XVII Legislatura

Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza

Resoconto stenografico



Seduta n. 5 di Martedì 13 gennaio 2015

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Brambilla Michela Vittoria , Presidente ... 3 

Variazione nella composizione della Commissione:
Brambilla Michela Vittoria , Presidente ... 3 

Indagine conoscitiva sulla prostituzione minorile: audizione di rappresentanti della Comunità Papa Giovanni XXIII (Svolgimento e conclusione):
Brambilla Michela Vittoria , Presidente ... 3 
Martini Valter , responsabile del servizio affidamento della Comunità Papa Giovanni XXIII ... 3 
Brambilla Michela Vittoria , Presidente ... 3 
Martini Valter , responsabile del servizio affidamento della Comunità Papa Giovanni XXIII ... 3 
Perricelli Antonella , responsabile del servizio legale della Comunità Papa Giovanni XXIII ... 5 
Brambilla Michela Vittoria , Presidente ... 6 
Iori Vanna (PD)  ... 6 
Brambilla Michela Vittoria , Presidente ... 7 
Martini Valter , responsabile del servizio affidamento della Comunità Papa Giovanni XXIII ... 7 
Perricelli Antonella , responsabile del servizio legale della Comunità Papa Giovanni XXIII ... 8 
Bergia Maurizio , responsabile del servizio politico sociale della Comunità Papa Giovanni XXIII ... 8 
Brambilla Michela Vittoria , Presidente ... 9 
Zampa Sandra (PD)  ... 9 
Brambilla Michela Vittoria , Presidente ... 9 
Martini Valter , responsabile del servizio affidamento della Comunità Papa Giovanni XXIII ... 9 
Bergia Maurizio , responsabile del servizio politico sociale della Comunità Papa Giovanni XXIII ... 10 
Martini Valter , responsabile del servizio affidamento della Comunità Papa Giovanni XXIII ... 10 
Brambilla Michela Vittoria , Presidente ... 10 
Cardinali Valeria  ... 10 
Brambilla Michela Vittoria , Presidente ... 11

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DELLA PRESIDENTE MICHELA VITTORIA BRAMBILLA

  La seduta comincia alle 14.15.

  (La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che se non vi sono obiezioni la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
  (Così rimane stabilito).

Variazione nella composizione della Commissione.

  PRESIDENTE. Comunico che il Presidente del Senato, in data 22 dicembre 2014, ha chiamato a far parte della Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza la senatrice Mara Valdinosi, in sostituzione della senatrice Manuela Granaiola, dimissionaria.

Audizione di rappresentanti della Comunità Papa Giovanni XXIII.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla prostituzione minorile, l'audizione di rappresentanti della Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi nel 1968 e attiva da molti anni nel campo della tutela dei minori. La comunità è diffusa in 32 Paesi dei 5 continenti e può contare su oltre 1.800 membri effettivi.
  L'associazione ha chiesto di poter svolgere questa audizione sia per un confronto sui temi sui quali è impegnata, con particolare riferimento ai bambini presenti nelle case famiglia, sia per illustrare un'ipotesi di modifica della legge n. 184 del 1983 in tema di adozione e di affidamento di minori.
  Sono presenti oggi il dottor Valter Martini, responsabile del servizio affidamento nonché componente dell'Osservatorio nazionale per l'infanzia, l'avvocato Antonella Perricelli, responsabile del servizio legale, e il dottor Maurizio Bergia, responsabile del servizio politico sociale.
  Abbiamo già a disposizione la proposta che la comunità ha voluto indirizzare alla Commissione nella sua completezza. Do quindi subito la parola al responsabile del servizio affidamento della Comunità Papa Giovanni XXIII, Valter Martini al fine di illustrarci i dettagli della stessa.

  VALTER MARTINI, responsabile del servizio affidamento della Comunità Papa Giovanni XXIII. Quanto tempo ho a disposizione, presidente ?

  PRESIDENTE. Dobbiamo terminare alle 15.00.

  VALTER MARTINI, responsabile del servizio affidamento della Comunità Papa Giovanni XXIII. Bene. Ci piacerebbe molto poter dialogare con voi. Intanto la ringrazio, presidente, di questa opportunità; ringrazio, quindi, tutti i membri della Commissione e vi porto i saluti del nostro Presidente, successore di don Benzi, che sta tornando dallo Sri Lanka a seguito di impegni internazionali. La nostra comunità è presente in tutto il mondo e quindi egli viaggia spesso; si è dispiaciuto di non poter essere qui, però non gli era possibile arrivare prima.Pag. 4
  Noi abbiamo chiesto questa audizione proprio per presentare alcune proposte e alcune preoccupazioni sulla legge n. 184, di cui vi siete già occupati e forse vi occuperete ancora.
  Abbiamo lasciato agli atti una bozza di proposta che sottoponiamo a voi, che sicuramente siete più competenti ed esperti di noi dal punto di vista legislativo. Ci abbiamo tenuto molto a far ciò qui, in questa sede, cioè a presentarla ufficialmente oggi.
  Ci sembrava, infatti, che questa Commissione infanzia, che nel 2007 ha visto qui don Benzi, fosse il luogo in cui poter esporre per la prima queste nostre proposte, che poi renderemo pubbliche.
  Si tratta di una proposta che parte dall'osservare il mondo delle comunità che oggi in Italia accolgono i minori e non solo. Noi siamo nati da quarantadue anni (la prima casa famiglia è del 1973), siamo presenti con il nostro modello di case famiglia in varie parti d'Italia con circa 207 case, dove c’è una figura paterna e una materna che vivono con residenza nella casa e fanno accoglienza di minori e di adulti in situazioni diverse.
  Il nostro modello è quello della scelta di vivere insieme, di condividere la vita con loro. Siamo nati nel 1973, più o meno quando nascevano anche quelle una volta definite comunità alloggio (la legge n. 184 le definisce correttamente così), ma in questi anni nel panorama italiano sono sorte varie realtà di accoglienza, sostanzialmente riconducibili a 2-3 modelli diversi. Da un lato ci sono le comunità familiari, in alcune realtà definite case famiglia (dovrò poi spiegare meglio, perché per case famiglia oggi si intende un po’ tutto), con la presenza di una coppia che vi vive stabilmente con i propri figli e fa accoglienza ventiquattro ore su ventiquattro, tutti i giorni della settimana e dell'anno.
  Altro modello è quello delle comunità educative, prima chiamate comunità alloggio, nelle quali il perno dell'accoglienza è fondato non su una coppia, ma su degli educatori, che se sono sicuramente validi dal punto di vista professionale, perché hanno la competenza, a nostro avviso, però, non rispondono ai bisogni di relazione familiare di cui i bambini e i ragazzi oggi hanno bisogno. Il termine «casa famiglia», però, è stato usato a volte in modo improprio per presentare un'aura di realtà familiare che invece all'interno non c’è. Soprattutto in alcune regioni (parlo del centro-sud) tutto è casa famiglia, ma in realtà questo non è vero.
  Sentiamo, quindi, una prima, forte esigenza di cominciare davvero a distinguere, non per dire chi sia migliore o peggiore, più o meno bravo, ma per dire che sono risposte di tipo diverso. Purtroppo, la legge n. 149 del 2001 non ha aiutato in tal senso.
  La legge, a cui ho anche lavorato insieme ai parlamentari dell'epoca, aveva l'obiettivo di chiudere gli istituti, obiettivo che è stato raggiunto quasi completamente (sono pochissime le realtà ancora esistenti in Italia), e soprattutto quello di fare in modo che ogni bambino stesse nella sua famiglia d'origine, oppure, laddove ciò non fosse possibile, avesse una famiglia affidataria (se il bisogno di allontanamento era temporaneo), ovvero una famiglia adottiva (qualora la situazione familiare fosse irrecuperabile oppure una comunità di tipo familiare).
  Credo che il legislatore avesse questo in mente: lavorare per garantire un contesto familiare che accogliesse questi bambini. Questo, però, non solo non è avvenuto, ma oggi è anche un grande bluff in Italia, per cui tutti si definiscono comunità di tipo familiare, quando in realtà non lo sono.
  Questa mattina, in treno, leggevo un articolo sulla rivista Minori e giustizia, la rivista dei magistrati che credo conosciate, in cui una comunità si presentava come «parafamiliare»: ma cosa vuol dire ? O sei una comunità familiare, o sei una comunità educativa, entrambe hanno valore ma sono due cose diverse.
  La prima esigenza forte che sentiamo sta nel dire questo: bisogna arrivare a differenziare e a specificare cosa è una comunità dove c’è una coppia, in modo che i servizi e il tribunale, quando mandano un bambino in una realtà, possano Pag. 5dire di averlo messo in una famiglia, cioè una comunità in cui deve stare temporaneamente ma dove c’è una famiglia, una cosa che è diversa dal collocarlo in una comunità in cui ci sono 8 educatori validi, ma che però si alternano e non danno le risposte di cui il bambino ha bisogno.
  La prima esigenza forte che sentiamo è quella di arrivare a normare tale fattispecie, perché oggi vi è un inganno; oggi ci sono 14.255 bambini (gli ultimi dati sono stati presentati dall'Osservatorio infanzia il 18 dicembre dello scorso anno) che vivono in queste realtà. Quanti di questi vivono in realtà familiari e quanti invece in comunità educative con operatori che turnano ? Questo dato non è conoscibile e le ricerche non vanno ancora a scandagliare.
  La prima esigenza forte è riconoscere tutto questo; ci sembra che nella legge n. 149 ci sia un margine – poi l'avvocato spiegherà questo passaggio – in cui modificare in questo senso la legge per arrivare a dare una priorità di accoglienza ai contesti familiari, laddove un bambino deve andare in una famiglia oppure in una comunità casa famiglia dove ci sia una coppia.
  Il secondo aspetto che ci preoccupa molto riguarda i dati sui minori piccolissimi che sono nelle comunità. Gli ultimi dati del 2011 (non recentissimi, ma il problema è che manca la banca dati) evidenziano un trend in crescita dei bambini sotto i 2 anni; abbiamo circa 1.200 bambini in Italia sotto i 2 anni e voi che siete competenti sapete bene che un bambino non può stare senza una figura paterna e materna nei primi anni di vita.
  Noi chiediamo che i bambini sotto i 2 anni non debbano più andare nelle comunità educative, ma che per loro debba essere previsto solo l'affido familiare o in case famiglia, realtà dove cioè ci sono delle coppie. Come si è fatto un grande sforzo per chiudere gli istituti (nel 2001-2006 c’è stato un grande lavoro e abbiamo lavorato come Osservatorio per fare un piano straordinario per la chiusura degli istituti), oggi crediamo che ci debba essere un piano straordinario in tal senso, che peraltro è molto semplice: nella legge, che oggi prevede per i minori al di sotto dei 6 anni che essi non possano essere collocati se non in comunità di tipo familiare, si dovrebbe sostituire il termine «di tipo familiare» con un termine per cui i bambini piccoli, sotto i 6 anni, debbano andare solo in una famiglia, altrimenti ne tradiremmo i bisogni profondi.
  Finisco qui la mia introduzione, anche se volentieri spiegherei cosa sia una casa famiglia; tutti e tre noi siamo responsabili di una casa famiglia, in cui viviamo con le nostre mogli o mariti e i nostri figli, crescendo insieme.
  Mi sembrava importante introdurre questo tema e lascerei ad Antonella Perricelli il compito di spiegare il resto. Volevamo non solo portare qui i problemi che vediamo, ma anche farvi delle proposte, quindi abbiamo pensato di andare a vedere come si possa intervenire nel dettato della legge n. 184 senza stravolgerla, ma modificandola in tal senso.
  Stiamo seguendo anche il disegno di legge Pugliesi, che vuole introdurre il passaggio dalla famiglia affidataria alla famiglia adottiva in alcuni casi e abbiamo visto che con pochi aggiustamenti è possibile modificare la legge n. 184. Abbiamo lavorato e vi presentiamo questa bozza in cui abbiamo ipotizzato di cogliere con poche modifiche queste proposte che vi ho elencato.

  ANTONELLA PERRICELLI, responsabile del servizio legale della Comunità Papa Giovanni XXIII. Buongiorno a tutti. Come diceva Valter, partendo dai dati di vita e dall'esperienza che abbiamo maturato quest'anno, ma anche dai dati dell'Osservatorio, abbiamo individuato una proposta di modifica che si articola su tre punti.
  Innanzitutto, si propone di differenziare le tre tipologie di strutture, in secondo luogo di stabilire una gradualità delle strutture, per cui, qualora non sia possibile che il minore rimanga nella propria famiglia d'origine, si individuerà una famiglia affidataria, come già stabilisce la legge n. 184. Qualora questa strada non fosse percorribile, entreranno in gioco le Pag. 6comunità familiari o case famiglia, ovvero le comunità educative. Si propone in terzo luogo di inserire i minori sotto i 6 anni esclusivamente nelle case famiglia o comunità familiari.
  Andando a studiare nel concreto la n. 184 abbiamo individuato queste possibilità di modifiche: innanzitutto, la modifica fondamentale all'articolo 2, dopo il comma 1, secondo cui, qualora il minore non possa crescere nella propria famiglia, è necessario che esso sia inserito in una famiglia affidataria; proponiamo, quindi, di introdurre un comma 1-bis, ovvero «quando non sia possibile percorrere la strada di cui al comma 1, è consentito l'inserimento del minore in una casa famiglia, ivi comprese quelle multiutenza e comunità familiari», al fine di garantire quella gradualità di cui parlavamo, quindi famiglia affidataria, casa famiglia o comunità familiare. Questa proposta permetterebbe di procedere in questo modo.
  L'altro punto importante è la modifica di una frase al comma 2, che preveda per i minori di età inferiore ai 6 anni che l'inserimento possa avvenire solamente presso una casa famiglia, ivi comprese quelle multiutenza e comunità familiari, per impedire che minori al di sotto dei 6 anni siano inseriti in comunità educative, per quanto rispondenti a determinate esigenze. Infatti, vista la giovane età dei minori, riteniamo importante un contesto familiare e il riferimento preciso di una coppia genitoriale.
  Sempre all'articolo 2, riguardo al comma 4 proponiamo di definire cosa sia una casa famiglia e cosa una comunità familiare, quindi con l'introduzione del comma 1-bis ad indicare quando sia necessario inserire il minore nella casa famiglia o nella comunità familiare, precisando, al comma 4, cosa è una comunità familiare e una casa famiglia, perché sotto questa nomenklatura oggi rientrano strutture molto diversificate soprattutto nelle varie regioni.
  Le case famiglia, comprese quelle multiutenza e comunità familiari, sono caratterizzate dalla presenza stabile e continuativa, quindi persone che vivono insieme alle due figure genitoriali, maschio e femmina, che svolgono una funzione paterna e materna.
  Sempre al comma 4 proponiamo di specificare che, qualora non sia possibile, si prenda in considerazione la comunità educativa, quindi con operatori che turnano, che ovviamente, come dicevamo, non hanno nulla di meno delle altre però possono rispondere a un altro tipo di esigenza.
  Agli articoli 4 e 5 facciamo delle proposte di modifiche che comunque riportano quelle precedenti, però i punti focali sono questi: l'introduzione del comma 1-bis, al comma 2 l'introduzione della necessità di inserire i minori al di sotto dei 6 anni nelle case famiglia e, al comma 4, la definizione di cosa sia una comunità familiare e casa famiglia multiutenza.
  Questo è un elaborato che proponiamo, ma ovviamente siamo qui per discutere e ricevere osservazioni in merito.

  PRESIDENTE. Molto bene, credo che da questo vostro documento la Commissione potrà trarre forte spunto per l'elaborazione di testi che vengano incontro a quello che voi avete presentato.
  Do quindi la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni. Vorrei chiedervi se possiate, seppur brevemente, fare un passaggio più approfondito sulle diverse tipologie di case famiglia. Giustamente lei dice che oggi con il termine case famiglia si intende un po’ tutto; è vero, perché anche in questa Commissione tante volte si è parlato di case famiglia, quindi credo che potrebbe essere utile a tutti i commissari una vostra più dettagliata analisi delle varie tipologie.

  VANNA IORI. In linea di principio concordo e trovo interessante la proposta di costruire attorno ai bambini, soprattutto ai più piccoli (0-6 anni), una rete di tipo familiare, nello stesso tempo sono preoccupata, come diceva la presidente poco fa, della fisionomia di queste case famiglia.Pag. 7
  Sarebbe opportuno (stavo cercando se nel testo ci fosse) delineare con precisione quali sono i requisiti che queste case famiglia devono avere per potere esercitare quel ruolo educativo così delicato e prezioso nei primi anni di vita, perché altrimenti si rischia davvero che ogni famiglia, in teoria, possa essere una casa famiglia, pur avendo all'interno delle dinamiche che non è detto siano positive dal punto di vista educativo.
  Ogni famiglia porta con sé delle fragilità, delle difficoltà relazionali; si deve quindi distinguere tra quelle difficoltà, che comunque possono essere assorbite da quel di più di generosità che una famiglia la quale si appresta ad esercitare questo ruolo educativo supplementare deve mettere in gioco, oppure se invece va bene che sia semplicemente una famiglia unita.
  Secondo me ci sono proprio dei requisiti e – mi spingo anche più avanti – degli obiettivi formativi che dovrebbero essere perseguiti in modo specifico dalle famiglie che intendono svolgere questo tipo di azione.

  PRESIDENTE. Do la parola ai nostri ospiti per approfondire su questi temi.

  VALTER MARTINI, responsabile del servizio affidamento della Comunità Papa Giovanni XXIII. Grazie. Intanto la legge n. 149 demandava alle regioni il compito di normare, anche in base al Titolo V della Costituzione, le caratteristiche che devono avere le comunità di accoglienza per i minori, quindi c’è il decreto ministeriale n. 308, ma c’è tutto il compito dato alle regioni.
  Le regioni hanno normato le diverse tipologie di comunità. Un primo dato che emerge è che c’è una normativa che ogni regione ha fatto propria, per cui quello che in Piemonte si intende per casa famiglia per minori, è purtroppo diverso da quello che si intende in Campania piuttosto che in Puglia.
  Le regioni hanno però il compito di normare e quelle che hanno normato, hanno dato dei parametri molto precisi, anche sul livello professionale, per cui, ad esempio, non è sufficiente il semplice essere genitori, ma sono stati indicati dei criteri di professionalità, di competenza, di formazione continua e permanente.
  Piemonte, Veneto, Emilia Romagna hanno dato delle norme strutturali, organizzative e gestionali, per cui oggi non è più possibile che una famiglia diventi casa famiglia perché fuori ha cambiato l'etichetta; ci sono una serie di controlli a monte per poter iniziare un'esperienza di casa famiglia, così anche per tutto il percorso.
  C’è quindi un obbligo di relazione di progetto educativo su ogni minore accolto e c’è tutta una normativa che oggi è molto stringente; ad esempio, non si possono accogliere più di 6 minori; una normativa che è andata a stringere, regione per regione.
  Quello che manca a livello nazionale è un quadro di riferimento generale. Noi abbiamo chiesto ciò più volte al Ministero del welfare come componenti dell'Osservatorio; oggi alle 17.30 abbiamo un incontro con il dottor Tangorra, in cui chiederemo, così come si è fatto con le linee nazionali sull'affido, che siano individuate delle linee nazionali di indirizzo sull'accoglienza nelle comunità.
  Abbiamo fatto un lavoro analogo con il Garante sull'infanzia; sono componente di un gruppo di lavoro che il Garante ha costituito e coordinato insieme al CNCA; siamo usciti con un documento che a giorni sarà pubblico – che il Garante vorrà presentare – in cui definiamo alcune caratteristiche che dovrebbero esserci a livello nazionale, ma che non ci sono, per cui ogni Regione è andata di fatto a normare. Questo ha aperto il ventaglio delle possibilità per sostenere che tutto sia casa famiglia; con una modifica della legge n. 149 cercheremo di evidenziare questa esigenza.
  Una prima grande scansione potrebbe consistere nel dire che le comunità familiari sono quelle dove c’è una coppia che vive nella casa, mentre la comunità educativa è quella dove ci sono degli educatori. Le regioni avranno sicuramente ancora il compito di normare e alcune lo Pag. 8stanno facendo. Credo di poter dire che alcune regioni hanno veramente normato bene; vi sono riconosciute tre tipologie: la casa famiglia per minori, la casa famiglia multiutenza, che è il nostro modello di accoglienza, in cui accogliamo sia minori che adulti che vivono insieme ai nostri figli (sia soggetti «normali» che soggetti svantaggiati, perché questa è la nostra ricchezza, il modello di famiglia). Non si tratta di mettere insieme 6 adolescenti o 6 ragazzi stranieri richiedenti asilo, ma è il modello familiare allargato, in cui ci sono la coppia stabile, i figli naturali che diventano soggetto educativo e formativo insieme alle persone accolte.
  Esiste già una normativa in tal senso, però è a macchia di leopardo, per cui in alcune realtà si fa fatica a riconoscere i vari modelli. Le legge andrebbe quindi modificata andando a dire con una prima, grande scansione cosa è familiare e cosa non è familiare. Questo è fondamentale.

  ANTONELLA PERRICELLI, responsabile del servizio legale della Comunità Papa Giovanni XXIII. Ovviamente, il decreto ministeriale n. 308 ha già stabilito che ogni regione deve indicare i requisiti per ottenere l'autorizzazione per i successivi controlli, quindi è già stabilito, regione per regione, su quali elementi si basi l'autorizzazione; va benissimo che questo sia stabilito a livello regionale (quindi titoli, formazione, numero delle accoglienze). A noi premeva, però, questa differenziazione e abbiamo individuato comunità familiari, case famiglia multiutenza e comunità educative. Nelle comunità familiari c’è una coppia, non necessariamente due coniugi, ma comunque una figura maschile e femminile per l'accoglienza di minori; nella casa famiglia multiutenza c’è una coppia genitoriale e si accolgono sia minori che adulti, nelle comunità educative ci sono operatori che non vi risiedono ma prestano il proprio lavoro. Il problema è individuare a livello nazionale questa differenziazione, per poi stabilire i requisiti a livello regionale.

  MAURIZIO BERGIA, responsabile del servizio politico sociale della Comunità Papa Giovanni XXIII. Aggiungo solo due cose. Il decreto ministeriale n. 308 del 2000 definiva già – le virgole hanno un loro peso – gli standard minimi. Si diceva: «accolgono fino a un massimo di 6 utenti anziani, disabili, minori o adolescenti», ma alcune regioni l'hanno inteso come «e», altre come «o».
  Oggi al sottosegretario Biondelli porremo anche questa questione, perché anche le virgole a volte parlano, nel senso che ad esempio nel nostro modello è una ricchezza che ci siano compresenze di situazioni tra loro diverse, come nella famiglia normale in cui se nasce un bambino disabile non lo mettono certo da un'altra parte.
  È quindi necessario fissare degli standard nazionali, perché il rischio di realtà come le nostre è di trovarci con venti sistemi socioassistenziali diversi, per cui in Umbria sei sperimentale, in un'altra regione non esisti, nell'altra hai fatto lo sperimentale per vent'anni come in Piemonte e oggi hai una buona normativa: capite che diventa problematico !
  Ci immaginiamo un quadro di regole nazionali e poi le singole regioni si occuperanno di alcuni aspetti. L'Emilia, ad esempio, ha lanciato la figura dell'adulto accogliente; in Piemonte abbiamo un corso di formazione; ci possono essere delle sottolineature sulle Regioni, però occorre un quadro nazionale, altrimenti diventa difficile.
  Una cosa che ribadiamo sempre per evitare quelle segnalazioni che spesso arrivano, consiste nel dare garanzia e fare riferimento all'ente gestore; una volta un parlamentare con cui parlavo alla Camera mi disse che l'indomani mattina due disoccupati avrebbero potuto decidere di mettere su una casa famiglia per sbarcare il lunario. Noi, quindi, proponiamo un riferimento a un ente gestore individuato, conosciuto sul territorio, con un rappresentante legale, un responsabile, per cui sia tutto tracciabile.
  Quando in Piemonte abbiamo adottato la normativa, ci hanno passato al setaccio, a partire dalla magistratura minorile in udienza con i servizi dei territori, ma è Pag. 9giusto così perché noi dobbiamo essere trasparenti, per cui siamo molto favorevoli a questo.
  Chiudo dicendo che questa cosa, se è vera per i bambini normodotati, lo è doppiamente per i bambini disabili, nel senso che non è possibile pensare che esistano le RSA per minori di 2, 3 o 4 anni con gravi disabilità; vi possiamo anche dire che nella nostra comunità abbiamo moltissime famiglie disponibili ad accogliere anche bambini disabili gravi, con un costo per lo Stato tre volte inferiore a quello della RSA. Hanno però bisogno di formazione, di essere sostenute e di essere anche riconosciute, perché una famiglia può decidere di diventare casa famiglia in una regione in cui manca la normativa. Anche l'accoglienza di bambini disabili gravi in famiglia è possibile e noi abbiamo molti casi di famiglie che accolgono bambini con gravissime disabilità, che fanno il loro percorso naturale all'interno di una struttura di tipo familiare.
  Consideriamo quindi importante questo equilibrio: un quadro nazionale di riferimento e poi lasciare alle Regioni alcuni aspetti, però un quadro nazionale altrimenti rischiamo di essere snaturati, perché da una parte ci siamo, da un'altra siamo sperimentali, in un'altra non esistiamo.

  PRESIDENTE. Prego, onorevole Zampa...

  SANDRA ZAMPA. Grazie, presidente, mi scuso perché purtroppo sta per iniziare un seminario in cui avrei dovuto portare il saluto e poi devo andare a votare in aula poco dopo, perciò, o intervengo ora o non mi faccio proprio vedere. Vi ringrazio molto del contributo. Come ha già detto la presidente, questo è un tema sul quale rifletteremo e che ritengo molto delicato. Penso che sia venuto il momento di fare valutazioni insieme, perciò grazie per essere qui e per il contributo anche appassionato nelle parole e il testo utile per una nostra riflessione. Vi saluto e vi do appuntamento a presto, perché penso che ci dovremo rivedere nell'ambito di un'indagine conoscitiva che oggi la presidente ha annunciato su questo tema complessivamente.

  PRESIDENTE. Vi ringrazio, abbiamo sempre purtroppo il problema di incastrare i nostri orari con quelli delle aule parlamentari, ma vorrei chiederle soltanto un'ultima cosa.
  Se ho capito bene, l'impostazione che voi suggerite è di lasciare alle regioni l'attuazione di quelle che sono norme di principio a livello statale, che quindi superino lo spontaneismo e le diverse realtà a livello regionale. Vi pongo però una domanda ulteriore sulla base di tante storie che abbiamo visto in quest'ultimo anno in questa Commissione: il controllo chi lo esercita ?
  Laddove avete giustamente ricordato come ogni regione abbia individuato le sue linee-guida, facendo finta che tutte le regioni – non è vero perché purtroppo non sono tutte – abbiano dato delle loro linee-guida e stabilito dei parametri, il secondo passo è ancora più delicato: chi controlla che le varie case famiglia si attengano a questi parametri e non vi si siano magari attenute solo al momento dell'apertura ? Questo per esperienza ci preoccupa molto.

  VALTER MARTINI, responsabile del servizio affidamento della Comunità Papa Giovanni XXIII. Rispondo telegraficamente: l'obiettivo che vi proponiamo è fare un salto in avanti sulla legge n. 184. La nostra preoccupazione è che tanti bambini abbiano una famiglia.
  Se però andiamo avanti così, il dato delle comunità aumenta e diminuisce l'affido. Facciamo un salto in più per dare a tutti i bambini una famiglia, questo è il primo obiettivo.
  Nelle case famiglia abbiamo già tre o quattro livelli di controllo: tutte le case che sono autorizzate (accreditate in Piemonte e in Veneto) sono sottoposte alla vigilanza dell'ASL, per cui la Commissione di vigilanza viene, l'Ufficio di igiene viene, viene l'assistente sociale a verificare i ragazzi inseriti, infine, l'ASL effettua controlli regolari.Pag. 10
  Secondo livello di controllo: la procura della Repubblica per i minorenni, in base alla n. 184, ha la possibilità di fare vigilanza e controllo in qualsiasi momento per verificare lo stato di minori in eventuale stato di abbandono inseriti nelle strutture.
  Se poi alcune procure lo fanno e altre no, questo è un problema delle procure, ma la norma già lo prevede. In extrema ratio, anche i NAS vengono a fare i controlli, quindi c’è già un livello importante di controllo sulle attività che noi facciamo in tutte le case famiglia.

  MAURIZIO BERGIA, responsabile del servizio politico sociale della Comunità Papa Giovanni XXIII. Aggiungo un'altra cosa: oggi, tornando in treno, scriverò le relazioni per il tribunale per i minori, perché chi accoglie dei minori deve semestralmente relazionare al tribunale dei minori. Poi ci sono i servizi invianti, perché una cosa che non abbiamo detto è che le nostre case famiglia, se i servizi non ci mandassero le persone perché ci conoscono, sarebbero vuote.
  Il controllo lo fa il servizio inviante, che tra l'altro ha la responsabilità sull'inserimento, quindi l'assistente sociale del Comune, del consorzio, dell'ente deputato ha la titolarità sull'inserimento del progetto del minore; quindi c’è una responsabilità nostra e poi anche dei servizi, ma questa ce l'hanno anche quando li inseriscono nelle comunità educative o inseriscono un bambino disabile grave in una RSA in cui rimane parcheggiato per anni, ovvero quando un bambino rimane un anno e mezzo in ospedale perché non si attivano le procedure per metterlo in famiglia. La responsabilità sul minore c’è sempre, in questo caso la filiera è quella descritta da Valter.

  VALTER MARTINI, responsabile del servizio affidamento della Comunità Papa Giovanni XXIII. Noi siamo favorevoli ai controlli; ho visto che lei ha proposto un'indagine sulla vigilanza nelle case famiglia. Qui va distinto: l'indagine deve essere fatta su tutto (sulla comunità, sulle case famiglia), però chiamandole per nome. Questo è l'elemento importante.

  PRESIDENTE. Prego, senatrice Cardinali...

  VALERIA CARDINALI. Solo un minuto, perché mi hanno chiamato per andare a votare in Commissione; purtroppo abbiamo troppo poco tempo per un tema così importante, che va affrontato con la massima attenzione. Ho lavorato per oltre 25 anni in psichiatria con la cooperazione sociale e quindi, sul tema dei minori, conosco abbastanza questa realtà. Intanto farei attenzione, perché non si parte da zero: adesso nelle regioni il controllo si fa, si lavora con il tribunale dei minori, con le procure, c’è il tema dell'accreditamento. Nella mia regione, l'Umbria, si sono posti dei paletti molto seri sul tema dell'accreditamento, che vanno dai criteri strutturali ai criteri legati alla formazione.
  Sono molto preoccupata perché, pur condividendo l'obiettivo che ci accomuna di dare una dimensione di famiglia a questi minori; dobbiamo fare attenzione perché, al di là delle modifiche che proponete, dico subito che non condivido in toto l'impostazione: ognuno fa il suo percorso.
  Farei grande attenzione alla dimensione della professionalità di chi opera in queste case famiglia e strutture educative, perché purtroppo, spesso, si lavora per compartimenti e questo riguarda tutto il lavoro con i minori. Dico ciò anche per quanto riguarda gli asili e le scuole d'infanzia pubbliche e private: per i percorsi di formazione quanto più possibile condivisi dovremmo fare in modo che la formazione possa essere congiunta tra la famiglia che mette a disposizione e l'operatore che lavora nella cooperativa e nel privato sociale e mette in campo una professionalità.
  Su questo farei grande attenzione perché, in entrambi i casi, indifferentemente, ogni tanto c’è qualche improvvisazione di troppo. Dico ciò in maniera brutale ma per capirci: non basta avere la buona volontà, uno spazio disponibile e una dimensione familiare accogliente, ma, come Pag. 11diceva giustamente lei all'inizio, ci vogliono altre caratteristiche, dimensioni e professionalità.
  Su questi deve essere effettuato un controllo molto più serio, perché, posto che l'obiettivo ci accomuna, non qualunque mezzo è lecito, quindi sulla formazione starei attenta. La stessa cosa è accaduta in psichiatria: la legge-quadro stabiliva con chiarezza le caratteristiche delle strutture e le andava a definire in base al livello di protezione, poi anche per necessità, anziché adeguare l'offerta alla domanda, si è fatto il contrario. C'era una domanda e l'offerta si è adeguata, ma alla fine, con questa commistione, i confini di una struttura rispetto all'altra sono diventati davvero confusi. La stessa cosa è accaduta qui, quindi, rimettere in fila il sistema è assolutamente opportuno, con un approccio diverso, evitando di partire da ciò che abbiamo a disposizione e, sulla base di questo, dando una risposta ai bisogni, bensì, al contrario, partendo dall'analisi di un bisogno per trovare risposte all'offerta più adeguata.
  È lì che si è creata, a mio avviso, la confusione: bisogna dare risposte, però non tutti sono qualificati a darle, quindi, a volte si rischia, pur con tutta la buona volontà, di fare di danni. Non partiamo da zero, andiamo avanti con l'indagine, verificheremo le modifiche, ma tenevo a dire che bisogna ridare linearità al percorso.

  PRESIDENTE. Nel ringraziare i nostri ospiti, ai quali diamo appuntamento per una seconda audizione nell'indagine conoscitiva che ci apprestiamo a cominciare e ai quali facciamo i complimenti per la loro attività, dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 15.

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