XVII Legislatura

Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza

Resoconto stenografico



Seduta n. 12 di Martedì 31 gennaio 2017

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Brambilla Michela Vittoria , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA SALUTE PSICOFISICA DEI MINORI

Audizione del professor Adriano Ferrari, Direttore dell'Unità di riabilitazione delle gravi disabilità infantili dell'età evolutiva (UDGEE) del Dipartimento materno infantile, e della dottoressa Laura Beccani, fisioterapista presso l'IRCCS Arcispedale S. Maria Nuova di Reggio Emilia.
Brambilla Michela Vittoria , Presidente ... 3 ,
Romanini Giuseppe (PD)  ... 3 ,
Brambilla Michela Vittoria , Presidente ... 3 ,
Ferrari Adriano , Direttore dell'Unità di riabilitazione delle gravi disabilità infantili dell'età evolutiva (UDGEE) del Dipartimento materno infantile ... 3 ,
Beccani Laura , fisioterapista presso l'IRCCS Arcispedale S. Maria Nuova di Reggio Emilia ... 4 ,
Ferrari Adriano , Direttore dell'Unità di riabilitazione delle gravi disabilità infantili dell'età evolutiva (UDGEE) del Dipartimento materno infantile ... 5 ,
Brambilla Michela Vittoria , Presidente ... 11 ,
Romanini Giuseppe (PD)  ... 11 ,
Ferrari Adriano , Direttore dell'Unità di riabilitazione delle gravi disabilità infantili dell'età evolutiva (UDGEE) del Dipartimento materno infantile ... 12 ,
Romanini Giuseppe (PD)  ... 15 ,
Ferrari Adriano , Direttore dell'Unità di riabilitazione delle gravi disabilità infantili dell'età evolutiva (UDGEE) del Dipartimento materno infantile ... 15 ,
Beccani Laura , fisioterapista presso l'IRCCS Arcispedale S. Maria Nuova di Reggio Emilia. ... 15 ,
Brambilla Michela Vittoria , Presidente ... 15

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DELLA PRESIDENTE
MICHELA VITTORIA BRAMBILLA

  La seduta comincia alle 14.15.

  (La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso.

  (Così rimane stabilito).

Audizione del professor Adriano Ferrari, Direttore dell'Unità di riabilitazione delle gravi disabilità infantili dell'età evolutiva (UDGEE) del Dipartimento materno infantile, e della dottoressa Laura Beccani, fisioterapista presso l'IRCCS Arcispedale S. Maria Nuova di Reggio Emilia.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla tutela della salute psicofisica dei minori, l'audizione del professor Adriano Ferrari, direttore dell'Unità di riabilitazione delle gravi disabilità infantili dell'età evolutiva del Dipartimento materno infantile e della dottoressa Beccani, fisioterapista presso l'IRCCS Arcispedale S. Maria Nuova di Reggio Emilia.

  GIUSEPPE ROMANINI. Presidente, mi scusi, non voglio togliere tempo agli auditi che hanno accolto l'invito della Commissione per questa indagine, però mi permetta di segnalare ulteriormente il disappunto per questo continua sovrapposizione delle convocazioni della Commissione bicamerale con quelle delle Commissioni permanenti di merito nelle quali dobbiamo andare a votare. Questo fa sì che questo tipo di indagine sia veramente poco partecipata.
  Ne abbiamo già parlato, ma io invito a un'ulteriore riflessione. Non è logico che le Commissioni bicamerali siano convocate nello stesso identico orario delle Commissioni permanenti di Camera e Senato. Consideri questa come un'ulteriore richiesta di riflessione sulla conduzione della Commissione, perché questo genera dei problemi che mi paiono evidenti.

  PRESIDENTE. Collega, come sai, noi ci lavoriamo da tempo e purtroppo è difficile individuare orari che siano compatibili sia con le votazioni previste nelle Assemblee di Camera e Senato, sia con le sedute delle rispettive Commissioni permanenti e che consentano quindi una maggiore partecipazione alle sedute delle commissioni bicamerali.
  In realtà, ci vorrebbe un accordo, che noi chiediamo da tempo ai Presidenti della Camera e del Senato, per avere degli spazi in cui non si riuniscano altri organi ed in cui le commissioni bicamerali possano lavorare. Quando è possibile si cerca comunque di evitare la sovrapposizione con le sedute di altre Commissioni.
  Do ora la parola al professor Ferrari per lo svolgimento della sua relazione.

  ADRIANO FERRARI, Direttore dell'Unità di riabilitazione delle gravi disabilità infantili dell'età evolutiva (UDGEE) del Dipartimento materno infantile. Chiederei di far parlare prima la dottoressa Beccani, perché abbiamo preparato una scaletta breve Pag. 4che ci permette di presentare chi siamo e cosa facciamo e, quindi, di introdurre le riflessioni nell'ambito della riabilitazione infantile, in particolare delle disabilità gravi delle quali ci occupiamo. Si tratta di patologie importanti con possibilità di recupero limitate già dall'esordio.

  LAURA BECCANI, fisioterapista presso l'IRCCS Arcispedale S. Maria Nuova di Reggio Emilia. Buongiorno. Io vi parlerò un po’ del nostro servizio delle gravi disabilità infantili, che è un servizio di terzo livello. Questo servizio nasce nel 1998 su mandato istituzionale della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato le Regioni e le Province Autonome di Trento e Bolzano, 7 maggio 1998, «Linee-guida del Ministro della sanità per le attività di riabilitazione», pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale del 30 maggio 1998, n. 124, che descrivono esattamente che cos'è un servizio di terzo livello e quali sono le sue funzioni.
  Si sottolinea l'importanza di questi livelli differenti di assistenza. I primi sono i cosiddetti «livelli territoriali», i secondi sono i livelli ospedalieri, che raggruppano il bacino regionale, e i terzi sono i livelli che accentrano le disabilità più complesse e che hanno una risonanza in tutto lo Stato italiano. L'importanza di questi servizi è stata poi ribadita in un'altra Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato e le regioni del 2011, dove viene analizzata in maniera specifica l'area dell'età evolutiva.
  In seguito al documento del 1998, sono nati in questi anni otto servizi di terzo livello. Per darvi un'idea, noi trattiamo prevalentemente patologie quali la paralisi cerebrale infantile, le patologie neuromuscolari e le lesioni midollari, in particolare le spine bifide.
  In un territorio come la provincia di Ravenna in cinque anni ci sono cento paralisi cerebrali, mentre noi in cinque anni ne vediamo 3.500. Ciò vuol dire accentrare in un servizio una conoscenza dell'alta complessità. Cito alcuni dati. Prevalentemente accedono a noi pazienti extraregionali: il 70 per cento dei nostri pazienti proviene dalle altre regioni e solo il 30 per cento dalla nostra regione.
  Prima di dirvi chi siamo, vi ricordo che all'interno della nostra regione vi è un modello di assistenza, sancito dalla Delibera della Giunta regionale n. 138 del 2008, sull'istituzione delle reti hub and spoke. Si tratta di reti di complessità crescente, dove gli spoke, che sono i servizi territoriali o di secondo livello, raccolgono le complessità e le indirizzano verso l’hub, che è il centro di alta complessità.
  Questa rete in Emilia Romagna funziona discretamente. Abbiamo anche un tavolo regionale dei fisioterapisti e dei medici fisiatri neuropsichiatri volto anche a discutere le linee guida di indirizzo e ad uniformare i piani di trattamento e le indicazioni riabilitative che vengono date ai pazienti che accedono.
  Vi illustro molto brevemente cosa facciamo. Ho già detto che le patologie di cui ci occupiamo sono: paralisi cerebrali, malattie neuromuscolari, lesioni spinali. Per un quadro complessivo della situazione, si può vedere l'ultima indagine ISTAT del 2010 sulle disabilità infantili e sulle disabilità in Italia.
  Ho letto il resoconto della dottoressa Mazzucchi, che segnalava l'assenza di strumenti d'indagine sull'area della disabilità sotto i sei anni, perché la rilevazione viene fatta attraverso la ricaduta scolastica e, quindi, sulle 104 e sulla necessità di accompagnamento. Di conseguenza, abbiamo un quadro abbastanza definito dai sei anni in poi, mentre la situazione rimane imprecisa sotto i sei anni.
  Quello che emerge in una delle proiezioni è che, secondo una stima che è stata effettuata, dal 2005 al 2035 ci sarà un incremento esponenziale dei casi di disabilità in generale in Italia, anche nell'area infantile. Questo coincide con un aumento dei costi e della necessità di risorse. In seguito vedremo come mai questa incidenza è rimasta ancora così elevata, nonostante l'alta qualità di cura che viene fornita dai servizi.
  Noi ci occupiamo della valutazione delle disabilità motorie. Siamo un’équipe formata da cinque fisiatri, due chirurghi, uno psicologo, uno psicanalista e sei fisioterapisti. Il nostro impegno è prevalentemente Pag. 5nell'area neuromotoria. Il nostro compito è, quindi, quello di accompagnare i territori nell'identificazione della diagnosi e della prognosi funzionale e nella stesura dei piani di trattamento riabilitativo.
  In particolare, attraverso le visite fisiatriche, facciamo delle valutazioni volte all'inquadramento della prognosi funzionale, ossia della ripercussione sulla funzione del danno che il bambino ha subìto.
  Inoltre, valutiamo come introdurre nel piano di riabilitazione gli strumenti che abbiamo a disposizione. Il primo è la fisioterapia, per cui si possono richiedere consulenze dirette con il fisioterapista, che aiuta il terapista territoriale a stendere i progetti di trattamento fisioterapico.
  Un altro strumento è la progettazione e la valutazione di ortesi e ausili, come i tutori di arto inferiore e di arto superiore o i grandi ausili, le carrozzine, i sistemi di postura. Valutiamo come e quando iscriverli nel progetto di trattamento e come e quando proporli.
  Un altro strumento è la chirurgia funzionale, che per noi spesso precede o accompagna l'acquisizione delle funzioni. Lo scopo con cui viene proposta la chirurgia non è guardare al segmento, ma è guardare allo sviluppo delle funzioni che il bambino deve mettere in atto.
  Oltre a questo, anche gli inoculi di tossina botulinica accompagnano la storia di questi ragazzini, così come l'introduzione della pompa al baclofene. Ripeto che l'intento non è quello di curare il bambino, ma è quello di migliorare la sua qualità di vita e la funzione, che può essere la manipolazione, il cammino, ma anche solo il poter parlare meglio o poter avere un'igiene personale migliore.
  Infatti, spesso introduciamo la pompa al baclofene quando i farmaci per via orale raggiungono un livello tale per cui diventano tossici. Viene fatto un impianto sottocutaneo che permette, attraverso un piccolo catetere, di avere il farmaco direttamente nel midollo.
  La spasticità si riduce e la famiglia e il bambino ne hanno un beneficio soprattutto nella gestione quotidiana: si riesce a vestirlo meglio e a pulirlo meglio, ha un'igiene migliore e un eloquio migliore. Riesce anche a portare meglio un bustino, quindi non vogliamo togliere l'ausilio. L'ausilio rimane e lo usa per più tempo. Magari riesce anche a star seduto per più tempo nel corso della giornata.
  Ci avvaliamo, attraverso i laboratori, dell'analisi strumentale del cammino, che spesso ci accompagna e precede gli interventi di chirurgia più complessi.
  Facciamo attività didattica, in particolare istituzionale presso le università, ma anche interna. Abbiamo seguito, solo nel 2016, 354 tra studenti, specializzandi e corsisti.
  Inoltre, facciamo attività di ricerca. La rete hub and spoke della regione Emilia-Romagna ha molto sostenuto sia l'attività clinica sia l'attività di ricerca. Poter uniformare il campione in una ricerca clinica è essenziale e, quindi, è importante poter richiedere la collaborazione dei vari servizi. I servizi magari vedono poche patologie (tre, quattro o cinque), però cinque in una realtà e cinque in un'altra, in una regione molto sviluppata come l'Emilia Romagna costituiscono delle casistiche importanti, che messe insieme ci permettono di elaborare dati significativi.

  ADRIANO FERRARI, Direttore dell'Unità di riabilitazione delle gravi disabilità infantili dell'età evolutiva (UDGEE) del Dipartimento materno infantile. Io invece mi muoverò per punti fermi di riflessione.
  Il primo punto da considerare è che la disabilità infantile è in qualche modo il rovescio della medaglia della mortalità neonatale: se miglioriamo l'assistenza alla gravidanza e al parto, dobbiamo essere disponibili ad accettare un maggior numero di sopravvissuti e il maggior numero dei sopravvissuti significa disabilità infantile. La disabilità infantile è un problema dei Paesi con sistemi sanitari avanzati, non è un problema dei Paesi in via di sviluppo, perché in questi ultimi c'è la mortalità neonatale che ne riduce l'influenza.
  Vi do soltanto qualche dato. Oggi le maggiori cause di disabilità infantili sono i parti prematuri, con sopravvivenza di neonati che sono intorno alle 23-24 settimane di gestazione, sotto i 500 grammi di peso. Pag. 6Ovviamente l'indice di sopravvivenza con conseguenze per questi bambini è proporzionale all'età gestazionale, come è abbastanza logico.
  Un altro fattore è l'innalzamento dell'età materna. Tecnicamente si parla di «primipare attempate», perché l'età della prima gravidanza si sta spostando in avanti. Inoltre, ci sono i problemi della fecondazione assistita, che spesso aumentano il numero dei soggetti che vengono concepiti contemporaneamente. In definitiva, ci sono tanti fattori che incidono sull'aumento di queste patologie.
  Possiamo prendere due punti di riferimento: la paralisi cerebrale e l'autismo. La paralisi cerebrale incide oggi con più di un nato ogni 500, mentre l'autismo ne interessa uno su 250. Uno su 500 vuol dire che nelle regioni con un sistema più efficiente abbiamo 2,2 nuovi casi ogni 1.000 nati. È una patologia in continua crescita.
  Le risorse che servono per la sopravvenienza di questi bambini vengono distribuite in maniera disomogenea – la presidente mi aveva chiesto qualche considerazione sull'aspetto – perché le terapie intensive neonatali hanno un elevato impatto sanitario e un'elevata efficienza, però si occupano di un periodo molto breve della vita (un mese, due mesi o tre mesi). Se vado a vedere la distribuzione del costo della sopravvivenza di un bambino con disabilità di questo tipo, scopro che la maggior parte delle risorse vengono spese nei primi due o tre mesi dalla nascita e poi per tutto il resto della vita rimane ben poco da poter amministrare.
  Naturalmente un altro elemento sostanziale è che noi ci troviamo di fronte a patologie sempre nuove. Noi ci occupiamo anche, ad esempio, di distrofie. Se vado a leggere la descrizione che Duchenne fece nel 1860 di questa malattia, quando arrivavamo all'unità d'Italia, mi accorgo che è assolutamente attuale. È una malattia genetica: i bambini che nascono oggi sono uguali a quelli che aveva descritto Duchenne.
  Invece, se vado a leggere la descrizione della paralisi cerebrale, vedo che ogni dieci anni il panorama continuamente si trasforma, perché non nascono più o salviamo bambini nati a termine con gravi asfissie. Difficilmente oggi una donna va a partorire in un pagliaio, riceve un'assistenza accettabile.
  Tuttavia, ci sono nuove forme di paralisi cerebrale, a cui noi cerchiamo di opporci con nuove cure, per cui il panorama clinico di queste forme è continuamente mutante. Questo dal punto di vista riabilitativo ci pone dei problemi, perché abbiamo pazienti che presentano delle componenti sempre nuove.
  C'è un punto chiave su cui voglio esprimermi subito, perché credo che sia giusto prendere posizione. Idealmente la riabilitazione vorrebbe far recuperare al bambino la maggior parte della salute possibile e si ispira allo sviluppo «tipico» (usiamo questa parola al posto della parola «normale»).
  In realtà, non siamo capaci di far recuperare normalità ai bambini disabili. Ciò che siamo capaci di fare è recuperare funzionalità, capacità, e per capire quanta capacità possiamo recuperare dobbiamo prima di tutto fare un discorso con i genitori. Io cerco di parlare in maniera semplice.
  Tutta la diagnostica (pensate ad una risonanza magnetica, una TAC, un esame strumentale) mi mostra la lesione, cioè quello che è stato perso, danneggiato o compromesso. Su quello la medicina non è in grado di intervenire.
  Quello che possiamo fare è sfruttare ciò che è rimasto. Noi partiamo dal rovescio. Se quello è il dato negativo, noi puntiamo sul positivo. Dobbiamo lavorare su quello che è rimasto, e quello che è rimasto creerà un nuovo tentativo di risolvere i problemi che lo sviluppo pone a chiunque. Ciò che c'è di identico fra due bambini, uno sano e uno disabile, non sono le risposte che mettono in atto, ma sono i problemi che cercano di affrontare, che risolveranno con risposte diverse.
  Di conseguenza, non posso dichiarare negli obiettivi del mio trattamento il recupero della normalità. Sarei un impostore. Nessuno c'è riuscito. Pag. 7
  Se non riusciremo a cambiare (forse un giorno sarà possibile) la natura del difetto che si crea in questi bambini, noi potremo recuperare solo l'attività.
  Abbiamo sostituito proprio la parola «normale» con la parola «adattivo», cioè una cosa che uno riesce a fare, nonostante la sua lesione, in un modo diverso, che non è detto sia completamente inefficiente. Dobbiamo accettare l'idea della diversità nel far le cose, altrimenti non siamo in grado di misurare i risultati.
  Queste patologie non hanno solo l'aspetto che spesso è il più appariscente e per il quale vengono accomunate, che è l'aspetto motorio. Una delle benemerite associazioni che avete ascoltato, l'Associazione italiana assistenza agli spastici (AIAS), ha messo la parola «spastici» nel nome dell'associazione. Il termine si riferisce ad un aspetto motorio, però il movimento è solo la parte che si riconosce prima, ma non è detto che sia la più importante.
  Dobbiamo valutare questi bambini sotto tre aspetti fondamentali. C'è l'aspetto motorio, che è più riconoscibile, più immediato, più semplice, su cui in fondo facciamo le classificazioni e in base al quale parliamo di un tetraparetico piuttosto che di un emiplegico.
  Il secondo è l'aspetto percettivo. La percezione è quella che serve per il controllo di qualunque cosa facciamo: la sensorialità, la vista, l'udito, la propria eccezione. Pensate che la percezione può giocare ruoli negativi, perché sottrae, per esempio, il piacere del movimento, che è una delle condizioni per cui noi siamo portati a muoverci. Sottraete il piacere del movimento e avrete inventato una nuova dimensione di paralisi, che non dipende dal fatto che i muscoli, le articolazioni o le ossa non funzionano.
  Infine, c'è il terzo elemento, che non chiamo «intelligenza», ma «intenzionalità» «partecipazione», «propositività», «iniziativa», «determinazione», «coraggio». Chiamatelo con il termine che volete. Non è l'intelligenza, ma dipende da quanto la persona partecipa al suo processo di recupero, quanto investe e scommette su se stessa. Per esempio, la depressione, che è presente anche nel bambino, è un ostacolo molto grosso, perché il bambino depresso non si mette in gioco e non può quindi riuscire.
  L'orizzonte su cui noi dobbiamo valutare i pazienti ha soltanto un punto d'ingresso che è la motricità, ma in realtà siamo molto più preoccupati per altri aspetti. Un bambino che prova paura, per esempio, è un bambino che non sperimenterà, e, se non sperimenta, difficilmente acquisisce.
  Inoltre, qualunque forma di trattamento proponiamo – siamo nell'ambito del trattamento che si rivolge alle funzioni corticali superiori, cioè cerchiamo di dialogare col cervello – dobbiamo considerare qual è la capacità di apprendimento di quella persona.
  È difficile immaginare che un soggetto che ha avuto una lesione cerebrale abbia conservato intatta la capacità di apprendimento, perché tale capacità è per l'uomo la funzione superiore a tutte, una specie di carta di credito che nostra madre ci ha dato al momento della nascita, dicendo: «Ti do tutto quello di cui sono capace. Quello che ti manca te lo procuri con questa». Si chiama apprendimento, e possiamo davvero procurarci tutto quello che ci serve con la carta di credito dell'apprendimento.
  È difficile pensare che un bambino con un danno cerebrale abbia una tale capacità integra, quindi dobbiamo chiederci come e cosa apprende, per capire come e cosa gli possiamo insegnare. Infatti, il problema fondamentale dell'insegnamento e, quindi, della riabilitazione di questi bambini, non può prescindere dalla conoscenza di come facciano ad apprendere. Il modo di apprendere non è uguale per tutti.
  Dobbiamo ragionare su quale sia la forma migliore per insegnare a quel bambino. Per esempio, abbiamo imparato che non apprendono i movimenti normali, ma apprendono in un altro modo. Apprendono gli scopi, apprendono le strategie, apprendono le soluzioni alternative. Su questo ci hanno insegnato delle cose, ma in un quadro mutevole. Infatti, torno a dire che le forme della paralisi cambiano in continuazione e Pag. 8anche per i meccanismi di apprendimento ci troviamo spesso a dover capire.
  Inoltre, non basta rieducare il bambino disabile, ma è determinante fare contemporaneamente un'operazione su tutti gli altri. Io uso lo slogan «educare al disabile», perché, se l'obiettivo finale è l'integrazione, non lo si può ottenere se si agisce soltanto su una metà del problema, bisogna agire su entrambe.
  Devo dire che su questo l'Italia ha avuto due leggi, la n. 118 del 1971 e la n. 517 del 1977, che hanno permesso, per esempio, l'integrazione scolastica ai bambini disabili. In una nave che imbarca acqua da tante parti, siamo ancora l'unica nazione che può permettersi di dire che l'articolo 34 della Costituzione (la scuola è aperta a tutti) nel nostro Paese viene applicato.
  Noi facciamo didattica anche in altri Paesi d'Europa, che non hanno questa condizione, quindi possiamo vergognarci di tante cose, ma dobbiamo essere orgogliosi almeno di quello di cui possiamo esserlo.
  La parte difficile del nostro lavoro è capire un passaggio. Sapete che ci sono tanti approcci: c'è chi si occupa solo del sistema nervoso, c'è chi si occupa solo dell'apparato locomotore, c'è chi si occupa solo del sensoriale. Il problema è che il bambino è uno intero e che non lo possiamo spezzettare.
  La relazione che esiste, per esempio, fra l'apparato locomotore (parliamo di organo effettore in senso generale) e il sistema nervoso centrale è un continuo dialogo. Ai miei allievi dico: «Basta a un certo punto un sasso in una scarpa per farvi cambiare il modo in cui state camminando». Il cervello crea le differenze sull'apparato locomotore, ma subisce le condizioni di quest'ultimo. Se vogliamo dialogare col cervello, dobbiamo anche tener conto di cosa succede sul suo apparato locomotore.
  Da qui nasce la spiegazione del perché alcuni strumenti quali i farmaci, la chirurgia e le ortesi possono migliorare le proprietà del cervello. Il nostro interlocutore è sempre il cervello, ma parliamo con lui anche attraverso l'apparato locomotore. Un piede torto crea anche lo stile di cammino di un bambino emiplegico. Se correggi quel piede, il bambino non diventa normale, ma il suo stile di cammino può, per esempio, migliorare in resistenza, sicurezza, velocità, autonomia eccetera.
  Per riuscire a capire quello che possiamo realmente fare abbiamo bisogno anche di capire la prognosi, cioè farci un'idea di che strada segua quel bambino, farci un'idea di dove saranno i punti critici, farci un'idea di che cosa possiamo modificare.
  Questo non è semplice, per cui in tanti anni di lavoro abbiamo dovuto creare, attraverso le videoregistrazioni, un percorso di sviluppo che ci permetta di dire com'è questo bambino a tre mesi, a cinque anni, a quindici (oggi siamo arrivati a com'è a trenta) e di capire anche il risultato dei nostri interventi terapeutici.
  Se dobbiamo confrontare due approcci terapeutici diversi, debbo partire da un pool omogeneo di pazienti che avevano in comune molte affinità, per capire se il cambiamento è veramente significativo.
  Apro una parentesi: un equivoco drammatico che c'è in Italia, ma anche in molti altri Paesi, è l'abuso della parola «terapeutico». Ogni volta che si parla di qualcosa che riguarda la disabilità, qualunque cosa facciamo diventa terapeutica. Posso citare tanti nomi: il gioco diventa ludoterapia, l'acqua diventa idroterapia, il cavallo diventa ippoterapia, l'aroma diventa aromaterapia. La montagna diventa montagna-terapia: anche andare in montagna è diventato terapeutico.
  Bisogna che smettiamo di usare la parola «terapeutico» in maniera inadeguata. È terapeutico ciò che produce un cambiamento. Quel cambiamento è in qualche modo previsto e misurabile, è un cambiamento oggettivo, è un cambiamento replicabile in altri soggetti e speriamo che sia un cambiamento migliorativo.
  Tutto il resto è emozione, partecipazione, quello che volete, ma non è terapia. Non è possibile che io sullo stesso cavallo che fa lo stesso giro metta dei bambini con patologie differenti, ciascuno per ottenere un risultato differente: l'autistico perché deve relazionarsi, lo spastico perché deve rilassarsi, il down perché deve rassodarsi, il distrofico perché deve rinforzarsi. È un'emozione, Pag. 9 è una relazione, è tante cose, ma non è una terapia. Non è possibile che lo stesso strumento terapeutico dia contemporaneamente risultati differenti in varie direzioni.
  Se usiamo correttamente la parola «terapia», possiamo arrivare a capire che ad un certo punto la terapia finisce, cioè finiscono i nostri strumenti oggettivi per ottenere dei cambiamenti significativi.
  La terapia non è per sempre, ma è fin quando durano i cambiamenti possibili. Pertanto, ad un certo punto, quando non osserviamo più cambiamenti significativi, bisogna avere il coraggio di non usare più il termine «terapia», ma di usarne un altro: «assistenza». Se vogliamo dirla in maniera anglosassone, parliamo di «care». L'assistenza è qualcosa che deve durare tutta la vita, mentre la terapia non può durare tutta la vita, ma solo fin quando ci sono dei cambiamenti possibili.
  Vorrei chiarirvi un altro passaggio. In tutto il resto della medicina la terapia ha lo scopo fondamentale di confutare la diagnosi: se io ho la polmonite, prendo gli antibiotici e non ho più la polmonite. In riabilitazione, la terapia non confuta la diagnosi: se sono un bambino con paralisi cerebrale, faccio la terapia e resto un bambino con paralisi cerebrale; sono più efficiente, sono più autonomo, magari sono più capace di autodeterminazione, ma non ho tolto la paralisi cerebrale.
  In riabilitazione, non dobbiamo equivocare sul termine «terapeutico», perché, se dal termine terapeutico ci aspettiamo la guarigione, siamo tutti degli impostori. È facile essere impostori, è facile illudere, ma è altrettanto facile deludere. Potrei citare i viaggi della speranza, i ricoveri all'estero, che sono infiniti. Basta fare delle promesse e si ottiene che le famiglie si muovano. Tuttavia, tornano con una delusione ancora maggiore e ci sentono un po’ complici del fatto che qualcuno nel mondo, nascondendosi dentro una medicina più o meno ufficiale, continui a raccontare delle bugie e a creare illusioni e poi pesanti delusioni per queste persone.
  La presidente prima mi ha chiesto quali sono i punti critici di questo tipo di sistema; cominciamo a vederli. Uno degli aspetti è che questo passaggio fra la terapia e l'assistenza è molto complicato, perché, mentre esiste un Servizio sanitario nazionale che, per quanto disomogeneo e diversificato, almeno in teoria permette ad ogni cittadino italiano di arrivare a certi livelli di assistenza, non esiste un servizio sociale italiano. L'assistenza in termini generali è patrocinio degli enti locali, quindi, cambiando da un comune all'altro, il tipo di assistenza che si riceve può essere completamente diverso.
  Non essendoci l'interfaccia fra un Servizio sanitario nazionale e un servizio di assistenza o di care, spesso, in mancanza di un'assistenza adeguata, si continua a militare nel Servizio sanitario nazionale, elemosinando terapie, che però non sono la risposta adeguata. Noi parcellizziamo come elemosine delle terapie, laddove non siamo capaci di fare, invece, un'assistenza.
  Il problema più grosso di tutti è che queste malattie che non guariscono, che non possono guarire, hanno bisogno per tutta la vita di assistenza, mentre potrebbero non aver bisogno per tutta la vita di terapia. Nell'infanzia ce n'è bisogno, ma purtroppo le possibilità di recupero hanno un proprio termine.
  Posso segnalarvi altri punti critici da mettere in luce. Vediamo prima gli aspetti positivi, che sono quelli che mi interessano di più. Che cos'è la nostra nazione e cosa abbiamo di positivo come servizio? Cominciamo dal fatto che in questo Servizio sanitario nazionale è prevista e necessaria la competizione fra le strutture: ciascuna struttura deve adoperarsi per offrire il meglio alle famiglie, ai bambini eccetera. Questa è la garanzia per la crescita della qualità.
  Confrontandomi con altre nazioni a sistema sanitario avanzato, debbo dire che il nostro sistema sanitario non è male, se prendiamo i punti di eccellenza. Se prendiamo i punti di degrado, siamo gli ultimi della fila, ma se prendiamo i punti di eccellenza siamo su un ottimo livello. Dunque, un punto positivo è la competizione per la qualità.
  Un altro punto positivo è che le famiglie possono scegliere da chi farsi curare. C'è Pag. 10un'espressione di libertà con cui si può decidere da chi farsi seguire.
  Un altro aspetto è la visione della famiglia come una risorsa. Noi investiamo sulla formazione della famiglia. La famiglia è una straordinaria risorsa e noi la valorizziamo. Non abbiamo risposto con gli istituti, come, per esempio, hanno fatto altre nazioni, ma abbiamo risposto valorizzando la famiglia.
  Questi sono i punti positivi, però, se vado a leggere gli stessi aspetti negativamente, dovrei dire che la competizione dei servizi può spingere, per esempio, a fare delle promesse. Noi nell'Emilia Romagna ne risentiamo poco, perché non abbiamo il privato, ma abbiamo sostanzialmente solo il pubblico, quindi non c'è una concorrenza del privato. In altre regioni, come per esempio la Lombardia, c'è un forte dominio delle strutture private, soprattutto a sfondo religioso.
  Queste strutture private non seguono il modello bottom-up, cioè il modello della rete hub and spoke, in cui il livello che conta di più è il primo livello, che può appoggiarsi al secondo e al terzo per bisogni particolari, ma a cui viene restituito il paziente. Noi siamo pochi e vediamo un numero enorme di pazienti, perché li restituiamo tutti e sosteniamo il lavoro di base, non ci sostituiamo alle strutture di base.
  Può nascere la competizione, che si vince, come sappiamo, se si fanno maggiori promesse. Se la famiglia fa il giro delle sette chiese (uso un'espressione tipicamente romana), ovvero va a sentire i vari pareri, poi si trova di fronte alla necessità di dover decidere a chi dar retta.
  La domanda che mi fanno più spesso i genitori è: «Sto facendo le cose giuste?» In fondo, stiamo lasciando loro la responsabilità di decidere. È un loro diritto, però è anche una responsabilità e occorre fare attenzione: in età evolutiva non si può ricominciare daccapo, perché gli anni passano, e quello che posso fare ad una certa età non lo posso fare successivamente. Nell'adulto tutto sommato si possono effettuare dei recuperi, ma nell'età evolutiva non abbiamo tante possibilità. Pertanto, potete anche capire i viaggi della speranza e i ritorni disperati di famiglie che ad un certo punto partono per tentare altrove.
  Ho citato le virtù della mia regione, affermando che abbiamo una rete che funziona, abbiamo il controllo del territorio, però è giusto riconoscere che nella mia regione ci sono le case di carità, che ospitano minori e a volte famiglie intere o il minore con la madre. Se devo essere onesto, devo dire che non sono strutture sanitarie e che vivono di volontariato e di carità pubblica. Non sono accreditate, sono strutture volontaristiche.
  Ho citato la famiglia come una straordinaria risorsa, però ci sono anche famiglie per cui abituarsi all'esistenza di un bambino disabile comporta una fatica enorme. Abituarsi all'idea che, oltre un certo limite, non esista una terapia è un'operazione davvero molto difficile.
  In un mondo in cui si va e si torna dalla luna, è possibile che per un bambino oggi non ci sia una terapia efficace? Possibile che ci dobbiamo fermare, perché non ci sono delle condizioni che ci permettano di fare delle promesse mantenendole? Lasciando sempre aperta la porta di tutto quello di nuovo che viene avanti e stando pronti a ripartire, bisogna anche essere onesti e dire: «Oggi sappiamo arrivare fin qui».
  I bambini che restano in carrozzina, i bambini che non raggiungono nemmeno l'autonomia di poter indicare con un dito o di poter esprimere con un suono la loro volontà ci sono ancora, non perché non ci abbiamo provato, ma perché a volte ci scontriamo con lesioni veramente devastanti in cui non riusciamo ad andare oltre un certo limite.
  In tali casi può succedere che le famiglie diventino anche un problema, nel senso che faticano ad accettare l'idea che non ci sono le cure. A volte si creano delle alleanze (gli psichiatri americani parlano di perversità) fra famiglia e sistema sanitario: la famiglia chiede la terapia e il sistema sanitario la dà, però nessuno prende in considerazione il bambino che la riceve e i suoi diritti, che vanno rispettati. Pag. 11
  Non possiamo fare tutto contro la volontà del bambino. In fondo con i bambini finiamo sempre per decidere tutti per il loro bene, sottraendo loro quella che è la risorsa più grande per essere autonomi: l'autodeterminazione. Occorre insegnare loro a decidere per se stessi, altrimenti avremo degli adulti che saranno divenuti tali senza essere capaci di farlo.
  Ci sono anche altri punti, per esempio i conflitti fra i professionisti; una medicina che oscilla fra scienza rigorosa, con studi randomizzati, controllati e grandi numeri, pubblicazioni e di contro una scienza molto più empirica e suggestiva che convive con essa.
  Io immagino la riabilitazione come un crinale di una montagna acuta, dove se scivoli da una parte caschi nel consolatorio, ovvero fai le cose ma poi non cambia nulla, le fai solo per consolazione, e se scivoli dall'altra parte caschi nel magico. Mantenersi sul crinale non è sempre così facile.
  Il problema finale è quando si diventa adulti. Questi bambini crescono ed escono del grande contenitore dell'età evolutiva. Qui siamo nella Commissione infanzia, ma l'infanzia termina. L'infanzia è caratterizzata da grandi contenitori: la scuola è una di questi e il servizio sanitario è un altro, ma a diciott'anni chiudono tutti e due.
  Quando il bambino è piccolo, la famiglia non sa nulla, va da un medico e lo trova preparato su quello che può avere questo bambino. Diciott'anni dopo la famiglia sa tutto di quel bambino, è un tecnico straordinario di quel bambino, esce da questo tipo di servizi ed entra in un altro, che è quello dell'adulto-anziano, dove trova colleghi sanitari molto meno preparati della famiglia stessa. L'impatto è molto forte, perché è difficile, se non conosci i trascorsi di quel bambino, potertene occupare quando è divenuto adulto.
  Questa accusa di abbandono è quella che le famiglie più spesso ci rivolgono, perché il passaggio fra servizi materno-infantili e servizi adulti non è un passaggio omogeneo. I servizi adulti sono creati per le acuzie, mentre noi consegniamo loro dei bambini divenuti adulti che hanno una condizione di cronicità.

  PRESIDENTE. La ringrazio, professore. Le faccio una domanda. Ho ascoltato con molta attenzione la sua relazione, che rispetto a quelli di altri vostri colleghi che abbiamo sentito in questa stessa aula presenta un elemento di differenza importante, per come l'ho inteso io (mi correggerete se sbaglio). In precedenza, ci è stato detto da vostri colleghi che tutte le facoltà sono vicariabili. Credo di usare il termine giusto. Non sono un medico, quindi mi permetta un'eventuale imprecisione.
  Mi riferisco alla possibilità di recupero. Lei dice: «Ci rivolgiamo al cervello». Il cervello ha questa plasticità cerebrale, per cui in realtà un po’ tutte le funzioni sono vicariabili e quello che è importante è l'attività di riabilitazione che viene svolta.
  Lei invece ci dà un approccio un po’ più tranchant – magari l'ho inteso male io – come a dire: «No, questo non si potrà mai fare, quest'altro nemmeno, possiamo stare solo all'interno di questo confine». Io mi chiedo se voi siete veramente in grado di delimitare il confine o se capita anche a voi di dire: «No, io pensavo che si sarebbe arrivati fin qua, invece in realtà le potenzialità sono diverse».
  Da qui sorge la domanda collegata: quanto voi lavorate fisicamente in termini di esercizi sul bambino e quanto, invece, vi affidate a sistemi come quelli che diceva la dottoressa, che sono più chirurgici? Privilegiate una parte o l'altra o utilizzate tutte e due insieme? Dove vi focalizzate?
  Infine, noi abbiamo un panorama ormai nazionale, che con la vostra audizione si completa ulteriormente. Lei dice: «fino a qui ci siamo arrivati, oltre no». Se invece guardiamo, per esempio, agli Stati Uniti o ad altri Paesi, lei vede delle differenze? Dal punto di vista della chirurgia o di altri sistemi ci sono delle cose nuove, delle tecniche di riabilitazione, di fisiatria, oppure lei ci dice che i limiti che abbiamo in Italia ci sono anche negli altri Paesi?
  Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  GIUSEPPE ROMANINI. Innanzitutto ringrazio gli auditi, che sono stati, a mio modo di vedere, particolarmente chiari. È un'audizione Pag. 12 molto interessante. Io vengo dalla stessa regione (Parma) e devo dire che effettivamente il tema del passaggio dai servizi infantili ai servizi adulti non è semplice, però non ci sono solo le case della carità, che lei ha citato per onestà, però a livello distrettuale i centri semiresidenziali per disabili gravi sono una realtà piuttosto diffusa.
  Comunque, non è questa la domanda che volevo fare, e che in realtà ha avuto una risposta nelle premesse che lei ha fatto. Una domanda da uomo della strada, come posso essere io, nel senso che non sono del mestiere, è: perché tanta incidenza di disabilità gravi, in un momento nel quale le capacità di diagnostica prenatale sono così sviluppate e si conosce tutto?
  Lei ha già risposto, affermando che, insieme a questo, si è sviluppata una grande capacità di intervento neonatale nella terapia intensiva, soprattutto nel caso di nati prematuri, al punto da essere arrivati a salvare gravidanze che si sono interrotte alla ventitreesima o alla ventiquattresima settimana, con pesi sotto i 500 grammi.
  La mia più che una domanda è una richiesta di opinione da parte di uno specialista della riabilitazione e non della terapia intensiva, così importante nell'intervento, e incrocia un dibattito che oggi è alla Camera sul tema del fine vita, che si collega al tema del limite.
  Non mi riferisco al limite delle risorse economiche, sul quale lei qualcosa ha detto, affermando che si impegnano molte risorse in questa parte intensiva neonatale e molte meno nella vita intera che c'è dopo. Il tema è il limite dell'azione umana, del progresso, della scienza, delle capacità di intervento eccetera.
  Così come si sta riflettendo sul limite nel fine vita, forse un ragionamento sarebbe da introdurre anche su un limite all'inizio. Fino a che punto è giusto? A questa si collega un'altra domanda: qual è la percentuale di disabilità grave (paralisi cerebrale e patologie di questo tipo) che si riscontra ordinariamente in una nascita precoce a 23-24 settimane?

  ADRIANO FERRARI, Direttore dell'Unità di riabilitazione delle gravi disabilità infantili dell'età evolutiva (UDGEE) del Dipartimento materno infantile. Cerco di rispondere nell'ordine, partendo dalla capacità sostitutiva del nostro sistema nervoso. Ci sono alcune macro-categorie che è facile portare come modello.
  Nelle lesioni cerebrali dell'adulto esiste, ad esempio, la combinazione emiplegia-afasia (lesioni dell'emisfero sinistro producono un'emiparesi destra con afasia), mentre nel bambino la combinazione emiplegia-afasia non esiste, perché da qualche altra parte del cervello il linguaggio viene spostato. Per alcune grandi macro-funzioni, quindi, abbiamo una possibilità di recupero notevole.
  Pensiamo a un bambino emiplegico, per fare un esempio che può essere chiaro a tutti. Il bambino emiplegico ha una metà del corpo paralizzata o comunque che funziona male e un'altra metà conservata. L'ideale della riabilitazione potrebbe essere immaginare che la metà paralizzata impari a muoversi e a funzionare esattamente come la metà conservata.
  Tuttavia, a nessun emiplegico succederà mai una cosa del genere. Il cervello sa che una metà del corpo funziona meno bene e investe sulla metà conservata. Se dovessi fare una gara fra bambini che manipolano con una mano sola, chi vincerebbe con una mano sola è il bambino emiplegico, a condizione che gli lasciamo usare la mano conservata, raggiungendo un'iperspecializzazione che non sarebbe stata il suo sviluppo e che è un limite al recupero della mano plegica.
  Il cervello cerca il risultato. La neurofisiologia moderna ci parla di scopi. Noi abbiamo una collaborazione con un gruppo di Parma che ha avuto grandi meriti sul piano degli studi neurofisiologici applicabili alla parte riabilitativa. Intendo il gruppo del professor Rizzolatti, quello che ha scoperto i neuroni mirror, dell'Università degli studi di Parma. Lui è il massimo esperto, è noto a livello mondiale come studioso di valore straordinario. Noi adesso cerchiamo di implementare questa scoperta in un'attività terapeutica.
  Dobbiamo capirci: il cervello cerca comunque delle soluzioni, però alcune soluzioni Pag. 13 sono costruite con un'architettura che non ha affinità con la normalità e che non può diventar normale. Per esempio, la scelta di iperspecializzare la mano conservata è una scelta intelligente per il cervello, anche se diventa un limite al recupero.
  Apro una parentesi. Fra le proposte terapeutiche che posso citare ce n'è una che si chiama «constraint-induced movement therapy», che consiste nel penalizzare momentaneamente la mano conservata perché non si iperspecializzi troppo rapidamente a spese del recupero di quella plegica. Tuttavia, lo possiamo fare solo con una piccola categoria di bambini che hanno effettivamente grandi possibilità di recupero della mano plegica.
  Potrei mostrarvi bambini che sanno farsi il nodo alle scarpe con una mano sola, cosa che nessun soggetto sano sa fare. Parlo del fiocco, non di un nodo qualunque. Sanno fare il fiocco alla scarpa con una mano sola. Invece, se guardo cosa fa con l'altra mano mi dispero, perché non esiste, non viene usata per niente.
  In questo recupero delle funzioni c'è comunque una strategia diversa e c'è una logica. Noi possiamo identificare come manipola il bambino a due anni di età e prevedere come potrà farlo a cinque anni. Questa è la sua strategia di sviluppo, sulla quale possiamo fare delle proiezioni terapeutiche. La terapia, infatti, non può essere uguale per tutti, ma viene personalizzata, non Giuseppe rispetto a Giovanni, ma una forma di evoluzione rispetto ad un'altra forma di evoluzione.
  La cosa diventerebbe facile se la patologia fosse stabile. Si tratterebbe di descrivere una volta per tutte le strade di sviluppo e di andare a capire che cosa possiamo ottenere. Invece, il panorama patologico cambia in continuazione.
  Io ho scritto diversi libri sul recupero della paralisi cerebrale e ho sempre chiesto all'editore di mettere una striscia di traverso con scritto «scade il...», perché le proposte terapeutiche che ci sono dentro hanno una scadenza. Fra dieci o quindici anni i bambini che vedranno i miei allievi non saranno quelli che ho studiato io e loro dovranno modificare questi princìpi, perché i bambini che ho studiato io non esisteranno più. Ci saranno nuove forme, non quelle che vedo io adesso, che non sono le stesse che ho imparato dal mio maestro quando «sono andato a bottega» anch'io per imparare questo mestiere.
  Dobbiamo entrare in questa logica e sapere che il recupero c'è sempre, ma è un recupero che tiene conto di una diversa strategia, che non è la normalità, che affronta gli stessi problemi del bambino normale, ma che li risolve in modo diverso.
  Noi, se vogliamo aiutare questi bambini, dobbiamo giocare con le carte che hanno in mano. Ai genitori dico: «Dovete immaginare che la partita è la stessa, ma noi dobbiamo essere buoni giocatori con le carte che la natura ci ha lasciato, e giocare la partita migliore possibile. Con carte migliori chiunque vince la partita, ma noi dobbiamo giocare con quelle e capire quali il bambino ha in mano».
  Le carte sono: il repertorio del movimento, la capacità di analisi percettiva, l'interesse, la partecipazione. Anche la curiosità diventa per me un elemento fondamentale: quanto il bambino si spende, ci prova. Altre carte sono la sua capacità di apprendimento, la capacità di trasferimento di quello che ha preso da un ambiente all'altro, la capacità di autodeterminazione. Senza quelle non andiamo da nessuna parte.
  Non è che misuro l'intelligenza e dico: «Il bambino si laurea di sicuro». Sappiamo tutti che non tutti gli intelligenti si laureano e non tutti i laureati sono intelligenti. Non è un'equazione lineare.
  In questo sono importanti l'autodeterminazione, l'investimento e la partecipazione. Il bambino non può essere solo dipendente da chi decide per il suo bene, ma deve poter esprimere anche quello che pensa e quello che prova, altrimenti ci troviamo delle situazioni devastanti nell'adolescenza, quando i bambini si oppongono proprio sulle cose su cui i genitori e noi abbiamo investito di più.
  C'era la domanda sulla situazione negli Stati Uniti e in altri Paesi esteri. Gli Stati Uniti hanno alcuni centri che sono socialmente aperti a tutti. Io sono stato a Portland, Pag. 14 dove ci sono delle associazioni che sostengono la vita dell'ospedale, che ospita tutti i bambini e cura tutti. In altre situazioni, come sapete, invece, il livello raggiungibile è legato al ceto sociale. Non hanno una rete di servizi come ce l'abbiamo noi.
  Di tutte le componenti della medicina la riabilitazione è quella più umanistica. Siamo più forti degli Stati Uniti, non per merito nostro, ma per merito di quella civiltà che c'era qua 2.000 anni fa e che forse c'era in Grecia 2.500 anni fa. Noi diamo valore all'uomo perché è un uomo, non perché pagherà le tasse e sarà un lavoratore o un produttore.
  Non troviamo questo nella mentalità anglosassone o nei Paesi del nord. Nei Paesi del nord vedo bambini che sono più attrezzati dal punto di vista degli ausili (hanno carrozzine di tutti i tipi), ma sono più arretrati dal punto di vista della cura della persona. Si potrebbe fare molto di più, non dare a tutti la carrozzina elettrica, dicendo: «Va bene, sei disabile, ti diamo la carrozzina elettrica e hai finito». Molti di loro potrebbero essere autonomi, potrebbero camminare, ma nessuno investe sulla persona, investono solo sulla struttura.
  Noi forse siamo esageratamente dall'altra parte. Noi investiamo sulla persona, ci crediamo fino in fondo, ma – attenzione – non investiamo solo sulla persona. Abbiamo detto: «Come si fa a pensare all'integrazione se gli altri non vengono educati ai disabili?» Non è il caso della nostra generazione, perché la legge è arrivata un po’ più tardi, ma i nostri figli hanno convissuto nella scuola con altri bambini disabili, che non sono questa o quella sindrome, ma sono Paolo, Maria, Vittoria, Riccarda, sono persone. Noi abbiamo educato una popolazione alla disabilità, facendo in modo che oggi i genitori non si vergognino di portare i bambini disabili ai giardini pubblici, non li chiudano nelle stanze, non mettano le tende ai balconi perché nessuno li veda.
  Inoltre, stiamo diventando una società multietnica, che ci piaccia o no. La grande sfida è questa. La disabilità è diversa in altre nazioni, è diversa al maschile o al femminile, è diversa per il primogenito e per l'ultimogenito, è diversa in cinese, in arabo, in senegalese e così via.
  La riabilitazione non può essere la stessa, perché ci sono delle radici culturali dietro, perché ci sono dei valori dietro. Nel mondo arabo maschio e femmina non sono la stessa cosa e l'investimento rispetto a queste persone non è lo stesso. Se io devo pensare di valorizzare le persone, debbo anche entrare nella dimensione culturale di quelle persone, perché la riabilitazione deve tener conto di questa dimensione culturale. Un conto è dire «posso raddrizzarti una mano o estenderti un ginocchio» e un conto è capire come e quanto tu investi in quel tipo di persone.
  Abbiamo dei valori in questa società, ma magari soltanto andando all'estero ci rendiamo conto come quello che per noi è naturale, scontato, di sempre, in realtà è un valore che gli altri non hanno ancora conquistato. Parlo della Germania, non vado tanto lontano.
  Quella sul fine vita è una domanda pesante, ma importante. Io uso un'equazione di due parole: persona e pensiero. Per noi la vita coincide con il pensiero: finché siamo capaci di pensiero, siamo persone; quando non siamo più capaci di pensiero, siamo pezzi di ricambio, se siamo ancora buoni come pezzi di ricambio.
  Noi sappiamo che il fine vita giunge quando cessa il pensiero, ossia quando c'è il tracciato encefalografico piatto. La domanda che ci dovremmo porre è: «Quando comincia il pensiero?» Ormai siamo in grado di sapere quando il bambino comincia a pensare, ed è molto presto. Adesso non voglio aprire una nuova audizione, ma questo è il problema maggiore: quando il bambino comincia a pensare, quando la sua attività cerebrale è organizzata, quando sogna, cioè sotto le 20 settimane. A quel punto, siamo di fronte ad una persona (se volete definirlo politicamente, un cittadino). Dovremmo cominciare a pensare che siamo di fronte a una persona.
  Se ad un certo punto stiamo analizzando una gravidanza e non abbiamo condizioni per immaginare che il pensiero sia già attivo, non siamo di fronte a una persona, Pag. 15 come non lo siamo più nella fase di fine vita. Abbiamo accettato che non è un cuore che batte o una macchina che fa espandere i polmoni, ma è l'attività cerebrale che connota l'essere persona, per cui chiunque di noi, quando il cervello non funzionasse più, preferirebbe che si staccassero i fili e si chiudesse la partita.
  Se dobbiamo rivolgere l'attenzione verso la nascita, dobbiamo focalizzarci su quando comincia il pensiero, perché da quel momento questa persona ha dei diritti e noi abbiamo dei doveri nei suoi confronti, quindi tutta la visione curativa, riabilitativa eccetera deve tener conto di questo tipo di situazione.
  L'osservazione della motricità e del comportamento fra le dieci e le venti settimane di gestazione ci mostrano il comportamento del neonato, che è la capacità di raccogliere informazioni, di elaborare risposte.

  GIUSEPPE ROMANINI. Sul fine vita c'è un dibattito aperto in tutte le sedi: in sede politica, nelle commissioni etiche, nella scienza. Sul neonatale c'è un dibattito? Ci sono dei luoghi che stanno ragionando su questi elementi ed eventualmente portano anche questi dati? Inoltre, mi manca la percentuale.

  ADRIANO FERRARI, Direttore dell'Unità di riabilitazione delle gravi disabilità infantili dell'età evolutiva (UDGEE) del Dipartimento materno infantile. Ci sono degli ambienti in cui se ne parla. C'è anche, per esempio, la «Carta di Firenze». I neonatologi si stanno interrogando su questi aspetti e si sta anche cercando di capire le curve in cui, abbassando l'età gestazionale, il numero dei sopravvissuti senza danni diventa praticamente inesistente. Si dice che le 23 settimane stiano rosicchiando qualche giorno, ma le 22 settimane sembrano un muro invalicabile, perché in quelle condizioni garantire almeno a qualcuno di farcela senza danni diventa sostanzialmente impossibile.

  LAURA BECCANI, fisioterapista presso l'IRCCS Arcispedale S. Maria Nuova di Reggio Emilia. Alla ventiduesima settimana (sopravvivono anche in questa fase), c'è il 100 per cento di disabilità, mentre tra la ventitreesima e la ventiquattresima l'80 per cento. Al di sotto della ventiduesima settimana non c'è compatibilità con la vita extrauterina, almeno per ora.

  PRESIDENTE. Ringrazio i nostri ospiti e dichiaro chiusa l'audizione.

  La seduta termina alle 15.15.

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