XVII Legislatura

Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza

Resoconto stenografico



Seduta n. 9 di Martedì 26 gennaio 2016

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Blundo Rosetta Enza , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SUI MINORI FUORI FAMIGLIA

Audizione di Fabio Gerosa, Direttore della Consulta diocesana in favore dei minori e delle famiglie ONLUS di Genova, e di Matteo Zappa, Responsabile minori Caritas ambrosiana di Milano.
Blundo Rosetta Enza , Presidente ... 3 ,
Zappa Matteo , responsabile minori Caritas ambrosiana di Milano ... 3 ,
Blundo Rosetta Enza , Presidente ... 7 ,
Gerosa Fabio , direttore della Consulta diocesana in favore dei minori e delle famiglie ONLUS di Genova ... 7 ,
Blundo Rosetta Enza , Presidente ... 13 ,
Silvestro Annalisa  ... 13 ,
Gerosa Fabio , direttore della Consulta diocesana in favore dei minori e delle famiglie ONLUS di Genova ... 13 ,
Zappa Matteo , responsabile minori Caritas ambrosiana di Milano ... 14 ,
Blundo Rosetta Enza , Presidente ... 14 ,
Zappa Matteo , responsabile minori Caritas ambrosiana di Milano ... 15 ,
Gerosa Fabio , direttore della Consulta diocesana in favore dei minori e delle famiglie ONLUS di Genova ... 16 ,
Blundo Rosetta Enza , Presidente ... 16 

Allegato 1: Documentazione presentata da Fabio Gerosa ... 17 

Allegato 2: Documentazione presentata da Matteo Zappa ... 31

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DELLA VICEPRESIDENTE
ROSETTA ENZA BLUNDO

  La seduta comincia alle 13.20

  (La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso.

(Così rimane stabilito)

Audizione di Fabio Gerosa, Direttore della Consulta diocesana in favore dei minori e delle famiglie ONLUS di Genova, e di Matteo Zappa, Responsabile minori Caritas ambrosiana di Milano.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sui minori fuori famiglia, l'audizione di Fabio Gerosa, direttore della Consulta diocesana in favore dei minori e delle famiglie ONLUS di Genova, e di Matteo Zappa, responsabile minori Caritas ambrosiana di Milano, ai quali diamo il benvenuto.
  Do, quindi, la parola al dottor Matteo Zappa.

  MATTEO ZAPPA, responsabile minori Caritas ambrosiana di Milano. Buongiorno a tutti. Grazie dell'invito. La riflessione che farò parte dall'Osservatorio di Caritas ambrosiana, la più ampia diocesi della regione, che copre anche alcune province lombarde, e dal lavoro che si fa sul territorio dell'area metropolitana milanese sia a contatto con le famiglie e i minori all'interno delle comunità, sia nell'ambito di alcuni servizi specifici che si occupano di fragilità della famiglia e in molti casi anche di adolescenti allontanati.
  Faccio questa sottolineatura perché, dagli anni di lavoro e dalle esperienze che portiamo avanti, è interessante leggere questo fenomeno come un continuum: non si può parlare di minori fuori famiglia senza una riflessione più ampia sul tema della famiglia e su quello dei minori, a prescindere dalla condizione di allontanamento. Infatti, credo che dovremmo ragionare proprio su come oggi, effettivamente, parlare di minori allontanati o fuori famiglia significhi considerare tutte le cause, le circostanze e anche le cornici che molto spesso determinano l’extrema ratio dell'allontanamento.
  Un primo dato che emerge dal lavoro territoriale è che a volte ci sia quasi una sorta di disconnessione tra i ragionamenti sul tema dei minori allontanati (le comunità, l'istituto dell'affido e così via) e la politica sociale ordinaria. Credo, invece, che le politiche familiari siano un primo punto di partenza per ragionare sul tema dei minori fuori famiglia. Dico questo perché è ancora significativa la frammentarietà – in alcuni casi si potrebbe dire l'assenza – di un adeguato sistema di politiche che permettano alle famiglie più fragili e negligenti di essere accompagnate preventivamente rispetto al percorso di cura e di responsabilità nei confronti dei loro figli.
  Credo, dunque, che sia ancora debole la capacità della comunità nel suo insieme di identificare situazioni di fragilità o anche di palese maltrattamento o di violenza, per provare a capire come intervenire con azioni di politica economica, di carattere sociale, Pag. 4psicologico e pedagogico, mettendo insieme competenze, sistemi e servizi per concorrere a supportare, là dove possibile, le famiglie rispetto al mantenimento, al loro interno, dei propri figli.
  Questo presupposto nasce dal fatto che molto spesso nei servizi che abbiamo sul territorio notiamo una sorta di multiproblematicità, cioè di stratificazione di problematiche che portano le famiglie più fragili in un circuito negativo in cui i bambini rischiano di essere i soggetti più deboli, vittime di sistemi carenti che sostengano la famiglia nel suo insieme.
  In questo senso, penso che un tema molto importante e urgente sia quello delle risorse. Molto spesso alcune politiche di intervento fanno i conti con una discrezionalità di investimento da parte degli enti locali, che, però, spesso non è dettata da una buona o cattiva volontà, quanto dall'impossibilità di avere a disposizione risorse adeguate per supportare, da un punto di vista dell'accompagnamento, le famiglie fragili.
  Il problema delle risorse è importante, perché anche a livello costituzionale è riconosciuta la necessità di colmare le distanze che affaticano molte famiglie nell'esprimere appieno le proprie capacità di responsabilità e di cura, distanze che sono determinate da tanti fattori. Per esempio, può esserci una madre fragile che incontriamo in un servizio in cui ci chiede di supportarla per necessità quotidiane di tipo economico, ma poi si scopre che è fragile a livello psicologico perché fa fatica a reggere il rapporto con il proprio figlio; poi, magari si capisce anche che ha un rapporto conflittuale con un padre assente, quindi con un marito che non c'è, ed è anche sola all'interno della comunità in cui vive. Ecco, questo problema, che rischia di essere, nel tempo, una dimensione che porta a un allontanamento, andrebbe colto in quel frangente in termini preventivi, con delle professionalità che, una accanto all'altra, possano intervenire sul nucleo nel suo insieme.
  In Italia ci sono delle sperimentazioni interessanti, come di recente il progetto Pippi (Programma di intervento per la prevenzione dell'istituzionalizzazione), ma anche politiche e progetti locali che cercano di intervenire con una logica di prevenzione. Tuttavia, esse non diventano sistemiche, cioè non riescono a far sistema, essendo lasciate molto all'intuizione, alla buona volontà e alla competenza di singoli dirigenti in rapporto con operatori sociali e con realtà del terzo settore.
  Credo, quindi, che la questione delle risorse sia importante perché, anche là dove la situazione porta a un allontanamento, è ancora molto debole l'investimento sull'accompagnamento alla famiglia per valutare una reale possibilità di rientro del minore. Per esempio, in questi anni assistiamo a un sistema ormai forte e qualificato di accoglienza del minore, ma abbiamo dei sistemi ancora deboli di accompagnamento della famiglia a cui il minore è tolto, seppur provvisoriamente, per capire se delle competenze genitoriali residuali sono supportabili al fine di un rientro in famiglia.
  Insomma, se si è sviluppata molto una cultura di lavoro con i minori allontanati, spesso anche estremamente positiva, non è facile avere risorse adeguate da investire su un accompagnamento di tipo anche educativo, non solo sociale e psicologico. Insomma, si tratta di avere delle forme di affiancamento delle famiglie più fragili affinché chi può possa capire chi ha le competenze per immaginare la possibilità di un rientro.
  Questo determina una visione di allontanamento dei minori che, come i nostri istituti prevedono, sia realmente temporaneo. Tuttavia, dai dati che abbiamo in nostro possesso molto spesso non è così. È molto importante sottolineare che non tutte le famiglie ce la fanno: molte non sono il luogo adatto per la crescita del proprio figlio, ma per molte altre, invece, ritengo che ci sia un investimento ancora insufficiente.
  C'è un altro punto importante da sottolineare rispetto al tema delle politiche. È molto interessante immaginare quello sui minori fuori famiglia come un lavoro che sempre di più richiede l'integrazione di professionalità e di servizi, ma anche della comunità informale, cioè delle nostre comunità Pag. 5 di vita e delle famiglie che vivono i territori.
  Oggi è importante immaginare un welfare che integri le diverse competenze specialistiche con la cultura di accoglienza all'interno delle comunità di vita delle persone. Ormai è un dato di fatto che diversi operatori sociali iniziano a lavorare a visioni più comunitarie di welfare, fondate meno sulle prestazioni e più sulle relazioni. Tuttavia, è anche importante sottolineare che, affinché questo avvenga, la comunità informale, cioè le famiglie e i territori, possono diventare risorsa per le famiglie più fragili e per i loro figli, là dove si investe anche su politiche legate al tema della relazionalità, della conciliazione e della socialità.
  Noi da anni, in Caritas ambrosiana, abbiamo uno sportello che si occupa di affido familiare. Il problema, però, è che i numeri dell'affido rimangono scarsi, anche perché sentiamo una resistenza e una paura da parte delle famiglie ad aprirsi a questo istituto. C'è una mancanza di fiducia come clima culturale generale, ma a volte anche l'impossibilità di conciliare l'accoglienza di un figlio in casa propria, a fronte di tempi di vita e di relazioni sociali molto frammentati.
  Una famiglia che fa affido da sola si espone ad una fragilità. Invece, l'idea di una famiglia inserita in un contesto relazionale forte, sostenuta da politiche che le permettono di farlo con una rete di supporto, potrebbe aumentare il numero di famiglie disponibili ad aprirsi a questo istituto.
  Credo che l'affido in famiglia non sia per tutti i ragazzi e per tutti i minori. Sicuramente per alcuni è più adatta un'altra struttura. Tuttavia, c'è un dato rispetto all'affido che è determinante, nel senso che c'è una chiusura culturale che porta a far sì che il numero delle famiglie siano ancora insufficienti per il numero di minori dichiarati affidabili.
  Noi tentiamo di fare un lavoro di promozione dell'affido nelle parrocchie, nelle scuole e sul territorio, ma vediamo che c'è molta paura e molta resistenza. Credo, quindi, che serva una riflessione politica per capire come ci possano essere risorse per promuovere nei territori iniziative di socialità e di relazionalità, con un rapporto tra ente pubblico e soggetti del privato sociale e della società civile che lavori sulla dimensione delle reti di mutualità e di prossimità tra le famiglie, che diventano così luoghi e bacini positivi per poter raccogliere i minori più in difficoltà.
  Come dicevo, il tema è quello dell'affido non come un istituto esclusivo. Credo, infatti, che sia importante ribadire – come dicono alcuni documenti promossi di recente anche dal Parlamento – il principio di appropriatezza. Mi verrebbe da dire «un progetto per ogni bambino».
  È importante evitare delle categorizzazioni rispetto ai servizi di accoglienza. Centrare l'attenzione su ogni bambino e sul bisogno di cure suo e della sua famiglia vuol dire avere anche un po’ di fantasia e di coraggio nell'intraprendere delle soluzioni che siano veramente diversificate, capaci di andare incontro a quella specifica storia di vita, riuscendo a garantire la scelta della comunità, dell'affido o di un accompagnamento di un certo tipo per i genitori, oppure prevedere un rientro o ancora immaginare forme di accompagnamento diurne e leggere che oggi esistono, proprio per partire da quello specifico bisogno.
  Per esempio, penso all'affido parziale, ma anche a dei progetti che non possono essere solo di intervento. Durante un affido è importante capire cosa fare con quei genitori, cioè se è possibile accompagnare la famiglia. Si tratta di riuscire a confezionare un progetto individualizzato per ogni famiglia, cosa che viene fatta grazie alla collaborazione virtuosa che può nascere dall'assistenza sociale, dal terzo settore e dai soggetti gestori del territorio, con un coinvolgimento dei bambini, dei ragazzi e delle loro famiglie come attori protagonisti di questo progetto, non come coloro che lo subiscono, in modo che concorrano a costruirlo insieme agli operatori dei servizi pubblici.
  Nella realtà milanese assisto a esperienze di successo o comunque molto positive, ma – ripeto – queste prassi faticano a diventare sistema. Troppo è ancora lasciato Pag. 6 alla discrezionalità dei singoli operatori e dei singoli territori. Occorre, dunque, capire come, anche a livello nazionale, alcune pratiche e alcuni criteri possano diventare orientanti e forse anche vincolanti rispetto al lavoro locale.
  Mi rendo conto che con la riforma del Titolo V e con le autonomie c'è una difficoltà a trovare un equilibrio tra orientamenti comuni, vincoli o criteri da applicare in tutto il territorio nazionale e la discrezionalità che si può applicare in ogni singola regione o comune. Trovare un sistema di questo tipo sarebbe, però, importante e penso che la riflessione sui livelli essenziali di assistenza per i minori potrebbe quantomeno aiutare ad andare in questa direzione.
  Rispetto al tema dei minori fuori famiglia ci tengo a sottolineare altri due aspetti. Un primo tema che dal nostro osservatorio emerge come abbastanza importante è quello della fragilità psicologica dei ragazzi. È aumentata in modo rilevante, sia nei servizi diurni che portiamo avanti in extrascuola, sia tra i minori accolti, una forte sofferenza di tipo psicologico e un'incapacità del sistema pubblico delle ASL e delle UONPIA (Unità operativa di neuropsichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza) di rispondere adeguatamente a questo tipo di bisogno.
  A volte le comunità e i servizi territoriali si attrezzano per rispondere in termini anche psicoterapici, quando il pubblico dà tempi di attesa molto lunghi. Allora, occorre trovare un modo per prevenire questa sofferenza psicologica, ma anche per investire sul tema delle comunità terapeutiche e sugli accompagnamenti terapeutici per chi accoglie anche nelle comunità educative, riconoscendo – lo sottolineo – anche economicamente il valore e le professionalità necessarie per accompagnare questi ragazzi e favorendo (credo che su questo la politica potrebbe incidere molto) quella reale integrazione sociosanitaria che in molti territori sta prendendo timidamente forma nello sdoganare l'idea che l'accompagnamento psicoterapico di questi minori è un diritto da esigere non con 8-9 mesi di attesa, ma con una tempistica adeguata al bisogno che si presenta.
  L'altra piccola sottolineatura riguarda il tema dell'accompagnamento psicologico dei bambini adottati. Noi a Milano stiamo lavorando in rete con alcune associazioni che si occupano di adozione e ci rendiamo conto che la fragilità psicologica dei ragazzi e le fatiche delle famiglie nell'esercitare la propria genitorialità – penso soprattutto alle adozioni nazionali di ragazzi più grandi – non trovano un servizio che garantisca gratuitamente un supporto di lungo termine rispetto alle fragilità psicologiche.
  Dopo le adozioni c'è un tempo di tutela e di cura, ma nel tempo – soprattutto quando i ragazzi diventano adolescenti o giovani – molto spesso le famiglie devono farsi accompagnare come nucleo o fare accompagnare il proprio figlio privatamente, esponendosi anche a dei costi poco sostenibili. Allora, se questo istituto dell'adozione nazionale, che oggi chiede di accogliere ragazzi più grandi e spesso con delle forti sofferenze alle loro spalle, vuole essere favorito e promosso, una famiglia deve sentirsi garantita da un sistema di servizi che nel tempo le possa fornire dei sistemi di accompagnamento e di cura, altrimenti resta sola ad affrontare quello che emerge imprevedibilmente dai percorsi di vita di questi ragazzi.
  Chiudo con un ultimo punto che riguarda il tema degli adolescenti. Nel documento che vi ho consegnato ho voluto chiamarlo «Gli adolescenti e gli adolescenti soli» perché molto spesso si parla di minori non accompagnati, ma credo che il problema sia più ampio e coinvolga gli adolescenti che, per loro sfortuna, vivono nel nostro Paese da soli.
  Allora, credo che su questo punto le questioni siano principalmente tre. La prima, necessaria anche per l'applicazione della Convenzione di New York, è che, a mio avviso, tutti i minorenni vanno trattati come tali. Quindi, è importante garantire un sistema di tutela a questi ragazzi che sia pensato in quello più generale di tutela di protezione dei minori. Credo che recentemente nel nostro Paese siano state fatte delle scelte molto dedicate, per cui è importante Pag. 7 che vengano osservate con molta attenzione, proprio perché è vero che sono di origine straniera, ma è anche vero che hanno il pieno diritto ad avere un'accoglienza adatta alla loro età.
  In alcuni casi è richiesta una specializzazione di accompagnamento e di percorsi che valuti anche le loro storie di vita, diverse da quelle dei ragazzi che sono stati allontanati dalla propria famiglia in Italia, e che in termini di investimento economico deve, comunque, essere garantita al pari, se non – mi verrebbe da dire provocatoriamente – di più, perché accompagnare gli adolescenti fuori famiglia vuol dire anche occuparsi della casa in cui andranno a vivere, del lavoro che dovranno fare e dei sistemi di rete che troveranno quando, a 18 anni e un giorno, non saranno più protetti in quanto minorenni.
  Ecco, forse questo tema richiede effettivamente che si ragioni sugli adolescenti in generale e su delle passerelle di progettualità che permettano di aiutarli a diventare grandi. Penso spesso ai nostri figli non in comunità e mi chiedo se a 18 anni e un giorno sarebbero in grado di affrontare in autonomia la vita che hanno di fronte.
  Per un ragazzo che ha vissuto un percorso di migrazione o è cresciuto in un percorso comunitario, è necessario immaginare un sistema di cura che vada ben oltre la parte educativa della comunità, ma gli dia una rete di opportunità che lo sostenga anche dopo.
  In questo contesto, la cosa importante è – ripeto – evitare la categorizzazione. Sicuramente i minori stranieri non accompagnati hanno delle esigenze particolari dal punto di vista sanitario, di mediazione culturale e di bisogno linguistico, ma per quanto riguarda gli altri accompagnamenti da offrire ognuno è diverso da un altro.
  Ogni ragazzo, che sia solo o non accompagnato, che sia nato in Italia o no, ha bisogno, per quel principio di appropriatezza di cui parlavo prima, di un progetto ad hoc. Quindi, tutti i sistemi di risposta che si possono attivare devono partire non tanto dalla categoria, quanto dalla capacità di attenzione al singolo minorenne per quello che chiede.
  Ecco, chiudo, anche se le cose da dire su questo tema sarebbero tantissime, evidenziando che, politicamente – lo dico da operatore sociale e da chi lavora in contatto con queste realtà – a volte bisogna avere un po’ di coraggio su interventi di medio termine.
  Infatti, i tipi di interventi che rendono più strutturale un investimento sull'infanzia non hanno una risposta nell'immediatezza, ma hanno effetti nel futuro. Considerare i bambini e i ragazzi un bene comune da proteggere a volte vuol dire fare delle politiche strutturali e attivare dei processi che non danno una risposta a breve, ma a lungo termine, rimettendo al centro dell'agenda politica questa tematica. Ciò vuol dire, appunto, che occorrono politiche, servizi e strutture, ma soprattutto risorse per l'infanzia, che nel nostro Paese, percentualmente rispetto ad altri Paesi europei, sono ancora troppo basse.
  Grazie dell'attenzione.

  PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Zappa per queste sollecitazioni molto utili, che anche noi condividiamo, come Commissione. Infatti, abbiamo rilevato più volte l'esigenza di occuparci preventivamente del problema, affrontandolo con delle politiche familiari serie prima che degeneri. La ringrazio, inoltre, anche per la sollecitazione all'attenzione al caso singolo e al rispetto di tutti in questa cura.
  Do ora la parola al dottor Fabio Gerosa, a cui seguiranno le eventuali domande dei colleghi, se vorranno porle.

  FABIO GEROSA, direttore della Consulta diocesana in favore dei minori e delle famiglie ONLUS di Genova. Innanzitutto, vi ringrazio dell'invito e della possibilità, per me e la mia associazione, di esporre le nostre riflessioni in questo campo che ci vede impegnati da quarant'anni nel territorio della Liguria, a Genova in particolare.
  Le nostre case di accoglienza e i nostri soci vivono, però, sul territorio di Genova da ben oltre quarant'anni. Abbiamo, infatti, delle realtà che si interessano di minori da più di un secolo, quindi sono radicate nel territorio di Genova e sono delle sentinelle nel territorio. Pag. 8
  Nella prima slide vi diciamo quali sono i nostri servizi che sono circa 40. La maggior parte sono piccole comunità residenziali nate dopo la chiusura degli istituti (anzi, a dire la verità spesso ben prima). Sono molto piccole nel senso che accolgono, in casi eccezionali, 10 minori, ma molto più spesso ne accolgono tra i 6 e gli 8. Ecco, questa è la media delle nostre comunità.
  Oltre a queste comunità residenziali abbiamo altri servizi. Abbiamo delle comunità di ciclo diurno, su cui spenderò qualche parola più avanti, delle comunità che accolgono i bambini insieme alle loro mamme in varie forme, dei centri diurni, degli alloggi protetti, dei servizi di avvio al lavoro, come la cooperativa delle attività agricolo-sociali.
  Inoltre, da diversi anni abbiamo un'associazione che per noi è molto preziosa, formata da alcuni ragazzi maggiorenni che, usciti dai percorsi comunitari, hanno deciso insieme a noi di creare una sorta di associazione per l'auto mutuo aiuto e anche per il sostegno dei ragazzi che sono ancora in comunità e che, uscendo, potrebbero avere un aiuto o una compagnia dai loro amici.
  Li chiamiamo «ragazzi resilienti»; anzi, a dire la verità, loro stessi si chiamano così. È un'associazione molto importante, gestita dai ragazzi, che utilizziamo molto anche per i percorsi di accompagnamento.
  Chi sono le persone accolte? Nelle nostre comunità – lo vedete nella slide successiva – abbiamo circa 280 persone, tra i minori e le mamme, che hanno la segnalazione del decreto del Tribunale, quindi sono sottoposti a tutela, e, a vari gradienti, sono stati intercettati dal territorio in base ai livelli di abbandono, trascuratezza e abuso. Quindi, sono tutti casi molto importanti.
  Come vedete, abbiamo anche degli asili nido, ma per noi vuol dire asili nido di fasce deboli, quindi si tratta comunque di accoglienze, che hanno certamente un taglio educativo, ma anche sostanzialmente sociale, educativo, territoriale e così via.
  Questo è il nucleo importante. Vi faccio notare – questa è una fotografia del settembre 2015 – che abbiamo 7 bambini sotto i 6 anni. Si tratta prevalentemente di neonati o di bimbi nella fascia dei 4 anni di età. Sono bambini – nel caso, appunto, di neonati – per i quali i percorsi di adozione sono bloccati da insorgenze di malattie o presunte infezioni da HIV che impediscono un'adozione immediata oppure addirittura da opposizioni da parte dei genitori al decreto del tribunale, per cui in questa età delicatissima vengono accolti nelle nostre piccole strutture, che, tra l'altro, sono le uniche della Liguria, del basso Piemonte e dell'alta Toscana. Offriamo, dunque, servizi al tribunale per i minorenni che vengono utilizzati non solo della Liguria, ma anche da altre regioni.
  In questi lunghi anni di esperienza, abbiamo visto che il nostro mondo di accoglienza è diventato sempre più residuale. Nella filosofia, non nell'agire, siamo diventati come gli ospedali. Se una volta per un'appendicite c'era un ricovero di una settimana, adesso si fa in day hospital. Questo è quello che è successo ai bambini e ai minori in questi lunghi anni di esperienza. Adesso l'accoglienza nelle nostre comunità è dedicata a bambini che hanno alle loro spalle delle tragedie familiari, delle situazioni gravi, mentre l'appendicite – per fare una metafora o un'analogia sociale – non viene più inviata in comunità per tante ragioni, la maggior parte delle quali valide.
  Non ultima, forse, vi è una ragione che riprenderemo più avanti, vale a dire una certa incapacità del territorio di intercettare tali necessità, per cui a volte ci sono bambini che, invece, ne avrebbero la necessità, ma non c'è la sentinella del territorio che intercetta un grave maltrattamento o addirittura un abuso, quindi la situazione rimane chiusa, non conosciuta oppure conosciuta in un'età molto poco più avanzata.
  È chiaro, dunque, che l'accoglienza di questi bambini richiede non un'educazione generica, ma un'attenzione estremamente particolare e specializzata. Quando ci troviamo di fronte a storie di questo tipo, abbiamo davanti «malattie dello spirito» e a sofferenze che in un'età evolutiva sono veramente delicate da trattare. Pag. 9
  Non parlo solamente dei casi importanti di abuso, ma anche di maltrattamento, che ha tantissime sfaccettature e non è solo quello fisico, anzi, spesso la sofferenza dei bambini e delle bambine arriva da maltrattamenti che sono, appunto, di tipo non fisico, per esempio violenza assistita, psicologica e così via.
  Certamente, per noi è esiziale puntare sulla formazione degli educatori e del personale che gira intorno alle case di accoglienza e su altri strumenti di sostegno che cercherò di elencare ai fini del cambiamento o comunque della proposta di un'altra prospettiva rispetto a questi minori.
  Una riflessione che abbiamo fatto in questi ultimi dieci anni, a partire dal 2005, riguarda la messa in crisi del modello attuale di tutela, che, a nostro giudizio, funziona soltanto in alcuni casi. Se rimane soltanto quello, diventa limitativo della tutela dei minori.
  Il modello attuale di tutela è – semplificando – quello di intercettare un grave disagio, separare, con gli strumenti che la normativa consente, quindi con il decreto del tribunale dei minorenni, il minore dalla propria famiglia temporaneamente per collocarlo in una situazione di affido in una famiglia, in una comunità o in una casa famiglia. Un altro pezzo del nostro sistema di tutela è l'assistente sociale, che aiuta la famiglia.
  Ecco, questo sistema, secondo noi, è insufficiente perché ha fatto il suo tempo, pur avendo – ripeto – una sua validità. Se, però, non si portano dei correttivi e degli ampliamenti, questo tipo di tutela funziona male. C'è poco da dire. Molto spesso funziona male. Poi dirò anche il perché.
  Questa è una nostra lettura, dettata dall'esperienza e dalle riflessioni che abbiamo fatto. Per esempio, abbiamo visto – abbiamo un paio di slide su questo – che ci sono situazioni in cui o si fa un'alleanza con la famiglia o il processo di tutela e di recupero fallisce. Abbiamo, quindi, conciliato l'alleanza con la famiglia in un modello che abbiamo chiamato «comunità diurna». Stiamo lavorando da dieci anni su questo modello, che è relativo a famiglie – lo vediamo nella tutela sperimentata dalla Consulta – ovviamente non abusanti o comunque non da «ricovero ospedaliero». Insomma, non è per i casi gravi, là dove la tutela del minore passa da una decisione importante, che è quella di toglierlo da una situazione grave di pericolo.
  Quando sussistono le condizioni per creare un'alleanza per la famiglia, cosa che spesso accade, si può fare altro. Qui c'è la rottura del modello classico di tutela. Questo fare altro significa, infatti, continuare a tutelare il minore in modo importante (alta tutela), ma creando un'alleanza forte con la famiglia da parte di tutti gli attori del sociale.
  Abbiamo lavorato sei anni con questo modello. Siamo riusciti a farlo accreditare con il comune di Genova, per cui adesso le comunità a ciclo diurno – così le ha definite il decreto del comune di Genova – funzionano.
  Vi facciamo vedere dei numeri, che sono solo nostri, però a Genova abbiamo noi la maggior parte delle accoglienze. Ci sono, infatti, sette comunità nostre e solo una che non fa parte della nostra rete, quindi possiamo dire che il dato è molto significativo.
  Rispetto all'esito, abbiamo sette comunità accreditate per 10 posti ognuna, quindi più o meno ci sono tra i 60 e i 70 minori. Secondo le osservazioni degli educatori e degli assistenti sociali, tutti avrebbero dovuto essere separati con il modello classico della tutela, quindi di là il genitore o la famiglia che ne resta e di qua il minore, dunque con separazione, colloqui protetti, tutele e così via. Invece, con un giudizio ponderato tra tribunale, assistente e comunità non si è operata questa separazione netta, ma si è fatto un patto tra famiglia e minore, che coinvolge l'assistente sociale, quindi il mandatario del decreto del tribunale e chi accoglie il minore durante tutto il giorno e, per certi versi, ne assume anche un pezzetto di patria potestà.
  Infatti, come in una comunità residenziale e in un progetto di affido, curiamo la quotidianità del ragazzo, ma questo non comporta il trauma della separazione perché diamo alla famiglia il messaggio che comunque contiamo ancora su di essa. Pag. 10
  Qual è l'esito di dieci anni di lavoro? Chiaramente, non vale fare settanta per dieci, quindi 700 ragazzi, perché alcuni stanno in comunità anche 2-3 anni. Tuttavia, abbiamo un numero notevole di ragazzi e ragazze accolti nelle comunità diurne, tra cui abbiamo una dispersione del 10 per cento. Dunque, su 100 ragazzi, 10 – con un'alleanza con la famiglia, ovvero con un accompagnamento della famiglia stessa – vengono riportati al modello classico, cioè nella cura alta e intensiva o perché il genitore non tiene o perché il percorso di uscita dalla tossicodipendenza si aggrava anziché migliorare o perché vengono scoperte altre cose.
  Tuttavia, anche in questo 10 per cento la separazione è decisamente meno traumatica perché non accade – come televisivamente, a volte, succede di vedere – che si prende il bambino mentre va a scuola, con i Carabinieri e quant'altro, ma è un processo anche di accompagnamento che si fa con la famiglia. Insomma, è una presa di coscienza che piano piano fa anche la famiglia.
  Abbiamo visto come funziona; abbiamo lavorato un anno o forse anche un pochino di più; per cui diciamo al genitore di migliorare il proprio percorso di guarigione, mentre teniamo noi il minore.
  Una cosa che non è certo da poco è che tutto ciò costa molto meno. Il costo sociale si è capito bene, proprio perché il bambino vive molto meno il trauma della separazione, ma ciò vale anche per il costo economico, il che ci permette di poter seguire molti più bambini. Nelle attuali ristrettezze dei comuni, poter seguire non uno, ma due bambini non è poco, perché alcuni comuni sono collassati per l'accoglienza comunitaria magari di tre fratelli. Il loro bilancio non regge e il sindaco – sono cose vissute – va al tribunale per dire che, dato il bilancio del suo comune, se ha tre minori in comunità non ce la fa. A quel punto, si instaura un processo in cui nessuno sa più che cosa fare. Si crea uno stallo. Invece, questa modalità altamente intensiva rispetto alla cura, con un progetto che non prende in carico solo il minore, ma il recupero della famiglia, costa meno, e c'è più possibilità di lavorare.
  Quindi, non dobbiamo solo separare. Direi che il modello che bisognerebbe descrivere e favorire è quello di separare in casi in cui questo è decisivo per la salvezza del minore, ma dove c'è ancora la possibilità di recuperare la famiglia, bisogna operare con un modello diverso che è la presa in carico non classicamente intesa, ma basata su un progetto da fare insieme.
  In questi anni abbiamo visto che le politiche sociali stanno facendo un tentativo – mi spiace dirlo, ma sono tanti anni che, con il collega Matteo, lo vediamo – di collegamento con le politiche sanitarie. Non so, però, dove funzionano. Naturalmente, non ho tutte le informazioni, ma mi confronto abbastanza spesso con i miei colleghi per dire che le politiche sociosanitarie, almeno nel nostro particolare settore, non funzionano. Almeno a Genova e in Liguria fanno una grande fatica a funzionare.
  L'anno scorso per i nostri minori abbiamo speso – mal contati – 30.000 euro per i colloqui psicologici di sostegno, per le psicoterapie e così via. Li abbiamo spesi perché, se provate a mandare un minore, magari abusato, a fare un colloquio di inquadramento diagnostico, ve lo danno dopo 6 mesi o un anno. Quando dico questo sono buono con le ASL perché la maggior parte impiega più di un anno, ma noi non possiamo aspettare, quindi ce ne prendiamo carico.
  Questi ponti devono avere delle altre strumentazioni. Come diceva il mio collega, bisogna che qualcuno dall'alto dica come dobbiamo fare in questi casi. Non è possibile fare altrimenti. Non posso tenere in casa un minore maltrattato o picchiato, con i lividi o che d'inverno va a scuola con la canottiera e i vestiti sporchi. Come immaginate, ha una storia traumatizzante, quindi non possiamo aspettare un anno per avere un inquadramento diagnostico, dopodiché il colloquio non funziona. Ecco, piuttosto, lo facciamo noi.
  Questo non è ancora sufficiente. Occorre dire che chi viene in comunità, ovvero la maggior parte dei nostri ragazzi, ovviamente tranne i bambini, vanno dalla Pag. 11preadolescenza all'adolescenza. Parliamo, quindi, della fascia dai 13 ai 15 anni; per i minori stranieri andiamo addirittura più avanti. Questo allunga la permanenza in comunità fino ai 18 anni. Dopo di che è un dramma, perché la tutela dai 18 ai 21 anni è sparita per questioni economiche, per cui non esiste più la possibilità del prosieguo amministrativo, se non in casi rarissimi, in cui bisogna andare a piangere dai comuni e dal tribunale contemporaneamente. Insomma, è veramente un problema grosso.
  Allora, di fianco alle politiche di integrazione sociosanitaria, è necessario fare un discorso di integrazione delle politiche abitative e del sostegno al lavoro. Per quanto ci riguarda, non lasciamo andare questi ragazzi, ma creiamo un'associazione; ci interessiamo al mercato libero delle abitazioni e cerchiamo di trovare loro un lavoro. Non li lasciamo andare, ma non abbiamo strumenti. Ci rifacciamo alla nostra marea di volontari e alle nostre risorse, ma oso dire che è un grande spreco.
  È un grande spreco che fino a 18 anni l'ente pubblico spenda un bel po’ di soldi per aiutare questi ragazzi, con il rischio che poi tutto vada perduto. Ecco, è una fatica sostenere questo tipo di situazione. Allora, se un ragazzo fino a 18 anni ha avuto questo percorso di vita ed è stato aiutato a uscire dalla sua difficoltà, credo che sia corretto utilizzare la categoria propria della legge n. 149 del 2001, che ci consente di sostituirci, pure in parte, alle funzioni genitoriali. Un genitore a 18 anni non dice al figlio di arrangiarsi. Se dobbiamo sostituirci alle funzioni genitoriali, a 18 anni dobbiamo vedere come aiutare il ragazzo. È possibile che, avendo una casetta, gliela si dia in affitto agevolato? È possibile consentirgli di usufruire di una borsa lavoro? Credo che sia abbastanza semplice.
  Penso, quindi, che ci siano delle cose che vanno connesse. Non dico che sia facile. Forse lo sembra, ma comincio a pensare che sia una cosa complicatissima, anche se ci sono i patrimoni immobiliari dei comuni, spesso con piccoli appartamentini che i nostri volontari metterebbero a posto a costo zero. Sembra, però, una cosa da marziani.
  Sembra facile, ma appena ci approcciamo a queste cose diventa complicato persino far parlare due assessorati, perché non c'è lo strumento normativo che lo dice. Quindi, ci rivolgiamo al mercato privato; andiamo presso le agenzie per cercare un appartamento. Vi sembra una cosa normale? A me non sembra.
  Ovviamente, i nostri ragazzi sono in lista d'attesa per il patrimonio immobiliare pubblico, cioè per gli affitti delle case popolari. A Genova abbiamo un quartiere che si chiama Begato, che non è il massimo della vita, per cui se ci danno una casa lì non ci mandiamo un nostro ragazzo, come non ci mettereste vostro figlio. Dopo aver fatto tanti sforzi, non lo ributtiamo in un quartiere dove si fa fatica. Allora, è importante fare delle connessioni che siano ragionevoli.
  Comprendo le necessità delle politiche abitative, ma se mi danno uno strumento inadeguato a far star bene il ragazzo – cioè mio figlio, perché mi è stato accreditato come funzione genitoriale – io non lo mando in quel posto.
  Non servono solo politiche sociosanitarie, ma è necessario che ci sia qualche direttiva sulle politiche abitative e sulle politiche lavorative. Evidentemente, i nostri ragazzi hanno la necessità di essere tutelati nel lavoro. Nel nostro mondo, come sa benissimo il mio collega Zappa, abbiamo degli strumenti (le cooperative sociali di inserimento lavorativo e così via), ma di fatto rimangono strumenti un po’ caratterizzati. Questo ragazzo o questa ragazza dovrebbe andare a lavorare. Poi, se è fragile o debole, può andare anche in una cooperativa sociale di tipo B, ma se non lo è dovrebbe andare a lavorare.
  Come dicevo, assumendo una funzione genitoriale, pur vicaria o sostitutiva, non posso permettere che un «figlio» – scusate se insisto con questo termine – che sta con me fino a 18 anni il giorno dopo si arrangi nel trovare lavoro. Devo dargli uno strumento per permettergli di uscire da uno stato di aiuto e di assistenza. Pag. 12
  Inoltre, abbiamo visto – mi rivolgo ai colleghi assistenti sociali – che questo modello tradizionale in cui la famiglia viene data in carico all'assistente e il minore all'affido familiare in comunità, risulta molto fragile, anche perché basta vedere i numeri degli assistenti sociali. A volte hanno 40 minori, 50 persone disabili, gli anziani, quindi hanno un carico eccessivo, per cui preferiscono mettere il minore in comunità perché sanno che sono bravi o scelgono di darlo in affido a una famiglia. Dopodiché l'esito è quello che diceva il collega. Di qua ci si sente soli perché ci affidano il minore, ma non vengono neanche a trovarlo, visto che – ripeto – gli operatori del territorio hanno carichi inimmaginabili.
  Ecco, secondo me – lo dico pro domo mea, cioè per quello che è il mio lavoro di questi anni – il carico dei minori deve avere un tetto. Un operatore non può avere 50 minori perché vuol dire che sono fascicoli sulla sua scrivania. Avere un minore in carico vuol dire andare in famiglia o in comunità e dire che la mamma, il papà o la mamma con il compagno o comunque la rete in cui il minore spera di tornare stanno facendo un certo cammino oppure che il tribunale ha fatto un certo decreto per un determinato periodo.
  Non è corretto che questo lo dica solo la comunità o la famiglia. C'è bisogno di un'alleanza tra gli operatori della cura. Se questa non c'è, è un problema. Come fa un assistente a fare tutte queste cose così delicate? Come si fa a dire a una ragazza che il papà è andato in prigione, se ha 50 e forse più fascicoli sul tavolo? Ebbene, non è possibile.
  Allora, è importante che ci sia un tetto; che si dica che si può tutelare solo un certo numero di minori. Non è ragionevole, infatti, seguirne tanti.
  Il mio collega ha già accennato qualcosa sui minori stranieri non accompagnati. Questa è un'urgenza che, naturalmente, abbiamo anche a Genova. Il mese scorso il comune ci ha chiamato per dirci che la prima accoglienza è tutta piena e che non hanno sbocchi per la seconda accoglienza. Hanno 20 ragazzi nell'albergo, il che vuol dire che dormono lì, ma la mattina escono e vanno in giro per la città. Grazie a Dio, l'inverno è clemente, ma non sanno parlare la lingua. Cosa volete che incrocino? Ecco, questo è un problema.
  Condivido, dunque, profondamente il principio per cui questi sono minori. A volte – bisogna dirla tutta – sono maggiorenni che dicono di essere minori, ma mi permetto di dire che non fa niente. Anche se hanno 20 anni e dicono di averne 18, si tratta di persone che arrivano da altri mondi o dalla guerra. Ci saranno anche degli imbroglioni ma per la gran parte di questi ragazzi stiamo rispondendo in un modo che è quasi un disattendere la Convenzione dell'ONU. Siamo veramente vicini alla disattesa di un nostro impegno di tipo politico.
  Su questo, faccio un'osservazione di merito. A Milano – chiedo conferma – si fermano alcuni minori di certe etnie (per esempio, egiziani); a Genova si fermano certi minori di alcune altre etnie (come gli albanesi). Questo vuol dire che questi ragazzi, che passano da Milano e da Genova e non vanno in altre città, con tutta probabilità hanno qualcuno in città. Hanno una rete parentale lontana – loro li chiamano «zii» – o una comunità di riferimento.
  Ciò vuol dire che bisogna investire sul processo di integrazione di questi ragazzi perché saranno cittadini di Genova o di Milano o di un'altra città. È lì che loro, a 18 anni, troveranno lo zio che ha la pizzeria e andranno a lavorarci. Allora, è importante investire sul processo di integrazione di quei minori che si fermano in una delle nostre città, insegnando loro l'italiano e accelerando, insieme al processo scolastico, il loro progetto migratorio di lavoro. Infatti, questi ragazzi arrivano qua, al 99,9 per cento, con un progetto migratorio che riguarda il lavoro. L'obiettivo è guadagnare dei soldi e mandarli a casa.
  Si sono fermati nelle nostre città perché con tutta probabilità hanno degli agganci e vogliono radicarsi. Ragionevolmente, magari non tutti, saranno cittadini di quella città. Occorre, dunque, dare risposta a questo bisogno semplice. Una politica favorevole all'inserimento lavorativo di questi ragazzi, Pag. 13 un'accoglienza diffusa, quindi non concentrata – abbiamo sperimentato, infatti, che questa è rischiosa e pericolosa – e un insegnamento severo della nostra lingua e della nostra cultura sono i tre elementi base che abbiamo sperimentato e che proponiamo al nostro comune per cercare di aiutare questi ragazzi. Vi ringrazio, anche a nome loro.

  PRESIDENTE. Grazie a lei, dottor Gerosa. Siamo veramente contenti della sua relazione che ci ha portato un'esperienza che avete sviluppato nel territorio di Genova. Le voglio, però, dire che in realtà la nostra indagine conoscitiva sui minori fuori famiglia nasce proprio da una presa di coscienza del fatto che il modello attuale non funziona.
  Personalmente, avendo promosso questa indagine conoscitiva, rilevo che molto di quello che lei ha esplicitato è vero. Non esiste, purtroppo, neppure una cura per la famiglia alla quale è stato tolto il minore. Non esiste, di fatto, una richiesta del progetto per la famiglia, ma si verificano solo quelli per il minore.
  Do ora la parola ai colleghi. Anch'io vorrei fare delle domande, ma ci tengo a far parlare prima loro.

  ANNALISA SILVESTRO. Grazie, presidente. Mi scuso, ma ho un'altra Commissione, quindi sarò sinteticissima. Probabilmente rischierò di essere anche troppo semplicistica. Tuttavia, ho ascoltato con molta attenzione e interesse. Sono linee tematiche importanti, su cui – come diceva la presidente – la percezione di un qualcosa che non gira e non funziona è un dato oggettivo.
  C'è una cosa su cui vi chiederei una riflessione. Mi pare di rilevare che da entrambi i relatori si parta da una constatazione di eccessiva balcanizzazione e frammentazione di tutti gli interventi che vengono fatti in questo ambito. Innanzitutto, ogni regione va un po’ per conto suo; nelle regioni diversi comuni si muovono con logiche diverse (bilanci e non bilanci); la relazione tra servizi sanitari e servizi sociali è complessa, difficile e farraginosa.
  Mi permetto di dire che le stesse criticità che lei rileva sulla quantità di professionisti del sociale è esattamente uguale nel sanitario, per cui abbiamo una situazione in cui è veramente difficile trovare il bandolo per mettere in sinergia le cose che si fanno in maniera comunque positiva, meritoria e di grande utilità per questi bambini e ragazzi.
  Lei diceva che ci vorrebbe – se non ho capito male – un intervento giuridico a livello nazionale per rafforzare alcune esperienze che sono state fatte e che danno risultati positivi, proprio per mettere insieme le cose e creare la rete o il sistema. Questo, secondo voi, è un percorso da fare?
  Su alcune cose, però, mi sembra che se non riusciamo a cambiare la cultura e l'attenzione proattiva nei confronti del fenomeno, con tutto quello che stiamo leggendo e si sta dicendo e con tutte le cose allucinanti che si sentono dire sugli immigrati e sui minori, credo diventi un po’ difficile riuscire a fare un percorso legislativo in tal senso. Potrebbe, tuttavia, esserci un impegno per andare in quella direzione.
  Mi chiedo, però, se davvero ritenete che sia prioritariamente l'elemento su cui provare a incidere. Dico questo perché ho l'impressione che le problematiche siano altre. Forse – non è certo il vostro caso – alle volte si vogliono mantenere alcune situazioni di non integrazione, di non sinergia e di non definizione di un obiettivo comune perché, purtroppo, si tende anche a curare i propri orticelli. Ecco, le chiedo una risposta su questo.

  FABIO GEROSA, direttore della Consulta diocesana in favore dei minori e delle famiglie ONLUS di Genova. A marzo 2001 è uscita la riforma della legge n. 184 del 1983. Questa legge si proponeva la chiusura degli istituti nel 2016, un massimo di 10 bambini per ogni comunità, priorità all'affido, 2 anni di tempo, dopodiché occorre il decreto del tribunale e così via. Oggi, alcune cose sono da rivedere, ma quella modifica ha fatto sì che in tutta Italia ci fossero questi parametri. Per quella che è la mia conoscenza, è così. È necessaria, quindi, una politica di integrazione sociosanitaria, socioabitativa e sociolavorativa, Pag. 14altrimenti – come dicevo – le regioni sono libere di farlo o più propriamente di non farlo.

  MATTEO ZAPPA, responsabile minori Caritas ambrosiana di Milano. Faccio solo una battuta. Citavo i livelli essenziali perché credo che se questi siano diritti e siano presentati anche come procedure di lavoro «obbligatorie», alla fine non c'è più discrezionalità. Quindi, se i livelli essenziali e le procedure di lavoro diventano standard, a quel punto orientano anche l'agire di tutti gli operatori in campo.

  PRESIDENTE. Purtroppo, anch'io ho il problema della contemporaneità con un'altra Commissione. Ad ogni modo, ci tenevo a farvi alcune domande.
  Innanzitutto, c'è il problema dei finanziamenti, come diceva il dottor Matteo Zappa. Mi riferisco, in particolare, ai finanziamenti che non vengono chiariti nel momento in cui si deve dare il supporto alla famiglia. È vero che c'è una problematica di gestione dei finanziamenti. Noi, come Commissione, abbiamo sempre cercato di fare aumentare quel fondo che, invece, veniva tagliato. Ci sono, però, anche i finanziamenti che provengono da altre parti. Come diceva la collega, non c'è un'organicità per capire come indirizzarli e per avere il quadro chiaro di tutti questi finanziamenti.
  Mi domando, però, una cosa e domando anche a lei di fare una riflessione su questo. La scelta che viene fatta nelle relazioni degli operatori sociali, quindi degli assistenti sociali, può indirizzare in meglio i fondi che ha un comune o ha messo a disposizione una regione al fine di non investirli solo per interventi di allontanamento del minore dalla famiglia, ma per consentire azioni diverse, che possano garantire un lavoro all'eventuale genitore fragile o un'abitazione o anche il supporto adeguato alla cura dei propri figli?
  Abbiamo avuto notizia di vari casi in cui l'allontanamento poteva vedere altri tipi di intervento, forse più nella direzione di un modello di comunità. Mi sembra che voi abbiate portato alla nostra attenzione proprio l'idea che dovremmo tornare a prendere in mano un aspetto comunitario di queste fragilità familiari o dei minori.
  Un'altra domanda che vorrei fare è riferita al discorso che faceva prima il dottor Gerosa riguardo al costo sociale. Ecco, pensate che sarebbe giusto fare una disamina e dedicare attenzione anche al costo sociale del trauma di questi minori?
  Effettivamente, non solo c'è un minor costo se evitiamo il trauma, ma forse dovremmo domandarci qual è il costo sociale del trauma che subiscono. Ritengo che i minori danneggiati dalla società perché non hanno avuto tutte le opportunità di una vita serena all'interno delle famiglie, né un modello di cura più virtuoso – come avviene a Genova o negli esempi che ha fatto relativi a Milano – siano stati già doppiamente penalizzati dalla famiglia e dalla società, per cui è doveroso che la società si faccia carico della loro riuscita.
  Personalmente, ho presentato più volte degli emendamenti per chiedere che quello che viene requisito alla mafia, qualora ci siano importanti patrimoni, sia messo nell'immediata disponibilità di questi giovani. Voi avete detto lo stesso del patrimonio immobiliare dei comuni, che magari è in disuso, deteriorato e quant'altro. Di questo ci dobbiamo fare carico come società perché di sicuro il minore non si è danneggiato da solo.
  Un'ultima riflessione è riferita alla questione della normativa. Mi sembra di aver colto – se non ho capito male – un suggerimento a limitare i casi da assegnare agli assistenti sociali per dar modo a chi vuole lavorare in maniera proficua, giusta e onesta (ce ne sono tanti che vogliono farlo) di essere messi nelle condizioni di poterlo fare.
  Mi domando se, oltre a limitare i casi, può essere utile che lavorino anche senza una responsabilità caricata solo sulla loro relazione, indiscutibile e inoppugnabile, e ci sia, invece, un lavoro svolto maggiormente in rete, per cui anche la responsabilità di una scelta di allontanamento o di affido in un centro diurno sia presa in modo più condiviso. Grazie.

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  MATTEO ZAPPA, responsabile minori Caritas ambrosiana di Milano. Provo a fare qualche riflessione, poi lascio la parola al collega. Sono tanti punti molto interessanti.
  La prima questione è rispetto alle risorse. Qualche anno fa, come Caritas ambrosiana, abbiamo fatto un convegno di riflessione su questo e abbiamo cercato di confrontare i parametri economici di investimento sull'infanzia. Ci risultava – anche se è difficilissimo aggregare i dati perché da noi le risorse sono distribuite in modo eterogeneo – che fosse disponibile l'1,7 per cento del PIL, a fronte di Paesi europei che non sono economicamente messi benissimo, ma avevano il 3, il 3,5 o il 3,8.
  C'è, dunque, un problema quantitativo. Questo è un dato importante. Tuttavia, vale la riflessione che faceva prima Fabio sul fatto di investire in prevenzione, in servizi diurni o comunque in altri tipologie di servizi, che potrebbe sicuramente ridistribuire meglio le risorse esistenti.
  Il problema che vedo è questo. Faccio un esempio che di recente mi ha colpito. C'è un ragazzo che è seguito preventivamente con intervento domiciliare, quindi l'educatore lo segue in famiglia e cerca di lavorare su questa fragilità. Nel tempo extrascolastico si pone il problema di cosa fare con questo ragazzo. Ci sono luoghi, progetti o servizi di socialità, di relazione e di aggregazione nel tempo extrascolastico con cui possiamo fare un lavoro di accompagnamento educativo, ma all'interno di luoghi di relazione? Ecco, ci si è resi conto che in quel comune non esistevano spazi di relazionalità tra le famiglie, tra i bambini o tra i ragazzi (salvo qualcosina offerto dalla parrocchia, ma non con un presidio continuo e continuativo).
  Dico questo perché nel momento in cui si vuole immaginare un sistema diurno o anche di intervento territoriale si moltiplicano i servizi da attivare. Mentre la comunità o l'intervento del singolo ha, ad oggi, anche un forte mandato da parte del tribunale, quindi anche una spinta giuridicamente sostanziata, sul resto è necessaria una costruzione di politiche sociali a tutto tondo.
  Questo aspetto è complesso perché le risorse possono essere spese meglio – sono d'accordo – ma anche, come scrivevo nel documento, senza la certezza del risultato. La misurabilità richiede una tempistica di medio termine. L'impatto comunitario e sociale di un luogo di aggregazione tra famiglie, però, è difficile da misurare nell'arco di un semestre o a volte di una legislatura, ma nel tempo costruisce un background forte, per cui a quel punto possono essere di sostegno interventi mirati.
  Un'altra cosa che mi ha molto colpito è il tema del costo sociale. Quando si dice che l'infanzia è un investimento stiamo dicendo proprio questo. Ormai è un dato che ci siano delle ciclicità di famiglie che sono seguite nelle cartelle dei servizi sociali da tre o quattro generazioni. Non si valutano, però, i costi sociali di questo impatto e si ha poco coraggio nell'intervenire in modo deciso perché per interrompere un ciclo così radicato bisogna probabilmente fare degli investimenti più significativi.
  Il costo sociale avrebbe, per assurdo, anche dei dati di misurabilità perché alcune situazioni seguite – per non parlare di quelle che i servizi poi non intercettano – dicono di percorsi che si protraggono non nel tempo, ma nelle generazioni. Questo è un altro dato importante.
  Mi sembrava interessante l'ultimo stimolo rispetto al discorso degli assistenti sociali. Personalmente, credo molto nel tema della corresponsabilità. Questo è indubbio. Tuttavia, pur lavorando nella Caritas, quindi in un ente che lavora sul terzo settore e sul volontariato, rivendico il ruolo insostituibile dell'ente pubblico. A mio avviso, promuovere corresponsabilità vuol dire coprogettare. Ci sono delle leggi, per esempio in regione Lombardia, che permettono la coprogettazione di interventi e dei servizi in cui c'è una corresponsabilità sui percorsi.
  Ecco, questa corresponsabilità non deve, però, diventare una delega perché credo molto nel fatto che l'istituzione pubblica, insieme con il terzo settore, garantisca l'universalità di un diritto e una comunità nazionale che in prima persona continui ad assumersi l'affido di questi propri figli. Pag. 16
  Soprattutto nel milanese, dove c'è un fortissimo movimento di terzo settore, c'è una bellissima realtà di coprogettazione. Tuttavia, è fondamentale ribadire l'importanza che, per esempio, l'assistente sociale, nel suo mandato e nel suo ruolo di funzionario pubblico, continui a essere un anello di questa catena di corresponsabilità proprio perché dà delle garanzie che sono segno di un interesse della collettività nel suo insieme e non di una parte a cui è delegata la cura di questi ragazzi.
  Sicuramente, i percorsi di corresponsabilità sono fondamentali. Vedo che negli anni alcune barriere, forse per necessità, si sono abbattute. Solo che a volte ci si trova insieme, operatori del pubblico e del privato sociale, contro dei limiti strutturali che effettivamente sono difficilmente superabili.

  FABIO GEROSA, direttore della Consulta diocesana in favore dei minori e delle famiglie ONLUS di Genova. Vorrei aggiungere solo una piccola cosa, a cui accennava anche lei riguardo alle mie riflessioni. In questo periodo si è fatto tanto per la tutela dei minori nella direzione di verificare i requisiti di tutela dei servizi di affido (comunità, case famiglia e così via). Sulle famiglie ci si è fermati sul processo di idoneità all'affido, ma è vero che adesso le comunità e le case famiglia sono molto osservate – in Liguria questo accede sicuramente – perché mantengano quei requisiti che permettano la tutela del minore.
  L'osservazione che ha fatto lei, che non ho riportato, ma è vera, è che non c'è una corresponsione o un parallelo con i servizi pubblici. Questo non va bene perché se il processo di tutela è condiviso nella differenza delle responsabilità, allora ci deve essere certamente un primus inter pares che nel campo della tutela è il tribunale, non il servizio sociale, a cui viene data una delega affinché il minore venga posto in una situazione di tutela. Tuttavia, quando il lavoro quotidiano va avanti e alle comunità o alla famiglia viene dato il compito di tutelare il minore e al servizio sociale viene dato quello di sostenere la famiglia, una parte è molto monitorata, ma l'altra non lo è.
  Il fatto di mettere dei monitoraggi e degli standard aiuta il servizio sociale, per esempio, a dire al proprio interno che non può svolgere delle mansioni perché fuori dal parametro che è stato individuato. Insomma, una difficoltà di completare il processo di tutela classico è dovuta al fatto che alcune cose non si possono fare perché si hanno tanti minori e tante cose da fare. Questo è vero, ma rimane lì come un dato di fatto, perché non c'è nessun parametro che dica se un operatore ha troppi minori, mentre la normativa dice che deve averne di meno. Allora, quando se ne hanno di meno bisogna rendere conto del lavoro che è stato fatto. Dopodiché, il lavoro con le famiglie è molto complesso, ma lo è altrettanto quello con il minore.
  Un conto è dire che è complesso, un altro che non si è potuto fare, per cui non si completa lo sviluppo del progetto. Ecco, certamente questo è un punto su cui la normativa è silente. Nessuna normativa dice di tutelare insieme questo nucleo, individuando chi fa cosa o rispondendo a certi parametri. Per adesso, questo c'è soltanto da una parte, quindi questo aspetto è effettivamente migliorabile.

  PRESIDENTE. Ringrazio i nostri auditi per il loro contributo. Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 14,35.

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ALLEGATO 1

DOCUMENTAZIONE PRESENTATA DA FABIO GEROSA, DIRETTORE DELLA CONSULTA DIOCESANA IN FAVORE DEI MINORI E DELLE FAMIGLIE ONLUS DI GENOVA

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ALLEGATO 2

DOCUMENTAZIONE PRESENTATA DA MATTEO ZAPPA, RESPONSABILE MINORI CARITAS AMBROSIANA DI MILANO

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