CAMERA DEI DEPUTATI
Mercoledì 10 giugno 2020
385.
XVIII LEGISLATURA
BOLLETTINO
DELLE GIUNTE E DELLE COMMISSIONI PARLAMENTARI
Finanze (VI)
ALLEGATO

ALLEGATO 1

5-04107 Ungaro: Misure per la ripresa del settore dei giochi.

TESTO DELLA RISPOSTA

  Con il documento in esame l'Onorevole interrogante evidenzia che, fin dal sorgere dell'emergenza COVID, il settore dei giochi è stato chiuso e tutt'ora le sale da gioco rimangono chiuse anche a seguito della graduale riapertura degli esercizi commerciali.
  Pertanto, l'Onorevole interrogante chiede di conoscere quali iniziative si intendono «adottare per consentire la riapertura delle sale in sicurezza..., anche al fine di garantire migliaia di posti di lavoro collegati al settore dei giochi».
  Al riguardo, sentita l'Agenzia delle dogane e dei monopoli, si rappresenta quanto segue.
  In relazione all'epidemia da COVID-19 e della connessa emergenza sanitaria internazionale dichiarata dall'OMS il Consiglio dei ministri con delibera del 31 gennaio 2020 ha dichiarato, per sei mesi, a far data dal 1o gennaio 2020, lo stato di emergenza sul territorio nazionale in relazione al rischio dell'insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili.
  A seguito di tale provvedimento il legislatore è intervenuto con l'emanazione di due decreti-legge contenenti le misure ritenute necessarie per fronteggiare l'emergenza epidemiologica da COVID-19: il decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6 e il decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, ai quali il Governo ha dato attuazione con una serie di decreti del Presidente del Consiglio dei ministri.
  L'Agenzia delle dogane e dei monopoli, nella sua qualità di Autorità di regolamentazione del gioco pubblico, è responsabile che tutte le disposizioni legislative e regolamentari emergenziali trovino pratica attuazione sia a livello oggettivo presso gli esercizi sottoposti al proprio controllo, sia a livello soggettivo nei confronti di tutti gli operatori che operano in virtù di un contratto di concessione.
  In questo quadro normativo emergenziale, pertanto, l'Agenzia, al pari di altre realtà produttive del Paese, ha adottato una serie di determinazioni direttoriali preordinate a dare attuazione alle specifiche disposizioni contenute nei decreti legge e nei provvedimenti governativi prima richiamati.
  La disciplina recata dalle determinazioni direttoriali si innesta nell'alveo di una doverosa attività regolatrice, all'uopo dettata per il raggiungimento di scopi coincidenti con il perseguimento di superiori interessi pubblici, a fronte dei quali le posizioni dei privati contraenti non possono considerarsi che recessive.
  Deve precisarsi a tal riguardo che le misure adottate dall'Agenzia non hanno per nulla esteso, la portata dei provvedimenti governativi.
  Le molteplici determinazioni direttoriali sono state adottate in un percorso progressivo graduale e proporzionale, esattamente aderente ai dettami dei provvedimenti governativi, volti a contemperare all'interno dei predetti parametri la limitazione dei diritti dei soggetti interessati con la tutela della salute pubblica in un'ottica di riapertura graduale e ragionata.
  Le scelte dell'Agenzia hanno tenuto conto del fatto che il Governo ha ritenuto che le attività di sale giochi, sale scommesse e sale bingo e locali assimilati, non sono servizi di prima necessità e per questo le ha sospese, mentre è stato consentito Pag. 134il «commercio al dettaglio di tabacco in esercizi specializzati» (purché fosse garantita la distanza di sicurezza interpersonale di un metro).
  La ratio dei provvedimenti in commento è legata al «distanziamento sociale» e tale finalità potrebbe essere vanificata qualora si prevedesse lo svolgimento indiscriminato delle attività di gioco tipiche delle sale giochi, delle sale scommesse e delle sale bingo che le disposizioni nazionali, al momento, vietano proprio al fine di salvaguardare la salute individuale e pubblica, evitando probabili assembramenti, con conseguente incremento del rischio di contagio e con potenziale grave pregiudizio all'integrità fisica ed alla sicurezza dei cittadini.
  Il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 26 aprile 2020 ha confermato il divieto di ogni forma di assembramento di persone in luoghi pubblici e privati; sospendendo tutte le manifestazioni organizzate, gli eventi «... svolti in ogni luogo, sia pubblico sia privato, quali, a titolo d'esempio ... sale giochi, sale scommesse e sale bingo, ...»; di nuovo ribadendo che nei predetti luoghi è sospesa ogni attività. È stata riprodotta la sospensione delle attività commerciali al dettaglio con espressa deroga, tra gli altri, delle tabaccherie.
  In continuità con i precedenti provvedimenti governativi, anche il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri adottato il 17 maggio 2020, all'articolo 1, comma 1, lettera l), ha disposto espressamente la prosecuzione della sospensione delle attività di sale giochi, sale scommesse e sale bingo, già prevista con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 26 aprile 2020, anche nel diverso contesto del riavvio graduale delle attività presenti sul territorio nazionale consentite a partire dal 18 maggio 2020 (cosiddetta fase 2).
  Tanto premesso, tenuto conto dell'evoluzione dell'epidemia, il Governo valuterà l'opportunità di rivedere i termini temporali dei provvedimenti restrittivi adottati nei confronti degli operatori di gioco, ricordando che il Comitato tecnico scientifico ha posto le sale giochi fra i luoghi di massima «pericolosità» ai fini della diffusione del contagio, unitamente ai cinema e ai teatri.
  L'Agenzia delle dogane e dei monopoli si adeguerà, con la massima sollecitudine, alle sopravvenute determinazioni governative.

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ALLEGATO 2

5-04105 Osnato: Caso di mancata applicazione delle misure di definizione agevolata dei carichi affidati all'agente della riscossione.

TESTO DELLA RISPOSTA

  Con il documento in esame l'Onorevole interrogante chiede chiarimenti in merito alle novità introdotte con la cosiddetta «rottamazione-ter» rispetto alle due precedenti («prima rottamazione» e «rottamazione-bis»).
  In particolare, facendo riferimento alla previsione della possibilità di ottenere l'estinzione delle procedure esecutive a seguito del pagamento della prima rata richiama la vicenda di un contribuente di Napoli che, sottoposto a procedura di pignoramento presso terzi, ha presentato tempestiva domanda di definizione agevolata ai sensi dell'articolo 3 del decreto-legge n. 119 del 2018 ed ha provveduto a versare le rate scadute.
  In proposito, l'interrogante riferisce che, a seguito dell'adesione alla «rottamazione-ter», tale contribuente avrebbe presentato un'istanza di sospensione/revoca del pignoramento presso terzi, che, tuttavia, sarebbe «rimasta inevasa da parte dell'Agenzia delle Entrate Riscossione di Napoli», con la conseguenza che la stessa contribuente avrebbe «subito la trattenuta sullo stipendio nonostante abbia regolarmente saldato i pagamenti della definizione agevolata».
  Tanto premesso, l'Onorevole interrogante chiede se il Governo «ritenga opportuno sollecitare l'Agenzia delle Entrate Riscossioni alla rapida definizione di tutte le situazioni che arrecano un grave nocumento economico ai cittadini e quali azioni immediate voglia adottare per risolvere la questione della predetta contribuente».
  Al riguardo, sentiti i competenti Uffici dell'Amministrazione finanziaria, si fa presente quanto segue.
  In merito alla vicenda del contribuente segnalata dall'Onorevole interrogante, giova preliminarmente osservare che, sulla base della norma di natura penale contenuta nell'articolo 35, comma 1, del decreto legislativo n. 112 del 1999, tutte le notizie, le informazioni e i dati in possesso dell'Agente della riscossione in ragione dell'attività affidatagli sono coperti da segreto d'ufficio.
  Ciò posto, deve ribadirsi che, in materia di «rottamazione-ter», a seguito del pagamento della prima o unica rata delle somme dovute a titolo di definizione, si determina, relativamente ai debiti definibili per i quali è stata presentata la dichiarazione di adesione alla stessa definizione, l'estinzione ex lege delle procedure esecutive precedentemente avviate, salvo che non si sia tenuto il primo incanto con esito positivo (articolo 3, comma 13, lettera b), del decreto-legge n. 119 del 2018).
  In tale contesto, si evidenzia che, nei casi in cui il terzo disponga, comunque, ulteriori accrediti successivamente all'estinzione della procedura esecutiva, l'Agenzia delle entrate Riscossione adotta le iniziative necessarie ad evitare che le somme pervenute in eccedenza producano duplicazioni di pagamento, anche mediante rimessa delle medesime somme in capo allo stesso terzo, nei termini consentiti dalla cronologia delle lavorazioni.

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ALLEGATO 3

5-04103 Grimaldi: Chiarimenti in ordine alla disciplina dei conti di pagamento.

TESTO DELLA RISPOSTA

  In riferimento alle richieste degli onorevoli interroganti sulla necessità di informativa alla clientela degli Istituti di pagamento – in seguito IP – sulle garanzie per i fondi depositati, è stata interpellata la Banca d'Italia, specificamente competente per materia.
  L'Istituto ha precisato preliminarmente che, ai sensi dell'articolo 114-duodecies, comma 1-bis, TUB, gli IP che prestano i servizi di pagamento di cui all'articolo 1, comma 2, lettera h-septies.1), numeri da 1) a 6), tutelano tutti i fondi ricevuti dagli utenti di servizi di pagamento, ivi inclusi quelli registrati in conti di pagamento di cui all'articolo 114-quinquies.1, comma 4, TUB, che richiama l'articolo 114-duodecies TUB, secondo quanto previsto al comma 2; quest'ultimo comma prevede che i fondi costituiscano patrimonio distinto da quello dell'IP, che essi siano protetti in caso di assoggettamento a liquidazione coatta amministrativa dell'IP o della banca presso cui i fondi medesimi sono eventualmente depositati.
  Ai sensi dell'articolo 49, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 16 novembre 2015, n. 180, è escluso dal bail-in, inter alia, «qualsiasi obbligo derivante dalla detenzione da parte dell'ente sottoposto a risoluzione di disponibilità dei clienti, a condizione che questi clienti siano protetti nelle procedure concorsuali applicabili»: ai sensi di questa disposizione, i fondi ricevuti da un IP, in quanto protetti in sede concorsuale in base alla disposizione del TUB sopra illustrata, sono esclusi dal bail-in in caso di avvio della risoluzione dell'IP o della banca depositaria.
  In base a tali disposizioni, i fondi ricevuti da un IP per la prestazione di servizi di pagamento e sottoposti a tutela sono quindi protetti in caso sia di liquidazione coatta amministrativa, sia di risoluzione dell'IP o della banca depositaria, siano essi registrati o meno in un conto di pagamento.
  La Banca d'Italia ha inoltre precisato che questo regime di protezione è previsto anche per le somme ricevute per la prestazione di servizi di pagamento da parte degli istituti di moneta elettronica (IMEL). In particolare, dette somme sono protette in caso di liquidazione coatta amministrativa dell'IMEL o dell'eventuale banca depositaria e sono escluse dal bail-in in caso di risoluzione dell'IMEL o dell'eventuale banca depositaria (articolo 49, comma 1, lettera c), del decreto legislativo n. 180 del 2015, che esclude dal bail-in le somme dei clienti protette in sede concorsuale).
  L'Istituto, con specifico riguardo all'informativa ai consumatori, ha fatto presente che la documentazione precontrattuale e periodica per i conti di pagamento prevista dalla disciplina nazionale è standardizzata a livello europeo e riguarda in maniera esclusiva i costi relativi ai servizi connessi con il conto di pagamento. Eventuali informazioni sulla protezione delle somme depositate presso i conti di pagamento potrebbero essere fornite dai prestatori di servizi di pagamento con appositi documenti pubblicitari o essere oggetto di iniziative di educazione finanziaria.
  Sul fronte dell'educazione finanziaria sul Portale di educazione finanziaria (www.economiapertutti.it) è pubblicata una scheda sulla tutela dei depositanti offerta dal FITD (Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi) in caso di liquidazione coatta amministrativa.

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ALLEGATO 4

5-04104 Baratto: Recupero di imposte illegittimamente versate.

TESTO DELLA RISPOSTA

  Con il documento in esame gli Onorevoli interroganti fanno riferimento al contenzioso nazionale relativo alla restituzione dell'addizionale di energia elettrica prevista all'articolo 6 del decreto-legge del 28 novembre 1988, n. 511, nel cui ambito sarebbe stata dichiarata l'incompatibilità dell'imposta con il diritto dell'Unione Europea e, in particolare, chiedono di sapere quali iniziative si intendano adottare per consentire il recupero da parte dei contribuenti delle imposte illegittimamente versate.
  Al riguardo, sentiti gli uffici competenti, si rappresenta quanto segue.
  L'articolo 6 del decreto legislativo n. 511 del 1988, successivamente modificato dall'articolo 5, comma 1, del decreto legislativo n. 26 del 2 febbraio 2007, ha previsto l'applicazione di una imposta addizionale all'accisa sull'energia elettrica. Tale imposta addizionale era applicata relativamente ai primi 200.000 kWh di consumo elettrico mensili ed era versata direttamente, dal soggetto obbligato (sostanzialmente il venditore di elettricità) allo Stato, alle Province e ai Comuni a seconda che il consumo di elettricità avvenisse nelle imprese o nelle abitazioni.
  Il meccanismo di applicazione del tributo in parola prevedeva che lo stesso fosse dovuto allo Stato, alle Province o ai Comuni dal soggetto venditore di energia elettrica che, esercitando il diritto di rivalsa, esponeva il tributo stesso nelle fatture di vendita della medesima energia elettrica emesse nei confronti dei consumatori finali.
  In tale contesto la Corte di cassazione, con le due sentenze citate nell'interrogazione in oggetto, ha evidenziato la possibile incoerenza tra il tributo addizionale in questione e l'articolo 1, paragrafo 2, della direttiva 2008/118/CE del Consiglio che, in sostanza, consente agli Stati membri dell'UE di applicare ai prodotti sottoposti ad accisa (l'elettricità rientra nel novero dei prodotti sottoposti a tale regime) altre imposte indirette ma solo a condizione che le stesse abbiano «finalità specifiche» e siano rispettati vincoli particolari in relazione alla determinazione della base imponibile, del calcolo, dell'esigibilità e del controllo dell'imposta.
  L'imposta addizionale in argomento è stata abrogata dall'articolo 4, comma 10, del decreto-legge 2 marzo 2012 n. 16, convertito con modificazioni nella legge 26 aprile 2012 n. 44.
  Il tributo è stato successivamente sostituito da un aumento di accisa, proprio a seguito di un'indagine aperta dai competenti Servizi dell'Unione Europea, nella forma del cosiddetto «progetto pilota sulla corretta attuazione del diritto dell'Unione Europea».
  Tale indagine precontenziosa non ha mai dato luogo a una procedura di infrazione ai sensi dell'articolo 258 TFUE, come si può verificare anche sulla banca dati delle procedure di infrazione della Commissione Europea disponibile online. Né tanto meno è mai intervenuto un pronunciamento della Corte di Giustizia dell'Unione Europea che, ai sensi degli articoli 258 e seguenti del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea è l'organo giurisdizionale competente a dichiarare che uno Stato membro ha violato gli obblighi che gli incombono in virtù dei Trattati (e Pag. 138pertanto l'eventuale incompatibilità con il Diritto dell'Unione Europea di una norma adottata).
  In tal senso non si può confermare quanto indicato nell'interrogazione in commento laddove si indica che la Commissione europea avrebbe intimato allo Stato italiano di disapplicare l'imposta stessa.
  Peraltro, dal fatto che le modifiche alla legislazione nazionale sono state apportate «a gettito invariato», si evince che la contestazione non riguardava l'entità del prelievo sull'energia elettrica, ma il titolo in base al quale tale prelievo era dovuto. Da un punto di vista di equità sostanziale, dunque, si osserva che l'abrogazione dell'addizionale non ha comportato variazioni dell'importo dovuto dal consumatore finale.
  Nelle ipotesi di rimborso di imposta illegittimamente riscossa in violazione del diritto dell'UE, per costante giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, rileva la situazione economica effettiva e non la situazione formalistica. Il che comporta che, per giurisprudenza consolidata, i rimborsi possano essere legittimamente denegati quando costituiscono un indebito arricchimento di chi li richiede.
  In relazione alla legittimazione dei consumatori ad avanzare richiesta di rimborso delle addizionali va posto in rilievo che essa va riconosciuta esclusivamente in capo ai soggetti obbligati al pagamento del tributo e non già ai soggetti cui il tributo è addebitato per traslazione o a titolo di rivalsa.
  Poiché alle addizionali, ai sensi dell'articolo 60 del decreto legislativo n. 504 del 1995, di seguito TUA, si applicavano le disposizioni relative all'accisa sull'energia elettrica, eccezion fatta per quelle sulle agevolazioni, è alle cennate disposizioni che occorre fare riferimento.
  Deve precisarsi che, come indicato dagli Onorevoli interroganti, il consumatore finale dell'energia elettrica potrebbe avanzare un'istanza di rimborso unicamente nei confronti del suo fornitore di elettricità. Per il meccanismo di funzionamento dell'imposta sopra delineato risulta, infatti, la sussistenza di due diversi rapporti giuridici: quello intercorrente fra fornitore e Amministrazione Finanziaria (rapporto tributario vero e proprio ai sensi dell'articolo 26, comma 4 del decreto legislativo n. 504 del 1995 – TUA, le cui controversie sono devolute alla giurisdizione tributaria) e quello intercorrente fra il fornitore ed il consumatore finale (rapporto di natura civilistica).
  Il fornitore di energia elettrica che avesse rimborsato il consumatore finale a fronte della sopravvenienza di una sentenza del giudice ordinario civile, potrebbe, a sua volta, avanzare istanza di rimborso all'Amministrazione Finanziaria, come previsto dal citato articolo 26, comma 4 del predetto TUA. Anche la stessa Corte di cassazione ha confermato, nelle sentenze summenzionate, che il consumatore finale, fatti salvi rari e particolari casi, non è legittimato ad attivarsi direttamente nei confronti dello Stato, della Provincia o del Comune beneficiari, a seconda dei casi, del tributo in parola, ma deve, mediante l'esperimento del giudizio succitato, richiedere la restituzione delle somme in questione al suo fornitore.
  L'articolo 14, comma 1, del TUA, poi, nel riconoscere il diritto al rimborso dell'accisa indebitamente pagata non può che riferirsi ai soggetti a carico dei quali è sorta l'obbligazione tributaria ossia ai soggetti passivi di imposta, come individuati dalle specifiche disposizioni. Evidentemente nessun riferimento può ritenersi sussistere con riguardo all'utente consumatore che, per quel che concerne le accise, è estraneo al rapporto di imposta.
  L'utente consumatore può pertanto esclusivamente esercitare nei confronti del fornitore l'azione di ripetizione della parte di prezzo corrispondente al tributo indebitamente corrisposta, laddove non avrebbe potuto essere compresa nel prezzo medesimo.
  L'accertamento in giudizio del caso concreto pare peraltro ineludibile nel momento in cui deve essere verificato se il rimborso vantato dal consumatore finale sia effettivamente dovuto, verificando l'effettivo pagamento delle bollette e della Pag. 139corretta esposizione in esse del tributo in questione. Occorre anche evidenziare che una parte preponderante dei consumatori finali dell'elettricità su cui era applicato il tributo in contestazione, era costituito da imprese che hanno portato in detrazione nei loro bilanci i costi dell'energia elettrica e con essi l'addizionale di cui attualmente viene richiesto il rimborso.
  All'esito di tale giudizio, momento ineludibile per la verifica della fondatezza della pretesa del consumatore, il soggetto obbligato sulla base dell'articolo 14, comma 4, del testo unico delle accise, può avanzare istanza di rimborso nei confronti dell'ente beneficiario del tributo (come detto lo Stato, o la Provincia o il Comune).
  Si precisa, infine, che il riferimento alla sentenza della CGUE del 26 aprile 2017, causa C-564/15, Farkas, non pare pertinente alle questioni in argomento in quanto riguarda la materia dell'IVA e il meccanismo di inversione contabile. La stessa sentenza, al contrario, richiama i principi di equivalenza e di effettività che la legislazione nazionale deve rispettare in merito ai requisiti richiesti per le domande di rimborso. In proposito, la stessa sentenza, sottolinea la legittimità di una legislazione nazionale che preveda, al fine di ottenere il rimborso, l'esercizio di un'azione civilistica di ripetizione dell'indebito nei confronti del fornitore.

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ALLEGATO 5

5-04106 Centemero: Chiarimenti in ordine alle procedure di ristoro in caso di estinzione anticipata di un finanziamento.

TESTO DELLA RISPOSTA

  L'Onorevole interrogante fa riferimento alla sentenza (causa C-383/2018) pubblicata l'11 settembre 2019 (di seguito anche «sentenza Lexitor»), con la quale la Corte di Giustizia dell'Unione europea ha reso una interpretazione in via pregiudiziale dell'articolo 16, paragrafo 1, della direttiva 2008/48/CE concernente il credito al consumo, che dispone che «Il consumatore ha il diritto di adempiere in qualsiasi momento in tutto o in parte agli obblighi che gli derivano dal contratto di credito. In tal caso, egli ha diritto a una riduzione del costo totale del credito che comprende gli interessi e i costi dovuti per la restante durata del contratto».
  La Corte ha stabilito che tale disposizione deve essere interpretata nel senso che «il diritto del consumatore alla riduzione del costo totale del credito in caso di rimborso anticipato del credito include tutti i costi posti a carico del consumatore».
  L'Onorevole interrogante auspica l'adozione immediata di «iniziative normative che chiariscano pro futuro l'applicazione nel nostro ordinamento della sentenza della Corte di giustizia citata in premessa».
  In proposito si rappresenta, preliminarmente, che in Italia, l'articolo 16 della menzionata direttiva è stato recepito con l'articolo 125-sexies, t.u.b., che al comma 1 dispone che in caso di rimborso anticipato dell'importo dovuto al finanziatore «il consumatore ha diritto a una riduzione del costo totale del credito pari all'importo degli interessi e dei costi dovuti per la vista residua del contratto». Ai sensi dell'articolo 125-sexies, t.u.b., secondo l'unanime lettura, il diritto alla riduzione alla quota degli interessi e dei costi è legato al periodo residuo del contratto, per come originariamente programmato. Pertanto, in caso di estinzione anticipata del contratto non sono oggetto di riduzione del costo totale del credito (non vengono in altri termini restituiti dall'intermediario) i cosiddetti costi up-front (indipendenti dalla durata del rapporto di finanziamento, ad esempio i costi di istruttoria della pratica) mentre sono oggetto di riduzione del costo totale i cosiddetti costi recurring (quali ad esempio gli interessi), per un importo commisurato alla vita residua del credito.
  La Corte di Giustizia sembrerebbe invece ritenere che ai fini della riduzione del costo del credito cui ha diritto il consumatore sono considerate non solo le spese recurring, ma altresì quelle up-front.
  A seguito della pubblicazione della sentenza Lexitor è in corso una analisi sugli effetti della stessa nell'ordinamento italiano.
 Si registrano già talune posizioni:
   in data 6 dicembre 2019 Banca d'Italia ha deliberato una comunicazione agli intermediari, con la quale invita gli intermediari ad allinearsi nelle loro prassi e schemi contrattuali al quadro normativo delineatosi, includendo nella riduzione tutti i costi a carico del consumatore, escluse le imposte; la Banca d'Italia estende le proprie aspettative anche al caso dell'esercizio della facoltà di rimborso anticipato di contratti già in essere, precisando che il criterio di calcolo del rimborso è rimesso al prudente apprezzamento Pag. 141dell'intermediario, fermo restando che deve trattarsi di un criterio proporzionale rispetto alla durata del contratto;
   a seguito della pubblicazione della sentenza, il Collegio di Coordinamento dei Collegi territoriali dell'Arbitro Bancario e Finanziario, avanti il quale si discute la quasi totalità del contenzioso relativo alla cessione del quinto dello stipendio o della pensione, con decisione dell'11 dicembre 2019 ha ritenuto di applicare al caso rinviato al suo esame, relativo ad contratto di finanziamento mediante cessione del quinto della pensione estinto anticipatamente nel 2018, la disposizione della direttiva come integrata dalla sentenza della CGUE; il collegio ha considerato possibile la cosiddetta interpretazione conforme dell'articolo 125-sexies, t.u.b., anche ricorrendo all'integrazione giudiziale secondo equità (articolo 1374 c.c.) con riferimento alla quantificazione della quota di costi up-front ripetibile;
   riguardo ai primi pronunciamenti della giurisprudenza di merito, risultano una sentenza del Giudice di Pace di Savona a favore dell'applicabilità immediata della pronuncia Lexitor, mentre altre due del Tribunale di Napoli e una del Tribunale di Monza hanno ritenuto che non sia applicabile nei rapporti tra privati vista la natura non self-executing della direttiva 2008/48/CE.
  Le differenti posizioni, sopra descritte, costituiscono una esemplificazione dell'ampiezza del dibattito in corso e delle questioni in esame. Una eventuale soluzione normativa non potrà prescindere da un corretto bilanciamento degli interessi individuali contrapposti, tenendo conto delle esigenze di certezza del diritto, di tutela del legittimo affidamento e anche di minimizzazione del rischio per lo Stato.

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ALLEGATO 6

5-04108 Fragomeli: Ambito applicativo del Fondo di garanzia per le PMI.

TESTO DELLA RISPOSTA

  Si fa riferimento alla richiesta degli onorevoli interroganti di interventi chiarificatori sulla portata della modifica recata all'articolo 13 del decreto-legge «liquidità» in sede di conversione circa l'ammissibilità alla garanzia del fondo PMI delle aziende pubbliche e delle fondazioni con soci pubblici.
  Al riguardo, come è noto, in sede di conversione del decreto-legge 8 aprile 2020 n. 23, è stato approvato un emendamento che ha specificato, in relazione all'articolo 13, comma 1, lettera b), che «Resta fermo che la misura di cui alla presente lettera si applica, alle medesime condizioni, anche qualora almeno il 25 per cento del capitale o dei diritti di voto sia detenuto direttamente o indirettamente da un ente pubblico oppure, congiuntamente, da più enti pubblici».
  In quella sede, si osservò che – sul presupposto che i soggetti siano in grado di restituire comunque gli importi oggetto del finanziamento – l'accesso al Fondo per tutte le cosiddette Small mid cap (imprese fino a 499 dipendenti) previsto dallo stesso articolo 13, comma 1, lettera b), rendeva automaticamente ammissibili anche tutte le imprese a partecipazione pubblica che corrispondevano a tale requisito dimensionale (a prescindere dalla quota di partecipazione pubblica). Ciò a differenza di quanto avveniva in precedenza con l'accesso al Fondo limitato alle sole PMI, laddove il controllo pubblico comportava automaticamente la riconduzione al di fuori dell'ambito delle PMI e quindi la non ammissibilità alla garanzia del Fondo centrale.
  Quanto alle fondazioni con soci pubblici che svolgono attività di natura commerciale ed economica, nulla è stato innovato. Esse pertanto, ove iscritte al registro delle imprese, possono accedere alla garanzia del Fondo PMI.
  Per completezza si segnala che al di sopra della soglia delle small mid cap le imprese pubbliche possono accedere (ed in effetti hanno già avuto accesso) a «Garanzia Italia» di SACE ex articolo 1 dello stesso decreto-legge n. 23 del 2020 convertito dalla legge n. 40 del 2020.

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ALLEGATO 7

5-04109 Sangregorio: Modalità di versamento dell'IRAP nei casi di variazione del domicilio fiscale delle imprese.

TESTO DELLA RISPOSTA

  Con il documento in esame gli Onorevoli evidenziano che ai fini Irap l'articolo 4 del decreto legislativo n. 446 del 1997, in caso di attività esercitata in più regioni per più di tre mesi, detta un criterio proporzionale di ripartizione della base imponibile basato sull'ammontare delle retribuzioni spettanti al personale utilizzato.
  Gli Onorevoli, rilevano, altresì, che nel caso di mancanza di impiego di personale e variazione della sede dell'impresa accompagnata dalla modifica di domicilio fiscale che comportano la variazione di Regione, detto criterio non sembra applicabile e, pertanto, non è chiaro il comportamento da tenere riguardo al versamento dell'imposta e alla compilazione della dichiarazione annuale.
  Ciò premesso, gli interroganti chiedono «se, in mancanza di impiego di personale e in caso di trasferimento della sede legale di una società in altra regione nel corso dell'anno, sia corretto versare l'intera imposta Irap dovuta alla regione nella quale si trova la sede legale al termine dell'esercizio».
  Al riguardo, sentiti i competenti Uffici dell'Amministrazione finanziaria, si rappresenta quanto segue.
  Ai sensi dell'articolo 4 del decreto legislativo n. 446 del 1997 se l'attività è esercitata nel territorio di più regioni, ai fini del calcolo della base imponibile IRAP, si considera prodotto nel territorio di ciascuna regione il valore della produzione netta, proporzionalmente corrispondente all'ammontare delle retribuzioni spettanti al personale a qualunque titolo utilizzato. Nel caso di trasferimento di sede di una società da una Regione all'altra, in mancanza di impiego di personale a qualunque titolo utilizzato – a tal fine è indifferente la qualifica, la funzione (ad esempio, dirigenti, operai, impiegati, ecc.) e la tipologia del rapporto contrattuale (ad esempio, a tempo indeterminato, a tempo determinato, part-time, formazione lavoro, ecc.), sono, altresì, compresi i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente – detto criterio di ripartizione della base imponibile Irap tra le Regioni non è utilizzabile.
  Al fine di ripartire la base imponibile Irap tra la Regione in cui il soggetto ha avuto la sede legale prima del trasferimento e quella dove ha la sede legale a seguito del trasferimento, deve essere considerato che ai sensi dell'articolo 15 del decreto Irap «L'imposta è dovuta alla regione nel cui territorio il valore della produzione netta è realizzato».
  Dal combinato disposto di tale disposizione, che detta un criterio di spettanza dell'imposta, nella Regione in cui la produzione è realizzata, con l'articolo 21 del menzionato decreto istitutivo dell'Irap, secondo cui «Ogni soggetto passivo si considera domiciliato nel comune nel quale ha il domicilio fiscale secondo le disposizioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600», si può desumere che il coerente criterio da utilizzare per effettuare il riparto è quello di ripartizione proporzionale della base imponibile Irap in base al tempo, criterio che tiene conto della circostanza che il contribuente ha avuto il domicilio fiscale per una frazione di periodo in una Regione e per l'altra frazione di periodo in un'altra Regione, in ciascuna delle quali ha realizzato una parte del valore netto annuale della produzione netta.Pag. 144
  Resta impregiudicata la possibilità da parte dell'amministrazione finanziaria di disconoscere gli effetti del trasferimento in presenza di comportamenti volti ad ottenere vantaggi fiscali indebiti.
  Infine, si fa presente che i soggetti passivi IRAP che producono la relativa base imponibile in diverse regioni, ferma restando la compilazione del quadro IR (Sezione I) della dichiarazione IRAP concernente la ripartizione della base imponibile e dell'imposta, non sono invece tenuti a suddividere su base regionale i versamenti effettuati tramite modello F24, ma possono imputare i pagamenti alla regione prevalente ovvero a quella corrispondente alla sede legale/domicilio fiscale.

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ALLEGATO 8

5-01327 Panizzut: Sanzioni inflitte dall'amministrazione tributaria.

TESTO DELLA RISPOSTA

  Con il documento in esame gli Onorevoli interroganti fanno riferimento alla vicenda del signor Franco Schnautz, vittima di truffa e finito in un'indagine per evasione fiscale, la cui vicenda si è conclusa con duplice esito, vale a dire un'istruttoria tributaria che si chiusasi con la sentenza di colpevolezza e la richiesta di 700 mila euro e quella penale conclusasi con l'assoluzione avendo il difensore dimostrato l'innocenza del suo assistito.
  Gli Onorevoli interroganti, nel rilevare che in sede penale il signor Schnautz è stato assolto con «formula piena», chiedono pertanto di sapere quali iniziative si intendano adottare affinché l'amministrazione tributaria si allinei alla giustizia penale, con conseguente cancellazione della sanzione indebitamente comminatagli.
  Al riguardo, sentiti gli uffici competenti, si rappresenta quanto segue.
  La disciplina dei rapporti tra processo penale e processo tributario è fondamentalmente regolata dal cosiddetto principio del doppio binario, così come declinato dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74.
  In particolare, l'articolo 25 del suddetto decreto ha espressamente abrogato l'articolo 12 della legge n. 516 del 1982, escludendo l'efficacia vincolante del giudicato penale nel processo tributario (il giudicato penale ha conservato una limitata efficacia esterna solo in relazione alle sanzioni amministrative riferite a violazioni tributarie oggetto di notizia di reato – articolo 21, comma 2, del decreto legislativo n. 74 del 2000).
  Inoltre, l'articolo 20 stabilisce che: «il procedimento amministrativo di accertamento e il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente per oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione».
  Successivamente all'emanazione del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, né le pronunce della Corte Costituzionale né il decreto legislativo n. 158 del 2015 hanno modificato il sistema dei rapporti tra i due procedimenti – penale e tributario – risultando confermato il quadro normativo per cui nessuna prevalenza risulta accordata all'uno piuttosto che all'altro procedimento.
  Tuttavia, nel rispetto del principio sopra enunciato, è possibile che tra i due procedimenti vi sia un reciproco «condizionamento», secondo le regole fissate dal legislatore; inoltre, sono molteplici i profili di «interferenza» e di condizionamento previsti dalle norme e dalla giurisprudenza al fine di favorire un coordinamento tra i due procedimenti.
  Tutto quanto sopra considerato, è possibile pertanto affermare che, pur essendo l'accertamento dell'illecito tributario e dell'illecito penale caratterizzati da reciproca autonomia, gli atti e gli esiti dei due procedimenti assumono una reciproca rilevanza, nella misura in cui spesso condividono la medesima base istruttoria, anche se la valutazione degli elementi acquisiti può essere diversa.
  Al fine di comprendere appieno gli effetti del giudicato penale sul processo tributario, appare necessario ricorrere alle soluzioni proposte dalla giurisprudenza di legittimità, peraltro costanti nell'escludere qualsivoglia automatismo tra la sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, Pag. 146e il giudizio tributario, ancorché i fatti esaminati siano gli stessi che fondano l'accertamento, considerando che nel processo tributario vigono i limiti in materia di prova previsti dall'articolo 7, comma 4, del decreto legislativo n. 546 del 1992, e trovano ingresso anche presunzioni semplici.
  È possibile, quindi, che il processo tributario e il processo penale si concludano con esiti diversi e contrastanti circa il medesimo fatto, ovvero che l'imposta evasa sia quantificata in misura diversa. In ogni caso, il giudicato penale può assumere rilievo probatorio nel processo tributario, potendo la relativa sentenza essere prodotta come documento nel giudizio tributario ex articoli 24 e 32 del decreto legislativo n. 546 del 1992.
  Di conseguenza, il giudice tributario può esaminare il contenuto degli elementi acquisiti nel processo penale e ricostruire l'oggetto della decisione, valutando, però, quegli stessi elementi probatori secondo le regole proprie dell'ambito tributario.
  Tanto premesso, all'esito dell'istruttoria presso la Commissione tributaria provinciale di Trieste, risulta che il contribuente signor Schnautz ha presentato impugnative avverso diversi avvisi di accertamento emessi dall'Agenzia delle entrate di Trieste per le annualità d'imposta 2008, 2009 e 2010. Tali ricorsi riuniti (nn. 238/2013, 239/2013 e 240/2013) sono stati respinti con la sentenza 267 depositata il 13 ottobre 2015 che non risulta appellata dal contribuente.

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ALLEGATO 9

5-03414 Fregolent: Applicazione della normativa sulla tracciabilità dei pagamenti ai fini della detrazione delle spese mediche.

TESTO DELLA RISPOSTA

  Con il documento in esame l'Onorevole interrogante fa riferimento alle disposizioni di cui all'articolo 1, commi 679 e 680 della legge 27 dicembre 2019, n. 160 (legge di bilancio 2020), e chiede che, in attesa della circolare esplicativa delle Agenzie delle entrate, vengano fornite indicazioni ai cittadini in merito alla documentazione necessaria per usufruire delle detrazioni previste nelle predette norme.
  Al riguardo, sentiti i competenti Uffici dell'Amministrazione finanziaria, si osserva quanto segue.
  L'articolo 1, comma 679, della legge 27 dicembre 2019, n. 160 (legge di bilancio per il 2020), dispone che, a decorrere dal 1o gennaio 2020, «Ai fini dell'imposta sul reddito delle persone fisiche, la detrazione dall'imposta lorda, nella misura del 19 per cento, degli oneri indicati nell'articolo 15 del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e in altre disposizioni normative, spetta a condizione che l'onere sia sostenuto con versamento bancario o postale, ovvero mediante altri sistemi di pagamento previsti dall'articolo 23 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241».
  Il successivo comma 680 della legge di bilancio 2020 prevede che: «La disposizione di cui al comma 679 non si applica alle detrazioni spettanti in relazione alle spese sostenute per l'acquisto di medicinali e di dispositivi medici, nonché alle detrazioni per prestazioni sanitarie rese dalle strutture pubbliche o da strutture private accreditate al Servizio sanitario nazionale».
  Il citato comma 679 dell'articolo 1 della legge di bilancio n. 160 del 2019 condiziona la detraibilità, prevista nella misura del 19 per cento, degli oneri di cui all'articolo 15 del TUIR e altre disposizioni normative, all'effettuazione del pagamento mediante «versamento bancario o postale», ovvero mediante i sistemi di pagamento previsti dall'articolo 23 del decreto legislativo n. 241 del 1997, il quale fa riferimento a carte di debito, di credito e prepagate, assegni bancari e circolari ovvero «altri sistemi di pagamento».
  L'indicazione contenuta nella norma suddetta circa gli altri mezzi di pagamento tracciabili ammessi per poter fruire della detrazione deve essere intesa come esplicativa e non esaustiva.
  Tanto premesso, l'Agenzia delle entrate rileva che, conformemente a quanto già precisato nella sua risoluzione 3 dicembre 2014, n. 108/E, in materia di erogazioni liberali ai partiti politici, che gli «altri mezzi di pagamento» siano quelli che «garantiscano la tracciabilità e l'identificazione del relativo autore al fine di permettere efficaci controlli da parte dell'Amministrazione Finanziaria».
  Per effetto della deroga, recata dal comma 680 dell'articolo 1 della legge n. 160 del 2019, resta ferma la possibilità di effettuare pagamenti con modalità diverse da quelle appena descritte, senza perdere il diritto alla detrazione, per l'acquisto di medicinali, dispositivi medici e per prestazioni sanitarie rese dalle strutture pubbliche o da strutture private accreditate al Servizio sanitario nazionale.
  Deve evidenziarsi che la norma di esclusione fa riferimento alle sole prestazioni Pag. 148sanitarie e, pertanto, i pagamenti per servizi diversi dalle prestazioni sanitarie (ad esempio, il servizio di mensa scolastica), ancorché resi da enti pubblici, devono essere effettuati, secondo quanto stabilito dal comma 679 dell'articolo 1 della legge di bilancio 2020, per poter fruire della detrazione.
  Inoltre, l'Agenzia delle entrate ritiene opportuno sottolineare che il nuovo obbligo non modifica in alcun modo, ponendo ulteriori vincoli, i presupposti stabiliti dall'articolo 15 del TUIR o dalle altre norme fiscali, ai fini della detraibilità dall'IRPEF degli oneri, come, in particolare, l'effettivo sostenimento degli stessi.
  Al riguardo, si evidenzia che l'onere possa considerarsi sostenuto dal contribuente al quale è intestato il documento di spesa, non rilevando, a tal fine, l'esecutore materiale del pagamento.
  Tuttavia, tenuto conto della ratio della disposizione in esame, occorre assicurare la corrispondenza tra la spesa detraibile per il contribuente e il pagamento effettuato da un altro soggetto mediante mezzi di pagamento tracciabili.
  Sotto il profilo degli obblighi di produzione documentale da parte del contribuente al CAF o al professionista abilitato, e di conservazione per la successiva esibizione all'Amministrazione Finanziaria, il contribuente dimostra l'utilizzo del mezzo di pagamento «tracciabile», mediante la prova cartacea della transazione/pagamento, con ricevuta bancomat, estratto conto, copia del bollettino postale o del MAV e dei pagamenti con PagoPA.
  In alternativa, l'utilizzo del mezzo di pagamento «tracciabile» può essere documentato mediante l'annotazione in fattura, ricevuta fiscale o documento commerciale, da parte del percettore delle somme, che cede il bene o effettua la prestazione del servizio.
  Infine, l'Agenzia delle entrate riferisce che sta predisponendo appositi documenti di prassi sull'argomento e che sta, altresì, fornendo, sulla questione, risposte ad istanze di interpello e a consulenze giuridiche, puntualmente pubblicate sul sito dell'Agenzia delle entrate, ai sensi del Provvedimento del Direttore dell'Agenzia delle entrate 7 agosto 2018.

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ALLEGATO 10

5-03704 Martinciglio: Chiarimenti sull'applicazione del regime forfettario di tassazione dei redditi.

TESTO DELLA RISPOSTA

  Con l'interrogazione in oggetto l'Onorevole interrogante, dopo aver evidenziato le restrizioni all'utilizzo del regime forfetario di cui all'articolo 1, commi da 54 a 89, della legge n. 190 del 2014 conseguenti alle modifiche apportate con la legge n. 160 del 2019 (legge di bilancio per il 2020), in particolare, determinate dalla reintroduzione della causa di esclusione secondo cui non possono accedere a detto regime i contribuenti che hanno percepito redditi di lavoro dipendente o assimilati superiori ai 30.000 euro, nell'anno precedente a quello di applicazione del regime, chiede di sapere se non si ritenga opportuno adottare adeguate iniziative normative per definire un criterio di calcolo per tale soglia che consideri l'importo della certificazione unica ovvero, in alternativa, la somma dei compensi mensili maturati nel periodo di riferimento.
  Al riguardo, sentiti gli uffici competenti, si evidenzia quanto segue.
  Il regime forfettario è stato introdotto dall'articolo 1, commi da 54 a 89, della legge n. 190 del 2014 quale regime naturale per gli esercenti attività d'impresa, arti e professioni in forma individuale.
  Nella disciplina vigente fino al periodo d'imposta 2018 applicavano il regime forfettario gli esercenti attività d'impresa, arte e professione in forma individuale che rispettavano una serie di requisiti, il primo dei quali consisteva nell'aver conseguito, nell'anno precedente, ricavi o compensi non superiori a quelli indicati in una tabella allegata alla legge n. 208 del 2015 (legge di bilancio 2016), in relazione all'attività esercitata in base al codice attività; la soglia di accesso andava dai 30.000 euro di compensi per le attività professionali ai 50.000 di ricavi per il commercio all'ingrosso e al dettaglio.
  Fino al 2018, oltre alla soglia dei ricavi o compensi, non dovevano essere superati i seguenti limiti:
   le spese sostenute per l'impiego di lavoratori non dovevano essere superiori a 5.000 euro lordi annui a titolo di lavoro dipendente, co.co.pro., lavoro accessorio, associazione in partecipazione, lavoro prestato dai familiari dell'imprenditore ex articolo 60 del Tuir;
   il costo complessivo dei beni strumentali al 31 dicembre, al lordo dell'ammortamento, non doveva essere superiore a 20.000 euro (esclusa Iva);
   i redditi di lavoro dipendente percepiti nell'anno precedente non dovevano essere superiori a 30.000 euro. Detta causa di esclusione era stata introdotta nell'ambito della disciplina del regime in esame ad opera del comma 111 dell'articolo 1 della legge n. 208 del 2015, che ha inserito, a decorrere dal 1o gennaio 2016, la nuova lettera d-bis) all'interno del comma 57 dell'articolo 1 della citata legge n. 190 del 2014.

  Il suddetto regime è stato oggetto di modifiche con l'articolo 1, commi da 9 a 11, della legge n. 145 del 2018 (legge di bilancio 2019). A partire dal 2019, il limite di ricavi o compensi per l'accesso al regime è stato fissato a 65.000 euro (ragguagliato ad anno), indipendentemente dall'attività esercitata. Ciò significa che esercenti attività d'impresa, arti o professioni Pag. 150in forma individuale che nel 2018 non hanno superato detta soglia, già dal 2019 hanno potuto applicare il regime forfettario.
  La legge di bilancio 2019 (articolo 1, comma 9, lettera c), della legge 30 dicembre 2018, n. 145) ha, inoltre, abrogato, a partire dal 2019, le suddette cause di esclusione tra le quali il limite di reddito di lavoro dipendente percepito nell'anno precedente (non superiore a 30.000 euro).
  Per il periodo d'imposta 2019 la soglia di ricavi o compensi è stato l'unico requisito che occorreva verificare per l'accesso al regime posto che, come si è anticipato, erano state eliminate le altre condizioni richieste.
  Con l'articolo 1 della legge n. 160 del 2019 (legge di bilancio 2020) è stata modificata in più punti la disciplina del regime forfettario. Sono stati, tra l'altro, reintrodotti alcuni requisiti per l'accesso e la permanenza nel regime, quali le spese sostenute per il personale e per il lavoro accessorio, ovvero l'aver conseguito redditi di lavoro dipendente al di sotto di una determinata soglia nell'anno precedente.
  In particolare, dal 2020 per fruire del regime agevolato i contribuenti persone fisiche esercenti attività d'impresa, arti o professioni devono, al contempo, nell'anno precedente (2019):
   aver conseguito ricavi ovvero percepito compensi, ragguagliati ad anno, non superiori a 65.000 euro (requisito non modificato);
   aver sostenuto spese per un ammontare complessivamente non superiore a 20.000 euro lordi per dipendenti e collaboratori (requisito di accesso di cui all'articolo 1, comma 54, lettera b), della legge n. 190 del 2014, reintrodotto dal 2020);
   aver percepito redditi di lavoro dipendente e redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente non eccedenti l'importo di 30.000 euro. Se il rapporto di lavoro è cessato la verifica di tale soglia è irrilevante (causa di esclusione – di cui all'articolo 1, comma 57, lettera d-ter), della legge n. 190 del 2014, reintrodotta dal 2020).

  La risoluzione dell'Agenzia delle entrate n. 7/E dell'11 febbraio 2020 ha, peraltro, fornito chiarimenti sulla fuoriuscita dal regime forfetario che comporterà per il contribuente l'adozione del regime ordinario.
  Tanto premesso, si evidenzia che la causa di esclusione reintrodotta era già stata applicata dal 2016 al 2018 e in detti periodi d'imposta la verifica del superamento del limite era operata considerando le ordinarie modalità di determinazione del reddito di lavoro dipendente e assimilato basate sul criterio di cassa.
  Infatti vengono in considerazione le retribuzioni percepite nel periodo di riferimento e si considerano, altresì, percepiti nel periodo d'imposta anche le somme e i valori in genere, corrisposti dai datori di lavoro entro il giorno 12 del mese di gennaio del periodo d'imposta successivo a quello cui si riferiscono.
  Pertanto, considerato che il criterio di cassa è quello in base al quale ordinariamente è determinato il reddito di lavoro dipendente, e che in applicazione di detto criterio sono determinati gli importi indicati nella certificazione unica, i redditi in essa evidenziati sono presi a base della verifica per il superamento della soglia di 30.000 euro per l'accesso al regime forfetario.
  D'altra parte, si osserva che il soggetto interessato, per quanto acquisisca la certificazione unica solo nel mese di marzo (30 aprile per l'anno 2020), sulla base delle buste paga riferite all'anno 2019, è in grado di acquisire tutti gli elementi necessari e sufficienti per verificare l'eventuale superamento della predetta soglia di 30.000 euro, giungendo al medesimo risultato evidenziato nella certificazione unica. In considerazione anche del citato precedente – peraltro, ben collaudato sistema – non si rinvengono criticità nell'applicazione del criterio fin qui esposto.
  Il criterio alternativo proposto dall'Onorevole interrogante, consistente nella «somma dei compensi mensili maturati nel periodo di riferimento», non considera le retribuzioni percepite nel periodo di riferimento bensì quelle maturate in detto periodo. Questo criterio alternativo, posto che non costituisce la ordinaria modalità di determinazione del reddito di lavoro dipendente, richiederebbe, dunque, la ricostruzione Pag. 151del medesimo reddito non secondo modalità di cassa bensì secondo un diverso criterio, assimilabile a quello di competenza, che verrebbe adottato unicamente ai fini della determinazione del reddito da lavoro dipendente per la verifica del superamento della soglia dei 30.000 euro per l'accesso al regime forfetario.
  Peraltro, tale proposta è in contraddizione con l'alternativa della verifica in base alla certificazione unica che si basa, invece, sul principio di cassa.
  Ad ogni buon conto, si fa presente che la preoccupazione di una difficoltà nella verifica del superamento della soglia dei 30.000 euro di reddito derivante da lavoro dipendente o assimilato non ha ragion d'esistere posto che, come si è già detto, sia la certificazione unica, sia la somma delle retribuzioni percepite nel periodo di riferimento, che coincide con il reddito evidenziato nella certificazione unica prodotta dal sostituto d'imposta, consentono di effettuare tale verifica.

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ALLEGATO 11

5-03983 Viscomi: Istituzione della Banca del Mezzogiorno.

TESTO DELLA RISPOSTA

  Come premesso dall'Onorevole Parlamentare il decreto-legge 16 dicembre 2019, n. 142, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 febbraio 2020, n. 5, ha quale oggetto l'introduzione di misure urgenti per il sostegno al sistema creditizio del Mezzogiorno. Fra queste misure vi rientra il rafforzamento di Banca del Mezzogiorno – Mediocredito Centrale nell'ottica di consentirle di svolgere pienamente il ruolo che lo stesso nome suggerisce.
  Al riguardo, è in via di finalizzazione una complessa operazione di ricapitalizzazione della Popolare di Bari, contestualmente alla sua trasformazione in società per azioni. Il rafforzamento patrimoniale prevede la copertura delle perdite pregresse da parte del FITD (Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi) e il coinvolgimento, a condizioni di mercato, del Mediocredito Centrale, quale azionista di riferimento a regime.
  La piena realizzazione dell'operazione è suscettibile di configurare un soggetto bancario di riferimento per l'economia del Mezzogiorno, che potrà costituire un volano per la realizzazione di altre operazioni e costituire quindi una premessa significativa per un'opera più ampia di rilancio del sistema bancario ed economico del Sud Italia.
  Per quanto riguarda inoltre il paventato processo di «desertificazione» bancaria in talune aree del Mezzogiorno, la Banca d'Italia, richiamata nell'interrogazione e quindi sentita nel merito, ha precisato di non aver dato alcuna indicazione circa l'individuazione delle filiali della Banca Popolare di Bari da chiudere. La definizione delle politiche distributive, ivi compresi il dimensionamento, la localizzazione e quindi anche l'eventuale chiusura d'iniziativa di succursali, sono rimesse alla autonomia imprenditoriale degli intermediari e la Banca d'Italia non ha poteri di intervento in materia.
  In merito alla riduzione degli organici e alla chiusura di filiali, infatti, – continua la Banca d'Italia – la Banca Popolare di Bari – nel fare presente che sono tuttora in corso le interlocuzioni con i sindacati – ha precisato che queste si inseriscono «in un più ampio progetto di riorganizzazione e di efficientamento delle strutture della Direzione Generale e della Rete Commerciale».