XVII Legislatura

Commissione parlamentare per le questioni regionali

Resoconto stenografico



Seduta n. 2 di Mercoledì 2 aprile 2014

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Balduzzi Renato , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE QUESTIONI CONNESSE AL REGIONALISMO AD AUTONOMIA DIFFERENZIATA

Audizione dei professori Gianfranco Cerea, Gian Candido De Martin e Ugo De Siervo.
Balduzzi Renato , Presidente ... 3 
Cerea Gianfranco , Professore di scienza delle finanze e di economia pubblica presso l'Università degli studi di Trento ... 3 
Balduzzi Renato , Presidente ... 8 
De Martin Gian Candido , Professore emerito di istituzioni di diritto pubblico presso la Libera università internazionale degli studi sociali LUISS Guido Carli ... 8 
Balduzzi Renato , Presidente ... 12 
De Siervo Ugo , Presidente emerito della Corte costituzionale ... 12 
Balduzzi Renato , Presidente ... 15 
Cotti Roberto  ... 15 
Kronbichler Florian (SEL)  ... 15 
Balduzzi Renato , Presidente ... 16 
Valiante Simone (PD)  ... 16 
Balduzzi Renato , Presidente ... 16 
Cerea Gianfranco  ... 16 
Balduzzi Renato , Presidente ... 17 
Cerea Gianfranco  ... 17 
De Martin Gian Candido , Professore emerito di istituzioni di diritto pubblico presso la Libera università internazionale degli studi sociali LUISS Guido Carli ... 18 
De Siervo Ugo , Presidente emerito della Corte Costituzionale ... 19 
De Martin Gian Candido , Professore emerito di istituzioni di diritto pubblico presso la Libera università internazionale degli studi sociali (LUISS) Guido Carli ... 19 
De Siervo Ugo , Presidente emerito della Corte Costituzionale ... 19 
Balduzzi Renato , Presidente ... 19 

ALLEGATO: Le Autonomie speciali: attese, squilibri e possibile equità a cura del professor Gianfranco Cerea, Università degli Studi di Trento ... 21

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE RENATO BALDUZZI

  La seduta comincia alle 14.20.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
  (Così rimane stabilito).

Audizione dei professori Gianfranco Cerea, Gian Candido De Martin e Ugo De Siervo.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione dei professori Gianfranco Cerea, Gian Candido De Martin e Ugo De Siervo nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul regionalismo ad autonomia differenziata.
  Do la parola al professor Cerea, Professore di scienza delle finanze e di economia pubblica presso l'Università degli studi di Trento.

  GIANFRANCO CEREA, Professore di scienza delle finanze e di economia pubblica presso l'Università degli studi di Trento. Grazie, presidente. Parlerò dei profili finanziari delle Autonomie speciali, che è oggi uno dei temi più caldi, avvalendomi delle slides che ho portato con me (vedi allegato). In tale ambito è preliminare riconoscere la complessità del tema perché esistono ampie differenze tra gli Statuti. Non c’è uno Statuto uguale a un altro e non solo i meccanismi di finanziamento, ma anche le competenze di spesa sono diversamente distribuiti: massime per Sicilia, Trentino Alto Adige e Valle d'Aosta, intermedie per Friuli e modeste per la Sardegna, se mi lasciate passare questa graduatoria.
  A complicare ulteriormente il problema, c’è poi la differenza tra quello che potremmo chiamare un regionalismo di diritto e un'autonomia di fatto. Se, ad esempio, si fa il rapporto tra le compartecipazioni registrate dai bilanci delle Autonomie speciali e una stima dei gettiti sul territorio (vedi allegato, pag. 23), anche se i conti non tornano sempre perché ci sono sbavature, si va comunque da misure sopra al 90 per cento per Valle D'Aosta e Trentino Alto Adige, e intorno al 55 per il Friuli e all'83 per cento per la Sardegna, mentre la Sicilia ha il valore più basso di tutte, pur avendo uno Statuto che in linea di principio sembrerebbe lasciare aperta la strada a un livello di compartecipazioni ben maggiore.
  Stesso problema sorge per quanto riguarda l'effettiva attuazione degli Statuti. Ho riportato in questa tabella (vedi allegato, pag. 24) il numero di norme di attuazione che sono state emanate dal 1948 fino a quasi i giorni nostri, e vedete che c’è una grandissima sproporzione, nel senso che senza norma di attuazione sappiamo che la competenza non viene effettivamente esercitata, per cui da questo punto di vista dovremmo aspettarci che la Sicilia guidi le graduatorie o comunque occupi una posizione di testa, mentre invece si attesta su livelli non lontani da quelli della Sardegna.
  La differenza tra previsioni statutarie ed effettivo assetto dei poteri e dei finanziamenti è quindi molto diversa nella realtà. Quali sono le conseguenze sul Pag. 4piano finanziario ? Se una regione a Statuto speciale riceve le risorse che lo Statuto prevede, ma non esercita le competenze da questo previste, abbiamo due effetti.
  Il primo è un effetto di reddito, perché il territorio beneficerà di più risorse. Infatti, da una parte, la competenza che doveva essere regionale continua ad essere appannaggio dello Stato e, dall'altra parte, la Regione incasserà le somme che in teoria devono andare a finanziare la competenza.
Il secondo è che avrà più risorse da destinare alle competenze residue. Si può fare l'esempio della Sicilia, che ha un bilancio che supera del 25 per cento quello della Campania, che è una Regione a Statuto ordinario, ma spende per l'amministrazione generale tre volte quello che spende la Campania. Non potendo esercitare i suoi poteri di spesa su altri comparti, li concentra sui quelli residuali.
  Il punto di fondo è quello, auspicato anche dalla legge delega, di riallineare le dotazioni finanziarie delle Autonomie speciali all'assetto che si verifica altrove. Qui ci sono alcune nozioni importanti da sottolineare, perché spesso accade che le valutazioni in merito alla dotazione di risorse delle Autonomie speciali vengano fatte utilizzando i dati della spesa pubblica complessiva o delle entrate regionali.
  I dati delle entrate regionali non hanno molto senso, perché, se una Regione deve finanziare la scuola, avrà inevitabilmente tra le sue entrate una dotazione maggiore di risorse, ma anche il confronto sul complesso della spesa rischia di essere fuorviante, perché dentro la spesa pubblica complessiva consolidata possiamo individuare tre componenti.
  La prima è una componente previdenziale, che si distribuisce sui territori in ragione dei contributi che vengono versati (così come sul piano individuale a un livello di redditi e di contributi maggiori corrisponde poi una pensione maggiore, allo stesso modo un territorio che ha più livelli d'occupazione e livelli di reddito più alti avrà una spesa per le pensioni necessariamente più alta). Questa è una componente in cui non c’è separazione tra ciò che uno paga e ciò che uno ottiene in cambio e, inevitabilmente, sul piano territoriale più un territorio è ricco e più la spesa previdenziale sarà giustamente più elevata.
  Poi c’è il problema dell'equità territoriale, che è legato invece al prelievo che si effettua su scala locale, per cui il fatto che due territori decidano di avere un livello di prelievo fiscale locale diverso non viola l'equità, purché all'interno del territorio i soggetti siano trattati tutti allo stesso modo.
  Il vero tema che va posto al centro dell'attenzione è la nozione di equità nazionale, dove effettivamente le somme che ciascun territorio paga o la comunità di un certo territorio sopporta sono necessariamente indipendenti dal livello di spesa di cui questo beneficia. Si tratta del principio di separazione.
  A parità di condizioni territoriali, quindi, le esigenze connesse alla perequazione, allo sviluppo e alla garanzia dei livelli essenziali comporteranno una spesa statale a carattere distributivo in favore delle aree svantaggiate.
  Se noi ci concentriamo su questa nozione, possiamo ricavare un principio importante da applicare nei confronti delle Autonomie speciali: ossia, a parità di fabbisogni, un territorio caratterizzato da un'Autonomia differenziata dovrà godere di un identico ammontare di risorse rispetto a quello altrove osservato, solo diversamente distribuito tra poteri centrali e poteri locali.
  Detto in parole povere, se un territorio ad Autonomia speciale copre con risorse dell'Autonomia anche la scuola, bene, ma il totale delle risorse a disposizione per tutte le varie funzioni esercitate sul territorio dovrà essere lo stesso. Quindi, l'Autonomia speciale non può essere a priori giustificazione di una sovradotazione di risorse. Il giudizio va dato però prendendo a riferimento il totale della spesa dello Stato, che è l'unica per la quale si può applicare il concetto di equità nazionale (vedi allegato, pag. 29).Pag. 5
  La spesa dello Stato sul territorio ha al suo interno diverse articolazioni, perché ci sono i servizi diretti sul territorio (la polizia, la magistratura, la scuola e così via), poi le risorse devolute alle Regioni, quelle devolute agli Enti locali e, infine, la quota legata agli Enti di previdenza. Sappiamo che non tutta la spesa previdenziale è coperta dai contributi sociali, ma rimane a carico della fiscalità generale la quota legata tradizionalmente alla parte assistenziale, quindi le pensioni di invalidità, le pensioni sociali, l'integrazione al minimo delle pensioni.
  Possiamo a questo punto individuare i seguenti «pezzi di spesa» dello Stato sul territorio: la spesa legata agli interventi diretti e quella devoluta a Regioni e Province; e i trasferimenti agli Enti di previdenza. Tutto questo fa il totale della spesa locale, a cui andrebbe aggiunta la spesa comune, che è la parte di spesa dello Stato: gli interessi sul debito pubblico, i costi per il Parlamento, quelli per il Presidente della Repubblica o per le missioni all'estero, che vanno considerati come una spesa comune da ripartire uniformemente tra tutti.
  Se facciamo il totale e calcoliamo i pro capite, otteniamo l'ultima colonna della slide «Spesa complessiva dello Stato ripartita tra le regioni» (vedi allegato, pag. 29). Vorrei far notare questo aspetto (vedi allegato, pag. 30): nelle Regioni a Statuto speciale, la spesa diretta è rappresentata dagli interventi diretti dello Stato sul territorio, quindi servizi che lo Stato eroga direttamente oppure somme che trasferisce agli enti locali (i trasferimenti agli enti di previdenza, i trasferimenti e le devoluzioni alle Regioni e il totale della spesa locale).
  Se prendiamo Valle d'Aosta e Trentino Alto Adige, vediamo che la spesa dello Stato è intorno al 10 per cento del totale; nelle Regioni ordinarie è il 50 per cento. Se prendiamo il Friuli Venezia Giulia, vediamo che è il 34, in Sicilia il 38, in Sardegna il 32. Questo significa che nei territori delle Regioni a Statuto speciale c’è un effetto di sostituzione tra l'intervento operato a carico dell'Autonomia speciale e l'intervento a carico dello Stato.
  Due Autonomie sono a livello molto spinto di gestione locale dei servizi: la Valle d'Aosta e il Trentino Alto Adige; altre due, Friuli e Sardegna, che si collocano in una posizione intermedia, mentre la Sicilia paradossalmente è quasi più vicina al quadro delle Regioni ordinarie che a quello delle altre Autonomie speciali.
  Se guardiamo la distribuzione della spesa pro capite sul territorio, si ottiene un grafico (vedi allegato, pag. 31) e, se tracciamo i dati dal 1978 ai giorni nostri, il grafico è sempre lo stesso. Questa è la spesa dello Stato sui territori, non la spesa delle Regioni, e tende a distribuirsi secondo questo andamento: più un territorio è piccolo, più la spesa tende ad essere elevata; più è grande, più la spesa è bassa.
  Rispetto all'interpolante che ho tracciato, la Lombardia, il Veneto o l'Emilia-Romagna sono sotto la linea; la spesa della Sicilia è sopra quella del Lazio, la Valle d'Aosta è inchiodata in cima, perché, come diceva Einaudi, è talmente piccola che non si può calcolare niente. Con 100.000 abitanti è difficile calcolare puntualmente i fabbisogni.
  Si può fare anche un passo in più nell'idea di costruire una nozione di spesa standard e fare quello che gli economisti chiamano una regressione. Questo modellino (vedi allegato, pag. 33) illustra il 97 per cento della spesa statale sui territori delle Regioni italiane. C’è una parte legata alla popolazione che risiede (più piccolo è il territorio, maggiore tende ad essere la spesa) e una seconda componente importante che è la quota di popolazione in montagna.
  I territori di montagna, così come accade per i Comuni, tendono ad avere maggiori fabbisogni di spesa, perché gestire i territori di montagna è più oneroso in quanto sono ampi ed accidentati e tendono ad avere una bassa densità di popolazione. Questo si verifica anche in Sardegna, e, se considerate che la Sardegna ha una superficie più ampia di quella della Lombardia, ma ha un quinto degli Pag. 6abitanti della Lombardia, non possiamo pensare che un territorio così vasto non incida anche sui costi dei servizi.
  Le altre variabili sono la Valle d'Aosta, perché come dicevo è fuori sacco, e il Lazio con 2.000 euro per abitante, che stanno a rappresentare le spese delle amministrazioni centrali collocate nel Lazio, quindi il costo del Parlamento o dei Ministeri.
  Le Regioni arretrate hanno circa 500 euro in più ad abitante rispetto alle altre Regioni. Le Autonomie speciali hanno un 5 per cento in più rispetto al PIL di disponibilità finanziarie, quindi un privilegio che sembrerebbe del 10 per cento.
  Infine c’è la questione delle isole, che non è molto significativa anche perché le due isole sono anche regioni ad Autonomia speciale e, quindi, in questi modelli statistici c’è il rischio di cogliere i due fenomeni insieme. Probabilmente l'insularità della Sardegna è diversa da quella della Sicilia, perché, se la Sicilia è separata dal continente da un piccolo tratto di mare, la Sardegna è più lontana, però il modello non riesce a descrivere questo fenomeno. Analizzando le serie dagli anni ’80 ai giorni nostri, il modello è una costante: la spesa dello Stato si distribuisce sui territori secondo queste modalità.
  In base ai fattori correttivi possiamo calcolare (vedi allegato, pag. 34) la spesa standard, concetto contenuto anche nella legge delega sul federalismo. Nota la spesa standard, possiamo confrontarla con i tributi erariali riscossi sul territorio e valutare i saldi tra ciò che si paga allo Stato e ciò che lo Stato restituisce sul territorio. La differenza si chiama residuo fiscale.
  L'ultima colonna della slide (vedi allegato, pag. 34) riporta il valore pro capite: la Valle d'Aosta, per abitante, è sotto di 3.600 euro, quindi si riceve una spesa dello Stato che supera di 3.600 euro le imposte pagate; il Trentino Alto Adige, di 266 euro; il Friuli Venezia Giulia, di 2.400; la Sicilia, di 5.500; la Sardegna, di 5.600.
  Guardare i dati in questo modo non ha molto senso, perché andrebbero confrontati con territori comparabili. Se ad esempio confrontiamo Valle d'Aosta, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia con il nord, notiamo che la media del nord o dei territori retti da Autonomie ordinarie fa un avanzo di 575 euro ad abitante. Valle d'Aosta, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia sono sotto.
  Allo stesso modo, la Sicilia fa meno 5.500, il sud meno 4.600, quindi vuol dire che sta ricevendo in proporzione più di quanto ricevono aree in condizioni simili. Lo stesso vale per la Sardegna: 5.600. L'idea potrebbe essere quella di usare il residuo fiscale per definire la quantità giusta di risorse che va riconosciuta a un territorio: poi quanto andrà gestito dallo Stato e quanto dalle Autonomie è una questione che viene risolta a livello di Statuti, ma l'importante è che il totale si assomigli.
  Il modello mostra il residuo osservato – che abbiamo visto prima –, mentre il residuo atteso è quello che danno i territori comparabili. La Valle d'Aosta, che è a meno 3.662 euro, dovrebbe essere a più 575 euro: il divario è di 4.237 euro, quindi ha un eccesso di risorse rispetto alla condizione prevalente nel resto del nord di quasi 4.000 euro ad abitante; il Trentino Alto Adige, di 800 euro; il Friuli, di quasi 3.000; la Sicilia, di quasi 1.000; la Sardegna, di più di 2.500.
  Rispetto a questo residuo dovuto, andrebbe tolto alle risorse regionali delle Autonomie speciali il rapporto tra le devoluzioni e il totale della spesa. La Regione dovrebbe concorrere con risorse proprie al residuo fiscale in proporzione al peso delle proprie finanze sul totale della spesa. Il risultato finale è riportato nell'ultima colonna, ed è l'ammontare a cui dovrebbero rinunciare le Autonomie speciali per rispettare questo principio di equità, che potrebbe essere utilizzato – in una logica che discende dall'articolo 116 della Costituzione – per creare un regionalismo a geometria variabile.
  Il giorno in cui una Regione volesse competenze in più, dovrà garantire di rimanere dentro questo importo: togliamo spese dello Stato perché diventerà spesa della Regione, ma l'importante è rispettare questo principio.Pag. 7
  Le Regioni speciali, quindi, dovrebbero subire un taglio di circa 4,7 miliardi di euro (vedi allegato, pag. 35). Questi sono i dati che emergono in base alle evidenze del 2010-2011.
  Nel frattempo però le cose sono cambiate, perché è entrata in vigore una serie di norme e le manovre di finanza pubblica hanno pesantemente inciso sulla condizione delle Regioni speciali.
  In questa slide (vedi allegato, pag. 36) ho riportato una simulazione al 2014. Il residuo fiscale dovuto che le Regioni dovrebbero mettere sono valori pro capite. La Valle d'Aosta, per effetto dei tagli, della prima applicazione della legge n. 42 del 2009, è scesa a 853 euro.
  Il Trentino Alto Adige ha 605 euro di residuo contro i 379 del nord e, in teoria, dovrebbe avere indietro 77 euro per abitante. Il Friuli era a 2.400 euro e adesso è a 2.900, quindi dovrebbe sborsare più di prima, mentre Sicilia e Sardegna purtroppo hanno peggiorato ulteriormente la loro condizione. Questo perché la legge delega è stata applicata soltanto al Friuli, al Trentino Alto Adige e alla Valle d'Aosta, e non alla Sicilia ed alla Sardegna, e anche perché i tagli sono stati fatti in modo proporzionale.
  Il Governo ha infatti tagliato del 15 per cento tutti i bilanci, dimenticando che l'anno prima aveva già chiesto magari 500 milioni a un certo bilancio regionale e non considerando che il peso delle competenze locali è ben diverso. Se, infatti, in provincia di Trento la scuola e l'università sono a carico del bilancio dell'Autonomia, in Sicilia non c’è nulla di tutto questo, quindi tagliare del 15 per cento le risorse vuol dire tagliare di fatto anche le disponibilità per la scuola.
  Mi sia consentito alla fine un bilancio di lungo periodo, valutando cosa è successo dal 1948 ad oggi nei territori delle Autonomie speciali (vedi allegato, pag. 38). Un primo dato, molto semplice riguarda la popolazione, in quanto la dinamica della popolazione è un indicatore importante delle tendenze di lungo periodo di un territorio.
  Qui ho separato due periodi, il periodo 1938-1971, perché il 1938 è l'ultimo anno buono prima della guerra e in sede di Assemblea Costituente molti dei ragionamenti sui profili finanziari furono fatti prendendo proprio i dati del 1938, perché quelli del 1945, 1946 e 1947 non erano certo rappresentativi di una condizione normale, e poi il periodo 1971-2011.
  Come si vede dalla slide (vedi allegato, pag. 38), la popolazione in Valle d'Aosta e a Bolzano cresce nei due periodi, a Trento stava calando nel primo e invece ha un'impennata incredibile nel secondo (la Provincia di Trento ha avuto un saldo migratorio negativo fino al 1962), il Friuli Venezia Giulia continua a perdere popolazione, e questo dato impressiona rispetto a quello che accade nel nord. La Sicilia continua a perdere molto più del sud, la Sardegna, in cui c’è l'effetto delle campagne di ripopolamento, fa meno bene del centro.
  L'altro aspetto riguarda l'andamento del reddito per abitante (vedi allegato, pag. 39). Questa è la dinamica rispetto alla media nazionale, quindi come è cresciuto nei territori in più o in meno rispetto al dato nazionale. Il nord è, in termini relativi, in calo: l'area di vero sviluppo dell'Italia è il centro e in particolare il Lazio, regione che ha tirato la crescita in questi anni, mentre il sud è dov’è.
  Se guardiamo le diverse regioni, vediamo che Bolzano non cresceva e ha avuto il salto dal 1971, Trento pure, il Friuli Venezia Giulia abbastanza, la Sicilia e la Sardegna sono andate indietro.
  Il riconoscimento della specialità si è tradotto in un'opportunità di crescita in alcune realtà (Valle d'Aosta, Trento e Bolzano), dà segnali un po’ contraddittori per altre aree (Friuli Venezia Giulia, in parte la Sardegna), mentre la Sicilia ne esce male da qualsiasi punto di vista, cioè non ci sono risvolti positivi né dal punto di vista economico, né da quello della dinamica demografica.
  Tra il 1971 e il 2011, considerando la crescita del PIL dei territori rispetto alla media italiana (vedi allegato, pag. 40), la Valle d'Aosta è cresciuta del 12 per cento Pag. 8in più del resto dell'Italia; il Trentino Alto Adige, del 33,5 per cento in più (è il territorio che è cresciuto più di ogni altro nel Paese); il Friuli Venezia Giulia, del 5,7; il Veneto, del 16; la Sicilia è arretrata del 16 per cento; la Sardegna, dell'11 per cento. Se associamo a questo i dati della pressione tributaria, scopriamo che, per effetto della maggior crescita che ad esempio il Trentino Alto Adige ha avuto rispetto al resto del Paese, abbiamo quasi 2,5 miliardi di euro in più.
  Quest'altra slide (vedi allegato, pag. 42) mostra un'interpolante tra il tasso di analfabetismo del 1951 e il PIL del 2011: dove l'analfabetismo era più alto, nel 1951, il PIL continua a rimanere più basso e dove, invece, era più basso il PIL è maggiore. Dietro questo effetto c’è l'obbligo scolastico, che è stato introdotto nel 1954.
  L'altro aspetto è il capitale sociale. Questa graduatoria (vedi allegato, pag. 43) pubblicata dalla Banca d'Italia contiene i dati dal 1901 al 2001 e vede il Trentino Alto Adige al primo posto, con indice doppio rispetto a quello medio nazionale, la Valle d'Aosta al secondo posto, il Friuli Venezia Giulia al terzo.
  Qual è la conclusione ? L'Autonomia speciale non ha prodotto ovunque esiti analoghi, la responsabilità e i meriti vanno ricercati in tre fattori: la cultura dell'autogoverno, la ritrosia dello Stato nel condizionare le dotazioni delle risorse finanziarie sulla base delle competenze e l'assenza di un quadro interpretativo.
  La lezione ultima è che, in base all'esperienza delle Autonomie speciali, espandere significativamente il potere e l'autonomia delle Regioni ordinarie può diventare fattore di sviluppo, ma solo se vi sono le necessarie condizioni culturali e comunque secondo una logica di responsabilità. Dove queste capacità non sono adeguate lo Stato si dovrebbe probabilmente riappropriare delle competenze regionali, ovvero porre limiti più stringenti all'esercizio delle stesse. Grazie.

  PRESIDENTE. Ringrazio il professor Cerea, anche per la documentazione che ci ha lasciato, di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico dell'audizione odierna (vedi allegato).
  Do, quindi, la parola al professor Gian Candido De Martin, professore emerito di istituzioni di diritto pubblico presso la Libera università internazionale degli studi sociali LUISS Guido Carli e direttore del Centro ricerche Vittorio Bachelet.

  GIAN CANDIDO DE MARTIN, Professore emerito di istituzioni di diritto pubblico presso la Libera università internazionale degli studi sociali LUISS Guido Carli. Grazie per l'invito. Cerco di sviluppare rapidamente qualche considerazione sullo stato, i problemi, le prospettive della specialità regionale, ovviamente da un angolo visuale più propriamente giuridico e istituzionale, con due battute in premessa.
  La prima per sottolineare che l'autonomia di per sé è sinonimo di potenziale differenziazione, peraltro in una cornice unitaria, salvo poi definire la latitudine dell'autonomia e quindi anche delle asimmetrie rispetto al resto del sistema. Naturalmente qui è la Costituzione, l'ordinamento istituzionale, che definisce il quadro e da questo deriva l'autonomia statutaria, normativa, amministrativa, finanziaria e comunque il principio dell'autogoverno, che dovrebbe essere poi l'elemento sostanziale di esercizio dell'autonomia, dal quale dipendono anche il rendimento e le diversità di rendimento a cui ha già accennato il professor Cerea.
  Seconda considerazione. Le asimmetrie delle Regioni nel nostro ordinamento sono ben note: c’è un doppio binario fin dall'origine, si può poi attualizzare questa ripartizione tra Regioni ordinarie e speciali con riferimento alla riforma del Titolo V del 2001 che ha introdotto, almeno potenzialmente, qualche variante.
  Resta comunque il dato fondamentale della previsione di cinque Regioni speciali e due Province Autonome, che l'articolo 116, primo comma, garantisce, con rinvio a ciascuno Statuto speciale per l'ordinamento della singola Regione.
  Si tratta quindi di un sistema asimmetrico anche nell'ambito della specialità, dove manca una visione unitaria della Pag. 9specialità. Ci sono diverse origini e anche diverse giustificazioni della specialità nel 1948 e quindi diversi ordinamenti, salvo poi verificare, come faceva il professor Cerea, che l'andamento e il rendimento sono differenziati, tema sul quale mi limito a rinviare a un mio scritto di qualche tempo fa su stato e prospettive delle autonomie speciali, apparso in un volume pubblicato nel 2012 con il titolo Il governo delle Regioni, in cui cercavo di verificare l'andamento della gestione delle cinque Regioni speciali in quattro settori significativi. Credo che da questo si possa ricavare anche un sistema di valutazione, che aiuti a capire il trend in atto.
  C’è un secondo elemento di asimmetria regionale nella Costituzione vigente, perché, come è noto, l'articolo 116, terzo comma, prevede la possibilità di differenziazione tra le Regioni ordinarie, a ciascuna delle quali, singolarmente, può essere riconosciuto un maggiore potere legislativo in alcune materie, sulla base di un'intesa.
  Tale intesa peraltro non si è mai materializzata, c’è stata qualche iniziativa o qualche barlume di iniziativa, che non ha fatto molta strada fin qui; quindi si tratta di una differenziazione per ora solo potenziale che forse rischia di restare tale, se dovesse consolidarsi l'orientamento del recentissimo disegno di legge costituzionale del Governo, che viceversa intenderebbe sopprimere questa possibilità di differenziazione tra le Regioni ordinarie.
  Detto questo, passo rapidamente a trattare tre punti: primo, se mantenga una ragion d'essere la specialità delle cinque regioni; secondo quali problemi di compatibilità con il sistema Paese oggi si possano evidenziare e, terzo, cosa fare per affrontare alcuni nodi pendenti.
  Sulla persistenza delle ragioni della specialità naturalmente qui non possiamo approfondire, ma basta dire che certamente sono mutate molte delle condizioni originarie e si potrebbe attualizzare un ragionamento. L'unico vincolo formale è quello che riguarda la Provincia di Bolzano per via dell'accordo De Gasperi-Gruber, che peraltro è circoscritto soltanto a due elementi, l'autogoverno e la tutela delle minoranze linguistiche, mentre per il resto non vincola maggiormente.
  Credo però che non ci siano ragioni per mettere in discussione la specialità. Sia pure in un quadro mutato, mi pare che la specialità e il doppio binario dell'ordinamento regionale, quindi le asimmetrie esistenti in linea di principio (credo che questa fosse anche la considerazione del professor Cerea) non creino un problema di sistema, naturalmente se si vede la specialità come elemento che innesca una visione positiva dell'autonomia, che diventa modello per una gestione più efficace e virtuosa, quindi battistrada anche per sviluppare altre autonomie.
  Questo pone anche il problema delle specialità che non funzionano e, quindi, il problema delle «sanzioni» per le Regioni speciali che fanno cattivo uso di questa autonomia. C’è, quindi, un problema che ovviamente non va sottovalutato.
  Lo spazio di maggiore autonomia delle Regioni speciali sul piano legislativo e amministrativo non è sempre stato uguale nel tempo, ma ha dovuto fare i conti con innovazioni di carattere generale dell'ordinamento nel momento in cui sono nate le Regioni ordinarie; poi le riforme Bassanini, poi la riforma del Titolo V: varie rincorse sulle quali non dico nulla. C’è stato l'articolo 10 della legge costituzionale n. 3, del 2001, che ha comunque garantito alle Regioni speciali di non avere minore autonomia là dove fosse riconosciuta alle Regioni ordinarie, e comunque c’è stato un avvicinamento, dopo la riforma del Titolo V, almeno in linea generale, sulle materie oggetto dell'autonomia legislativa.
  Adesso, nella prospettiva della riforma costituzionale in itinere, c’è potenzialmente una riespansione della differenziazione, perché si va in qualche modo a limitare l'autonomia legislativa delle Regioni ordinarie, nel testo che il Governo ha varato qualche giorno fa.
  Vi sono comunque alcune esigenze di sistema che finora sono state un po’ sottovalutate per certi versi, che invece mi sembrano sempre più avvertite e che io considero dirimenti, anche per un problema Pag. 10di giustificazione della specialità così come fino ad oggi si è sviluppata.
  Ne accenno tre che mi sembrano le principali sulle quali soffermare l'attenzione, una in particolare. La prima è l'ordinario sistema di finanziamento dalle Regioni speciali, che non è peraltro un sistema unitario, ma è disciplinato in maniera differente da Regione a Regione sia dal punto di vista delle procedure che dal punto di vista dei contenuti.
  Si può fare quindi solo qualche considerazione generica, ma mi pare che a questo punto vi sia una garanzia generale comune del mantenimento dei nove decimi di quanto il sistema tributario ha reperito sul territorio, ai quali si aggiungono poi altre misure a vario titolo, anche qui però differenti da Regione a Regione, fino alle ultime novità in materia introdotte dalla legge di stabilità per il 2014 dove, come credo sia noto a tutti, si è ad esempio prevista qualche forma di tributo locale per Trento e Bolzano con possibili misure di esenzioni, detrazioni, deduzioni che riguardano esclusivamente queste due realtà istituzionali.
  Il secondo aspetto da mettere sotto osservazione riguarda le procedure della specialità, che sono essenzialmente procedure pattizie, basate da un lato sulle norme di attuazione e su commissioni paritetiche, dall'altro su forme di accordi di altra natura, tra cui in particolare sono rilevanti quelli scaturiti dall'applicazione dell'articolo 27 della legge n. 42, del 2009, sul federalismo fiscale (accordi di Milano e tutto il resto) che riguardano non tutte ma tre delle cinque Regioni speciali.
  C’è anche una tendenza delle Regioni speciali a consensualizzare – passatemi il termine – le modifiche degli Statuti e quindi a introdurre un elemento di carattere bilaterale nelle decisioni che le riguardano.
  C’è infine un terzo punto, che segnalo soltanto per la sua potenziale rilevanza, ma su cui non mi soffermo, che riguarda le garanzie degli Enti locali, delle Autonomie locali nell'ambito delle Regioni speciali, che pongono un problema di pari trattamento con le garanzie riconosciute alle Autonomie locali nell'ambito delle Regioni ordinarie, tenendo anche conto di una tendenza «regionocentrica» delle Regioni speciali in materia, che potrebbe sollevare qualche considerazione.
  Secondo aspetto: compatibilità con i princìpi costituzionali generali. Unità, eguaglianza, solidarietà, tenendo conto dei livelli essenziali delle prestazioni che devono essere garantiti a tutti i cittadini della Repubblica, come i diritti civili e sociali, sono il punto di riferimento imprescindibile per evitare che la specialità sia male intesa, diventi privilegio e possa mettere in discussione la coesione del sistema Paese.
  Da questo punto di vista vengono in evidenza, senza entrare in dettagli da economista, soprattutto le questioni di carattere finanziario, che sono una faccia essenziale dell'autonomia, se questa deve essere un'autonomia responsabile.
  Credo che si debba riconoscere oggettivamente che vi sono delle risorse privilegiate, sia pure differenziate. Non sono stato in grado di cogliere tutti i profili del suo intervento, ma mi sembra che il professor Cerea abbia offerto un quadro esaustivo, evidenziando come fino al 2009 (poi adesso bisogna attualizzare il discorso) a vario titolo ci siano state differenziazioni anche molto forti.
  Queste hanno consentito e continuano a consentire alle Regioni speciali e alle Province autonome interventi di welfare e a sostegno delle imprese e dell'economia che certamente nell'ambito delle Regioni ordinarie sono impensabili perché non potrebbero in nessun modo essere finanziati.
  Anche se c’è stata una riduzione di questo divario dopo la legge n. 42 del 2009 e dopo la legislazione sulla crisi, sussiste una disparità di trattamento che credo sia sempre meno giustificabile. Non dico altro, anche se potrei citare una serie di esempi concreti, e tra l'altro una recente pubblicazione di Pier Francesco De Robertis, che cataloga le vicende di sprechi e di privilegi che si possono ricavare da questa esperienza nel tempo. Certo, bisogna verificare Pag. 11in concreto, ma elementi di differenziazione non facilmente giustificabili si possono sicuramente sottolineare.
  Di qui un disagio crescente anzitutto dei territori contigui alle Regioni speciali. Io sono bellunese – vengo dal Cadore – e, quindi, sono direttamente alle prese con la percezione di questi nodi, di questi problemi, che portano a iniziative di varia natura, anche a richieste di migrazione di Comuni, o di un'intera Provincia, nelle Regioni speciali. Luca Antonini, del quale pure è prevista l'audizione, ha anche ipotizzato di arrivare a una fusione tra Veneto e Trentino Alto Adige per realizzare un obiettivo di riequilibrio ed eliminare la concorrenza sleale e i rischi di delocalizzazione delle imprese dal Veneto al Trentino Alto Adige.
  Adesso non dico di più, ma c’è ovviamente un problema di pari opportunità, che implica anche misure di riequilibrio. Rispetto a questo credo che non siano soluzioni utili quelle che sono state immaginate per i Comuni confinanti, che possono essere in parte finanziati con fondi delle Regioni speciali, ma che pongono altri problemi di disparità.
  Le procedure di tipo pattizio finiscono, quindi, per aumentare i problemi da questo punto di vista, perché le Regioni speciali tendono a difendere questa condizione e il riequilibrio finanziario, il cambiamento non è molto agevole con le procedure attualmente disponibili.
  D'altra parte, le Regioni ordinarie da questo punto di vista non hanno, al di là del ruolo della Conferenza Stato Regioni, altri meccanismi con i quali interagire con lo Stato, quindi c’è oggettivamente un nodo. Quid facere, dunque, senza mettere in discussione la specialità come principio, come asimmetria possibile nell'assetto dell'autonomia, ma perseguendo al tempo stesso l'equità che il professor Cerea prima ci indicava come matrice con cui gestire tutto questo comparto ?
  Credo che ci siano due o tre considerazioni rapidissime con le quali fare i conti. Bisognerebbe in ogni caso cercare di dare una interpretazione della specialità e dei singoli profili soprattutto di tipo finanziario (ma non solo) il più possibile conforme ai princìpi costituzionali, in modo tale da creare il minor numero di differenziazioni che non siano fondate e giustificate da un elemento che subito sottolineerò.
  Da questo angolo visuale, credo che abbiano qualche significato alcune sentenze recenti della Corte costituzionale in questo primo scorcio del 2014. Ne segnalo tre di particolare rilievo, la n. 23, la n. 39 e la n. 61, che a diverso titolo riconoscono un'esigenza di coordinamento della finanza pubblica esteso alle Regioni speciali e, quindi, una serie di conseguenze che ne derivano anche nel senso di respingere i ricorsi delle Regioni speciali.
  Mi pare però che ci sia soprattutto un'esigenza di criteri oggettivi nel rapporto tra funzioni attribuite e risorse finanziarie riconosciute per gestirle, quindi un nesso fondamentale tra standard di costi e fabbisogni e obiettivi legati alle competenze e ai livelli essenziali delle prestazioni che devono essere assicurate.
  Al di là del criterio del residuo fiscale, che mi sembra accettabile come logica metodologica, credo che si debba intanto ipotizzare un'applicazione generalizzata dell'articolo 119 della Costituzione, che dovrebbe essere la norma chiave per tutte le autonomie del sistema Paese, in particolare nel quarto comma, dove si crea un nesso stretto tra funzioni attribuite e risorse necessarie per esercitarle.
  Si tratta, quindi, di definire costi e fabbisogni standard e meccanismi di perequazione. Questa sarebbe la soluzione a mio parere più semplice e lineare per un'autonomia anche speciale che non diventi una rendita di posizione, che non sia ancorata alla spesa storica o a meccanismi fuorvianti, ma diventi un'autonomia effettivamente responsabile.
  Da questo angolo visuale si è dimostrato insufficiente ciò che è stato fatto nella prima fase ex lege n. 42, del 2009, sul federalismo fiscale e mi pare che oggi sarebbe indispensabile applicare a tutte le Regioni e Autonomie del sistema Paese il principio guida dell'articolo 119 della Costituzione, Pag. 12magari con procedure graduali nel tempo per riequilibrare il sistema.
  Per concludere, contavo di fare una citazione sull'articolo 33 del disegno di legge costituzionale del Governo deliberato il 31 marzo scorso, ma il professor De Siervo mi ha poc'anzi informato che il testo che era stato messo online non è esattamente identico a quello che adesso sta per essere formalizzato dal Presidente della Repubblica, in quanto è stato introdotto un «non» che cambia completamente il significato dell'articolo 33, comma 13.
  Nel primo testo si prevedeva che le Regioni speciali dovessero rispettare quanto previsto dalla riforma costituzionale in itinere, mentre adesso si dice invece che non debbono rispettarla, cioè si deve dar luogo a riforme degli Statuti speciali, cosa necessaria, quindi bisogna trovare a mio parere una formulazione intermedia tra le due, che riesca però a tenere conto di questa esigenza di far valere il principio dell'articolo 119.
  Per concludere, quindi, sì all'asimmetria, alla specialità, al doppio binario, ma no a una specialità male intesa, soprattutto sul piano finanziario. La prospettiva è quella di una nuova specialità responsabile, magari con una nuova stagione statutaria.

  PRESIDENTE. Ringrazio il professor De Martin e do la parola al professor De Siervo, Presidente emerito della Corte costituzionale.

  UGO DE SIERVO, Presidente emerito della Corte costituzionale. Grazie, presidente. Molte cose sono già state dette e, quindi, cerco di non sovrappormi minimamente ai profili più strettamente relativi al finanziamento.
  Quanto a questo difficile rapporto sostanziale tra regionalismo speciale e regionalismo ordinario, che ha delle articolazioni tecnico-giuridiche che hanno creato e stanno creando problemi per il loro progressivo avvicinamento, alla fine mi permetterò di fare riferimento anche al disegno di legge costituzionale del Governo che sta nascendo in modo sofferto in questi giorni.
  Come ben noto, l'Autonomia regionale speciale nasce da vicende storiche molto particolari dell'immediato dopoguerra per i primi quattro Statuti speciali, in particolare alcune cose si spiegano solo pensando a quella che era la realtà politico-militare del 1945 in Sicilia e alle difficoltà di rilievo internazionale che precedettero il trattato di pace italiano per ciò che riguarda il Trentino Alto Adige.
  Certamente lo Statuto siciliano è eccezionalmente federalista, molto poco regionalista, perché risale a vicende molto datate. Quello del Trentino Alto Adige è relativamente più moderato, ma già più complesso per la difficoltà di far convivere due comunità culturali abbastanza differenziate, prevalentemente insediate nelle due Province. Lo Statuto sardo nasce più moderato.
  In realtà, la prima forma di autonomia territoriale è la Valle d'Aosta, in pieno 1945, sotto il Governo presieduto da Parri, però è solo l'ordinamento amministrativo. Anche lì chiaramente si dava una risposta a un'esigenza di difficili rapporti con la Francia e con le popolazioni francofone, però poi lo Statuto – che nasce in Costituente, a differenza di quello siciliano che viene semplicemente ratificato – è relativamente più moderato, anche se sicuramente differenziato.
  Il modello è sempre quello siciliano, però molto depurato, allentato. Ancora più allentato sarà il modello del Friuli Venezia Giulia, che nasce nel 1963, avendo come modello più il Titolo V di allora che lo Statuto siciliano.
  Ci sono queste diversità strutturali molto forti su cui bisogna riflettere, perché secondo me producono gli effetti di tipo finanziario. Questi sono disciplinati da leggi costituzionali, quindi abbiamo leggi costituzionali speciali rispetto al testo costituzionale repubblicano, assenza dello Statuto che poi verrà introdotto attraverso la legge statutaria solo molti anni dopo, ma con un ruolo minore, norme di attuazione e meccanismi di adeguamento del finanziamento, che viene stabilito nei vari Pag. 13Statuti attraverso la delegificazione e attraverso il rinvio implicito anche alle norme di attuazione.
  In tutti questi anni le esigenze economico-sociali che distinguevano soprattutto Sicilia e Sardegna sono venute non scomparendo, ma diminuendo fortemente, basti pensare alla riduzione dell'autonomia regionale in materia di agricoltura, che negli anni ’50 e ’60 viene molto contratta, o che in quella stessa epoca nasce la politica di intervento straordinario nel Mezzogiorno. Queste grandi regioni meridionali hanno quindi già uno sviluppo molto contratto sul piano dell'economia agraria, ma poi con l'Unione europea perdono fortemente altri spazi di autonomia.
  Quelle che non vengono meno sono le componenti etnico-culturali a cui danno risposta soprattutto i due Statuti della Valle d'Aosta e del Trentino Alto Adige (e anche quello friulano, ma in termini molto più moderati). Qui mi permetto di dire che non solo non sono venuti meno di fatto nella società italiana con la presenza di significative minoranze linguistiche, ma addirittura sono stati assunti come modello di riferimento da imitare in molte esperienze costituzionali successive al crollo dei Paesi del centro-est Europa.
  Soprattutto il modello del Trentino Alto Adige, pur nella sua complessità, è stato assunto come modello di riferimento in molte esperienze successive europee del centro-est Europa, per tutelare la presenza di minoranze culturali e linguistiche. Qui, infatti, è molto vitale la radice autonomistica.
  Le dinamiche del settore regionale progressivamente segnano una parziale e faticosa erosione delle specialità (questa è una tendenza). Fenomeni come l'inseguirsi di norme di trasferimento e decreti delegati di trasferimento, dove dopo ogni ondata di decreti delegati di trasferimento alle Regioni ordinarie le Regioni speciali chiedono di essere riadeguate attraverso nuove norme di trasferimento, e la prassi legislativa del nostro Parlamento che ha definito o ha battezzato come grande riforma economico-sociale anche riforme sociali non necessariamente massicce (con la Corte costituzionale che ha ratificato tutto ciò) hanno reso più vicina l'esperienza di molte Regioni speciali e di molte Regioni ordinarie.
  Soprattutto il nuovo Titolo V del 2001 con l'articolo 10 – e, quindi, con la provvisoria estensione alle Regioni speciali dei maggiori poteri conferiti alle Regioni ordinarie – ha contribuito a un parziale avvicinamento tra autonomia regionale ordinaria e speciale. Anche l'articolo 116, ultimo comma, avrebbe potuto contribuire, ma non è stato mai attuato.
  La stessa giurisprudenza costituzionale ha progressivamente omologato le due autonomie, pur distinguendo là dove vi sono punti molto specifici. Mi permetto di dire, per esperienza anche personale, che il fatto di aver definito nel Titolo V vigente le funzioni esclusivamente statali secondo un certo elenco ha rafforzato fortemente la posizione del Governo anche sulle Regioni speciali, perché la trasposizione è stata quasi naturale.
  Stiamo assistendo a una parziale erosione dal punto di vista giuridico delle specialità, che certo non tocca tutte in quanto gli Statuti speciali prevedono materie diverse, ma ad esempio i limiti che incontrano le materie delle Regioni speciali nella legislazione statale ridefinita nell'articolo 117 hanno pesato e pesano molto.
  Questo mi ha indotto a dare un'occhiata al testo del nuovo tentativo di riforma costituzionale dal Titolo V, perché la curiosità è se ci possa essere qualcosa.
  Come ha accennato il professor De Martin, c'era una cosa gigantesca che poi hanno cancellato (asteniamoci dal giudicare il modo di lavorare). Nel testo tratto ieri dal sito del Governo c’è un comma 13 dell'articolo 33 che dice: «le disposizioni della presente legge costituzionale si applicano anche alle Regioni a Statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano sino all'adeguamento dei relativi Statuti».
  Questo avrebbe significato che, finché non fossero stati adeguati gli Statuti, tutto ciò che c’è qui, gli articoli 117, 118 e 119 riscritti nel senso di un forte riaccentramento Pag. 14statale, si sarebbero dovuti applicare in automatico alle Regioni speciali, tra l'altro con una contraddizione con l'articolo 116, primo comma, che viene invece mantenuto intatto, per cui le Regioni speciali hanno lo Statuto speciale, ma, se poi si dice che in attesa della loro revisione si applica il Titolo V; dato che non si sa quando ci saranno i nuovi Statuti speciali, il rischio sarebbe stato molto grosso.
  Nel testo che è andato alla Presidenza della Repubblica per la firma da parte del Presidente della Repubblica in quanto disegno di legge del Governo il comma è cambiato. «Le disposizioni di cui al capo IV della precedente legge costituzionale» che sarebbe la nuova riforma del Titolo V «non si applicano alle Regioni a Statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano sino all'adeguamento dei rispettivi Statuti», cioè esattamente il contrario; anche troppo, mi permetto di dire, perché nel famoso capo IV ci sono anche le norme sui fondi dei Gruppi consiliari o altre norme sulla retribuzione, quindi si va da un estremo all'altro, si applica tutto o non si applica nulla.
  Anche ammesso che sia così, perché non possiamo che credere che sia così, questo tentativo di riforma del Titolo V avrebbe un impatto molto forte per ciò che dice e per ciò che non dice. Dal punto vista tecnico la riscrittura dell'articolo 117 della Costituzione consiste in realtà nella conferma del vecchio secondo comma dell'articolo 117, enormemente allargato attraverso l'inserimento di una decina di altre materie di competenza esclusiva dello Stato. Tutto questo non potrebbe che avere effetti di fatto anche nelle Regioni speciali.
  Formalmente no ? Ma quando scrivo nell'articolo 117, secondo comma (se ora cambiano i riferimenti, impazziamo) che sono competenza esclusiva dello Stato le norme generali per la tutela della salute o per la sicurezza alimentare e la tutela della sicurezza del lavoro, è ben difficile che un legislatore statale della Camera che definisca un testo come Norme generali per la tutela della salute poi receda dinanzi a una Regione speciale che rivendichi una competenza non esclusiva, ma primaria in materia di salute e di ordinamento sanitario.
  Pensate a tutto ciò che riguarda l'ordinamento scolastico, l'istruzione universitaria, la programmazione strategica della ricerca scientifica e tecnologica, che sono tutte cose aggiunte, o l'ordinamento degli enti di area vasta, l'ordinamento dei Comuni. Queste cose peserebbero in senso di affaticamento dell'esercizio di una serie di funzioni legislative da parte delle Regioni speciali.
  Soprattutto, forse qualcosa di più si poteva dire e mi permetto di indicare solo tre piccole cose, visto che si vuole fare una riforma così significativa e importante. Non si dice una parola sull'estensione dell'articolo 127 della Costituzione anche alla Sicilia.
  Voi sapete che dopo la riforma del Titolo V la giurisprudenza della Corte costituzionale ha esteso a tutte le Regioni a Statuto speciale salvo la Sicilia il meccanismo di controllo sulla legislazione. È rimasto in piedi solo lo strano e molto datato sistema del commissario di governo siciliano, che effettua il controllo, con conseguenze molto discutibili. Questo è proprio un residuo storico, un pezzo di uno Statuto rimasto sospeso, precostituzionale, disomogeneo, che crea molti problemi nell'eguaglianza di trattamento dei controlli giurisdizionali sulle leggi.
  I poteri di intervento del Senato riformato riguarderebbero in particolare tutta la legislazione che attiene alle Regioni, quindi dovrebbero riguardare tra le altre cose le norme di trasferimento delle funzioni amministrative dallo Stato alle Regioni, ammesso che ce ne sia ancora da fare, ma direi che c’è, perché queste norme non sono mai state fatte dalla fine degli anni ’90, quindi forse è il momento di farle.
  Nel momento in cui ci si pone questo problema, cioè il Senato esprime un parere (speriamo più incisivo di quello che è stato scritto) su queste norme statali di tipo legislativo che trasferiscono le funzioni dallo Stato alle Regioni, però la Pag. 15Camera continuerebbe ad essere esclusa dall'esprimere il proprio parere sulle norme di attuazione degli Statuti speciali.
  Le norme di attuazione degli Statuti speciali non solo attivano una trattativa tra il Governo e la singola Regione che è asimmetrica nel nostro ordinamento giuridico, perché in genere in materia legislativa il rapporto è tra Parlamento e Regioni, ma addirittura attribuiscono di fatto un potere legislativo permanente al Governo, il quale attraverso i decreti di attuazione può modificare istituti importantissimi per tutte le Regioni.
  Per capirci, se io infilo in una norma di attuazione la riforma di una categoria di enti pubblici anche se solo per quella Regione, di fatto ho introdotto una riforma, e poi le altre Regioni dovranno seguire. Il Governo riesce quindi a disporre di un potere legislativo particolarmente delicato, che in realtà riguarda l'intera serie delle Regioni, ma che decide formalmente con le norme di attuazione per la Sardegna o per il Friuli Venezia Giulia.
  Infine, norme di attuazione certamente permettono trattamenti differenziati, caso per caso, e allora, forse, in questo ambito, nel momento in cui si costruisce il Senato delle autonomie, estendere alla bozza delle norme di attuazione il parere del Senato potrebbe servire a pubblicizzare questi processi e, quindi, in una certa misura a riavvicinare la disciplina delle singole Regioni speciali alla disciplina generale in materia regionale.
  Questa potrebbe essere un'altra piccola occasione per ridurre delle punte che avevano storicamente un senso in origine, ma che non hanno letteralmente più senso adesso. Grazie.

  PRESIDENTE Grazie, professor De Siervo. Prima di aprire la discussione, vorrei fare solo una considerazione veloce sulla disposizione concernente l'applicabilità del nuovo ordinamento del Senato e del Titolo V della Costituzione alle Regioni a Statuto speciale.
  È abbastanza evidente che la prima formulazione dell'articolo 33 del disegno di legge del Governo era esagerata per un verso, ma la seconda formulazione, probabilmente per la necessità di non toccare troppo il testo, lo è per l'altro. Quindi è altamente auspicabile una riformulazione proprio perché, se deve essere Senato delle autonomie, non può essere il Senato di alcune, ma deve esserlo di tutte.
  Fermo restando il discorso sulla specialità, che è oggetto della nostra indagine conoscitiva, bisogna però tener conto dell'insieme.
  Do, quindi, la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti e formulare osservazioni.

  ROBERTO COTTI. Solo per fare un commento in quanto, provenendo dalla Sardegna, consiglierò ai miei corregionali di organizzarsi per cambiare questo Statuto possibilmente entro il 2090, perché prima non ci conviene !
  Vorrei chiedere al professor Cerea, che ci ha presentato molti dati estremamente utili e di questo lo ringrazio, se calcolando la spesa statale delle Regioni abbia considerato il dato pro capite oppure esista uno studio che consideri come in un territorio più vasto, ad esempio quello degli enti foreste, si debbano affrontare delle spese perché, nonostante i pochi abitanti, le foreste e la spesa da affrontare sono sempre le stesse. Vorrei sapere se tra quelli che ci ha fornito ci sia anche il dato che considera la grandezza del territorio.
  Nel valutare la spesa effettuata dallo Stato nelle Regioni bisognerebbe considerare anche altri elementi. In Sardegna, ad esempio, abbiamo il 61-62 per cento del demanio militare italiano, che non ci serve, anzi ci sta uccidendo con tutto quello che stanno sparando. In uno studio completo forse bisognerebbe considerare come quel territorio in realtà sia stato dato in uso a tutte le Regioni italiane.

  FLORIAN KRONBICHLER. Ho posto già questa domanda nella scorsa audizione, ma lei che possiede la dote della sintesi, professor Cerea, sa che, nonostante questa massa di dati, continuano a sussistere con la stessa credibilità due versioni, in Parlamento come anche a Bolzano: la Pag. 16prima sostiene che a Bolzano siamo tanto bravi da mantenere con i nostri soldi metà dello Stato; l'altra, espressa due settimane fa anche dal nuovo Presidente della Provincia in un convegno a Roma, che la provincia di Bolzano per contributo pro capite sarebbe ormai il secondo contribuente al netto dopo la Lombardia.
  Vorrei sapere dove stia la verità, perché quasi tutti si pongono questa domanda, a cui lei potrebbe rispondere una volta per tutte.

  PRESIDENTE Sono sicuro che questo accadrà. Do la parola all'onorevole Valiante.

  SIMONE VALIANTE. Sì, molto brevemente, per porre una domanda al professor Cerea. Tra i dati che lei ha citato c'era un saldo negativo che riguardava il Mezzogiorno d'Italia (tra i tanti che riguardano il sud) rispetto agli introiti fiscali nel sistema nazionale e agli investimenti sui territori, per cui il sud incasserebbe più di quanto versi allo Stato.
  Vorrei sapere se questi dati si riferiscano al complesso della spesa pubblica o ci siano anche dei dati settoriali, perché dovremmo fare anche una valutazione settoriale più approfondita.
  Questo esula dalla riflessione odierna, ma ne approfitto per sottoporlo al presidente come argomento per eventuali audizioni, perché questo Paese ha evidenti problemi di squilibrio complessivo, che non riguardano soltanto gli Statuti regionali, il valore e il significato della specialità.
  Eccetto le note virtuosità amministrative di territori come Trento e Bolzano – che giustamente il collega rivendicava, ma che sono talmente piccoli da non incidere sul peso complessivo dei profondi squilibri territoriali del Paese – considero necessaria una riflessione approfondita sulla settorialità della nostra spesa pubblica.
  Cito come esempio la sanità, perché rispetto alla capacità e alla qualità della spesa esistono ancora dei parametri sulla ripartizione del Fondo sanitario nazionale che tengono conto di un fattore come l'età della popolazione, per cui Regioni giovani del sud scontano un mancato introito in settori come la spesa sanitaria.
  La Campania percepisce, quindi, circa 110 euro in meno per abitante rispetto ad altre regioni, e molti milioni di euro meno del Lazio per una differenza di 1-2 anni di età media della popolazione.
  Questa questione della spesa complessiva dello Stato ripartita per Regioni, molto seria e che noi dovremo impostare come priorità assoluta nella riforma del Titolo V della Costituzione, necessita di un approfondimento settoriale più incisivo, per valutare dove occorra intervenire per rimodulare gli squilibri esistenti, quelli che danneggiano alcune aree del Paese e quelli che favoriscono – magari in maniera meno eclatante – altre aree in base a una logica del tutto ingiustificata.
  Al netto di tutte queste valutazioni che offro come argomento di riflessione anche per prossime audizioni, ritengo comunque molto utili i dati che ci ha fornito e di questo la ringrazio.

  PRESIDENTE. Se non ci sono altri interventi, vorrei porre due domande veloci. La prima è rivolta a tutti e tre i nostri auditi.
  Si è parlato di specialità che funzionano e di specialità che non funzionano e si è detto che per quelle che non funzionano bisognerebbe avere gli opportuni poteri sanzionatori o almeno sostitutivi. Chiedo, quindi, se la disciplina attuale dei poteri sostitutivi sia considerata soddisfacente in generale e con riferimento alla sua almeno parziale applicabilità alle Regioni ad Autonomia speciale.
  La seconda domanda riguarda tutti, però è rivolta soprattutto al professor Cerea. Quando il professor De Martin ha accennato al libro del dottor De Robertis, significativamente intitolato La casta delle speciali, ho notato che il professor Cerea scuoteva la testa, per cui saremmo molto interessati ad avere una sua opinione in proposito. Grazie.
  Do la parola agli auditi per la replica.

  GIANFRANCO CEREA. Professore di scienza delle finanze e di economia pubblica Pag. 17presso l'Università degli studi di Trento. Se mi permettete, vorrei fare una riflessione preliminare importante. Leggendo gli atti della Costituente è frequente il riferimento all'idea secondo cui le Regioni dovevano essere lo strumento per promuovere lo sviluppo economico e sociale dei territori, missione che era fallita nell'impostazione dello Stato unitario.

  PRESIDENTE. Chiedo scusa, professor Cerea, solo per rappresentare a lei e agli altri due auditi che abbiamo il limite delle ore 16, quindi abbiamo venti minuti.

  GIANFRANCO CEREA. Professore di scienza delle finanze e di economia pubblica presso l'Università degli studi di Trento. In breve, le Autonomie speciali si differenziano dalle ordinarie, fatta salva un po’ la Sicilia, per un principio: le loro risorse dipendono da come va l'economia locale, cioè non ci sono trasferimenti perequativi in capo all'Autonomia speciale.
  Per darvi un'idea, la Provincia di Bolzano negli anni ’60 si è rivolta alla Corte costituzionale, sostenendo che lo Stato non poteva erogare trasferimenti in favore della Regione e della Provincia autonoma, perché vedeva il trasferimento finanziario come un'ingerenza nell'autonomia regionale, in quanto il principio era: «io vivo delle risorse che il mio territorio produce».
  Questo è un formidabile incentivo alla responsabilizzazione oltre che alla crescita, che però a mio parere è stato colto in modo asimmetrico sul territorio, perché sicuramente Valle d'Aosta, Trento, Bolzano e in parte Friuli Venezia Giulia hanno appreso questa lezione, ma la Sicilia e la Sardegna in modo molto più blando, anche perché all'interno dei loro Statuti avevano delle forme di compensazione.
  La seconda cosa è che in linea di principio la cultura dell'Autonomia speciale non dovrebbe accettare riferimenti a questioni settoriali. Personalmente ritengo del tutto ingiustificato il fatto che la Sicilia riceva il Fondo sanitario nazionale: è l'unica Regione a Statuto speciale che è trattata come le Regioni ordinarie. Non ha senso che un'Autonomia speciale abbia i comuni che godono di trasferimenti da parte del Ministero degli interni. Da questo punto di vista, la Sicilia è una Regione ordinaria.
  Se, quindi, mi si chiedesse come si sistemino i conti con la Sicilia, direi: semplice, domani mattina il Fondo sanitario e i fondi ai comuni non vengono più erogati, perché la Sicilia spende troppi quattrini per fare altre cose. Una battuta cattiva: Sardegna e Sicilia sono talmente autonome da avere le strade statali su un'isola ! Le Province di Bolzano e di Trento non ce l'hanno più, la Sicilia e la Sardegna – che sono isole – hanno le strade statali: è impressionante, ed è un indicatore della debolezza del senso dell'autogoverno.
  Prima parlavamo della dotazione delle risorse e della conservazione del territorio: quando una Regione scende di dimensione (anche la Sardegna è una Regione medio piccola nel quadro italiano) di fatto il meccanismo che qui è previsto compensa, nel senso che quasi tutte le Regioni meno popolate sono anche le più grandi in termini di estensione.
  Il vero problema con la Sardegna (e questo sarebbe un bell'esercizio da fare, ma, per quanto mi sia spaccato la testa, non sono riuscito a trovare la soluzione) è come valutare i costi dell'insularità. Dire che la Sardegna è come la Toscana è falso, perché essere in mezzo al mare comporta sicuramente dei costi. Quali non è facile stabilirlo, però vanno presi in considerazione, e certamente la Sardegna da questo punto di vista ha dei costi in più rispetto alla Sicilia e rispetto a qualsiasi altra Regione.
  Tenderei a sottolineare che questi ragionamenti vanno collocati in un discorso di forte responsabilizzazione. Il riferimento ai tributi e a questi saldi fiscali è fondamentale, nel senso che è una chiamata alla responsabilità. Purtroppo su questo fronte circolano numeri molto strani. Ad esempio, come avrete sentito citare, se guardate i dati dei conti pubblici territoriali e fate il saldo dal 1996 ai giorni Pag. 18nostri, scoprirete che il bilancio pubblico italiano è in avanzo sistematico di 100 miliardi all'anno.
  Noi non abbiamo deficit secondo i conti pubblici territoriali, paghiamo 100 miliardi di imposte in più della spesa che abbiamo, quindi, abbiamo accumulato dal 1996 ai giorni nostri non so quale patrimonio. Purtroppo circolano simili informazioni del tutto fuorvianti e su queste la gente costruisce ragionamenti e valutazioni.
  Insisto nel sostenere che dobbiamo escludere dai ragionamenti la parte delle pensioni, perché ciò che uno ottiene con la pensione è proporzionato a ciò che ha pagato, quindi, inevitabilmente le Regioni del nord che hanno un mercato del lavoro a redditi più alti avranno pensioni più alte. Questo non può essere utilizzato per dire che il nord ha una spesa pubblica più alta.
  Questo è il primo aspetto. Il secondo punto è la fiscalità locale: se io esercito la fiscalità locale in modo diverso da un altro comune confinante con il mio o un'altra Regione, questa mia scelta non può entrare nella comparazione, perché è frutto di una scelta locale.
  L'unica area su cui ci dobbiamo concentrare per fare confronti è quella della spesa dello Stato, per cui deve effettivamente valere il principio che a parità di fabbisogni la spesa deve essere la stessa e indipendente da quello che si è pagato come imposta.
  Quanto prende il sud in più: si possono fare tutti i conti, ma il sud riceve circa 500 euro in più ad abitante essenzialmente legati alla spesa previdenziale, cioè la componente assistenziale della previdenza al sud è molto alta. Per darvi un'idea, Lombardia, Trento e Bolzano sono gli unici territori d'Italia dove i contributi sociali eguagliano la spesa.
  A Trento e Bolzano questo accade anche perché le pensioni di invalidità sono a carico del bilancio della Provincia, non del bilancio dell'INPS come nel resto d'Italia.
  C’è quindi una spesa minore spesa, un'economia tutto sommato solida, in questo momento di difficoltà il tasso di occupazione penso sia arrivato al 5 per cento, quindi ha continuato a creare posti di lavoro, quindi c’è un grosso flusso di risorse versate anche come contributi sociali, e quindi i conti sono a posto.
  Il sud ha anche una seconda componente, perché ha 500 euro in più (1.000 a seconda di come li si valuta) rispetto al resto del Paese e, poi, ha una capacità fiscale che è la metà.
  Per sommi capi, il centro-nord con le imposte che paga mette in pareggio tutta la spesa di cui beneficia, fatta sia di spesa diretta sul territorio che di quote di competenza del debito pubblico e cose di questo genere; il sud è in debito di circa 100 miliardi, di cui 35-40 dovuti alla maggior spesa che c’è rispetto al nord e 60-65 all'incapienza fiscale. Questo è il quadro generale, che poi si può approfondire, un quadro del tutto normale perché vale anche sul piano individuale: se pago il doppio delle imposte di un altro soggetto non ho diritto ad avere il doppio dei servizi, che mi vengono riconosciuti in base al bisogno, e un soggetto che ha un basso reddito può anche consumare i servizi che finanzierò io, quindi la redistribuzione che c’è tra territori è la stessa che si ha sul piano individuale, quindi nulla da eccepire su questi flussi.
  Il problema è un altro: dopo 40-50 anni siamo di fronte a un quadro immobile e paradossalmente chi doveva utilizzare la specialità per crescere è riuscito ad andare indietro. Cosa fare ? Ci sono tante strade. Lo Stato ha uno strumento molto importante. La Sicilia, che è il caso più problematico, e in parte la Sardegna godono di trasferimenti finanziari importanti, la Sicilia riceve 3,5 miliardi all'anno per il Fondo sanitario. Chi ha detto che vanno erogati ?
  Secondo me è possibile portare la Regione a una negoziazione e a un'assunzione di responsabilità.

  GIAN CANDIDO DE MARTIN, Professore emerito di istituzioni di diritto pubblico presso la Libera università internazionale degli studi sociali LUISS Guido Carli. Vorrei dire solo una parola a proposito del potere sostitutivo, perché veniva Pag. 19chiesto se si possa applicare anche alle Regioni speciali.
  Credo che astrattamente non si possa escludere l'applicabilità dell'articolo 120 della Costituzione peraltro nelle fattispecie che qui sono previste e che, quindi, escludono la possibilità di sanzionare attraverso l'uso di questo meccanismo le Regioni speciali che non usino correttamente le risorse loro assicurate dalle norme vigenti.
  Il potere sostitutivo si può invocare in caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali, della normativa comunitaria, di pericolo grave per l'incolumità e la sicurezza pubblica oppure a tutela dell'unità giuridica e economica. Se, quindi, un provvedimento di una Regione speciale dovesse configurare una lesione di questi profili, si potrebbe certamente immaginare l'uso del potere sostitutivo.

  UGO DE SIERVO, Presidente emerito della Corte Costituzionale. Sono d'accordo con Cerea, però attenzione, perché negli Statuti speciali ci sono delle forme di finanziamento speciale per Sicilia e Sardegna.
  Non è solo un fatto di prassi politica. Da giovane insegnavo a Sassari e posso dire che il famoso Piano di rinascita era una forma di contributo, e qualcosa di analogo c’è anche nello Statuto siciliano.
  Sono Statuti che sono stati creati su un presupposto che ho detto essere stato progressivamente eroso, il sottosviluppo del 1945-1946. Le grandi isole non hanno l'Autonomia speciale solo perché sono isole: sono società che hanno grandi problemi di ripartenza economica.

  GIAN CANDIDO DE MARTIN, Professore emerito di istituzioni di diritto pubblico presso la Libera università internazionale degli studi sociali (LUISS) Guido Carli. Scusi se mi inserisco, ma i ripiani di certi bilanci dissestati di comuni ... non solo di Regioni speciali, ma penso ad esempio a Catania, che è un caso eclatante ...

  UGO DE SIERVO, Presidente emerito della Corte Costituzionale. Quella però è una scelta politica, mentre dicevo di fare attenzione perché qui abbiamo addirittura degli Statuti, cioè delle leggi costituzionali che prevedono forme speciali di entrate. D'altra parte, nelle stesse Regioni ordinarie c’è il fondo perequativo previsto in Costituzione. Che la finanza locale possa essere fondata solo sull'autogestione è un'ottima cosa, però non è la regola per territori sottosviluppati.
  Sui poteri sostitutivi, visto che vogliono rifare il Titolo V, cosa su cui nutro qualche dubbio, riguardino anche l'avvenuta abrogazione dell'articolo 125 della Costituzione, perché patologie gravi (è imperdonabile che si siano verificate nelle Regioni) esigono non la diffusione del controllo della Corte dei conti atto per atto, perché in Sicilia e in Sardegna la Corte dei conti non ha bloccato proprio niente, ma di ripensare seriamente a un sistema di controllo episodico, per missione, eccezionale, magari sotto l'ala del Senato delle autonomie.
  Potrebbe essere uno strumento civile, più accettabile della reintroduzione dei controlli prefettizi o della Corte dei conti, che nessuno auspica, però un problema di serio controllo, seppure in via eccezionale, c’è.
  Anche qui ripensiamo a queste cose, perché altrimenti poi ci troviamo sempre a criticare che debba intervenire la magistratura penale, senza però aver fatto nulla per ridurre le patologie su cui questa interviene.

  PRESIDENTE. Nel ringraziare i professori Gianfranco Cerea, Gian Candido De Martin e Ugo De Siervo, dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 15.55.

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ALLEGATO

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