XVII Legislatura

Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza

Resoconto stenografico



Seduta n. 5 di Martedì 24 novembre 2015

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Zampa Sandra , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SUI MINORI FUORI FAMIGLIA

Audizione del Presidente del Gruppo Consorzio Cooperative sociali (CeIS), padre Giovanni Mengoli.
Zampa Sandra , Presidente ... 3 
Mengoli Giovanni , Presidente del Gruppo Consorzio Cooperative sociali (CeIS) ... 3 
Zampa Sandra , Presidente ... 9 
Zottoli Luca , Socio e volontario del CeIS ... 9 
Zampa Sandra , Presidente ... 9 
Mattesini Donella  ... 10 
Lupo Loredana (M5S)  ... 11 
Padua Venera  ... 12 
Zampa Sandra , Presidente ... 12 
Mengoli Giovanni , Presidente del Gruppo Consorzio Cooperative sociali (CeIS) ... 13 
Mattesini Donella  ... 14 
Mengoli Giovanni , Presidente del Gruppo Consorzio Cooperative sociali (CeIS) ... 14 
Zampa Sandra , Presidente ... 15 
Zottoli Luca , Socio e volontario del CeIS ... 15 
Zampa Sandra , Presidente ... 15

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DELLA VICEPRESIDENTE SANDRA ZAMPA

  La seduta comincia alle 13.50.

  (La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso.
  (Così rimane stabilito).

Audizione del Presidente del Gruppo Consorzio Cooperative sociali (CeIS), padre Giovanni Mengoli.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sui minori fuori famiglia, l'audizione del presidente del gruppo CeIS, Consorzio Cooperative sociali, padre Giovanni Mengoli, che ringrazio per la sua presenza e la sua disponibilità. Insieme a lui è presente all'incontro padre Luca Zottoli.
  Pregherei padre Giovanni Mengoli di illustrare la sua relazione. Se, eventualmente, sarà necessario, potrà esserci un'integrazione, e passerò la parola a padre Zottoli.

  GIOVANNI MENGOLI, Presidente del Gruppo Consorzio Cooperative sociali (CeIS). Vi ringrazio dell'attenzione e anche di aver chiesto un contributo. Sento di parlare a nome del gruppo CeIS, un consorzio di cooperative sociali che gestisce comunità di accoglienza. Siamo nati a partire dall'accoglienza delle persone con problematiche di tossicodipendenza, ma già dagli anni Duemila abbiamo aperto, perché ce n'era la richiesta, anche a comunità per minori.
  Attualmente, siamo presenti in Emilia-Romagna. Tra Bologna, Modena e Parma abbiamo due comunità di pronta accoglienza per minori, sei comunità educative residenziali, di cui due femminili, sei comunità per minori stranieri non accompagnati e due case famiglia, più tutto il lavoro di prevenzione svolto nelle scuole, soprattutto quelle di secondo grado, per contribuire a una migliore crescita dei giovani.
  Ho preso parte ai lavori del tavolo di monitoraggio della Regione Emilia-Romagna sulla legge regionale per l'accoglienza ai minori, n. 1903 del 2011. È la legislazione che la Regione si è data per normare l'accoglienza dei minori nelle strutture educative, ma anche per l'affido. Un tavolo di monitoraggio era stato istituito dall'assessore regionale Marzocchi già subito dopo la legge per monitorare come fosse applicata. Ho partecipato ai lavori come rappresentante del coordinamento delle comunità educative della regione, quindi farò le mie osservazioni anche a partire da quest'osservatorio.
  Inizierò da una premessa importante. Come dicevo anche quando sono stato chiamato, evidentemente la normativa che regola l'accoglienza dei minori in comunità è regionale, e quindi è chiaro che mi riferisco alla regione Emilia-Romagna, dove lavoriamo e operiamo. Siccome abbiamo contatti e rapporti anche con comunità di accoglienza di altri territori, in altre regioni, so molto bene che le modalità di accoglienza, con tutto quello che Pag. 4questo significa, sono diverse, perché sono diverse le normative. Ora, è giusto il principio federale di lasciare alle regioni le competenze in materia, ma è anche vero che alcune problematiche sono trasversali a tutto il territorio nazionale: finché l'attuale normativa resterà tale, ci saranno anche problemi che non si potranno risolvere.
  Chi sono i minori che accogliamo nelle comunità ? Dipende dal tipo di bisogni di cui sono portatori. Come dicevo già quando elencavo le comunità che gestiamo, abbiamo comunità di pronta accoglienza, col compito di garantire la tutela dei minori nel momento in cui si valuta che c’è bisogno, anche ex articolo 403 del Codice civile, di collocare i ragazzi in un luogo protetto, perché magari ci sono state situazioni conflittuali all'interno della famiglia. In quei casi, viene disposto il collocamento anche, appunto, attraverso il provvedimento del 403 presso i servizi sociali. Queste comunità rispondono ai bisogni immediati dei minori.
  Abbiamo anche comunità che definiamo educative-residenziali, dunque le classiche comunità, che cerchiamo di far vivere come ambienti familiari, ad esempio con numeri che nella nostra regione non superano i dodici. A suo tempo, all'epoca della legge regionale cui facevo riferimento, la 1904, si è voluto garantire questo numero, un buon compromesso tra l'ambiente familiare e i costi che ne derivano. Capite molto bene che, infatti, a seconda dei numeri, cambia anche il costo per la gestione.
  Alcune sono definite nella nostra regione comunità per l'autonomia, che impropriamente ormai accolgono minori stranieri non accompagnati, ma dopo spiegherò perché dico impropriamente. Abbiamo, inoltre, due case famiglia, col nucleo di una mamma e un papà che vivono con i loro figli e accolgono anche ragazzi inseriti dai servizi sociali.
  Per tornare alla domanda su chi sono i ragazzi che accogliamo, soprattutto nei comitati educativi residenziali, un po’ il nucleo forte del nostro lavoro, abbiamo scelto un'accoglienza mista, ma poi proverò a dire perché. I ragazzi possono essere di origine italiana, straniera, ma di seconda, terza, quarta generazione, allontanati da una famiglia che vive già nel territorio – è residente – per un provvedimento del tribunale dei minori dovuto a problematiche legate alla genitorialità, che sapete molto bene quali possano essere: dall'inadeguatezza dei genitori fino a situazioni molto più gravi, come maltrattamenti o abusi. Questo è un target di ragazzi e ragazze che accogliamo.
  Sempre in questa formula mix, di cui proverò a spiegarvi la ragione, abbiamo poi minori inseriti dal centro di giustizia minorile, con un provvedimento del Ministero della giustizia, in messa alla prova o, ancora prima, in misura cautelare, nell'attesa che il giudice esprima il suo giudizio.
  Una terza tipologia di minori accolti è quella che presenta psicopatologie, i cosiddetti casi complessi, che vede anche una presa in carico da parte della neuropsichiatria infantile.
  Infine, in queste stesse comunità abbiamo anche minori stranieri non accompagnati di età inferiore ai 16 anni o con particolari fragilità, che quindi necessitano di un apporto e di un sostegno educativo più intenso che non nelle comunità per l'autonomia che richiamavo.
  Ci si potrebbe chiedere la ragione di quest'accoglienza eterogenea. L'idea è che la contaminazione reciproca tra minori inseriti per ragioni diverse sia positiva, proprio perché la forza del gruppo diventa un aiuto, un sostegno nella crescita. Capite molto bene che in una struttura un grosso lavoro è certamente svolto dai professionisti che ci lavorano, educatori e psicologi, ma il lavoro di comunità gioca anche sul fatto che sono molto importanti le relazioni che i ragazzi stessi strutturano tra loro.
  Nel caso, ad esempio, di ragazzi definiti complessi, quindi con problematiche anche di tipo psicopatologico, questi guardano i ragazzi normodotati, seguono il loro processo di crescita, il loro progetto in comunità, e ne traggono dei benefìci. Se volete, l'idea ricalca un po’ quella, a suo tempo, del dibattito in Italia sul non Pag. 5creare scuole speciali per per ragazzi con disabilità, ma sul loro inserimento nelle classi. Si diceva che era importante che crescessero insieme. Nelle strutture, ma normalmente anche in regione da noi, sono più o meno tutte concepite in questo modo, le accoglienze sono miste. Questo permette anche una stabilità della comunità, proprio per le ragioni che adesso descrivevo.
  A questo punto, spiegato chi sono i ragazzi, mi sembra importante sfatare alcuni luoghi comuni. Anzitutto, mi preme sottolineare che, dal mio punto di vista, non può e non deve esserci contrapposizione tra affido e inserimento in comunità, come se l'affido familiare fosse sempre meglio perché il ragazzino viene inserito in una famiglia, un luogo che evidentemente può sembrare più accogliente. Credo che questa sia una contrapposizione sbagliata, che non aiuta il sistema di accoglienza a crescere.
  Lo dico perché, per esempio, alcuni minori adolescenti, ragazzi che hanno più di 16 o comunque intorno ai 16 anni, sono allontanati dalla famiglia perché ci sono delle conflittualità con i propri genitori. Forse allora non è opportuno metterli in una struttura con altri genitori che dovranno subirne tutte le conseguenze. Possono, invece, favorevolmente beneficiare di un intervento di educatori professionisti, che in qualche modo svolgono la funzione di genitori, ma col sufficiente distacco che potete capire, in modo da costruire delle relazioni empatiche.
  A partire proprio da un caso che si è verificato in una nostra struttura, se pensiamo all'inserimento di minori magari abusati in una famiglia, questi possono diventare abusanti, e dunque rappresentare un problema o creare situazioni che non favoriscono la crescita dei figli naturali. Sto cercando di dire che non bisogna contrapporre comunità e affido. La conclusione a cui voglio arrivare è che sono da vedersi come due possibilità del sistema di accoglienza dei minori che vengono allontanati da utilizzare nel modo più adeguato, in base a tutte le valutazioni dei servizi sociali.
  Possono esserci anche casi di ragazzi con psicopatologie, inseriti nelle strutture perché hanno gravi problemi di aggressività, i cosiddetti casi borderline: non è così semplice pensare all'inserimento nella famiglia, né è così semplice trovare le famiglie.
  Questo ragionamento mi sembra importante. Sono soluzioni che non vanno viste in contrapposizione. Come gestori di comunità insieme alle famiglie che fanno affido ci pensiamo come pezzi di un sistema più grande che genera l'accoglienza. Il sistema deve pensarsi armonico, non può pensarsi che una soluzione è meglio di un'altra. È chiaro che, come dicevo, l'accoglienza in una comunità ha un costo maggiore, e quindi è più facile che nasca quest'idea che la comunità costi di più, abbia una tariffa più alta, per cui è meglio l'affido. Bisogna, però, anche vedere se si trovano le famiglie disponibili. Questa è una prima considerazione e un primo luogo comune che vorrei smentire.
  Un secondo luogo comune riguarda, a fronte di tutte le segnalazioni dei servizi sociali per minori in disagio, in difficoltà, l'idea dell'inserimento in comunità come ultima spiaggia, dopo aver provato tutte le altre soluzioni. Mi spiego meglio. Purtroppo, spesso vedo nei servizi sociali proprio un certo ragionamento. Visto, cioè, che la tariffa di accoglienza delle comunità è sicuramente pesante per le risorse dei comuni, finiscono per procedere secondo una certa progressione.
  Con la segnalazione da parte della scuola sulla problematica di un minore parte quella al tribunale per i minori, il quale chiede il monitoraggio da parte dei servizi sociali, che cominciano allora ad intervenire, prima magari pensando a gruppi educativi pomeridiani, agli scout, tutte cose importantissime, che anche noi gestiamo; solo dopo, se l'inserimento pomeridiano semiresidenziale non funziona, si pensa all'intervento educativo domiciliare, poi magari si va all'affido part-time e infine, come ultima spiaggia, si arriva alla comunità.
  Normalmente, però, quando avviene l'inserimento, la situazione è già fortemente Pag. 6compromessa, di solito con un ragazzo già molto prossimo ai 18 anni, per cui come comunità possiamo davvero fare poco. È difficile pensare che, quando la situazione a questo punto, la comunità possa fare un lavoro di riparazione. Si finisce per fare un mero lavoro di contenimento, perché non riusciamo a gestire certe situazioni.
  So di parlare in un contesto che cerca di guardare anche al futuro, con lungimiranza: credo, appunto, che occorra la lungimiranza di pensare che la spesa per i giovani, per i minori non è un costo, ma un investimento sul futuro. L'inserimento in una struttura educativa si potrebbe pensare anche, come teorizza la stessa direttiva regionale dell'Emilia-Romagna, molto ben definito.
  Si parla di progetto quadro, perché i servizi dovrebbero già avere delle previsioni al momento dell'inserimento sul tipo di lavoro da fare con la famiglia da cui viene allontanato il ragazzo. Se i servizi sociali avessero questa lucidità, avrebbero la possibilità – mentre il ragazzo, in un'età in cui ancora ci si può lavorare, è in comunità e fa il suo pezzetto di strada – di lavorare sulla famiglia, per riparare alle situazioni di disagio che hanno prodotto l'allontanamento, e quindi riportare il ragazzo nella famiglia quando è possibile.
  Se questo avviene quando la situazione non è ancora esplosiva, può dare dei benefìci. Diversamente, come vi dicevo, dal nostro osservatorio vediamo inserimenti quando ormai le situazioni sono altamente compromesse. Cerchiamo di impegnarci, perché è il nostro lavoro fare l'accoglienza al meglio possibile e raggiungere gli obiettivi che ci vengono posti, ma poi la nostra finisce col diventare un'azione di contenimento. Se non aiutiamo i ragazzi a uscire da queste problematiche finché sono giovani, li avremo poi in carico in altri servizi per adulti, quando sono grandi, e non ci si allontana molto: o finiscono nei servizi legati alla giustizia o in quelli delle tossicodipendente o nella psichiatria. Questo più o meno è l'esito quando l'intervento sui minori viene fatto troppo tardi e con la progressione che vi descrivevo.
  Capisco molto bene che i servizi sociali sono oberati di casi, e molto spesso delegano appena possono alla comunità, ma se non è possibile aumentare le risorse in tutto il lavoro di rete – che quindi comporta anche quello da fare con la famiglia da cui viene allontanato il ragazzo per permettere che si creino le condizioni perché possa tornare – alla fine si «mettono delle pezze», ma non si riesce ad aggiustare il sistema. Non so se mi sono spiegato.
  Sempre relativamente ai luoghi comuni, non è vero che chi fa accoglienza nelle comunità ci lucra. Sento di dire che per noi non è assolutamente così. Normalmente, siamo tutte organizzazioni ONLUS, quindi gli utili non vanno alle persone. Semmai, eventuali piccoli margini vanno al reinvestimento sociale. Oltretutto, per garantire in una comunità educativa una copertura h24, obbligatoria – è la legge a chiederci di garantirla sia durante la notte sia durante il giorno – se ci si limita a considerare la copertura con un educatore in tutti i 365 giorni all'anno, servono almeno sette persone. Si fa presto a fare i conti di che cosa significhi mantenere la sostenibilità di una struttura.
  Paghiamo, infatti, gli educatori secondo il contratto collettivo nazionale delle cooperative sociali, quindi conosciamo il lordo da tabellario. Stiamo parlando di cifre assolutamente trasparenti. Nella nostra regione, già qualche anno fa l'assessorato regionale aveva promosso una ricerca per valutare il merito dei costi dall'accoglienza. Credo che questa sicuramente sia una strada da perseguire, cioè che tutti i costi siano trasparenti. È importantissimo. Siamo noi per primi a volerlo, perché non vogliamo che ci venga detto che accadono certe cose. Siamo disponibili a mettere tutto nero su bianco secondo quello che vi stavo dicendo.
  Tenete presente che molto spesso nelle nostre organizzazioni la presenza del volontariato è davvero importante. Riteniamo che i volontari abbiano un ruolo prezioso, in qualche modo sono la società che incontra questi giovani un po’ emarginati, per cui comunque ci sono queste Pag. 7risorse, ma le comunità che vogliano dirsi serie non possono basarsi sui volontari. Allo stesso modo, vengono chieste prestazioni di volontariato agli educatori, che finiscono per lavorare molto spesso anche fuori dall'orario di lavoro, in quanto le situazioni diventano sempre più complesse. Era importante per me smentire pubblicamente questi tre luoghi comuni, come faccio anche un po’ alla luce dell'osservatorio di cui parlavo all'inizio.
  Vorrei ora evidenziare alcune problematiche rilevanti del sistema di accoglienza. La prima riguarda la questione dei 18 anni. Sapete che il tema ricorre molto spesso. Se un ragazzo è stato in comunità non un tempo parziale, per rientrare in famiglia in seguito a un progetto quadro che aveva valutato il servizio legato alla sua autonomia, è molto facile intuire che difficilmente quel ragazzino a 18 anni sarà autonomo, nel nostro mondo ancora meno. C’è bisogno di una casa, di un lavoro. Capite che cosa significhi.
  Il problema è che oggi, se possono, servizi, territori, enti locali, comuni cercano di liberarsi, col compimento dei 18 anni dei ragazzi, dei costi dell'accoglienza che sono a loro carico, perché giustamente devono fare i conti in casa loro. Il rischio è quello di uno spreco di investimenti. Si deve investire fino a 18 anni, poi dopo sembra che non ci sia più bisogno di niente. È chiaro che su questo punto sarebbe sempre più importante che ci fossero delle situazioni di transizione. So molto bene che ora c’è la possibilità del prosieguo amministrativo fino ai 21 anni, ma vi assicuro che normalmente non se ne approfitta, perché i servizi sociali hanno proprio l’input di tagliare.
  In questo senso, credo che la creatività e la generosità delle comunità abbiano pensato a tante soluzioni. Abbiamo appartamenti di transizione, sono nate associazioni che riuniscono insieme ragazzi che sono stati in comunità per promuovere poi da adulti anche una certa sensibilità. Stanno nascendo network regionali proprio sui minori in comunità, c’è la possibilità di continuare un lavoro che a 18 anni non è concluso. Penso che anche a livello legislativo qualcosa si potrebbe fare, come ad esempio – la butto lì – favorire la possibilità per un giovane di accedere al lavoro in maniera più semplice, proprio perché magari si riconosce che viene da un percorso più sfortunato di altri. C’è tutta una serie di possibilità. Mi fermo, anche se si potrebbero dire tante cose ancora.
  Un secondo tema interessante e importante da sottolineare attiene a tutto quello che riguarda l'integrazione socio-sanitaria. Quando un ragazzino viene inserito nelle strutture, normalmente avviene attraverso i servizi sociali; dopo, però, o perché non viene detto nel momento in cui è inserito – c’è anche il problema che i servizi sociali non dicono proprio tutto – o perché si evidenziano successivamente, emergono anche problematiche di tipo sanitario, quelle che chiamavo prima le psicopatologie, a vari livelli.
  Evidentemente, qua il rapporto è sempre molto delicato e difficile da discernere. In ogni caso, concretamente quando c’è bisogno della sanità, questa fatica a intervenire, ci si rimpalla le responsabilità. La sanità obietta che certi compiti non sono suoi, il sociale obietta che non è così. Sul tema della tariffa, del costo dell'accoglienza, il sociale ritiene che la sanità debba contribuire, ma questa non è d'accordo. È del 2014 una delibera della nostra Regione la cui applicazione avviene, però, ancora a livello sperimentale: su tre tipologie definite casi complessi, che però necessitano di tutela (abuso, handicap e psichiatria) c’è la compartecipazione dei costi tra sociale e sanitario, proprio per ribadire che ognuno mette quel che può. È, però, sempre difficile. Nel settore sociale il costo è a carico dell'ente locale, per la sanità c’è la Regione. Dal punto di vista legislativo, si potrebbe fare molto meglio.
  Sul terzo focus, i minori stranieri non accompagnati, di cui avete già parlato precedentemente, terrei comunque a intervenire. L'Italia è adesso soggetta al flusso dei minori che arrivano, dei profughi che sbarcano in Sicilia. Sta subendo pesantemente questo tipo di accoglienza. La nostra Regione, l'Emilia-Romagna, Pag. 8aveva stabilito già nel 2011 le cosiddette comunità per l'autonomia, che prima vi dicevo sono impropriamente diventate comunità che accolgono minori stranieri non accompagnati.
  Non era quella, infatti, la tipologia per cui la Regione le aveva pensate, ma proprio per l'autonomia. Si riconosceva che c'era bisogno in alcuni casi di un'intensità educativa più bassa, quindi con tariffe di accoglienza minori, per ragazzi che avevano bisogno di evolvere in maniera sempre più autonoma. Questa soluzione era anche appropriata per diversi minori non accompagnati, ragazzi che arrivano da luoghi, che non sono l'Italia, in cui a 16 anni si è già adulti, alcuni potrebbero essere già anche sposati. C’è un livello di «adultità» e di capacità di tenuta che potrebbe essere coerente col tema dell'autonomia.
  Il problema è che queste comunità per l'autonomia, create dalla regione per essere utilizzate anche per altri tipi di inserimenti, sono però diventate comunità per i minori stranieri non accompagnati, perché questo permetteva ai comuni di risparmiare. Si spendeva meno, detto in soldoni, se si pensa al problema che avevamo fino a qualche anno fa di tutto il carico o buona parte del carico dell'accoglienza dei minori stranieri non accompagnati in capo ai comuni. Questi si concentrano in alcuni comuni, o grossi, come Roma o Bologna, o quelli degli sbarchi. La Sicilia, ad esempio, è stata soggetta tantissimo a questo fenomeno.
  Abbiamo accolto molto positivamente il riconoscimento che il costo dell'accoglienza è in capo al Governo. Secondo me, si tratta di un passaggio molto importante. Si riconosce che non è possibile pensare che il costo dell'accoglienza sia a carico agli enti locali. È negativo, però, il fatto che il costo dell'accoglienza sia uniformato in tutta Italia, dalla Sicilia a Bolzano. È un problema, anzitutto perché il costo della vita non è lo stesso; in secondo luogo, non sono le stesse le leggi regionali. Noi abbiamo una legge che dice delle cose, mentre in Friuli-Venezia Giulia l'altro giorno dei colleghi, che sono venuti a conoscerci, mi dicevano che si possono raggiungere altri numeri, che possono creare comunità anche fino a 50 ospiti. Non è così semplice creare una tariffa unica per tutti.
  Almeno nella nostra regione, ma si dovrebbe modificare la normativa vigente, andrebbero create grandissime strutture, da 40-50 ragazzi, ma capite bene che il lavoro per l'integrazione, vero obiettivo, sarebbe molto limitato; in alternativa, si può pensare a strutture sperimentali, con 10-12 posti, ma dove la copertura in comunità non è garantita h24. La notte, per esempio, c’è un neo-maggiorenne, un ragazzo che magari ha già fatto lì il percorso da minore. Può essere utile per alcune tipologie, etnie, ma non per tutte. Onestamente, se valesse per tutte le etnie, sarei molto spaventato, perché credo che creerebbe problemi di sicurezza.
  Stiamo aspettando l'esito dell'uscita del bando di luglio per i comuni, che allarga i posti per minori stranieri non accompagnati, 1000 in tutta Italia, e che però riportava dappertutto un costo unico per l'accoglienza. Suggerirei che sarebbe importante almeno pensare a due tipologie di costo, proprio perché non sono tutti ragazzi autonomi. Vi assicuro che ci sono ragazzi portatori di traumi, disturbi post-traumatici da stress, gente che ha visto morire i genitori. Non è così semplice pensare che siano già autonomi e capaci di stare in strutture in cui devono fare tantissime cose da soli.
  Passo ad un'ultima considerazione, poi sono a disposizione per eventuali vostre domande. Di fatto, stiamo assistendo, almeno nella nostra regione, ma secondo me si può dire per tutta l'Italia, alla creazione di un doppio sistema di accoglienza per i minori nelle strutture. Da un lato, infatti, abbiamo strutture che chiamiamo educative e residenziali che accolgono minori, dove tra l'altro finiranno situazioni sempre più complesse, con disagi sempre più grandi, con il rischio di mettere a repentaglio la tenuta stessa della struttura. Chiaramente, questo tipo di strutture ha una tariffa di accoglienza di un certo tipo.
  Dall'altro lato, avremo strutture che non si potranno più definire educative, ma Pag. 9di mera accoglienza, dove di fatto finiscono i minori stranieri non accompagnati proprio per il fatto di essere tali. Credo che questo sia discriminatorio. Penso che non si debba definire la struttura più appropriata sulla base del tipo di ragazzino, ma semplicemente del bisogno che quel ragazzo manifesta.

  PRESIDENTE. Ringrazio padre Giovanni Mengoli.
  Chiederei a padre Luca Zottoli se ha qualcosa da aggiungere, ma in un tempo massimo di cinque minuti, perché vorrei dare il tempo alle colleghe di intervenire.

  LUCA ZOTTOLI, Socio e volontario del CeIS. Mi servirà anche meno tempo.
  Ho due piccole integrazioni al discorso di Giovanni. Ho diretto fino a qualche tempo fa il consultorio familiare di una delle associazioni che fanno parte del Consorzio e di cui sono tuttora socio. Una riflessione a latere riguarda le ricadute di tipo educativo sulla famiglia per tutto ciò che riguarda l'infanzia, dalle dipendenze ad altro. A livello dei discorsi sui minori, si va dall'educazione alla genitorialità, abbastanza complessa, ma che può anche essere stimolante, al tentativo di togliere a certi genitori l'affido, per cui il discorso è estremamente complesso. La stessa associazione sta pensando e ha già aperto un ulteriore consultorio più dedicato addirittura alle dipendenze.
  Una seconda riflessione, più che a latere, è un po’ più dall'alto. Giovanni ha utilizzato più volte il termine aggiustare, riparare, riparazione. Dico, perché credo che sia fondamentale, che questa è la visione, una visione non romantica della storia del mondo. Bisogna riparare. Dove possiamo, cerchiamo di aggiustare, di riparare, e delle volte i cocci stanno insieme alla meno peggio. Questa, però, è un po’ l'idea di fondo che mi spinge a lavorare.

  PRESIDENTE. Ringrazio padre Zottoli e ancora molto padre Mengoli. Il suo era un intervento veramente preparato. Se fosse possibile, vorremmo anche conoscere il numero di minori in questo momento presso le strutture. La relazione è stata comunque ampia e ci ha offerto la possibilità di prendere nota di problemi e opportunità di queste strutture, molto attive in Emilia-Romagna e dalla lunga esperienza.
  Ringrazio anche per le notazioni sui minori stranieri non accompagnati. Certamente, c’è anche il tema della necessità almeno di dividerli in due grandi categorie. I più piccoli sono molti di meno sotto il profilo della quantità, ma ci sono, e hanno certamente bisogno di essere più assistiti degli altri. Si può pensare a strutture un po’ più autonome per quelli più adulti e non traumatizzati. Ho visitato una di queste strutture.
  È stato anche pubblicato un libro, scritto da una neuropsichiatra dell'infanzia, proprio a cura di questa comunità, che racconta la storia di diversi minori passati da questo tipo di strutture. Ci permette di capire fino a che punto sia profondo il trauma che molti di loro hanno subìto, portano addosso, che li accompagna per molti anni, se non per tutta la vita.
  Penso che anche la questione delle rette debba essere oggetto di una nostra riflessione, se troveremo mai modo di fermarci in una riunione tra noi per discutere un po’ di vari temi, anche per intraprendere delle vie d'intervento su provvedimenti normativi. Non so se sapete che per quelli che entrano nello SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) la retta attualmente è fissata a 54 euro, dei quali però una parte va proprio allo SPRAR per il coordinamento. Di fatto, alle comunità restano 45 euro.
  Il discorso cambia a seconda del tipo di persona che si ha in carico: altro se il livello di autonomia è alto, nel qual caso si deve semplicemente sostenerlo in un percorso; altro se si tratta di ragazzini piccolissimi o persone con problemi di tipo psichiatrico o anche sanitario, fisico. Purtroppo, le esperienze che vivono sono tali che lasciano davvero dei segni. Penso che anche su questo sia necessaria una Pag. 10riflessione, per non dire di tutti quelli che non ricevono una risposta, scappano e scompaiono.
  Voglio ricordarvi che abbiamo avviato quest'indagine conoscitiva su due versanti. Uno è quello di valutare complessivamente il sistema delle strutture di accoglienza per minori; l'altro è quello di cercare di comprendere che cosa succede ai minori stranieri non accompagnati che entrano, le ragioni per cui circa 4.000 non risultano più, ad esempio, da nessuna parte soltanto in questo anno. Questo focus, quindi, è stato molto appropriato.
  Scusate, mi sono dilungata. Cedo ora la parola alle onorevoli colleghe che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  DONELLA MATTESINI. Ringrazio per quest'audizione e spero di poter rileggere la sua relazione, che è stata bella corposa. In alcuni momenti temo di non aver capito, ma complessivamente sento di dire, anche per quello che conosco della comunità e del vostro lavoro, che è comunque appunto un lavoro che può essere di riferimento anche per le osservazioni che ci faceva riguardo alla differenziazione.
  La presidente Zampa ricordava giustamente il tema dell'obiettivo di questa indagine, e lo richiamo anche in riferimento alla sua ultima osservazione. Abbiamo detto che vogliamo capire che cosa succede nel sistema di accoglienza, tenuto conto che ci sono esperienze differenziate, luoghi nei quali si fa uno splendido lavoro. Io, che vengo dalla Toscana, chiedo se l'esperienza del Forteto sia l'unica o ci siano problemi. Bisogna avere il coraggio di vedere le cose per quelle che sono. Noi non siamo una Commissione d'inchiesta, ma semplicemente di vigilanza e controllo, però vogliamo capire, e quindi ringraziamo anche chi dal territorio viene a raccontarci la sua realtà. Dovremmo anche come Commissione andare per vedere direttamente.
  A essere interessante da quando abbiamo avviato quest'indagine è la riforma contestuale a quella del Titolo V della Costituzione, con un passaggio importante relativamente alla differenziazione che descriveva. È stato finalmente riportato in capo allo Stato il tema della sanità e delle politiche sociali. Questo non vuol dire sfruttare le regioni, ma unificare a livello nazionale una programmazione che aiuti con la famosa integrazione socio-sanitaria. È un punto importante.
  Partendo da qui e tenendo conto che alle regioni compete la parte organizzativa, all'esito di quest'indagine conoscitiva potremo davvero essere in grado di fare tesoro anche di un lavoro già importante del Garante per l'infanzia, ossia mettere insieme misure standard, regolamenti simili per tutta l'Italia. Diversamente, anche in questo caso abbiamo quella famosa differenziazione che provoca grandi disuguaglianze nell'accoglienza, nei progetti educativi e così via. Questo è un quadro magari già conosciuto, ma tenevo a ribadirlo, perché ci consegna una responsabilità, ma anche una possibilità in più: davvero possiamo come Bicamerale lavorare in modo molto produttivo.
  È vero che oggi rette diverse dipendono dalle regioni, ma quando mi si dice che le rette per i minori vanno da 100 euro a, qualche volta, 400 euro, credo che qualcosa non funzioni. Il tema è quello di avere leggi nazionali, regolamenti, un po’ come le Regioni, con criteri precisi e che aiutino i minori a essere accolti nel miglior modo possibile, e aiuti anche gli operatori, chi gestisce il privato, il sociale e tutti gli attori coinvolti. Bisogna avere un quadro normativo di riferimento. Serve non soltanto per una questione di «giustizia» e di qualità, ma anche per quell'importante operazione del monitoraggio da parte delle istituzioni. Ripeto, infatti, che il Forteto è una di quelle esperienze, su cui però non voglio dilungarmi perché è una storia troppo pesante. Chiedo se non sia anche di vostro interesse arrivare a una maggiore omogeneità possibile a livello regionale e nazionale. Questo aiuta davvero anche per una programmazione diversa, per valutazioni, validazioni e correzioni.
  Anche le mie sono valutazioni più che domande. Mi ha colpito una questione che sollevava, perché mi sembra che da nessuna Pag. 11parte si voglia contrapporre l'affido familiare alle comunità. Certo, sono due dimensioni molto diverse. In questa situazione culturale, la comunità è spesso vista e vissuta come una deresponsabilizzazione. Anche altre comunità che conosco mi dicono che, come voi, tutta la vita si svolge all'interno della comunità: difficoltà nei rapporti sociali, nella vita comunitaria, nell'attività sportiva e altro. Questo è proprio frutto di una sostanziale delega istituzionale.
  L'affido è altro, non da contrapporre, ma da valorizzare, anche nel rapporto fluido con la comunità. Se si incentiva e sostiene l'affido, contemporaneamente si fa una cosa importante: si fa crescere la responsabilità di tanti cittadini, che non stanno a guardare, che non delegano. Possiamo organizzare anche le migliori comunità, ma deve esserci anche il sostegno a capire l'importanza e l'essenzialità della responsabilità intorno ai minori. Come dice un famoso proverbio, non ricordo se arabo o altro, per crescere un bambino ci vuole un villaggio. È esattamente questo il quadro nel quale dovremmo vivere e proporre qualunque tipo di attività, che si gestisca una comunità o si sia parlamentari.
  Credo che le vostre osservazioni sulla mancata integrazione socio-sanitaria, la difficoltà del rapporto con i servizi tocchino un punto importante. Ripeto che la delega della società può diventare anche istituzionale, e non deve. Altra è una comunità con un numero consistente di minori con problemi psichiatrici o altro; diversa quella in cui c’è un'autonomia. Dove, però, ci sono problemi, la comunità non deve essere un corpo fuori dal contesto e avere dentro lo psicologo, lo psicoterapeuta e così via. Non è possibile altrimenti. Significherebbe sancire la separazione e fallire in quello che dicevo, nella responsabilizzazione. Le mie sono, quindi, soltanto valutazioni.
  Mi sembra di aver capito che su questo avete posto anche voi delle sollecitazioni a far sì che si possa costruire una rete intorno non alla comunità, ma al minore che sta in comunità, ripeto, senza nessuna contrapposizione tra comunità e affido. Sostanzialmente, penso che proprio anche sull'affido dovremmo lavorare molto di più. Quando penso che dei minori rimangono in comunità per un tempo così lungo da diventarci adulti, con tutto il rispetto per l'egregio lavoro che si fa, mi piange il cuore.

  LOREDANA LUPO. Vorrei sapere se in generale all'interno delle comunità c’è un modo di raccordarsi per sapere come sul territorio italiano si sviluppano le varie realtà un po’ per tutte le regioni. Capisco che questo problema è stato delegato alle Regioni stesse, anche se stiamo tentando di porre una piccola pezza, si potrebbe dire, al problema generale. Vorrei comprendere bene la diffusione del problema su tutto il territorio, dal vostro punto di vista, in termini di numeri, di ragazzi raccolti.
  Poco fa citava il problema della notte con sette operatori, o meglio di uno che ruota, mentre ne servirebbero sette per compensare. Vorremmo avere proprio dei numeri precisi per analizzare il problema nel profondo. Per intervenire, lo Stato deve comprendere bene come gestire anche dal punto di vista economico. È importante essere più precisi possibile. Questa è una richiesta di dati secondo me sempre fondamentale. Se nel quadro generale che ci ha delineato, molto dettagliato, potesse inserire qualche dato in più, potrebbe agevolarci.
  Mi ha incuriosito molto anche la sua affermazione sull'esistenza di un pregiudizio nei confronti della comunità rispetto all'affido familiare. Sinceramente, sono neofita della materia, quindi non mi permetto di parlare al riguardo, ma non ho mai inteso un'accezione negativa, però ho pensato anche a un passaggio. Mi auguro che un ragazzo in generale possa fare un percorso che poi lo riconduca a una condizione di maggiore equilibrio e normalità, come ce l'hanno altri ragazzi, di poter vivere all'interno di una comunità famiglia, proprio perché la figura della famiglia riesce a darci quell'equilibrio psicologico e di vita che ci fa crescere.Pag. 12
  Mi dispiace, come diceva la collega, l'idea di un ragazzo che nasce, cresce e si sviluppa all'interno di una comunità, per quanto sia meravigliosa. Ho conosciuto comunità sia cristiane sia laiche, e so quanto ci si possa spendere all'interno di questi luoghi e quanto si possano incontrare figure importanti. Ritengo, però, che il calore familiare sia fondamentale per lo sviluppo soprattutto emotivo del fanciullo. Comprendo, quindi, la sua visione, ma mi auguro che porti sempre in quella direzione.

  VENERA PADUA. Sarò veloce, perché la collega Mattesini ha già detto tutto, quindi è inutile ripetersi, ma vorrei puntualizzare su due aspetti.
  Io vengo dalla Sicilia e in questi ultimi anni ho visto situazioni drammatiche, minori accolti in centri di prima accoglienza restare lì per tanto tempo, in una commistione drammatica di etnie e di età, e sappiamo tutti che cosa significhi. Faccio riferimento ad alcune situazioni particolari: quando ne arrivano 700 al giorno, giustamente non si può dare la responsabilità a chi gestisce, che già dà tanto. Hanno fatto un'azione straordinaria queste persone, ma i rischi per questi bambini, per questi minori, sono veramente enormi.
  Per questo, credo che sia necessario che abbiamo riferimenti comuni e condivisi per tutto il Paese. Non è possibile che chi ha la sfortuna di attraccare in un certo punto viva certe situazioni e altri che magari arrivano in posti più «fortunati» ne vivano altre. Una volta di più si rischia di continuare quell'enorme disomogeneità ancora presente nel nostro Paese per ciò che riguarda, per esempio, la sanità e l'accoglienza delle persone più fragili, in questo caso i minori, spesso i minori stranieri, ma non solo. Credo che delle linee guida siano necessarie. È auspicabile che tutti lavorino con la vostra professionalità, per quello che ho avuto il piacere di ascoltare, e con la vostra dedizione, ma non è così per tutti.
  Abbiamo visto quanti centri di accoglienza si sono inventati all'ultimo momento, e come il bisogno abbia inciso sui comportamenti di queste persone, magari armate anche di buona volontà, che non basta, perché serve competenza. Nella sindrome da stress post-traumatico, se non si interviene con serietà, tempestività e in maniera competente e continuativa, certamente i risultati non possono arrivare e sappiamo che non è neanche detto che arrivino, come comunque non possono senza personale competente. Credo che bisognerà guardare da un punto di vista generale, poi chiaramente ognuno declinerà nel suo particolare, ma giudicherei lo sguardo nazionale molto importante.
  Ancora, io sono una pediatra, che nella sua vita ha approfondito anche il discorso dell'abuso. È vero che i bambini abusati possono essere a loro volta abusanti, anche se adesso per fortuna degli interventi possono aiutare veramente a risolvere questo problema. Lei diceva poc'anzi, e lo capisco, che se il bambino abusato andasse in una famiglia, potrebbe correre maggiore rischio di abusare o comunque di avere comportamenti non chiari, non opportuni, non so come definirli.
  Lo stesso non può accadere anche nella comunità ? Dice che c’è maggiore vigilanza, maggiore attenzione ? Temo che certi comportamenti potrebbero essere replicati anche in un ambiente comunitario, senza per questo volere mettere assolutamente in contrapposizione l'una e l'altra realtà.
  Da mamma, ma penso che possiamo condividerlo tutti, dico che la famiglia è il posto più giusto per aiutare queste persone, anche se con i minori non accompagnati capisco quanto questo sia ancora più difficile che per un bambino che non presenta certe «problematiche» culturali, problematiche per noi che non siamo vicini alla loro cultura. Bisogna guardare alla questione da più punti di vista.

  PRESIDENTE. Vorrei solo riprendere molto velocemente due punti. Credo che quello che da quest'indagine possa uscire un documento che, di fatto, costituisca il corpo di linee guida sia un proposito che dobbiamo assolutamente perseguire. Torno sul punto dell'affido, dei limiti della Pag. 13comunità e di com’è il sistema delle comunità di accoglienza.
  Oggi abbiamo ascoltato certamente una realtà, un'esperienza di alto livello. Sappiamo che non è così dappertutto. Credo che sia prima di tutto nell'interesse di chi lavora bene che si faccia luce su chi lavora male. Uno dei punti che dovremmo porci è proprio quello dei controlli. Dove le regioni si fanno carico di questo, tutt'al più si chiude. Altrove, invece, tutto è lasciato al caso, abbiamo visto e sappiamo che cosa succede ancora adesso. Non è detto, infatti, che ciò che è successo in passato non succeda tuttora. A mio avviso, deve essere prima di tutto nell'interesse delle comunità che questo emerga e finalmente si proceda, in assenza di livelli minimi di assistenza per l'infanzia, in una certa direzione.
  Tu hai detto giustamente che chi sbarca in un posto non può essere più sfortunato di un altro, ma questo vale anche per chi nasce in un posto, più sfortunato solo perché non è nato in una regione dove ci sono molte più possibilità per lui e gli vengono offerte più opportunità.
  Quanto alla contrapposizione richiamata, è ovvio che tutti idealmente immaginiamo che la famiglia sia il luogo per eccellenza. Nessuno di noi pensa diversamente. Anche chi presiede sarà ben consapevole che si tratta solo di una risposta di un certo tipo, ma sono reduce di un incontro alla Camera sulla Convenzione di Istanbul, dove sono stati forniti i dati aggiornati sulle violenze intrafamiliari: purtroppo, certe decisioni rappresentano l’extrema ratio, che però qualche volta è la salvezza.
  Ringrazio ancora padre Mengoli, al quale do la parola per la replica.

  GIOVANNI MENGOLI, Presidente del Gruppo Consorzio Cooperative sociali (CeIS). Anzitutto, faccio una precisazione. Le nostre strutture – non l'ho detto all'inizio – accolgono minori maschi e femmine, ma sono tutti preadolescenti e adolescenti, perché neanch'io avrei cuore di regolarmi diversamente. Purtroppo, so che delle comunità prendono anche bambini, ma sono rare, e credo che sia più opportuno in quel caso e forse anche più facile trovare una famiglia che faccia affido.
  Con questo mi collego anche a quanto veniva detto prima dalla senatrice Mattesini, con cui sono assolutamente d'accordo. Promuovere l'affido significa per noi anche promuovere una cultura di lavoro di comunità fondamentale. Forse ho esagerato, ma purtroppo spesso si vede questa contrapposizione, soprattutto tra gli operatori dei servizi, tra comunità e affido. La contrapposizione nasce, è evidente.
  È chiaro che il costo di una comunità è molto più alto. Giusto per fornire dei numeri, la quota affido nella nostra regione ammonta a 500 euro al mese; per un minore in comunità la tariffa si aggira più o meno intorno ai 110 euro al giorno. È evidente quali potranno essere le valutazioni. Mi sembrava, però, di aver detto che dobbiamo pensare a un sistema, all'interno del quale ognuno si occupi di un pezzetto. Sono convinto che le famiglie affidatarie debbano essere aiutate, sostenute, altrimenti ce ne saranno sempre meno. Nello stesso tempo, dico anche che le comunità lavorano a un pezzo importante del sistema.
  Per tornare alla questione dei minori abusati che possono diventare abusanti, è vero che può succedere anche in comunità, ma intanto penso a comunità, come dicevo, che non superano i 12 ragazzi, non a strutture gigantesche, ma a piccole strutture, dove c’è anche una certa intensità educativa, normalmente per noi un educatore ogni quattro ragazzi. Nei momenti di maggior presenza dei ragazzi ci sono anche persone che voglio pensare che abbiano una certa professionalità e una lettura di tipo psicologico delle situazioni che forse può prevenire situazioni di abuso intra-comunità. Poi può succedere, e quindi su questo dobbiamo essere assolutamente rigorosi e cercare di fare bene il nostro lavoro. Interessa anche a noi mostrare i risultati.
  Abbiamo raccolto, per esempio, in una nostra struttura un ragazzino vittima di Pag. 14un'adozione fallita, che aveva subìto un abuso nell'orfanotrofio da dove veniva, nel Sudamerica. Chiaramente, è diventato abusante nei confronti dei bambini della famiglia che lo aveva adottato e i genitori si sono spaventati, l'hanno allontanato, da cui il doppio abbandono. Adesso il ragazzo sta andando molto bene, ma è stato faticoso cercare di farlo prendere in carico alla sanità, per esempio, perché non veniva dal territorio italiano.
  Non ho detto prima che uno dei temi dell'integrazione socio-sanitaria è che, quando si accoglie un minore da un luogo esterno all'Italia, dove è presente la comunità, la sanità del territorio oppone molta resistenza per la presa in carico, obietta che l'attuale neuropsichiatria è quella appunto di un altro territorio. Sinceramente, in un sistema sanitario nazionale questo fa un po’ ridere. Abbiamo fatto una gran fatica. Poi, anche un po’ per non rimetterci la faccia, adesso addirittura i servizi sociali mi stanno chiedendo se posso assumere la tutela del ragazzo, che ora ha 16 anni. Sto cercando di capire che cosa significhi diventarne il tutore. So molto bene, quindi, che la situazione è piuttosto delicata.
  Quanto alla questione dei costi, delle tariffe, vi dicevo dell'indagine condotta dalla regione Emilia-Romagna, purtroppo naufragata in un bicchier d'acqua. Noi per primi, come coordinamento di comunità educative, eravamo dell'idea di mettere nero su bianco il costo dell'accoglienza. Era importante mostrare che cosa significasse mettere in rapporto uno a quattro – prima era uno a tre – la presenza educativa nel momento in cui i ragazzi si trovano all'interno della comunità. Evidentemente, ha un costo.
  Ho parlato di sette educatori, persone, teste, perché quello è il numero minimo per garantire la copertura h24, tenendo conto anche delle ferie e delle malattie, cioè dei contratti collettivi nazionali. Si ha sempre almeno una persona in turno, che però non riesce a fare tante cose. Almeno nei periodi di maggior presenza dei ragazzi, normalmente il pomeriggio e la sera, si dovrebbe avere in una comunità di 12 ragazzi un minimo di tre persone per fare un buon lavoro. È lì che si costruiscono le relazioni, ma aumentare il numero delle persone significa aumentare i costi.
  La nostra Regione ha fatto questo lavoro: benissimo, perché nella nostra idea si va verso un sistema di accreditamento, che vuol dire definire dei livelli di che cosa viene chiesto alle comunità, che per noi è anche un sistema di tutela. Significa, infatti, che non nascono comunità come funghi. Se c’è un sistema di accreditamento, le autorizzazioni al funzionamento vengono concesse in base al bisogno di un dato territorio; diversamente, c’è il Far West, che ci spaventa. Davvero non voglio che venga a gestire le comunità gente che non fa un buon lavoro. Mette in cattiva luce il lavoro che cerco di fare bene. Per noi, sarebbe molto importante questo livello di governance, almeno a livello regionale, ma nella nostra regione, anche se ho capito che non c’è in nessuna regione d'Italia.

  DONELLA MATTESINI. In realtà in esiste anche in Toscana.

  GIOVANNI MENGOLI, Presidente del Gruppo Consorzio Cooperative sociali (CeIS). In Toscana c’è, benissimo. Nella nostra regione non c’è un livello di accreditamento a livello di incrocio tra domanda e offerta per definire le tariffe. Non ce l'abbiamo ancora, e secondo me sarebbe importante, perché definirebbe i livelli di quello che viene chiesto nell'accoglienza, di che cosa ognuno può mettere.
  Aggiungo che, legato al progetto SPRAR – accogliamo anche minori che sono nello SPRAR – va benissimo, per esempio, che tutto sia a rendicontazione, perché è tutto nero su bianco. Sto lavorando, però, anch'io alla rendicontazione dei progetti, quello ministeriale, lo hub minori, e quello SPRAR, a livello nazionale, e c’è da impazzire. È una burocrazia che secondo me fa perdere solo tempo. Lo so che la ragione è che dobbiamo mostrare alla Commissione europea il lavoro svolto, ma con quanto è previsto dalle tariffe serve una persona in più che lavori solo per la Pag. 15parte rendicontativa. Chi ha un po’ di esperienza in merito può immaginare che cosa significhi, tanto più che c’è di mezzo tutta la questione della Commissione europea, e questo solo per il pezzo hub, che vuol dire che dobbiamo dimostrare che le cose sono state fatte bene, per cui c’è un controllo altissimo dal Ministero dell'interno, tutte cose che non sono così semplici.
  Un ultimo passaggio mi sembra importante sulla questione dell'uniformità dell'accoglienza. Credo che la bontà del sistema SPRAR per i minori stranieri non accompagnati sia quello di cercare di uniformare quanto è offerto al minore accolto in Sicilia o da noi. Dicevo che, anzitutto, differenzierei almeno due livelli, mentre adesso ce n’è uno solo, quello a 45 euro, che vi assicuro è modestissimo.
  In secondo luogo, un sistema simile, praticamente un governo centrale del fenomeno dei minori stranieri non accompagnati, che è importante ci sia, ovviamente presenta dei limiti: ormai è un anno e mezzo che ci lavoriamo, e posso testimoniare che è un sistema rigido. Quando un ragazzino entra nel sistema e viene collocato nella mia struttura, non è detto che le cose vadano sempre bene, perché possono esserci tante variabili. Il ragazzino può arrivare a Bologna e trovare la piazza dello spaccio, tenuta magari da quelli della sua etnia, per cui vi viene tirato dentro. Dopo non è neanche così semplice fermare questo fenomeno.
  A quel punto, si potrebbe prevedere lo spostamento in un'altra struttura, che dovrebbe avvenire per il bene del ragazzo. Se non va bene in un posto perché sta compromettendo il suo percorso, lo si sposta a Perugia. Il problema è che questo tipo di spostamenti non è per nulla facile. Il sistema, governato dal Ministero dell'interno, dal servizio centrale, non è così flessibile e rapido nel permetterlo.

  PRESIDENTE. Bene, abbiamo finito nei tempi previsti, ma chi vuole può aggiungere ancora qualcosa, visto che per una volta non siamo inseguiti dai secondi.

  LUCA ZOTTOLI, Socio e volontario del CeIS. Vorrei intervenire su due aspetti su cui forse il legislatore può aiutare a venire incontro alla realtà.
  Come per il servizio civile internazionale, credo che si potrebbe sempre più incoraggiare la multiculturalità anche tra gli operatori. Abbiamo un operatore iraniano che in due passaggi ottiene quello che un italiano otterrebbe in cinque. Hanno la stessa grammatica.
  Inoltre, non è politicamente corretto – sarò arrestato immediatamente – ma forse servirebbero in quest'ambito più quote azzurre. La gestione della notte è spesso complicata per una ragazza, per una donna, non evidentemente perché non sia capace, ma perché a volte incontra una cultura in cui non viene considerata. È veramente complicato. Questi sono due aspetti che creano problemi.

  PRESIDENTE. Ringrazio i nostri ospiti e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 15.