XVII Legislatura

Commissione parlamentare per le questioni regionali

Resoconto stenografico



Seduta n. 2 di Giovedì 26 marzo 2015

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
D'Alia Gianpiero , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE PROBLEMATICHE CONCERNENTI L'ATTUAZIONE DEGLI STATUTI DELLE REGIONI AD AUTONOMIA SPECIALE, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL RUOLO DELLE COMMISSIONI PARITETICHE PREVISTE DAGLI STATUTI MEDESIMI

Audizione dei professori Beniamino Caravita di Toritto e Francesco Palermo.
D'Alia Gianpiero , Presidente ... 3 
Caravita Di Toritto Beniamino , professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico nella facoltà di scienze politiche, sociologia e comunicazione dell'università «La Sapienza» di Roma ... 3 
D'Alia Gianpiero , Presidente ... 8 
Palermo Francesco , professore associato di diritto pubblico comparato presso l'università degli studi di Verona ... 8 
D'Alia Gianpiero , Presidente ... 14 
Palermo Francesco , professore associato di diritto pubblico comparato presso università degli studi di Verona ... 14 
Serra Manuela  ... 14 
Palermo Francesco , professore associato di diritto pubblico comparato presso università degli studi di Verona ... 14 
D'Alia Gianpiero , Presidente ... 14

Testo del resoconto stenografico
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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIANPIERO D'ALIA

  La seduta comincia alle 8.05.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
  (Così rimane stabilito).

Audizione dei professori Beniamino Caravita di Toritto e Francesco Palermo.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle problematiche concernenti l'attuazione degli statuti delle regioni ad autonomia speciale, con particolare riferimento al ruolo delle Commissioni paritetiche previste dagli statuti medesimi, l'audizione dei professori Beniamino Caravita di Toritto, professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università La Sapienza di Roma e del professor Francesco Palermo, professore associato di diritto pubblico comparato presso l'Università degli studi di Verona.
  Ringrazio i professori per la disponibilità dimostrata e do subito la parola al professor Beniamino Caravita di Toritto per lo svolgimento della relazione.

  BENIAMINO CARAVITA DI TORITTO, professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico nella facoltà di scienze politiche, sociologia e comunicazione dell'università «La Sapienza» di Roma. Ringrazio la Commissione di questa occasione di riflessione.
  Dico subito che mi colloco, rispetto a coloro che sono stati auditi nella precedente indagine conoscitiva svolta dalla Commissione, fra le limitate eccezioni: nella lettera con la quale sono stato convocato, si precisa infatti che gli esperti auditi in tale occasione, salvo limitate eccezioni, hanno sostanzialmente confermato il perdurare, quantomeno dal punto di vista etnico-culturale, delle esigenze che hanno storicamente giustificato il conferimento di particolari forme di autonomia alle regioni speciali.
  Sinceramente io mi colloco fra le eccezioni, poiché penso che le esigenze che hanno portato all'istituzione delle regioni speciali, siano in larga misura superate. Sono superate per quanto riguarda il Friuli Venezia Giulia, che aveva, per la sua collocazione in Europa, un senso come regione speciale, mentre oggi è una regione al centro dell'Europa.
  Sono in larga misura superate, o comunque di non peculiare rilievo, le esigenze di autonomia speciale della Val d'Aosta. Sono, a mio giudizio, superate anche le esigenze di autonomia speciale della Sicilia e della Sardegna, le quali possono essere risolte attraverso strumenti diversi, cioè con l'attuazione di princìpi propri del diritto nazionale e comunitario che permettono di superare le difficoltà delle regioni.
  Vi cito due esempi rapidissimi: la questione della continuità territoriale, che sicuramente rappresenta un problema per la Sicilia e per la Sardegna, ma che è possibile superare attraverso la previsione di oneri di servizio pubblico per soggetti aerei o marittimi che effettuano trasporto Pag. 4verso le isole; oppure il problema delle interferenze dei canali televisivi o telefonici, le quali vengono risolte non a livello regionale bensì a livello nazionale, attraverso accordi che lo Stato fa con gli altri Stati.
  Rimane naturalmente il problema assolutamente peculiare dello statuto del Trentino-Alto Adige, su cui però forse sarebbe giunto il tempo di una riflessione, sia sui rapporti fra Italia e Austria, per valutare se è ancora giustificata l'idea di una tutela internazionale dell'Austria sulla base dell'accordo cosiddetto De Gasperi-Gruber ovvero se essa non sia destinata a dissolversi all'interno dei princìpi di tutela delle minoranze linguistiche previsti dal diritto dell'Unione europea. Occorre quindi valutare se ha senso il permanere di una collocazione peculiare della provincia di Bolzano. Vogliamo davvero costruire questa «buffa» regione – mi scusi l'amico carissimo Francesco Palermo, ma l'avevo avvertito che avremmo detto cose diverse – tenendo insieme il Trentino e l'Alto Adige, per tenere sotto controllo l'area di lingua tedesca ?
  Un ultimo elemento a testimonianza del superamento di questa fase è la discussione, rivelatasi finora inconcludente, sulla riorganizzazione territoriale delle regioni. Negli ultimi mesi, è stata avviata una discussione sulla questione della riorganizzazione delle regioni nell'ambito della Commissione istituita presso il Ministero degli affari regionali di cui faccio parte – la quale, sostanzialmente, non è giunta ad alcuna conclusione per due ordini di motivi: da un lato, perché non si è individuato il senso politico di tale questione, dall'altro perché l'intera discussione si è scontrata e arenata sul tema «cosa facciamo delle regioni a statuto speciale».
  È chiaro che, se voglio riorganizzare 20-21 entità territoriali, oltre a 10-15 città metropolitane, o affronto il tema delle regioni a statuto speciale, oppure pensare di riorganizzare il territorio del Paese lasciando da parte la riflessione su 10 milioni di abitanti non ha alcun senso.
  Personalmente credo che si siano perse alcune occasioni che, non so, se e quando si recupereranno. Un'occasione persa è stata la legge sul federalismo fiscale, che ha fatto la scelta di mantenere le regioni a statuto speciale in una posizione marginale.
  Poi vi è l'occasione fornita dalla legge n. 56 del 2014, cosiddetta legge «Delrio», che ancora una volta dimostra la stranezza di una legge nazionale che introduce le città metropolitane e riorganizza le province lasciando a un destino incontrollato e incontrollabile 10 milioni di abitanti. So che tratto un tema delicato e importante per il presidente, sul quale peraltro la rivista che dirigo, Federalismi, ha costituito un Osservatorio, nel quale ha inserito anche le cinque istituende città metropolitane delle regioni a statuto speciale.
  A me pare infatti un «non senso» la riorganizzazione territoriale del Paese con riguardo ai 25-30 milioni di abitanti delle città metropolitane facenti parte delle regioni a statuto ordinario, la quale non ragioni anche dei 5, 6 o 7 milioni di persone – non ho i numeri precisi – delle possibili città metropolitane delle regioni a statuto speciale.
  La terza occasione che si è persa è, probabilmente, la riforma oggi in discussione. Capisco le ragioni politiche di tale scelta, poiché era difficile inserire il tema delle regioni a statuto speciale all'interno di un progetto di riforma già così ampio; tuttavia, a mio giudizio, abbiamo perso un'altra occasione. Siccome il Governo ha detto che il tema del riordino territoriale delle regioni è un tema non abbandonato ma semplicemente spostato a un momento successivo all'approvazione della riforma, il mio auspicio è che, quando ripartirà la discussione sulla riorganizzazione territoriale delle regioni, possa ripartire anche una riflessione seria sul senso e sul significato delle autonomie speciali.
  Non si tratta di una riflessione che spetta solo ai giuristi o ai costituzionalisti, perché il senso delle autonomie speciali è un significato anche storico, economico, sociologico, etnico e linguistico. Quindi, se deve essere svolta una riflessione su tale tema, essa deve investire l'idea culturale del Paese, nei suoi rapporti con l'Europa e con tutto il Mediterraneo.Pag. 5
  È inutile, infatti, che vi ricordi che oggi il più grande problema della Sicilia è forse nei confronti del sud e non del nord. Per quanto vi siano dei problemi anche con i Paesi a nord, oggi il problema della Sicilia oggi è la sua collocazione di avamposto e il rischio di un'immigrazione di massa proveniente dalle coste meridionali del Mediterraneo.
  Il mio auspicio è, quindi, che si possa arrivare a una riflessione corposa sul senso delle autonomie speciali. Posto che non è questo il momento per svolgere tale riflessione, dopo avervi spiegato la mia idea generale non andrò nel dettaglio delle singole questioni.
  Questo schema di approccio spiega anche molte delle difficoltà nell'attuazione delle regioni a statuto speciale. Un ulteriore punto di difficoltà sarà costituito dal rapporto fra la riforma del Titolo V e la nuova riforma, perché la riforma del Titolo V prevedeva che tutte le disposizioni più favorevoli previste dall'articolo 117, terzo e quarto comma, si applicassero anche alle regioni a statuto speciale.
  Qual è l'effetto della riscrittura dell'articolo 117 ? Rispetto alle competenze statutarie, si ritornerà indietro o rimarranno congelate le competenze maggiori attribuite alle regioni a statuto speciale ex 117, terzo e quarto comma ? In base alla disposizione finale della legge n. 3 del 2001, le disposizioni più favorevoli contenute nella riforma dovevano applicarsi anche alle regioni a statuto speciale. Molte delle disposizioni contenute nell'articolo 117, terzo e quarto comma, sono state modificate riconducendo alcuni poteri allo Stato.
  Qual è il regime che si applicherà alle regioni a statuto speciale ? Il vecchio regime statutario o il regime della legge n. 3 del 2001 ? Questa è una domanda che mi sono posto, ma alla quale, personalmente, non so dare risposta.
  Immaginavo che la risposta del senatore Palermo sarebbe stata che rimane vigente il regime previsto dalla legge n. 3 del 2001, ma si tratta di una questione su cui ragionare, anche dal punto di vista giuridico.
  Ciò posto, a me pare che le difficoltà nell'attuazione degli statuti speciali nascano da questa situazione, da una distonia, da una discrasia fra la situazione politica ed economica di fatto e degli strumenti per affrontarla. Gli strumenti a favore delle regioni a statuto speciale sono molto forti: la legge costituzionale di autonomia, decostituzionalizzata per la parte finanziaria, perché lo schema di legge costituzionale con cui si approvano gli statuti è decostituzionalizzata per gli articoli che riguardano le risorse finanziarie. Quindi, c’è una tutela forte il nucleo delle funzioni esercitate e una tutela egualmente forte, ma più elastica, per le risorse finanziarie, perché esse vengono decise addirittura, nel caso, se non sbaglio, del Trentino e della Sicilia, attraverso un accordo con la regione, negli altri casi, sentita la regione.
  Questo è un vulnus enorme all'unità del Paese. Ricordo a me stesso e alla Commissione che qualche anno fa, prima dell'approvazione della legge sul federalismo fiscale, la regione Lombardia propose che spettasse alla regione non una quota fissa dei tributi raccolti sul territorio, bensì che le spettassero i tributi raccolti sul territorio tranne la quota di spese generali, la quota di spesa per la solidarietà interregionale e la quota di spese per il debito pubblico. La regione Lombardia sostenne di non voler fissare nella legge il 60, il 70, l'80 per cento, ma il principio per cui spetta tutto alla regione, tranne le tre quote che dovevano esser decise in sede di confronto nell'ambito della Conferenza Stato-regioni, relative alle spese generali, alle spese per la solidarietà interregionale e alla quota spettante alla regione «x» sul debito pubblico.
  Su questa proposta della regione Lombardia si alzarono alti lai, poiché si ritenne che la proposta spaccasse l'unità del Paese. La proposta non andò avanti, sebbene questo schema sia identico a quello proprio delle regioni a statuto speciale.
  Quando proposi questo schema per la regione Lombardia avevo ragionato su quello adottato per le regioni a statuto speciale, cercando di elaborare una proposta Pag. 6che non fosse estremista bensì ragionevole, cercando, dunque, di bilanciare le esigenze di attribuzione al territorio delle risorse raccolte sul territorio stesso con quelle di solidarietà generale.
  Aver rifiutato questa proposta è ciò che ci ha condotto nel caos teorico e pratico della legge sul federalismo fiscale. Aver pensato che tutte le risorse vanno allo Stato per poi essere redistribuite sulla base di previsioni di costi standard corretti rispetto ai costi storici ci ha cacciato in un ginepraio dal quale non usciremo mai e nel quale la accountability cioè la responsabilità degli enti regionali e locali di governo scompare. Infatti, se occorre stabilire i costi standard, prevedere una fase di transizione dai costi storici ai costi standard che dura un tempo «x», ciò significa che, prima di poter attribuire le responsabilità occorrerebbe moltissimo tempo.
  L'applicazione a tutto il sistema Paese di un regime simile a quello delle regioni a statuto speciale avrebbe probabilmente condotto a un meccanismo più semplice e con un maggior livello di accountability, ossia di responsabilità degli enti regionali e locali di governo; non avrebbe spaccato l'unità del Paese – perché si sarebbe potuto introdurre temperamenti, anche più rigorosi di quelli da me già illustrati – e avrebbe rispettato un principio generale di autonomia, cioè il principio che il governo del Paese deve avvenire in maniera responsabile, individuando i livelli di decentramento e criteri di riorganizzazione territoriale possibile. Inoltre, tale applicazione avrebbe probabilmente stemperato il conflitto evidente fra le regioni a statuto speciale e le regioni a statuto ordinario.
  Non è un caso che la prima cosa che chiede la città di Bergamo sia la regione a statuto speciale. Non è un caso che una delle richieste che viene dalla città di Roma è Roma capitale come regione a statuto speciale. Non è un caso che i meccanismi della specialità, così differenziati dai meccanismi vigenti per le regioni a statuto ordinario, aprano un livello di conflitto fra regioni a statuto speciale e a statuto ordinario che è difficilmente risolvibile.
  La questione è, naturalmente, di natura politica. Si tratta di capire quant’è oggi non tanto il peso sociale delle «specialità», ovvero il loro significato, quanto, piuttosto, il loro peso politico. Se pensiamo al Trentino-Alto Adige e alla Sicilia, che pongono esigenze peculiari, e pensiamo che difficilmente esse accetteranno modifiche al proprio regime speciale, appare chiaro, tuttavia, che se tali situazioni rimangono bloccate sarà difficilissimo svolgere una riflessione generale sulle regioni a statuto speciale. Ma il problema, secondo me, rimane in piedi.
  È chiaro che le ragioni delle difficoltà nell'attuazione degli statuti speciali non sono solamente di tipo tecnico; possiamo anche ragionare su qualche strumento tecnico, ma le ragioni delle difficoltà sono di tipo politico. Rispetto all'ampio strumentario dell'autonomia delle regioni a statuto speciale, che è composto da legge costituzionale, decostituzionalizzazione delle norme finanziarie, norme di attuazione organizzate da Commissioni paritetiche, decreti legislativi delegati che diventano norme interposte nel giudizio sulle leggi statali e regionali e diventano criterio di interpretazione degli Statuti, è chiaro che lo strumentario è così ampio che tutte le volte che si può mettere un sassolino dentro, lo si mette.
  In occasione di questa audizione non parlo a giuristi, parlo a un organo che deve fare valutazioni politiche. Le ragioni quindi non sono ragioni tecniche, alle quali potremmo forse anche trovare soluzione, ma risiedono in questo schema complessivo.
  Rispondo ad alcune domande. Le ragioni politiche della ritardata o mancata attuazione ve le ho riferite, così come vi ho comunicato il mio giudizio sull'ultima questione. Lo strumento del decreto legislativo è un gran bello strumento dal punto di vista teorico; lo strumento «Commissione paritetica-decreto legislativo per le norme di attuazione», sotto il profilo teorico, è una grande idea, perché è lo strumento Pag. 7più rapido per l'attuazione delle norme, e per svolgere il ruolo che, a livello nazionale, è stato svolto dal decreto del Presidente della Repubblica n. 616 del 1977 o dalle leggi Bassanini; esso è, inoltre, lo stesso strumento che è stato poi adottato per l'attuazione dell'articolo 117, prima della riforma costituzionale. Il decreto n. 616 del 1977 e le leggi Bassanini hanno adottato lo strumento di una Commissione, non paritetica in quel caso (nel caso del decreto del Presidente della Repubblica n. 616, si trattò della Commissione Giannini), e poi il decreto legislativo.
  Quindi, la coppia «Commissione paritetica-decreto legislativo» è una soluzione tecnicamente ineccepibile ed è la migliore che si possa adottare. In tal modo do la risposta tecnica alla domanda sullo strumento del decreto legislativo.
  Sul carattere vincolante delle norme di attuazione delle regioni a statuto speciale e la loro sindacabilità, la giurisprudenza della Corte si è mossa nella direzione di una forte autolimitazione. Non mi pare che si sia mai pronunziata esplicitamente sulla sindacabilità delle norme di attuazione, – su questo punto, eventualmente, il professor Palermo mi correggerà – però permane sicuramente l'idea che si tratti di norme di rango superiore, il che fa sì che le norme stesse fungano anche da parametro nei giudizi di costituzionalità sulle norme statali e regionali.
  Circa le Commissioni paritetiche, è evidente che i ritardi nella loro composizione abbiano influito. Tuttavia, tali ritardi vanno fatti risalire a quelle difficoltà iniziali nell'attuazione di sistemi così favorevoli e così disparati rispetto alle regioni a statuto ordinario.
  Codificazione della procedura di adozione: mi sembrerebbe un'ottima idea, ma siamo sempre all'interno delle soluzioni tecniche che scontano, quindi, la mancata soluzione del problema politico generale.
  Quanto alla mancata attuazione delle disposizioni degli statuti regionali come causa principale del contenzioso Stato-regioni speciali: credo che, se andassimo a fare una verifica – ma anche su questo il professor Palermo avrà sicuramente dati più precisi – di quanti sono i contenziosi derivanti dalla mancata attuazione degli statuti delle regioni a statuto speciale, scopriremmo che tale percentuale è ridottissima rispetto alle enormi difficoltà interpretative della riforma del Titolo V e, quindi, all'enorme mole di contenzioso nato dalle difficoltà nell'individuare le materie del 117, terzo e quarto comma. Su tale questione, peraltro, non è il caso che mi soffermi in questa sede.
  Certo, la mancata attuazione degli statuti può essere stata una fonte di contenzioso, ma è una fonte di contenzioso che rispetto al grande caos creato dalla riforma del Titolo V appare una questione di valore estremamente ridotto.
  Un'ultima considerazione riguarda la valutazione, di cui non ho contezza in questo momento, ma che forse sarebbe interessante fare, di quale potrebbe essere l'influenza dei senatori provenienti dalle regioni a statuto speciale sulla composizione del Senato e, quindi, in che misura i senatori provenienti dalle regioni a statuto speciale influenzeranno la formazione di maggioranze parlamentari. Se il Senato sarà un organo a composizione variegata, nel quale non sarà individuabile una maggioranza chiara – cosa che è molto probabile, essendo il criterio di composizione non politico, ma territoriale – è possibile infatti che i senatori delle regioni a statuto speciale vi assumano un ruolo determinante per la formazione della maggioranza. Se ciò fosse vero, il rischio a cui dobbiamo stare attenti è il rischio che si è verificato in Spagna, che si creino maggioranze politiche alla Camera che si appoggiano a partiti regionali al Senato per creare o rafforzare la propria posizione di maggioranza.
  Questo è il modello che si è realizzato in Spagna, quasi sempre con Governi che avevano la maggioranza relativa e, spesso, non quella assoluta, i quali erano costretti ad accordarsi con i partiti regionali. Se questa fosse la situazione, occorrerebbe porvi attenzione.
  Infine, credo che il Paese abbia troppo rapidamente abbandonato la strada indicata dall'articolo 116 della Costituzione, Pag. 8cioè quella del regionalismo differenziato. Mi rendo conto che il regionalismo differenziato possa essere complicato da attuare, perché esso presuppone una grande autorevolezza ma anche una grande flessibilità a livello di governo centrale.
  Purtroppo il Governo dell'Italia non è caratterizzato da grande autorevolezza, tranne forse, come spero, in quest'ultima fase politica, nella cui autorevolezza e nella cui capacità di guida confido molto, non per ragioni politiche ma per ragioni di tenuta del Paese. Qualche tempo fa mia moglie mi chiese perché io parlassi bene di tutti i Governi e se cambiassi idea ogni anno (in realtà, in questo Paese, se parli bene di tutti i Governi cambi idea praticamente ogni anno). Io rimasi colpito e risposi che il problema non è la direzione politica del Governo; la questione è che il Paese ha bisogno di una guida, di essere indirizzato, di avere, cioè, una leadership che dia una direzione, dopodiché ci si scontra politicamente.
  Questo è un Paese purtroppo finora caratterizzato da scarsa autorevolezza dei Governi centrali e da scarsissima flessibilità degli apparati amministrativi. Ciò spiega probabilmente le grandi difficoltà di attuazione dell'articolo 116 della Costituzione sul regionalismo differenziato; è chiaro, tuttavia, che se intendiamo mantenere aperta la prospettiva di un regionalismo speciale, la strada dovrebbe essere quella dell'avvicinamento fra regioni a statuto speciale e regioni a statuto ordinario.
  Questo avvicinamento può avvenire solamente in due modi: riducendo l'autonomia delle speciali o aumentando il tasso di autonomia e di differenziazione delle regioni a statuto ordinario. Lo strumento costituzionale c’è ed è l'articolo 116, che in realtà ha avuto solamente due tentativi, nemmeno troppo convinti, di attuazione – l'uno da parte della regione Lombardia e l'altro da parte della regione Toscana – per poi fermarsi completamente.
  Ringraziando il presidente, mi fermerei qui.

  PRESIDENTE. Ringrazio il professore Caravita di Toritto. Tra i tanti temi interessanti che il professor Beniamino Caravita di Toritto ha introdotto nella nostra indagine conoscitiva, ne ha citato uno sul quale ci riserviamo – non in questa sede, ma sempre nel corso dei nostri lavori – di tornare: il tema della riorganizzazione territoriale del sistema delle regioni e degli enti locali, città metropolitane comprese. Poiché il professore è componente della Commissione insediata dal Governo per studiare in maniera specifica questo settore, gli chiederemo di tornare, poiché affronteremo questi temi e avremo quindi bisogno del suo contributo.
  Non essendoci richieste di intervento, ringrazio il professor Beniamino Caravita di Toritto.
  Do la parola al professor Francesco Palermo.

  FRANCESCO PALERMO, professore associato di diritto pubblico comparato presso l'università degli studi di Verona. Ringrazio innanzitutto per l'invito il presidente e i componenti della Commissione.
  Sarò molto rapido, cercando di fare il pendant rispetto a quello che diceva il professor Caravita di Toritto. Parto esattamente dal punto in cui è terminata la sua relazione, cioè la considerazione sulle diverse possibilità di adeguamento. C’è un equivoco nella dottrina italiana, che si ripercuote con ancora più forza nella discussione politica, ed è la questione del superamento della specialità.
  È chiaro che, trattandosi di uno strumentario abbastanza vecchio e non aggiornato – non dimentichiamo che gli statuti speciali non sono stati aggiornati dopo la riforma del Titolo V – non si può pensare di non mettere in discussione la questione della specialità. Tuttavia, il problema che non si affronta mai è in che modo metterla in discussione. C’è chi dice – mi pare che, in parte, anche il professor Caravita di Toritto vada in questa direzione, sostenuta dal professor Bin da molto tempo – che le regioni speciali in realtà siano solo il Trentino-Alto Adige e la Valle d'Aosta. Ciò tuttavia significherebbe aumentare ulteriormente Pag. 9il fossato che già esiste tra queste due piccole regioni e il resto dell'Italia.
  Il punto non è non discutere la specialità, ma capire quale deve essere l'alternativa ad essa. Nel discorso accademico, in prevalenza, e nella discussione politica, ancora di più, l'alternativa che viene prospettata è che questo Paese così articolato, sofisticato, complesso e complicato, venga governato dal centro. Questa mi pare la risposta sbagliata a una domanda giusta. La specialità ha fatto il suo tempo per alcuni versi e per alcune procedure ? Probabilmente sì, ma pensare che da una macchina amministrativa così «pesante» – come sosteneva anche il professor Caravita – possa venire la soluzione, spaventa un po’. Bisogna allora farsi la domanda giusta e darsi anche delle risposte possibilmente diversificate.
  Detto questo, siccome oggi le domande riguardano il ruolo delle Commissioni paritetiche e delle norme di attuazione, rispondo sinteticamente, per brevi cenni, a tutte le domande che sono state formulate.
  Ragioni della ritardata o mancata attuazione degli statuti. Intanto, come già diceva anche il professor Caravita, il punto in realtà non è solo giuridico ma è, direi, prevalentemente, di natura politica. Non è giuridico perché gli strumenti e le procedure per l'adeguamento degli statuti ci sono, naturalmente, e non è nemmeno vero che gli statuti siano poco attuati. Ci sono situazioni tra loro molto diverse.
  Cito qualche dato. Le norme di attuazione dello statuto del Trentino-Alto Adige approvate a tutto il 2013 sono 168, il che vuol dire circa dieci volte tanto quelle della Sicilia e venti volte quelle della Sardegna. In queste due ultime regioni, Sicilia e Sardegna, le poche norme approvate sono tutte piuttosto risalenti; non si è fatto quasi niente negli ultimi vent'anni, se non cose di scarsissimo peso.
  È ovvio che ciò dipende da ragioni politiche. Nella legislatura 2006-2011 per il Trentino-Alto Adige sono state emanate ventisette norme di attuazione, per il Friuli Venezia Giulia nove, per la Valle d'Aosta otto, per la Sardegna sei, per la Sicilia quattro.
  In questa legislatura l'andamento è ancora più marcato. Le Commissioni paritetiche per il Trentino-Alto Adige stanno producendo una valanga di norme, in base a un accordo politico che esiste con il Governo, e quasi nessuna le altre regioni speciali. Ricordo che, durante la stagione del Governo Monti, non se ne fece nemmeno una, nemmeno per il Trentino-Alto Adige. Dipende tantissimo dal clima politico.
  Non è il problema della macchina. La macchina funziona, dipende però dalla benzina, che è la politica; la responsabilità di mettere o non mettere la benzina è sia dello Stato, sia delle regioni, ovviamente. Alcune regioni hanno privilegiato molto il canale della normativa di attuazione, altre regioni hanno privilegiato altri tipi di canali politici, che si sono rivelati molto meno efficaci in termini di sviluppo della specialità. Penso soprattutto alla questione della Sicilia.
  Termino sulla prima domanda, con una brevissima chiosa. Era molto interessante la suggestione finale rispetto al ruolo dei senatori delle regioni a statuto speciale nel futuro Senato. Il punto è, anche lì, di natura politica, più che giuridica: così come è già accade attualmente, ci sono alcune regioni che interpretano la rappresentanza in senso territoriale e altre che la interpretano in senso partitico. Quindi, non credo che cambierà moltissimo, da questo punto di vista. Suppongo che, come è sempre stato fino adesso, non ci sarà la delegazione parlamentare siciliana, mentre sarà molto più presente quella del Trentino-Alto Adige, per esempio, e della Valle d'Aosta, per ovvie ragioni, visto che elegge un senatore e un deputato.
  Questo è il quadro. La questione è di natura politica ma la macchina di per sé non va male.
  Seconda domanda: il decreto legislativo è ancora lo strumento migliore per l'attuazione ? Direi che è l'unico strumento a disposizione. Questo è il problema. Non esiste, stante il sistema delle fonti, un altro Pag. 10strumento per modificare le norme di attuazione in vigore. Trattandosi, infatti, di norme di rango particolare, non c’è altra possibilità, se non quella di mantenere in vita le Commissioni paritetiche per poter modificare la normativa di attuazione. Da questo meccanismo quindi non si esce, a meno di non voler statutarizzare tutto, il che sostanzialmente è impossibile: ciò risulta chiaro se prendiamo ad esempio i contenuti delle normative di attuazione che sono state approvate, i quali sono molto dettagliati.
  Oltretutto, questa è l'espressione del principio pattizio che, secondo la giurisprudenza costituzionale, è ciò che distingue le regioni a statuto speciale dalle regioni a statuto ordinario. Questo è l'elemento reale e non la quantità di autonomia, di competenza, o di finanziamento propri di ciascuna regione. Noi sappiamo che nella prassi esistono delle regioni a statuto ordinario che sono in realtà «più speciali» di molte regioni a statuto speciale. Non è, quindi, soltanto la capacità amministrativa a distinguere le regioni a statuto ordinario da quelle a statuto speciale, ma anche la presenza, o meno, del principio pattizio.
  Ci possono essere naturalmente altri strumenti per incarnare questo principio, per esempio la legge ordinaria paritetica, già ricordata dal professor Caravita e prevista da alcuni statuti per la modifica delle parti finanziarie degli stessi, ma anche questo strumento non risolverebbe il problema delle modalità con cui modificare le norme di attuazione esistenti.
  Terza domanda: cosa dice la giurisprudenza sulla vincolatività e la sindacabilità delle norme di attuazione ? Anche su questo punto si è già pronunciato il professor Caravita, in maniera molto chiara. La Corte Costituzionale ha affermato, in materia di sistema delle fonti, che si tratta di una fonte atipica, rafforzata e interposta, in posizione intermedia, cioè, tra la legge costituzionale e la legge ordinaria. Di conseguenza, non è mai arrivata a dichiarare l'illegittimità costituzionale, nemmeno parziale, di queste norme. Ciò è avvenuto perché, come affermato dalla sentenza n. 213 del 1998, il meccanismo di approvazione di tali norme rappresenta «tra le realizzazioni astrattamente possibili dell'autonomia regionale speciale, quelle storicamente vigenti», in pratica quelle che si sono incorporate con il dialogo politico, «e dunque la migliore realizzazione realisticamente possibile dell'autonomia, giacché tali norme costituiscono un limite, superato il quale si determinerebbero conseguenze non controllabili relativamente a quell'equilibrio complessivo dell'ordinamento cui le norme di attuazione sono preordinate». Praticamente un self-restraint assoluto, e infatti non ci sono mai state dichiarazioni di incostituzionalità, pur essendo ciò teoricamente possibile.
  La quarta domanda – anche questa è una domanda di natura sostanzialmente politica – riguarda il timore del Governo di vincolarsi troppo e quindi di adottare poche norme di attuazione: direi che probabilmente questo rischio potrebbe esserci, per il semplice motivo che l'autonomia speciale è sempre vista come un'eccezione. Pur riguardando, infatti, il 25 per cento delle regioni, oltre il 20 per cento del territorio e un'ampia parte della popolazione, viene comunque vista come qualcosa di eccezionale, da contenere il più possibile e, possibilmente, cercare di superare.
  Questo è il motivo per cui le norme di attuazione si danno al Trentino-Alto Adige che perora la sua causa con più veemenza rispetto alle altre regioni speciali. Questo crea un vulnus per tutto il sistema regionale, non soltanto per la specialità.
  La quinta domanda riguarda i ritardi nell'adozione delle norme di attuazione e la codificazione della procedura. Su questa domanda mi soffermo maggiormente perché è molto interessante. I fattori che determinano il ritardo nella composizione delle commissioni paritetiche sono di natura prevalentemente politica; un certo rallentamento è inevitabile per il fatto che le Commissioni paritetiche sono organi consultivi del Governo, quindi cambiano o comunque devono essere rinnovate a ogni cambiamento del Governo. Sappiamo che Pag. 11questo Paese si è caratterizzato spesso per instabilità dei Governi e, di conseguenza, questo elemento è inevitabile.
  Tuttavia, anche rispetto ai soggetti che compongono tali commissioni, c’è da fare, a mio avviso, una riflessione di non poco momento. Nelle Commissioni paritetiche, storicamente, c’è sempre stata una prevalenza di accademici – il che non può che essere salutato positivamente nella mia prospettiva – però bisogna anche dire, in senso critico, che gli accademici non solo sono spesso molto impegnati e hanno la testa anche altrove, ma sono spesso meno votati al compromesso. Se l'idea non funziona tanto bene e non ha una struttura sistematica non va bene.
  La Commissione paritetica per il Trentino-Alto Adige, cioè la «macchina» di norme di attuazione che è l'unica che ha funzionato fino adesso, è sempre stata invece una composizione prevalentemente, se non assolutamente ed esclusivamente, politica. Questo dato, sul piano sistematico, va malissimo, perché se, come oggi, essa è composta in prevalenza da parlamentari, mentre l'iter di approvazione delle norme di attuazione non prevede passaggi parlamentari si determina un corto circuito logico. D'altra parte, è anche vero che una composizione prevalentemente politica rende questa Commissione paritetica drammaticamente più efficiente di tutte le altre. Io non ho una risposta a tale questione, però ve la segnalo.
  Per quanto riguarda la procedura di adozione, al momento non codificata, naturalmente c’è molto spazio per la discrezionalità. Ad esempio, non è previsto il termine entro il quale i ministeri devono dare i pareri rispetto alle proposte che emergono dalle varie Commissioni paritetiche.
  Ciò, in concreto, significa che, se non ci sono buoni rapporti politici, c’è il rischio che si blocchi tutto. Se posso permettermi, un po’ ironicamente io lo chiamo il «no romano»: non è un «no», è un silenzio. Si chiede qualcosa, dopodiché nessuno risponde e questo è il «no romano». Non esistendo nessuna procedura per la quale, per esempio, i ministeri siano obbligati a rispondere entro un certo termine, se non ci sono «spinte» forti può bloccarsi tutto in qualunque momento. Potrebbe essere utile, in questo caso, pensare a un silenzio-assenso, adeguando la procedura.
  Inoltre, non c’è un termine per la trattazione delle norme in seno al Consiglio dei ministri dopo l'approvazione definitiva delle stesse da parte della Commissione paritetica. Tale aspetto è forse un po’ più difficile da affrontare, perché bisognerebbe modificare la legge n. 400 del 1988, ma qualche riflessione si potrebbe fare.
  Altra domanda è quella relativa alla questione della insufficiente o ritardata attuazione degli statuti come causa di contenzioso. Come già ricordava il professor Caravita, dal punto di vista numerico, i contenziosi sulla mancata o ritardata attuazione degli statuti sono molto pochi. È vero che sussiste un problema connesso alla ritardata attuazione perché, in assenza della normativa di attuazione, ovviamente si applica la normativa statale e questo può generare dei conflitti, come spesso accade.
  Però, attenzione ! Uno dei mantra di questa riforma costituzionale in corso è l'eccesso di conflittualità tra Stato e regioni. Questo aspetto va tuttavia un po’ ridimensionato, perché la conflittualità, che era aumentata moltissimo nei primi anni di applicazione del Titolo V così come modificato nel 2001, si è poi stabilizzata. Il picco è stato raggiunto intorno al 2007-2008, poi la conflittualità è decisamente diminuita perché, ovviamente, l'assetto si è sistematizzato. Immagino dunque ci potrà essere un elevato grado di conflittualità anche dopo l'introduzione del nuovo assetto ma, a mio giudizio, il conflitto, da un punto di vista costituzionale, non è di per sé un dato negativo. A tale proposito, ricordo che la nascita del regionalismo ordinario in questo Paese, negli anni Settanta e Ottanta, è stata possibile solo attraverso il continuo ricorso delle regioni più «battagliere» alla Corte costituzionale, la quale ha poi, gradualmente, tracciato i confini dell'autonomia regionale.Pag. 12
  Attenzione, lo dico anche in senso autocritico, a non utilizzare le norme di attuazione come strumento di soluzione dei conflitti. Questa è una cosa che la normativa di attuazione approvata per il Trentino-Alto Adige spesso ha fatto. In che modo ? La provincia di Bolzano o di Trento fa, ad esempio, una legge che viene impugnata dallo Stato e, per evitare che la Corte costituzionale la dichiari illegittima, viene approvata una norma di attuazione che dà copertura alla norma impugnata. Questo è alquanto problematico sotto il profilo sistematico. Ci sono casi di questo tipo anche attualmente, ad esempio per quanto riguarda la questione della disciplina della distanza tra edifici in deroga a quanto stabilito dal Codice civile, o altre ancora. Insomma, tali problemi potrebbero porsi.
  Ancora più complesso è il problema finanziario, perché l'articolo 27 della legge sul federalismo fiscale ha stabilito, come sappiamo, il principio essenziale della pariteticità nei rapporti anche per quanto riguarda il contributo delle autonomie speciali al risanamento della finanza pubblica. Le tre regioni ad autonomia speciale del nord, dopo l'entrata in vigore di quella legge, hanno concluso degli accordi con lo Stato, ma lo Stato non ha rispettato tali accordi.
  La Corte costituzionale ha detto che, nel merito, lo Stato può intervenire unilateralmente per ragioni emergenziali ma con modalità paritetiche. Ciò ha dato la possibilità, attraverso una serie di ricorsi, poi ritirati, di adeguare gli accordi, che attualmente però sono stati conclusi soltanto dal Trentino-Alto Adige e dal Friuli Venezia Giulia.
  La Corte costituzionale ha affermato in modo molto chiaro che le regioni vincono quando lo Stato viola la procedura, non quando viola la sostanza. Nel caso della famosa sentenza n. 109 del 2011, lo Stato voleva nominare il commissario straordinario per l'emergenza soltanto attraverso l'intesa debole, sentite le regioni, mentre questa materia, in alcune regioni speciali, è di competenza primaria delle regioni stesse. Questi sono errori clamorosi che lo Stato compie perché non ha nessuna contezza di tali questioni. Anche dal punto di vista della strategia processuale, non sarebbe stato meglio scrivere che l'intesa era forte invece che debole ? Si sarebbe evitata una sconfitta. Questo significa che la specialità è semplicemente sconosciuta ai legislatori.
  Il problema, sul piano finanziario, è che in un sistema a finanza derivata come quello italiano, la pariteticità non può funzionare completamente attraverso norme di attuazione. Non si può pensare che le relazioni finanziarie siano disciplinate solo con norme di attuazione, perché uno dei contraenti della pariteticità, cioè lo Stato, ha il coltello dalla parte del manico; ne consegue che le relazioni finanziarie, per funzionare, devono essere disciplinate negli statuti o attraverso la modifica degli stessi, oppure, ove previsto, attraverso la legge paritetica per la disciplina delle parti finanziarie.
  Ultimo punto: la riforma costituzionale in itinere. Ci sono luci e ombre; il discorso sarebbe complesso ma sarò molto breve. Sappiamo esserci una clausola di salvaguardia, rafforzata dalla previa intesa, per l'adeguamento degli statuti, e ciò mette sicuramente in sicurezza dal punto di vista formale la specialità, più di quanto non lo sia oggi. Restano però aperti molti punti ed è facile prevedere che il conflitto aumenterà anziché diminuire, perché secondo me è abbastanza chiaro, in base alla successione delle norme, che continuerà ad applicarsi, almeno sulla carta, l'attuale Titolo V, che per le altre viene meno. Questa situazione creerà qualche problema sistematico. Pensiamo, per esempio, al fatto che lo Stato dovrebbe continuare a fare norme cornice per la competenza concorrente, la quale resterebbe in vigore per le regioni a statuto speciale e sparirebbe per le altre regioni. Possiamo immaginare che il legislatore tenga conto, pur facendo degli errori marchiani come quello che ho ricordato prima, del fatto che la stessa disciplina dovrebbe essere fatta come norma cornice per le regioni a Pag. 13statuto speciale e come norma di competenza primaria per le altre ? Immaginiamo i conflitti.
  In ogni caso ciò non risolve il problema, perché una giurisprudenza «centralista», comunque non particolarmente favorevole all'allargamento dell'ambito dell'autonomia speciale e ordinaria, è stata possibile, anzi è stata maggioritaria – vigente l'attuale Titolo V, più regionalista di quello precedente – proprio perché i conflitti sono stati utilizzati anche come strumenti di affermazione politico-identitaria piuttosto che come strumento di crescita dell'autonomia delle regioni.
  Il vero problema è che questa clausola contiene una formulazione vaga, quella dell'adeguamento degli statuti speciali. Che cosa vorrà dire adeguamento bisognerà capirlo. È pensabile l'adeguamento a una riforma che sostanzialmente riduce fortemente l'autonomia ? Significherebbe il suicidio delle regioni a statuto speciale, le quali ovviamente non lo faranno mai.
  Il rischio è che alla fine non si modifichino più gli statuti delle regioni speciali, il che sarebbe un ulteriore rischio per l'unità giuridica del Paese, per l'autonomia ordinaria e speciale e per la tenuta complessiva del sistema. Vi faccio un esempio interessante di una questione che pende, attualmente, davanti alla Commissione Affari costituzionali del Senato, la cui risoluzione, secondo me, farà comprendere in quale direzione si andrà in futuro.
  La questione è originata da una circostanza di per sé molto banale e non complicata: la modifica dello Statuto del Friuli Venezia Giulia per l'abolizione delle province, della quale anche la Commissione per le questioni regionali si è occupata.
  Si pone una questione paradossale. Nel merito nessun problema, siamo tutti d'accordo. L'origine della proposta è consiliare. La questione è se possa il Parlamento modificare o meno il testo proveniente dal Consiglio regionale. O meglio, se, qualora il Parlamento modifichi il suddetto testo, si debba seguire la procedura dell'intesa prevista per le modifiche di natura parlamentare o governativa.
  È chiaro che rispondere no a questa domanda, cioè dire che il Consiglio regionale è uno dei soggetti titolati a proporre delle riforme e che il Parlamento è l'unico sovrano di questa procedura di modifica, sia che essa sia di iniziativa parlamentare, governativa o del Consiglio regionale, significherebbe la morte di ogni possibile riforma degli statuti di autonomia. Sarebbe una morte per strangolamento; qualsiasi eventuale iniziativa di «adeguamento» degli statuti speciali che fosse portata in Parlamento, infatti, potrebbe essere stravolta e le si potrebbe aggiungere qualsiasi altra modifica; a quel punto, nessuna regione vorrebbe più modificare alcunché.
  Questo potrebbe essere un grave pericolo. Certo, potrebbe valorizzare nel breve periodo le norme di attuazione. C’è anche parte della dottrina che ritiene che gli statuti li si possa lasciare lì come dei simulacri e si possa fare tutto con le norme di attuazione (quelli che sono capaci di farle le facciano, gli altri no). Però, se gli statuti diventano soltanto carte programmatiche sganciate dalla realtà, che non disciplinano più, e si demanda tutto a organismi molto efficienti, almeno sulla carta, ma certamente non legittimati democraticamente, qualche problema si potrebbe porre. Inoltre, dove un contraente può bloccare l'altro perché la pariteticità presume il potere di veto, il rischio è che l'autonomia speciale muoia per asfissia, con tutte le conseguenze del caso.
  Quindi, la sfida è l'adeguamento e la riforma degli statuti. È da lì che bisognerebbe passare. Le norme di attuazione, sebbene importantissime, in quanto incorporano l'elemento vero della specialità, sono degli organi sussidiari; è lo statuto che deve disciplinare il tutto. Su questo ci sarà molto da lavorare e soprattutto molto da riflettere.
  Volendo, se abbiamo ancora un po’ di tempo per le domande, potremmo approfondire altri temi, anche specifici, quali la democratizzazione delle Commissioni paritetiche e altre questioni di natura procedurale. Pag. 14Ho voluto fornirvi un quadro complessivo della tematica oggetto dell'audizione. Vi ringrazio.

  PRESIDENTE. Ringraziamo il professor Palermo.
  Se il professore vuole integrare la sua relazione con qualche altra osservazione, anche con riferimento al tema della democratizzazione delle Commissioni paritetiche o altri aspetti o spunti di riflessione a noi molto utili, lo ascoltiamo volentieri.

  FRANCESCO PALERMO, professore associato di diritto pubblico comparato presso università degli studi di Verona. In maniera telegrafica farò solo un esempio.
  Ho affermato nella mia relazione che la responsabilità di un sistema pattizio è ovviamente di due parti. Le regioni hanno spesso buona parte della colpa del mancato funzionamento e anche di un mancato adeguamento e modernizzazione del sistema. L'esempio vale per il ruolo dei membri delle Commissioni paritetiche. Le paritetiche non funzionerebbero se non fossero organismi diplomatici non democratici; non potrebbero diventare delle piccole assemblee elettive, è chiaro che non funzionerebbero più. Tuttavia, tra una democraticità totale e una non democraticità totale c’è una serie di gradazioni intermedie. Perché i consigli regionali, nei loro regolamenti, non prevedono ad esempio l'audizione periodica dei membri, almeno quelli di nomina regionale, visto che quelli di nomina statale difficilmente potrebbero essere disciplinati (ma forse sì), per quanto riguarda l'audizione dei loro membri nelle Commissioni paritetiche ? Diventerebbe un momento di pubblicità dei lavori e anche di controllo «politico» da parte dei consigli regionali che renderebbero i loro «ambasciatori» (i membri delle Commissioni paritetiche) democraticamente legittimati.
  Inoltre, nella mancata disciplina di tutto il procedimento, che è una delle domande più importanti che sono state poste quest'oggi, perché le Commissioni paritetiche non possono prevedere, con dei regolamenti interni che non hanno in questo momento (ma potrebbero darsi dei minimi regolamenti interni), di lavorare attraverso l'audizione, di regola, di soggetti esterni, esperti su determinate materie, come fa questa Commissione ed altre con lodevoli iniziative e avere dei momenti di confronto con soggetti interessati ? Qualche volta si fa, però lo si fa senza una base normativa.
  Ecco due idee che si potrebbero facilmente mettere in campo.

  MANUELA SERRA. Vorrei chiedere al senatore Palermo come si potrebbe in qualche modo stimolare, all'interno del Consiglio regionale, questa procedura. In questo caso, noi parlamentari come potremmo in qualche modo stimolare questo lavoro, se si può fare ? Non c’è possibilità ?

  FRANCESCO PALERMO, professore associato di diritto pubblico comparato presso università degli studi di Verona. Come parlamentari no, se non col proprio prestigio e influenza politica, dicendo ai consiglieri regionali di farlo, ma è una modifica regolamentare che si fa in due minuti, volendo. Anche la specialità, come tutta l'autonomia, in realtà, non vive con la maschera dell'ossigeno perennemente indossata; se non funziona da sola, se non ha una sua dinamica, prima o poi soffoca.

  PRESIDENTE. Ricordo ai colleghi che proseguiremo martedì 31, dalle ore 9.30 alle ore 11.30, con le audizioni dei professori Mangiameli, Falcon e Bin. Ringrazio i nostri ospiti per l'importante contributo e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 9.05.