questa visione di un Mediterraneo come spazio chiuso o anche una prospettiva molto eurocentrica debbano essere messe in discussione.
  In moltissime delle nostre analisi e dei nostri lavori di ricerca, sempre di più usiamo il concetto di Medio Oriente e Nord Africa. Non è soltanto un modo diverso di definire lo stesso gruppo di Paesi, ma è anche proprio un modo diverso di approcciarci a quest'area geografica e alle sue complessità geopolitiche.
  Mediterraneo dà l'idea di uno spazio molto più ristretto da un certo punto di vista, rappresentato, come dicevo, sempre come il punto di partenza di una serie di dinamiche politiche, culturali ed economiche che ci riguardano da vicino come Paese, ma parlare di Nord Africa e Medio Oriente ha tutto un altro sapore. Non è soltanto una questione, ripeto, prettamente geografica, ma dà proprio l'idea di un'area sempre più interconnessa, dove questi influssi della dimensione globale e dell'aspetto interregionale sono sempre più forti e marcati.
  Parliamo, quindi, come diceva il dottor Greco, dell'apertura di quest'area verso quello che avviene in aree limitrofe, quindi Pag. 6il Golfo, che a pieno diritto fa parte del Medio Oriente in questa concezione geopolitica ampia, ma anche le aree limitrofe cosiddette non arabe, non a maggioranza islamica, che vanno un po’ al di là degli schemi di riferimento che normalmente usiamo per la regione, quindi l'Africa subsahariana, e in particolare la cintura del Sahel o l'area del Corno d'Africa, che anch'essa rappresenta un punto strategico per la nostra proiezione esterna.
  Una diversa concettualizzazione del Mediterraneo come Medio Oriente e Nord Africa ci permette anche di prendere atto e di tenere conto di una serie di cambiamenti dell'ordine regionale in quest'area, ovvero il fatto che siamo di fronte a una trasformazione, che chiaramente non è iniziata ieri. Parliamo, per esempio, della ristrutturazione dell'ordine regionale legata all'invasione a guida americana dell'Iraq del 2003, che ha portato a questa contrapposizione più marcata tra sunniti e sciiti, non solo in termini religiosi, ma anche in termini politici. Le Primavere arabe hanno ulteriormente contribuito a questa ristrutturazione.
  Oggi, la domanda è: quale tipo di configurazione, quale tipo di ordine sta prendendo piede in questa regione?
  I nostri studi, le nostre analisi ci portano a dire che, oltre al fatto che è difficile intravedere un ordine geopolitico chiaro all'orizzonte nel breve e medio termine, è però sempre più importante tenere separati Nord Africa e Medio Oriente. La frammentazione di quest'area e le complesse vicende a livello locale e a livello interno di ogni Paese fanno sì che ci sia la necessità di separare, per esempio, un'area mediorientale, che comprende da una parte, come dicevo, anche la dimensione della Penisola arabica e del Golfo in generale, quindi i Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo, Yemen, Iran e Iraq, tutta quest'area che è sempre stata considerata un po’ marginale; dall'altra, il Nord Africa, che, come dirò più avanti, è sempre più connesso con le dinamiche prettamente africane.
  Si tratta, quindi, di fare non dico una scelta di campo, ma di considerare che le politiche e gli strumenti che possono essere applicati nell'area mediorientale, – chiaramente molto semplificando, ma poi possiamo parlare specificatamente dei singoli Paesi – non sono quelli che vanno bene nell'area nordafricana, sempre nell'ottica della pace e della stabilità.
  Il nesso tra pace e stabilità è talmente importante da essere posto come principale obiettivo di quella che può essere l'azione esterna italiana ed europea. Si è fatto riferimento, per esempio, alla NATO e alla dimensione europea.
  Perché pace e stabilità devono andare necessariamente insieme? È banale dirlo, ma purtroppo dal 2011 in poi, ma soprattutto negli ultimi tre anni, si è assistito a un crescente tentativo di leggere le vicende mediterranee, o di Medio Oriente e Nord Africa, solo nell'ottica di una stabilizzazione.
  Le sfide che quest'area ci pone, a cui anche l'onorevole Cabras ha fatto riferimento, il terrorismo, i flussi migratori, tutto quello che arriva più vicino a noi come Paesi occidentali, Paesi europei, fanno sorgere questa domanda forte di stabilità, di stabilizzazione, chiaramente con un processo. Ma sappiamo che la stabilità non può essere raggiunta se non ci sono delle basi solide, e quindi la pace come primo prerequisito, oltre alla questione – vorrei insistere su quest'aspetto – delle istituzioni. Non ci può essere, infatti, una pace sostenibile, e quindi una stabilità, senza delle istituzioni forti.
  Questo è un po’ il filo conduttore che riguarda oggi tutto il rapporto dei Paesi occidentali, la sfida primaria, riguardo ai Paesi nordafricani. Lasciando da parte per un momento la questione libica, dove comunque c'è una forte domanda di institution building, se guardiamo alla Tunisia, al Marocco, alla stessa Algeria e all'Egitto, c'è bisogno di rispondere alle sfide che questi Paesi pongono a se stessi, e chiaramente a noi come Paesi occidentali, partendo da un rafforzamento e, in alcuni casi, un cambiamento delle istituzioni.
  Come dicevo, è importante tenere separati Nord Africa e Medio Oriente. Il Medio Oriente è, come ci dirà adesso il collega Dessì, la sotto-regione, se così possiamo Pag. 7chiamarla, in cui di più le tensioni geopolitiche stanno creando un vero e proprio arco di crisi. C'è un fortissimo collegamento tra contesti anche molto diversi (il Libano, l'Iraq, la Siria stessa, lo Yemen), in un mosaico essenzialmente tenuto insieme dalla grossa competizione geopolitica tra Arabia Saudita e Iran, anche questa grossa semplificazione, ma che bene si presta come chiave di lettura per capire che cosa avviene in quest'area.
  Per quanto riguarda il Nord Africa, in termini molto succinti ma poi entrerò più nei dettagli, è una regione di fatto molto più frammentata rispetto al Medio Oriente. Ci sono Paesi che hanno intrapreso, soprattutto negli ultimi cinque-sette anni, percorsi molto diversi. Se confrontiamo, per esempio, l'Egitto e la Tunisia, che sono un po’ ai due estremi di un continuum, reduci dall'esperienza delle Primavere arabe, l'hanno affrontata in maniera completamente diversa. Da una parte, c'è un caso di successo più o meno completo, pur in presenza di forti dinamiche centrifughe che cercano di mettere in discussione i progressi raggiunti; dall'altra parte, come ricordava anche il dottor Greco, un ritorno a vecchie forme di gestione di fatto dittatoriale e autoritaria del potere, che tengono l'Egitto in una morsa di sottosviluppo e instabilità cronica.
  L'Egitto, come sappiamo, è troppo importante, è troppo grande per poter essere lasciato in questa condizione. Anche per un Paese come l'Italia, come in parte già è per chiari interessi economici, energetici, di cui ben sappiamo, ma anche dal punto di vista politico ben venga quest'idea di tornare a essere più protagonisti proprio per quanto riguarda le vicende egiziane.
  Rimanendo, però, sul piano regionale, il Nord Africa è veramente una regione molto frammentata, in cui è difficile riscontrare dei trend comuni e dove purtroppo il potenziale di una cooperazione subregionale integrata tra i vari Paesi è molto spesso perso, o comunque fortemente diluito.
  Quello che tiene insieme la regione, e che forse oggi può essere letto però in chiave abbastanza negativa, sono alcuni fenomeni transnazionali (dal terrorismo alla proliferazione dei gruppi armati, alle milizie, alla questione di smuggling e trafficking, ai fenomeni migratori) che di fatto fanno da collante in questa regione. Per questo, lo spillover, per usare un termine inglese, del conflitto libico in tutta la regione del Nord Africa e oltre è un altro aspetto di primaria importanza, che ci fa capire come sia vero che c'è questa frammentazione, che è necessario risolvere i problemi Paese per Paese, per riuscire ad avere poi un quadro regionale che possa andare veramente nella direzione di una maggiore integrazione e cooperazione virtuosa anche con Paesi come l'Italia.
  Direi di fare adesso una carrellata un po’ più dettagliata sul Medio Oriente in questa prospettiva geopolitica. Col permesso della presidente, lascerei quindi la parola al collega Dessì.

  ANDREA DESSÌ, ricercatore del programma di ricerca «Mediterraneo e Medio Oriente» dello IAI. Molte grazie, Silvia. Buonasera a tutti, grazie di nuovo per l'invito.
  Come già preannunciato, passeremo adesso al Medio Oriente. C'è stata una serie di eventi particolarmente importanti che ho pensato potrebbero servire da chiavi di lettura per organizzare questo breve intervento.
  Naturalmente, sappiamo che il Medio Oriente è una polveriera di problematiche, di crisi sovrapposte. Per semplificare, quindi, ho pensato di focalizzarmi su tre avvenimenti abbastanza recenti, che riescono a dare un quadro di lettura per il Medio Oriente.
  Mi aggancio subito a ciò che ha detto adesso la collega Silvia sulla frattura principale del Medio Oriente, questa rivalità geopolitica, geostrategica e religiosa tra l'Arabia Saudita e l'Iran. I tre tasselli che toccherò riportano sempre a questa rivalità geostrategica tra Iran e Arabia Saudita.
  Iniziamo senz'altro con l'accordo sul nucleare iraniano, il JCPOA, un aspetto importantissimo per la regione, per l'Europa, e in particolare per l'Italia. Il secondo punto sono le implicazioni o le ripercussioni dell'omicidio di Jamal Khashoggi a Istanbul e l'impatto che questo può avere all'interno di queste alleanze e questi mutamenti Pag. 8 regionali, in particolare tra la Turchia e l'Arabia Saudita, ma anche tra la Turchia e gli Stati Uniti. Quanto al terzo punto, forse gli eventi più recenti, si tratta di Gaza, la crescente apprensione per la possibilità di un nuovo conflitto armato a Gaza. Abbiamo tutti visto il cessate il fuoco, la nuova tregua che è stata negoziata, che per ora sembra reggere. C'è stato, però, anche un impatto sulla politica interna israeliana con le dimissioni di ieri del Ministro della difesa Lieberman.
  Di questi tre tasselli il filo conduttore, di nuovo, è lo scontro tra Iran e Arabia Saudita, ognuno dei quali con i propri alleati sia interni, regionali, sia esterni, internazionali.
  Partendo dall'accordo sul nucleare iraniano, naturalmente sappiamo quanto capitale politico sia stato investito da parte dell'Unione europea per negoziare quest'accordo, che rimane un tassello importantissimo per la politica estera e di difesa europea, ma è anche una vittoria della politica italiana.
  Inizio dalla JCPOA perché è l'aspetto macro che potrebbe avere maggiore impatto sul Medio Oriente, nel senso del ritorno delle sanzioni USA e del rischio delle minacce delle secondary sanctions, che toccano anche gli interessi economici italiani, europei o di Paesi terzi. Il ritiro unilaterale da parte degli Stati Uniti in realtà è anche una violazione dell'accordo, che non è economico o politico, ma è stato integrato, votato e approvato dal Consiglio di sicurezza dell'ONU, per cui ha valenza di legge internazionale. Bisogna, quindi, capire che la posta in gioco su quest'accordo non è soltanto di matrice economica, ma ha un peso molto più importante. C'è in ballo molta della credibilità europea in questa promessa di cercare di mantenere vivo l'accordo anche in seguito all'uscita degli Stati Uniti.
  Dico questo perché la continuazione dell'accordo tocca molto da vicino gli interessi europei e anche italiani in materia sia strategica sia di sicurezza, ma anche in materia di credibilità, del sostegno al Trattato di non proliferazione e di questi aspetti un po’ più macro.
  Il risultato del ritorno delle sanzioni adesso è stato un ulteriore aumento delle tensioni regionali e un ulteriore consolidamento dell'asse anti-iraniano capeggiato da Stati Uniti, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Israele ed Egitto. Dall'altra parte, c'è un aumento delle tensioni all'interno dell'Iran, con una serie di proteste, di attentati, di preoccupazioni del Governo iraniano, che vede crescere anche le ali più conservatrici in Iran.
  Questi sono aspetti molto importanti per la stabilità della regione, con il rischio che si possa arrivare a nuovi miscalculation, a nuovi errori di calcolo e anche addirittura a un potenziale conflitto.
  Dico, però, che è molto improbabile pensare a un conflitto diretto. È molto più probabile vedere un aumento delle tensioni e degli scontri o delle guerre per procura nelle diverse zone calde del Medio Oriente. Non mi riferisco alla Siria, perché ormai lì è una questione un po’ più complicata, ma penso in particolare all'Iraq, al Libano, a Gaza – ci arriverò tra poco – e, naturalmente, allo Yemen. Questo implica un accrescersi ulteriore della frammentazione e del rischio di un conflitto per procura o di una destabilizzazione ancora più regionale e generale.
  Bisogna comunque precisare che l'Iran continua a rimanere nell'accordo, continua a rispettarne le clausole. Lo dice l'Agenzia internazionale per l'Energia atomica, che l'ha ribadito tredici volte, l'ultima volta pochi giorni fa, ma l'Iran si aspetta dall'Europa una reazione molto forte, una reazione che possa compensarlo per la perdita delle agevolazioni, degli investimenti economici in seguito alle sanzioni americane.
  Qui entra in gioco l'operato europeo, che cerca di mettere in piedi, di attivare una serie di meccanismi che possano consentire alle compagnie o ai privati europei di fare affari con l'Iran.
  Purtroppo, credo che possiamo vedere dalle recenti dichiarazioni, dalle recenti notizie che i tentativi europei non stanno avendo successo. Ci sono dei problemi molto seri relativamente alla special purpose vehicle, che ancora manca di una sede che Pag. 9potrebbe ospitarla. Pensare di mantenere l'Iran all'interno dell'accordo senza riuscire a mettere in piedi questi meccanismi per consentire un commercio e avere dei rapporti con l'Iran, è molto complicato. La pazienza iraniana verso l'Europa non sarà infinita, avrà un termine.
  È molto importante, quindi, per l'Europa, nei prossimi sei mesi, fare un'azione congiunta, molto proattiva per salvaguardare quest'accordo. Come detto, è un accordo che ha implicazioni strategiche, politiche, militari e di sicurezza per l'Unione europea molto più di quante non ne abbia per gli Stati Uniti. È, quindi, una responsabilità ancor di più europea cercare di salvaguardare quest'accordo.
  Questo mi porta al secondo tassello, che appunto è l'omicidio di Jamal Khashoggi a Istanbul, e all'impatto che questo ha su uno degli attori principali della regione dell'asse anti-iraniano, l'Arabia Saudita.
  È chiaro che il principe ereditario Mohammad bin Salman è molto indebolito da questa vicenda. È altrettanto chiaro che è improbabile pensare che questa vicenda possa portare a un cambio di successione all'interno dell'Arabia Saudita. Si potrebbe forse pensare a un tentativo interno di cercare di limitare i poteri del principe ereditario, di Mohammad bin Salman, ma ho dei forti dubbi che questo possa accadere, principalmente per via del consolidamento del potere portato avanti da Mohammad bin Salman.
  L'importanza dell'avvenimento di Istanbul è più nell'asse Turchia-Arabia Saudita. C'è una rivalità ideologica e geostrategica anche lì, un'altra frattura regionale, chiamata a volte frattura intra-sunnita, per uno scontro di visioni su come immaginare un Medio Oriente post Primavere arabe.
  Erdoğan, la Turchia sta adoperando quest'avvenimento per aumentare la propria influenza a discapito di quella dell'Arabia Saudita. Visto, però, che la Turchia è così coinvolta in Siria e ha dei problemi a riuscire ad ampliare la sua influenza, è molto più probabile che la Turchia usi quest'avvenimento come una specie di leverage nei confronti degli americani. Per gli americani, l'Arabia Saudita è un alleato troppo importante, e questo dà a Erdoğan una carta in più, una upper hand, nel negoziato con gli americani. Abbiamo visto, infatti, un graduale riavvicinamento tra la Turchia e gli americani dopo la crisi dei dazi.
  Vengo all'ultimo punto, forse quello per certi versi più preoccupante o più immediato: se c'è una zona calda, un'area di conflitto in Medio Oriente che ha il potenziale di esplodere da un momento all'altro, rimane comunque ancora una volta il conflitto arabo-israeliano, in particolare a Gaza, dove la situazione umanitaria è veramente peggiorata ancora più di quanto lo fosse prima. Abbiamo visto nelle ultime settimane, negli ultimi giorni, dei durissimi scontri tra l'esercito israeliano e i diversi gruppi armati che operano a Gaza.
  Bisogna capire come i due assi contrapposti pro e anti Iran ancora una volta cercheranno di usare Gaza o il conflitto arabo-israeliano per indebolire l'altro. Rimane ancora una volta il tradizionale approccio del mondo arabo verso i palestinesi, nel senso di utilizzarli come posta in gioco per aumentare i propri interessi, non quelli dei palestinesi o per cercare di portare avanti una pace duratura, un accordo diplomatico, bensì per aumentare i propri interessi, principalmente geopolitici e geostrategici, nei confronti dei rivali, che siano in Iran, che sia Hezbollah o i gruppi armati affiliati all'Iran.
  Per ora, dopo la tregua negoziata con molto affanno dall'Egitto, dalle Nazioni Unite, ma c'è anche stato un coinvolgimento molto importante della Norvegia e della Svizzera, la tregua regge, però non basta. Come stava accennando Silvia, non bisogna pensare soltanto al breve termine, alla stabilizzazione e al ritorno allo status quo. Gaza necessita di un intervento di molto più ampio respiro, che idealmente dovrebbe essere multilaterale con l'Europa in prima fila, per cercare di toccare quegli aspetti socioeconomici e umanitari, ma principalmente politici, che hanno lasciato Gaza isolata in questa maniera, portando a una crisi umanitaria di così grave portata.
  Se c'è una zona nel Medioriente in cui c'è il rischio dello scoppio di una guerra, Pag. 10che potrebbe poi portare a una destabilizzazione ancora ulteriore, rimane ancora una volta il conflitto israelo-palestinese. Ci dobbiamo ricordare che Israele fa parte dell'asse anti-iraniano e, come abbiamo tutti visto, si sono create delle aperture, dei contatti e delle alleanze con i Paesi sunniti, del Golfo principalmente. Questo è un altro tassello che fa vedere il mutamento della regione e del suo assetto geostrategico, con implicazioni di nuovo importanti e anche forse preoccupanti per l'Europa e l'Italia, che sono così esposte agli eventi del Mediterraneo. Grazie.

  SILVIA COLOMBO, responsabile del programma di ricerca «Mediterraneo e Medio Oriente» dello IAI. Grazie, Andrea. Penso che sia chiaro da questa panoramica come la serie di problemi, di sfide che quest'area del Medio Oriente pone a un Paese come l'Italia, e in generale a tutti i Paesi europei, sia veramente molto legata alla necessità di porre fine a dei conflitti, prima di tutto armati, in essere o in potenza. Non si è parlato di Siria, ma benché si dica che ormai la parte militare del conflitto è terminata, in realtà il futuro del Paese è ancora estremamente incerto anche da questo punto di vista. Le violenze continuano.
  La domanda, quindi, è: quale tipo di strumenti possiamo mettere in campo per rispondere a queste sfide? Conflict resolutions attraverso quali strumenti?
  Penso che qui la nostra leverage, il nostro spazio di azione sia abbastanza limitato. Abbiamo anche come italiani un grosso ruolo, molto importante, nella missione UNIFIL; il Libano, che in qualche modo comunque contribuisce a non far esacerbare o esplodere altri potenziali terreni di scontro, di conflitto, in un Paese già molto provato e instabile per proprie ragioni interne; il canale economico, e sicuramente una diplomazia economica nei confronti dei Paesi del Golfo è stata tentata ed è nelle carte anche di una media potenza come l'Italia, ma la room for maneuver è abbastanza limitata, diversamente da quanto avviene in Nord Africa, dove ci sono le potenzialità di un Paese come l'Italia, particolarmente esposto geograficamente e storicamente in tutte queste dimensioni, da quella migratoria a quella economica, a quella politica, rispetto a questi Paesi.
  Penso che negli ultimi anni, come si diceva anche prima, anche questo cambiamento della concettualizzazione del Mediterraneo, o comunque la politica estera italiana, abbiano subìto uno spostamento abbastanza marcato, da un coinvolgimento più esteso nel Medio Oriente, con l'intervento militare in Afghanistan, la presenza in Iraq e via dicendo, che è andato via via esaurendosi, verso un riposizionamento sempre più marcato in direzione del Nord Africa e di tutto ciò che il Nord Africa rappresenta, ovvero una sorta di punta dell’iceberg rispetto al continente africano.
  L'importante è notare come questo riposizionamento non sia solo italiano o di altri Paesi europei, come la Francia, che hanno avuto già questa proiezione molto forte rispetto al Nord Africa con una penetrazione anche nell'area subsahariana per i legami linguistici e coloniali importanti, ma anche di Paesi newcomers, come la Germania, che in un contesto come quello saheliano stanno investendo in maniera sempre più diretta e marcata.
  Questo riposizionamento, come dicevo, non è soltanto dai Paesi europei, ma anche degli stessi Paesi del Nord Africa, che sempre di più si sentono integrati in una serie di dinamiche interregionali che riguardano l'intero continente africano. La proiezione è sempre più verso il sud degli stessi Paesi nordafricani, nella consapevolezza che il loro futuro, la loro stabilità non possono che passare attraverso una gestione di fenomeni che hanno le proprie origini molto più in basso. Per questo, vorrei partire dal caso del Marocco, facendo proprio dei brevissimi accenni.
  Il Marocco è il Paese che più decisamente ha riorientato negli ultimi anni le proprie priorità strategiche, economiche e di proiezione esterna, anche proprio di narrativa rispetto al contributo del Marocco alla politica internazionale, verso l'Africa, chiaramente l'Africa occidentale in primis, con cui il Marocco ha portato a compimento una serie di rapporti economici, di investimenti molto importanti, che hanno condotto per esempio alla decisione Pag. 11di rientrare all'interno dell'Unione africana.
  Lo stesso vale per un Paese piccolo come la Tunisia, che guarda sempre di più agli investimenti provenienti da alcuni Paesi africani, o comunque a partner esterni non necessariamente europei, per cercare di bilanciare il proprio rapporto, che è sempre stato preferenziale, molto forte, ma anche molto sbilanciato, rispetto all'Europa o alcuni Paesi membri, tra cui soprattutto Italia e Francia. La Tunisia è molto ancorata al quadro europeo; viceversa, per l'Unione europea la Tunisia è la priorità strategica assoluta nell'area del Mediterraneo, del Medio Oriente e del Nord Africa, ma la stessa Tunisia ha bisogno di diversificare queste relazioni. La dimensione africana diventa così ogni giorno sempre più importante.
  Parlando di Tunisia e Marocco, sicuramente questi sono i due Paesi del Nord Africa che, essendo passati attraverso una fase più o meno prolungata di instabilità interna (mobilitazioni popolari; nel caso tunisino, il cambio di regime; la riscrittura delle Costituzioni; un processo di revisione istituzionale molto profondo), sono oggi a un buon punto.
  Chiaramente, ci sono molte differenze tra i due. Se dovessimo essere più precisi e fare un po’ la parte dell'avvocato del diavolo, in realtà il Marocco non ha completamente scardinato un modello molto accentrato nella figura del sovrano, per ovvi motivi, il cui controllo si estende ben oltre la sfera politica. Soprattutto, quello che è forse più preoccupante è la sfera economica e come tutto un sistema di gestione della ricchezza del Paese sia nelle mani di un gruppo molto limitato di persone che fanno capo al sovrano, a Muhammad VI.
  Questo deve essere cambiato, perché sappiamo da dove provengono le Primavere arabe, ovvero da una situazione di forte disuguaglianza, di incapacità degli Stati centrali di rispondere alle esigenze delle periferie, o comunque delle persone che si sentivano marginalizzate.
  La Tunisia, invece, è sicuramente su una buona strada per completare la propria transizione democratica.
  Il punto centrale è che tipo di accompagnamento possono dare i Paesi occidentali, e soprattutto l'Unione europea, che, come ho detto, punta molto sulla Tunisia, a questo processo. Le dichiarazioni, l'aiuto economico non sono per il momento stati sufficienti a proteggere il Paese da una serie di involuzioni, o parziali involuzioni interne, legate al fatto che una gran parte della popolazione comunque non sente ancora tutti questi benefìci del cambiamento.
  Il tema migratorio per la Tunisia non deve essere sottovalutato. Penso che sia un po’ sul vostro radar. La Tunisia, da un anno e mezzo, è diventata il principale canale di passaggio di flussi migratori proprio nella dinamica dei vasi comunicanti delle rotte migratorie che si spostano. Un Paese più stabile come la Tunisia è diventato sempre più un Paese di transito e anche un Paese di partenza. Sempre più, i tunisini, che hanno questo canale diretto anche proprio per questioni di vicinanza linguistica, culturale e geografica con noi, con l'Italia, sfruttano molto bene questo canale.
  La risposta che viene data alla Tunisia non può essere semplicemente quella di gestire il problema innalzando muri. Un Paese che ha attraversato negli ultimi otto anni tutta questa fase di instabilità legata a un processo di transizione democratica, deve essere accompagnato in maniera diversa.
  Anche per la questione migratoria c'è la necessità di porre sul tavolo, nei negoziati bilaterali o multilaterali con l'Unione europea, degli strumenti, quali canali regolari di mobilità, favorire la migrazione circolare, estendere le categorie di persone che possono avere accesso alla mobilità legale attraverso dei canali di liberalizzazione dei visti, passaggi molto importanti, che penso vadano anche nell'ottica di favorire in ultima istanza la pace e la stabilità in questo Paese.
  Sull'Algeria dirò molto poco. Tutto è molto collegato alla situazione politica, estremamente opaca e instabile, legata alle prossime elezioni presidenziali, che avverranno ad aprile del 2019. Ci si aspetta che non molto cambierà, che Bouteflika sarà ancora il perno del sistema, magari non necessariamente Pag. 12 da Presidente, ma che continuerà comunque a mantenere questa sua ombra sul sistema politico algerino. Penso che sia abbastanza indubbio.
  In generale, il Paese ha fortemente bisogno di uscire da questa situazione di stallo politico, anche perché alcuni studi mettono in evidenza come la situazione di crisi economica, di un corto circuito di tutto il modello economico, basato sullo sfruttamento degli idrocarburi in questo Paese, e la situazione di malcontento popolare, soprattutto tra le giovani generazioni, oggi siano a livelli simili a quelli della fine degli anni Ottanta, quando poi ci fu l'inizio, dopo le elezioni di inizio anni Novanta, della guerra civile. Il rischio che anche l'Algeria possa trovarsi su questa rotta di crescente destabilizzazione interna non può essere escluso.
  Anche relativamente al panorama dell'Egitto, purtroppo le sfide sono più dei progressi. Vorrei solo sottolineare l'aspetto forse più evidente, ma anche non necessariamente preso in esame come base delle politiche future, ovvero la portata demografica di questo Paese, che, della regione nordafricana, è quello che sta ancora avendo tassi di crescita molto elevati. Si prevede che con la crescita della popolazione si supereranno i cento milioni di persone nei prossimi due anni.
  Per un Paese che ha al proprio interno ancora tutte quelle problematiche strutturali, economiche e di gestione delle risorse legate ai cambiamenti climatici, con l'impoverimento di tutta la zona del delta del Nilo, dove è concentrata l'attività agricola, e quindi con il venir meno di fonti di sostentamento per una parte della popolazione, l'instabilità risulta ancora più marcata.
  Potremmo parlare molto dell'Egitto, ma adesso preferisco chiudere questa carrellata in modo da lasciare spazio al dibattito e alle vostre domande.
  Chiaramente, non si può non parlare della questione libica. In queste settimane, molto è stato detto. Quanto a una sorta di valutazione generale del processo che ha portato alla Conferenza di Palermo e alle prospettive future che si aprono, penso che quello che è successo ieri sera, o comunque sta succedendo in queste ore, a Tripoli dia veramente il polso della situazione. A Tripoli, sono ricominciati gli scontri.
  Questo è un segnale molto forte. Le delegazioni dei quattro pilastri del potere in Libia si sono incontrate a Palermo e hanno portato avanti una serie di discussioni, che hanno comunque portato a uno sblocco, almeno a livello molto declamatorio e retorico, del processo che dovrebbe portare, secondo il piano dell'Inviato speciale delle Nazioni Unite, a una conferenza nazionale libica a inizio 2019. Ci sono poi le elezioni, tutti i vari passaggi che abbiamo visto ben riassunti nelle conclusioni di quest'incontro, che il nostro Governo ha facilitato. Sul campo, però, la situazione è molto diversa.
  Le milizie sono tornate a scontrarsi nella capitale, dove è concentrato il potere politico, e questo scontro non altro obiettivo che quello di far capire che loro hanno in mano le leve del potere e possono influenzare questi processi politici; d'altro canto, rappresenta una manifestazione molto forte di come la pacificazione e la stabilizzazione dell'area su cui tanto si è puntato anche come modello per tutto il resto del Paese ancora non siano completate.
  Vorrei soffermarmi anche sulla questione economica, legata a doppio filo con la questione politica, e anche sul ruolo delle milizie dei gruppi armati che si stanno scontrando.
  Sempre di più è evidente come non si possa arrivare a una futura stabilizzazione del potere del Paese senza affrontare la questione economica, che in primis vuol dire risolvere il problema della duplicazione delle istituzioni. Ognuna delle due banche centrali controlla diversi canali attraverso cui vi è poi la distribuzione della ricchezza del Paese, ovvero come vengono pagati gli stipendi, che tipo di accesso al credito viene dato alla popolazione. I rubinetti vengono aperti o chiusi proprio dalle stesse milizie, che controllano queste banche e che fanno capo alle istituzioni delle due banche centrali.
  C'è, quindi, la necessità di agire su un processo di unificazione delle due banche Pag. 13centrali, per garantire al Paese di non andare incontro a un rischio di frammentazione ancora più forte, ma soprattutto per porre fine a questo strapotere lasciato nelle mani delle milizie. Un accentramento del potere a livello delle istituzioni centrali è necessario.
  Certo, rimane il problema della rappresentatività, cioè se il quadro negoziato a fine 2015 a Skhirat, ancora oggi ripreso dalle Nazioni Unite come road map di fatto per implementare il negoziato per la stabilizzazione e la pacificazione del Paese, sia ancora quello opportuno o se invece non debba essere rivisto in maniera profonda.
  Verso i Paesi del Nord Africa, come penso sia chiaro, dalla Tunisia all'Egitto, ma soprattutto la Libia, è importante che ci poniamo con gli strumenti a nostra disposizione. Penso che soprattutto il sostegno tecnico e la diplomazia attraverso i canali economici siano alla nostra portata – parlo dell'Italia, ma in generale di tutti i Paesi europei che aspirano a svolgere questo ruolo nella regione – e che ci siano delle buone basi.
  Vi ringrazio.

  PRESIDENTE. Grazie. Prima di dare la parola agli onorevoli colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni, inizio io con una mia curiosità su una zona di Mediterraneo sulla quale non si concentra molta attenzione e che probabilmente vedrà la nostra prima missione come Commissione, ovvero i Balcani.
  Qual è la vostra opinione sulla stabilità dei Balcani? Secondo voi, quali possono essere gli sviluppi, non voglio dire di un mancato coinvolgimento, ma di quest'attesa, che forse rimarrà disillusa, nel vedere che nel frattempo l'Unione europea al suo interno sta cambiando rispetto a quel progetto originario al quale hanno iniziato ad aderire in tempi passati?

  ETTORE GRECO, vicepresidente dell'Istituto Affari Internazionali (IAI). Grazie. La domanda è molto interessante.
  Quella dei Balcani occidentali è un'area particolare, naturalmente, in cui rientrano Paesi a cui l'Unione europea ha promesso, dopo il conflitto nel Golfo, la piena integrazione. Questo è l'orizzonte che ancora rimane valido formalmente.
  A fronte di questo, sappiamo che l'Unione europea di fatto non integrerà nessuno di questi Paesi, non solo nei prossimi mesi e nei prossimi anni, ma neanche, con ogni probabilità – questo ormai è un dato acquisito – nel corso della prossima legislatura, cioè nei prossimi cinque anni. È, quindi, una prospettiva molto lontana. Non siamo in grado, allora, e questo è il punto politico fondamentale, di usare questa prospettiva, quest'orizzonte come leva per riuscire a promuovere le trasformazioni necessarie per arrivare a un'integrazione piena nell'Unione europea.
  Ciò detto, come secondo elemento, a mio avviso praticamente per tutti questi Paesi non c'è una reale alternativa politica o anche geopolitica. Questo è il mio punto di vista.
  Sottolineo questo punto, perché è un argomento di discussione. Non credo che geopoliticamente, per i legami commerciali, per i legami economici, questi Paesi abbiano una possibile altra strada a cui guardare. Quando si parla molto, per esempio, dell'influenza russa, questa c'è, si fa valere in vari settori, in particolare riguardo alla Serbia. Ovviamente, in alcuni casi c'è una dipendenza di carattere energetico. Di fatto, però, se guardiamo al livello di integrazione economica e commerciale, di gran lunga la potenza preponderante rimane l'Unione europea, i vari Paesi dell'Unione europea. Da un punto di vista di lungo termine, quindi, non vedo prospettive per questi Paesi di seguire altre strade. Siamo in una specie di limbo.
  Questi Paesi, da un lato, vorrebbero e aspirerebbero a un processo più accelerato; se questo avvenisse, ovviamente aiuterebbe molto le leadership nazionali a portare avanti i progetti di riforma e anche a convincere la popolazione che sacrifici o misure che mirino a quest'obiettivo possano essere accettate. Dall'altro lato, però, l'Unione europea tiene conto degli ostacoli che si frappongono, sia per lo stato in cui questi Paesi si trovano, anche per i problemi politici, sia Pag. 14per le resistenze interne che sono venute sempre più manifestandosi a un allargamento ulteriore dell'Unione: sappiamo che le opinioni pubbliche tendono a essere, in alcuni Paesi in particolare, ma in generale un po’ in tutta l'Unione, contrarie all'allargamento.
  Bisogna ricordare che sono stati manifestati, anche recentemente, da alcuni Paesi questi dubbi e riserve sull'andare avanti in modo più accelerato nel processo di integrazione.
  Naturalmente, influiscono molto le questioni politiche, che rimangono e non sono da poco. Per quanto riguarda in particolare la Serbia, uno dei primi possibili candidati in prospettiva a essere integrati nell'Unione europea, rimane il problema del Kosovo. Fino a quando non si risolve questo problema, ovviamente non si riuscirà a integrare la Serbia.
  Nel caso della Macedonia, si spera che si possa riprendere la soluzione del problema del nome. Abbiamo il veto della Grecia. Anche lì, però, c'è un problema di trasformazione interna non indifferente e rimane una questione di contrasti e rivalità tra i due gruppi etnici, quello albanese e quello slavo-macedone, non da sottovalutare. Anche se politicamente la minoranza albanese ha sempre avuto una rappresentanza, e questo ha molto aiutato anche a livello di Governo, dal punto di vista sociale però, e quindi nella dimensione etnica, rimane una separazione che può sempre portare a conflitti.
  Naturalmente, c'è il grosso problema della Bosnia, che rimane un'entità non consolidata. Quando parliamo di Kosovo e Bosnia, in particolare, parliamo di due entità politiche molto diverse tra loro, ma che per le loro caratteristiche non possono che arrivare come ultime, stando alla situazione attuale, nella lista dei Paesi che possono essere integrati.
  Nel caso dell'Albania, dove abbiamo grossi interessi, rimane un punto interrogativo sulla capacità di questo Paese di attuare le trasformazioni necessarie per avere una capacità effettiva di integrarsi nell'Unione europea.
  Adesso, si parla molto – tanto per affrontare un tema di attualità – a proposito del Kosovo, di questi possibili scambi territoriali tra Kosovo e Serbia come una possibile soluzione. Questa non è una novità, se n'è discusso sempre, da quando la questione kosovara si è aperta in modo molto visibile, quindi già alla fine degli anni Ottanta.
  Tendenzialmente, si potrebbe anche ipotizzare una soluzione del genere. La realtà dei fatti è che c'è una fortissima preoccupazione per i riflessi che questo può avere, in particolare in Bosnia, e quindi sulle aspirazioni secessioniste della Repubblica Srpska, cioè la parte dell'entità serba. Effettivamente, questo potrà continuare a costituire un freno.
  Io tendo a pensare ancora che convenga all'Unione europea mantenere questo punto di evitare per quanto possibile ulteriori cambiamenti di confine, che peraltro sarebbero comunque difficili da gestire, che possono dare poi luogo a effetti a catena. Per questo, la linea di cautela che è stata tradizionale nell'evitare ulteriori rotture geopolitiche credo che vada mantenuta. Bisogna poi, invece, puntare su altro, cioè sul controllo internazionale, sul rispetto dei diritti delle minoranze, entro Stati che comunque rimarrebbero multietnici.
  Effettivamente, per quanto riguarda in modo particolare l'Italia, questa ha continuato e continua a essere tra gli Stati che promuovono e hanno sempre sostenuto la necessità di fare ulteriori aperture. Credo che questa sia una linea giusta. Tra l'altro, su questo si può trovare e si trova un consenso ampio in Parlamento, bipartisan, tra maggioranza e opposizione. Certamente, questo è un terreno su cui il Paese può continuare a marciare abbastanza unito. Tutti i passati Governi hanno molto sostenuto la prospettiva dell'integrazione di questi Paesi.

  PRESIDENTE. Non essendoci interventi da parte dei colleghi, vi ringrazio molto per la vostra disponibilità, per il tempo e per le informazioni che ci avete fornito. Come dicevamo, è la prima audizione su questo filone di indagine, che ci porterà a capire meglio la nostra regione geografica. Era Pag. 15opportuno partire da un quadro abbastanza chiaro di quello che realmente sta accadendo, per poi entrare nel merito delle singole questioni. Contiamo di riavervi qui su specifici argomenti, chiaramente se c'è la disponibilità.

  ETTORE GRECO, vicepresidente dell'Istituto Affari Internazionali (IAI). Ancora grazie molte dell'invito.

  PRESIDENTE. Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 15.05.