XVII Legislatura

XIII Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 8 di Mercoledì 20 luglio 2016

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Sani Luca , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE RICADUTE SUL SISTEMA AGROALIMENTARE ITALIANO DELL'ACCORDO DI PARTENARIATO TRANSATLANTICO SU COMMERCIO E INVESTIMENTI (TTIP)

Audizione dei rappresentanti di a/simmetrie – Associazione italiana per lo studio delle asimmetrie economiche.
Sani Luca , Presidente ... 3 ,
Bagnai Alberto , Presidente di a/simmetrie – Associazione italiana per lo studio delle asimmetrie economiche ... 3 ,
Pozzi Cesare , Membro del comitato scientifico di a/simmetrie – Associazione italiana per lo studio delle asimmetrie economiche ... 7 ,
Prina Francesco (PD)  ... 10 ,
Pozzi Cesare , Membro del comitato scientifico di a/simmetrie – Associazione italiana per lo studio delle asimmetrie economiche ... 10 ,
Sani Luca , Presidente ... 11 ,
Zanin Giorgio (PD)  ... 11 ,
Benedetti Silvia (M5S)  ... 12 ,
L'Abbate Giuseppe (M5S)  ... 12 ,
Sani Luca , Presidente ... 12 ,
Bagnai Alberto , Presidente di a/simmetrie – Associazione italiana per lo studio delle asimmetrie economiche ... 12 ,
Pozzi Cesare , Membro del comitato scientifico di a/simmetrie – Associazione italiana per lo studio delle asimmetrie economiche ... 13 ,
Sani Luca , Presidente ... 14

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà- Berlusconi Presidente: (FI-PdL);
Area Popolare (NCD-UDC): (AP);
Sinistra Italiana-Sinistra Ecologia Libertà: SI-SEL;
Scelta Civica per l'Italia: (SCpI);
Lega Nord e Autonomie - Lega dei Popoli - Noi con Salvini: (LNA);
Democrazia Solidale-Centro Democratico: (DeS-CD);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-Alleanza Liberalpopolare Autonomie ALA-MAIE-Movimento Associativo italiani all'Estero: Misto-ALA-MAIE;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI;
Misto-Alternativa Libera-Possibile: Misto-AL-P;
Misto-Conservatori e Riformisti: Misto-CR;
Misto-USEI-IDEA (Unione Sudamericana Emigrati Italiani): Misto-USEI-IDEA;
Misto-FARE! - Pri: Misto-FARE! - Pri;
Misto-Movimento PPA-Moderati: Misto-M.PPA-Mod.

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
LUCA SANI

  La seduta comincia alle 14.40.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione dei rappresentanti di a/simmetrie – Associazione italiana per lo studio delle asimmetrie economiche.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle ricadute sul sistema agroalimentare italiano dell'accordo di partenariato transatlantico su commercio e investimenti (TTIP), l'audizione dei rappresentanti di a/simmetrie – Associazione italiana per lo studio delle asimmetrie economiche.
  Sono presenti il professor Alberto Bagnai, presidente dell'associazione, nonché professore associato di politica economica presso il dipartimento di economia dell'Università Gabriele D'Annunzio di Chieti-Pescara; il professor Cesare Pozzi, membro del comitato scientifico di a/simmetrie, nonché docente di economia applicata presso l'Università di Foggia e di economia dell'impresa presso la LUISS Guido Carli di Roma; Marta Galano, assistente del presidente; e Federico Bosco, responsabile della comunicazione on line.
  Li ringrazio per la presenza e cedo loro la parola, chiedendo la cortesia di presentarsi all'inizio del proprio intervento, in modo da rendere noto anche a chi ci ascolta da fuori chi parla.

  ALBERTO BAGNAI, Presidente di a/simmetrie – Associazione italiana per lo studio delle asimmetrie economiche. Presidente, ringrazio lei e la Commissione per l'invito e per la possibilità di esprimerci in questa sede istituzionale.
  Sono Alberto Bagnai, insegno politica economica all'università Gabriele D'Annunzio di Chieti-Pescara e sono presidente e membro fondatore dell'Associazione italiana per lo studio delle asimmetrie economiche.
  Il Trattato di partenariato transatlantico sul commercio e sugli investimenti, come tutti i trattati internazionali, è proprio uno di quei casi in cui le asimmetrie economiche si manifestano, intendendo per asimmetria qualsiasi situazione nella quale le parti contraenti sono caratterizzate da diversità strutturali.
  In questo caso, noi individuiamo almeno quattro tipi di asimmetrie nel Trattato transatlantico. Una prima asimmetria piuttosto evidente è di ordine politico e, quindi, in qualche modo vi riguarda più direttamente.
  L'Unione europea – dobbiamo dircelo – è in una situazione di crisi, che è una crisi sia economica che di leadership. Questo apre due problemi per quanto riguarda il trattato di cui ci occupiamo oggi.
  Il primo problema è che la letteratura economica mette in evidenza come gli inevitabili costi di aggiustamento che seguono a un'apertura degli scambi internazionali diventano più severi e più difficili da gestire quando un Paese è in una situazione di protratta crisi economica. Tornerò su questo fra poco.
  Il secondo problema è che la crisi di leadership che si sta manifestando a livello Pag. 4europeo rende più difficile mediare gli interessi nazionali, che a livello europeo sono ancora diversificati, soprattutto nel campo dell'agricoltura, come sicuramente voi saprete meglio di me.
  D'altra parte, l'idea che si debba accelerare sulla strada di questo trattato, perché i benefici che esso assicurerebbe in termini di crescita ci salverebbero dalla crisi, non è perfettamente coerente con i dati quantitativi che emergono dagli studi di cui disponiamo.
  C'è poi un problema abbastanza evidente di asimmetrie informative. È cosa di dominio pubblico che l'estrema riservatezza con la quale i trattati sono negoziati non sta favorendo la maturazione di un'opinione consapevole a favore o contro di essi.
  C'è anche un problema specifico per quel che riguarda l'agricoltura. Nonostante tutti gli studi siano sostanzialmente concordi nell'affermare che il settore agricolo, particolarmente in alcune filiere, sarebbe sottoposto a situazioni di stress, in realtà mancano studi specifici in questo settore, in particolare per quel che riguarda l'Italia.
  Inoltre, c'è un problema di asimmetria strutturale: Stati Uniti ed Europa nel suo complesso, Italia in particolare, hanno modelli di sviluppo agricolo estremamente diversi, che derivano dal loro percorso storico e dalla loro struttura geografica.
  C'è anche un ulteriore problema di asimmetria metodologica: i modelli che vengono utilizzati in generale, non solo in questo caso, ma anche in noti casi precedenti, come per esempio quello del North American free trade agreement (NAFTA), per valutare gli accordi di libero scambio sono intrinsecamente orientati, per l'apparato teorico che utilizzano, in senso molto liberista.
  Questo genera una distorsione positiva a favore dell'ipotesi di apertura, però al tempo stesso è possibile elencare una serie di fattori che questi modelli ignorano e che devono essere comunque sottoposti all'attenzione del decisore politico.
  Un altro aspetto rilevante è che, secondo una letteratura consolidata, in questo tipo di accordi la rimozione delle cosiddette «barriere non tariffarie», cioè l'armonizzazione delle norme regolamentari, e la promozione degli investimenti diretti, che sono senz'altro gli aspetti quantitativamente più rilevanti come impatto, sono anche quelli più difficili da quantificare.
  Per dare un ordine di grandezza, basta pensare che quello delle barriere tariffarie è un problema relativamente minore. Uno studio condotto dalla Commissione europea nel 2014 metteva in evidenza come le barriere tariffarie a livello complessivo fossero diminuite fra Europa e Stati Uniti. Infatti, i nostri dazi verso gli Stati Uniti sono passati dal 3,5 al 3,3 per cento in media fra il 2004 e il 2010, con una diminuzione dal 19,1 al 12,8 per cento per i prodotti agricoli. I dazi nel settore agricolo, quindi, sono relativamente più alti della media, ma sono anche in forte diminuzione.
  Viceversa, sono protetti da qualche forma di barriera non tariffaria la totalità dei prodotti agricoli. Queste barriere non tariffarie sono sostanzialmente di due tipi: le misure sanitarie e/o fitosanitarie, che generalmente sono intese a proteggere la salute dei cittadini, e le cosiddette «barriere tecniche al commercio», che riguardano, per esempio, la tutela delle denominazioni d'origine e altri aspetti particolarmente rilevanti nella filiera agricola.
  Va tenuto presente che le valutazioni quantitative dei benefici attesi in termini di crescita che circolano nella letteratura scientifica e in particolare negli studi sponsorizzati e finanziati dalla Commissione europea sono di ordini relativamente minori.
  Per esempio, lo studio a cui la Commissione europea fa principale riferimento, che è quello condotto nel 2013 dal Centro di ricerca in politica economica (CPER) di Bruxelles e Londra, prevede che nel 2027, a un orizzonte di una quindicina di anni, ci sarà una situazione tale per cui il PIL europeo sarà aumentato dello 0,49 per cento rispetto a quello che si avrebbe se il trattato non venisse concluso. Sono valutazioni di questo ordine di grandezza.
  Per questo poc'anzi dicevo che aspettarsi un'enorme spinta alla crescita, anche Pag. 5secondo gli studi che la stessa Commissione ha propugnato, non è realistico.
  Prima di lasciare la parola al professor Pozzi, che affronterà temi più specifici della filiera, vorrei soffermarmi rapidamente con voi su alcuni problemi di ordine metodologico che la valutazione di questi trattati di libero scambio generalmente comporta. Si tratta di problemi che possono sembrare astratti, ma che hanno delle ricadute concrete, delle quali è opportuno, almeno a mio avviso, che il decisore politico sia portato a conoscenza.
  Il dato fondamentale è che le valutazioni delle quali disponiamo circa gli effetti di questi trattati vengono tutte condotte con l'approccio metodologico del cosiddetto «computable general equilibrium», cioè dei modelli di equilibrio economico generale calcolabili.
  Questi modelli prevedono alcune ipotesi che, alla luce della situazione economica attuale, si rivelano un po’ riduttive.
  In particolare, questi modelli si basano sull'ipotesi che vi sia una piena occupazione delle risorse e che, quindi, il livello del reddito sia determinato unicamente dal lato dell'offerta. I benefici in termini di occupazione vengono quindi determinati dalla dinamica salariale, nel senso che, se si riscontra un aumento dei salari nella simulazione, se ne deduce che c'è una maggiore domanda di lavoro da parte degli imprenditori e, quindi, in equilibrio, una maggiore occupazione.
  Un altro dato particolarmente critico, soprattutto per quanto riguarda il settore agricolo, è che in questi modelli, che sono fortemente ancorati a un'ideologia di equilibrio economico generale, marginalista o liberista – chiamatela come meglio preferite – si presuppone che il lavoro sia un fattore produttivo omogeneo e che, quindi, sia riallocabile senza particolari frizioni da un settore produttivo a un altro.
  Questo è un tema particolarmente rilevante, perché tutta una serie di sviluppi politici ai quali stiamo assistendo oggi vengono interpretati nel senso di constatare che alcuni movimenti politici o alcune decisioni prese dalle popolazioni emergono perché il processo di globalizzazione e, quindi, di liberalizzazione del commercio ha dei vincitori e degli sconfitti.
  Nei modelli che vengono utilizzati per valutare questi trattati non ci sono vincitori o sconfitti della globalizzazione, perché si dà per scontato che un farmacista, se chiude la sua farmacia, il giorno dopo possa diventare un ingegnere in un'azienda di sviluppo di software, senza particolari costi. Ho fatto un esempio un po’ estremo per far capire la logica dell'approccio.
  Un'altra caratteristica rilevante è che questi modelli non considerano gli aspetti redistributivi. Perché questo è rilevante per il settore agricolo? Molti studi specifici sulle ricadute del TTIP nel settore agricolo mettono in evidenza che si tratta di un settore dove gli occupati sono più fragili in termini di tutele sindacali, di competenze acquisite e di possibilità di reimpiego in altri settori.
  Pertanto, l'idea che ci sia una migrazione di lavoratori da settori a minore competenza a settori a maggiore competenza ha anche una ricaduta che non viene considerata, che è quella di un eventuale aumento della disuguaglianza.
  Gli studi in questione trascurano anche altri aspetti, che sono rilevanti. Innanzitutto, c'è un aspetto sistemico: noi dobbiamo riconoscere che in questo momento, al di là delle politiche industriali specifiche per il settore agricolo, sulle quali poi interverrà il professor Pozzi, a livello macroeconomico attualmente l'Unione europea non è esattamente in grado di mettere in campo degli strumenti di reazione a shock esterni particolarmente efficaci. Credo che questo si possa ormai constatare, dopo una crisi così prolungata.
  Di conseguenza, c'è da interrogarsi su quanto sia opportuno legare la propria economia a un'economia come quella statunitense, che, per le sue dimensioni, nel momento in cui entra in recessione, è in grado di trascinare anche noi in recessione, esattamente come è stato dopo la crisi del 2007-2008.
  Un'altra caratteristica che va tenuta presente è che la valutazione che viene offerta da questi studi è sempre articolata dal lato del consumatore, così come avviene nell'ottica Pag. 6 del pensiero liberista, quindi la riduzione di un prezzo viene necessariamente percepita come un dato positivo, perché quella cosa costa meno.
  Naturalmente questo, però, comporta un piccolo dettaglio che non sempre viene colto da questi studi: una riduzione di un prezzo, se, da un lato, è una riduzione di spesa, dal lato del produttore è una riduzione di fatturato.
  In precedenti esperienze di accordo di libero scambio abbiamo visto all'opera questo meccanismo e abbiamo notato che, laddove siano stati promossi i volumi del commercio, non sempre il valore delle merci scambiate ha avuto un'evoluzione ugualmente favorevole.
  C'è un altro aspetto particolarmente rilevante, in particolare per l'agricoltura. Fondamentalmente, come vi dicevo, nell'architettura generale del partenariato transatlantico, una volta accantonato il tema delle barriere tariffarie, che non è estremamente rilevante in termini quantitativi, rimangono due temi.
  Il primo è quello delle barriere non tariffarie e, quindi, dell'armonizzazione dei regolamenti e di tutta una serie di norme. Sono gli argomenti di cui si parla di più nella stampa, facendo esempi di situazioni allarmanti, riferite all'uso di ormoni eccetera, ma non vorrei soffermarmi su questo. Il secondo è l'aspetto della promozione degli investimenti.
  Dobbiamo pensare che gli Stati Uniti hanno un modello di agricoltura fortemente industrializzato, che non corrisponde alla tradizione, alla specificità culturale e alla specificità produttiva del nostro Paese e molto verosimilmente non corrisponde neanche a quello che una parte consistente dei nostri cittadini chiede sempre di più, cioè un'agricoltura più rispettosa dei territori, produzioni biologiche eccetera.
  L'idea è che naturalmente, con una maggiore interdipendenza rispetto a un sistema produttivo forte articolato in questo modo, quel tipo di modello possa essere in qualche modo importato anche da noi.
  Si aprono, quindi, tutta una serie di considerazioni che riguardano gli aspetti di economia e di politica industriale anche nel settore dell'agroalimentare.
  Un altro aspetto rilevante da sottolineare è che normalmente negli studi che abbiamo, anche quelli di riferimento per la Commissione, il settore agricolo viene trattato in modo molto stilizzato.
  Lo studio senz'altro più autorevole, nel senso che la Commissione europea fa riferimento ad esso per promuovere il partenariato, che è quello del CEPR, considera un settore agricolo diviso sostanzialmente in due filiere: quella dei prodotti processed food, cioè dei prodotti confezionati, e quella delle foreste eccetera.
  Lo studio fa solo due suddivisioni, laddove, invece, la realtà mostra che i vantaggi delle diverse filiere, per esempio quella lattiero-casearia, quella della produzione del vino, quella della produzione della carne suina, quella della produzione della carne bovina, hanno dinamiche fortemente differenziate.
  È molto importante, secondo me, trarre qualche insegnamento dalle lezioni del passato. È indispensabile avere una percezione di quali possono essere gli scarti fra le valutazioni che vengono date ex ante, quelle che citavo, che parlano di uno 0,49 per cento in più fra dodici anni, e le valutazioni ex post.
  Dobbiamo tener presente che noi abbiamo un minimo di esperienza in questo settore, che è data da quello che è successo con il North American free trade agreement (NAFTA), un altro grande accordo di libero scambio che ha avuto come protagonista gli Stati Uniti, con una geografia piuttosto frastagliata. Infatti, in realtà, nonostante fossero coinvolti Canada e Messico, l'accordo non è stato monolitico, ma è stato negoziato in termini diversi per questi due Paesi.
  In quel caso lo scarto fra le valutazioni ex ante e le valutazioni ex post è particolarmente rilevante. Infatti, ex ante si parlava per il Messico di potenziali aumenti del PIL che su un orizzonte di una quindicina d'anni sarebbero stati addirittura di un 11 per cento in più rispetto a quello che sarebbe successo in assenza dell'accordo. Pag. 7
  Invece, le valutazioni ex post pubblicate sulla Review of economic studies da Caliendo e Parro nel 2014 – stiamo parlando di autori che possiamo supporre dotati di un orientamento positivo a favore di una visione di apertura dei mercati, ovvero autori che chiameremmo «neoclassici liberisti», certamente non keynesiani o altro – fanno stato di un aumento del PIL di un 1,31 per cento, un decimo di quello che ci si aspettava prima negli studi più estremi.
  Teniamo presente che ovviamente anche in quel caso il ventaglio delle valutazioni quantitative era piuttosto ampio e che comunque la mediana che ci si aspettava nelle valutazioni era di un aumento del PIL del 3 per cento per il Messico.
  In questo senso, bisogna dire che quello a cui stiamo assistendo in termini di comunicazione da parte dei responsabili politici e della leadership europea è qualcosa che ricorda un po’ l'esperienza comunicativa che abbiamo vissuto quando si trattava di procedere all'ingresso nell'Unione economica e monetaria.
  Anche in quel caso ci si aspettavano dei risparmi, per esempio quelli derivanti dai costi di transazione e dall'abolizione delle valute nazionali, che però erano dell'ordine dello 0,6 per cento del PIL europeo. Per ciò che concerne la promozione del commercio, secondo gli studi di economisti molto autorevoli, come Andrew Rose dell'Università della California, il commercio intereuropeo sarebbe addirittura triplicato.
  Abbiamo visto che poi le cose non sono andate così, quindi occorre esercitare una particolare cautela.
  A questo punto, con il vostro permesso, lascerei la parola al professor Cesare Pozzi, che ci illustrerà qualche dato più specifico riferito alla filiera agroalimentare e alle politiche industriali. Sono riflessioni che il dibattito sul trattato deve comunque promuovere e che affiderei a lui. Vi ringrazio per l'attenzione.

  CESARE POZZI, Membro del comitato scientifico di a/simmetrie – Associazione italiana per lo studio delle asimmetrie economiche. Ringrazio i membri della Commissione per l'occasione di provare a fornire un contributo al dibattito. Il mio intervento non sarà così ambizioso come Alberto sostiene.
  Io sono professore straordinario di economia industriale. Il termine «straordinario» sta a indicare che sono ordinario da tre anni. Passato il terzo anno, da straordinari si torna a essere ordinari. In questo momento sono di ruolo a Foggia e al dipartimento di giurisprudenza della LUISS.
  Provo a dare un modesto contributo – è molto interessante parlare con dei politici – per cercare di fornire, dal punto di vista dell'economista, un po’ di chiavi di lettura.
  Dal ragionamento che ha fatto Alberto, che è uno dei migliori esperti di modellistica, emerge abbastanza chiaramente che è molto difficile trovare numeri e dati su cui prendere una decisione.
  Questo è il risultato di un certo tipo di rappresentazione della teoria economica che in qualche maniera riduce il ruolo della decisione politica e lo modifica. L'economia, come disciplina scientifica – o forse non tanto l'economia, quanto un utilizzo strumentale che ne è stato fatto – ha provato a portare avanti un certo tipo di ragionamento, per cui sarebbe possibile arrivare a definire delle teorie che rappresentano il funzionamento di strutture sociali come se fossero strutture naturali. Il decisore politico, orientandosi tra queste leggi naturali, dovrebbe cercare di riportare ciò che vede a ciò che dovrebbe essere, con l'idea che ci sia un esito migliore.
  Questo è un pezzo della teoria economica, forse quello dominante, il mainstream, che produce quasi tutti quei modelli che in parte ha citato il professor Bagnai. Tuttavia, la teoria economica ha prodotto tanto altro, non solo questo. Questo dovrebbe essere chiaro, perché la decisione politica dovrebbe tener conto di rappresentazioni differenti.
  Cito solo una vicenda, perché è abbastanza divertente e antica nel tempo e spiega un po’ come funziona il sistema tedesco. Nel 1841 c'era un autore che si chiamava List, un uomo molto particolare, che era stato negli Stati Uniti e conosceva bene la dottrina Hamilton. Pag. 8
  Attenzione: se c'è un Paese che non è liberista, sono gli Stati Uniti d'America. Questo è abbastanza chiaro.
  Peraltro, tenete conto del dibattito, molto marginale, che c'è stato negli ultimi tempi negli Stati Uniti sul fatto che nel biglietto da 10 dollari si dovesse togliere l'immagine di Hamilton per sostituirla con l'immagine di non ricordo chi, per un problema di quote rosa.
  Krugman è intervenuto affermando: «Attenzione, non togliamo l'immagine di Hamilton, togliamo qualcun altro. Hamilton è il primo segretario del tesoro americano. È stato l'economista più importante. Gli Stati Uniti sono quello che sono grazie a Hamilton. Se tolgo l'immagine, probabilmente tolgo anche memoria storica di tutto questo e questo creerà dei danni non indifferenti».
  Alla fine Krugman e altri professori sono riusciti a vincere questa battaglia, quindi la signora americana ha sostituito qualcun altro.
  List era molto vicino alle dottrine di Hamilton. Peraltro, nella guerra di secessione il nord industriale non era liberista. Quello che era liberista, per il free trade, per un accordo di libero cambio era il sud schiavista e latifondista. Un minimo di memoria storica in questo aiuta.
  List nel 1841 dice una cosa abbastanza interessante, che spiega che cosa faranno i tedeschi. La parafraso in modo forse un po’ più divertente: «È politica astuta per chiunque sia salito in cima a una scala proporsi come quello che spiega come si fa a salire in cima a quella scala, di modo che nessuno ci arrivi mai». Aggiunge List: «Questo è il motivo dell'incredibile successo della dottrina cosmopolita di Adam Smith e dei suoi seguaci».
  Ciò segnala una cosa molto importante: da quel momento in avanti l'accademia tedesca e la politica tedesca vanno in una direzione diametralmente opposta. Per i tedeschi questo è chiaro, come per l'accademia e per la teoria economica: le dottrine liberiste si applicano agli altri e non in casa. È esattamente quello che hanno fatto gli americani o che prima avevano provato a fare gli inglesi.
  Tutto questo forse deve ritornare in qualche modo, non perché si prenda una posizione in un senso o nell'altro, ma perché l'analisi scientifica deve far emergere i pregiudizi ideologici che ci sono a monte. Se non emergono i pregiudizi ideologici, allora a quel punto non possiamo neanche affrontare un dibattito analitico e non possiamo prendere decisioni politiche. Vi direi che questo è assolutamente importante.
  Arriviamo al tema odierno. Come affermava poc'anzi il professor Bagnai, questo trattato di libero scambio si concentra sulle barriere non tariffarie. Le barriere tariffarie praticamente non ci sono dall'Uruguay Round in avanti. Parliamo di valori assolutamente marginali. Non sono quelli l'oggetto, ma le barriere non tariffarie.
  La barriera non tariffaria è un problema, perché è legata a quello che io definisco – mi perdonino la definizione rozza coloro i quali sono laureati in legge – un assetto istituzionale, che è l'espressione della cultura di una comunità.
  Non c'è un diritto naturale, delle regole e degli assetti istituzionali che governino le relazioni tra imprese e consumatori, cittadini e persone che siano naturali. Sono il risultato della sedimentazione di un percorso culturale.
  Come insegna Krugman, la memoria storica è fondamentale, perché, se perdo quella, non so più chi sono. A quel punto, quando non so chi sono, cado nelle mani di chi fa strategia, di chi è in grado di fare arbitraggi, di muoversi tra sistemi di regolazione differenti.
  Se non c'è un sistema migliore di un altro, ognuno ha il suo. La competizione, quindi, non può essere tra assetti istituzionali, pensando che ce ne sia uno migliore di un altro.
  Una barriera non tariffaria è il risultato di un certo modo di intendere le cose. Una comunità non può prescindere dal proprio modo di intendere. Può modificarlo, ma lo deve fare in base alla capacità di comprendere qual è la relazione tra quelle norme e la capacità di generare valore e di tenerlo sul territorio. Questo è un punto fondamentale. Pag. 9
  Si possono scambiare idee, si possono scambiare beni, si può scambiare qualunque cosa, però la concorrenza, che è uno dei termini più equivoci che ci siano... Pensiamo anche all'etimo. Concorrenza deriva da cum-currere (correre insieme). Chi l'ha detto che è correre l'uno contro l'altro? Non c'è nell'etimo.
  Noi pensiamo alla concorrenza in base alla lettura che ne dà Adam Smith, che è concorrenza di prezzo. Tuttavia, nel cum-currere c'è anche il fatto che per raggiungere un risultato possiamo cooperare. Infatti, un pezzo di teoria economica racconta che è rivalità e concorrenza di prezzo, ma altre rappresentazioni di teoria economica potrebbero raccontare storie completamente differenti. Dipende dal mio contesto, che ha generato un certo assetto istituzionale.
  La barriera non tariffaria è un qualcosa di molto delicato, perché dietro di essa c'è un sistema che si è abituato a muoversi in quella maniera, c'è la capacità di generare valore e di mantenerlo sul territorio, che è l'altra faccia della medaglia.
  Se io elimino le barriere non tariffarie e arrivo a un assetto istituzionale che è lo stesso, ovviamente io ho sistemi che dal punto di vista della capacità di portare beni e servizi su quei mercati sono completamente differenti, perché sono costruiti sulla base dell'assetto istituzionale che loro hanno percepito e che ne ha orientato la costruzione strutturale.
  A quel punto, io concorro su un mercato e la competizione non tiene più conto della capacità di generare valore e di tenerlo sul territorio. Dunque, se mi offrono un prodotto... Quante volte avrete sentito: «Tutto sommato, il consumatore è in grado di distinguere un pollo a un euro in meno dal pollo ruspante che sta dietro casa. Decido io tra l'uno e l'altro. Il consumatore deve essere libero»?
  Attenti: questo è fortemente ingannevole, perché, nel momento in cui io sono posto di fronte a questa scelta, non considero il fatto che quella scelta impatta anche sulla capacità della mia comunità di essere sostenibile nel tempo, in quanto, se io non compro più il prodotto che viene dalla mia comunità, perdo lavoro. Nel momento in cui vado a comprare, è una cosa che non posso considerare.
  Se vado a comprare il gelato dal gelataio e me lo offrono da una catena industriale a un euro di meno, avendo dei limiti di budget, che soprattutto in tempi di crisi si accentuano, non vado a pensare: «Lo compro a un prezzo un po’ più alto, perché altrimenti la gelateria chiuderà». Non penso a qual è la ricaduta della chiusura di quell'esercizio commerciale o di quell'attività industriale sulla mia capacità di sopravvivere, perché ovviamente io faccio l'avvocato o il professore e in qualche maniera il fatto che il gelataio mandi il figlio in università da me è fondamentale.
  Tutto questo non può entrare nel processo di scelta. Io trasformo semplicemente un cittadino in un consumatore. Ho modificato i termini della concorrenza e surrettiziamente ho distrutto chi non è in grado di adeguarsi. Si deve arrivare ai termini del problema.
  Come raccontava List, chi è più forte impone un trattato di libero scambio, ma chi è più forte in un'economia di mercato? Chi ha la capacità di imporre uno standard e di seguirlo con comportamenti.
  Sulla trasformazione agroalimentare e sul settore agricolo, che sono due cose un po’ differenti... L'Italia è un Paese agricolo, che produce grande varietà, ma è anche un Paese che ha potenzialmente una grande capacità di trasformazione agroalimentare, che deve seguire la sua enorme varietà.
  Io lo devo rafforzare, ma non posso rafforzarlo se il mio assetto istituzionale è sottoposto a una pressione di questo tipo. Questo ovviamente non vuol dire che io debba essere aggressivo. Devo tener conto, però, che la relazione tra assetto istituzionale e sistema delle imprese è molto stretta.
  L'unico settore in cui negli ultimi quindici anni abbiamo avuto un timido segno positivo – i dati sono quelli di Confindustria – è l'industria alimentare e delle bevande. Tutti gli altri settori industriali in Italia hanno segno negativo, con alcuni casi drammatici. Ovviamente veniamo da quindici anni di perdita. Pag. 10
  La produzione manifatturiera in Italia...I dati sono del 2000-2013. Perdonate se non li ho aggiornati. Peraltro, i numeri servono relativamente. Quello che deve essere chiaro per la decisione politica è la ricostruzione concettuale che c'è dietro. Comunque, in quindici anni l'Italia ha perso grossomodo un 25 per cento di produzione manifatturiera, con un mondo che è aumentato tra il 35 e il 40 per cento. È un disastro.

  FRANCESCO PRINA. (fuori microfono). L'agroalimentare è aumentato del 35 per cento?

  CESARE POZZI, Membro del comitato scientifico di a/simmetrie – Associazione italiana per lo studio delle asimmetrie economiche. No, l'agroalimentare è l'unico settore che ha un timido segno positivo in Italia, mentre tutti gli altri hanno un segno negativo. È, quindi, un settore da guardare con un minimo di attenzione.
  Ho recuperato un dato, che è un indicatore sintetico. Nel 2006 i primi tre Paesi europei con le migliori export performance nei prodotti alimentari lavorati sono nell'ordine: Paesi Bassi, Germania e Francia. L'Italia non c'è. Nel 2013 sono nell'ordine: Germania, Paesi Bassi e Francia. L'Italia non c'è.
  Il punto è che qualunque decisione deve essere legata all'analisi che facciamo su cosa c'è nel nostro territorio, su quali sono le filiere e su qual è la capacità di queste filiere di essere sostenibili nel tempo.
  Ovviamente noi parliamo tanto di made in Italy, ma questo è un termine che ha un senso innanzitutto se noi difendiamo quell'assetto istituzionale e quella cultura, se compriamo e viviamo in quella maniera. Non possiamo pensare di vendere qualcosa all'esterno se noi ci comportiamo in maniera diametralmente opposta.
  La dimensione delle nostre imprese è sicuramente un problema. La nostra più grande impresa della trasformazione agroalimentare non arriva a 10 miliardi di euro di fatturato e le altre sono enormemente più piccole. Nestlé fa 100 miliardi di euro di fatturato. Le grandi imprese americane hanno fatturati che rendono le nostre enormemente deboli.
  Non è un problema di efficienza – perdonatemi – perché «efficienza» non è un termine economico, è un termine ingegneristico. Parlare di efficienza non ha senso. Gli economisti parlano di efficienza perché pensano a un mondo in concorrenza perfetta, in cui il prezzo dei fattori produttivi è un dato, ma, quando questo non è, parlare di efficienza non ha senso. Ci sono l'efficacia e la capacità di raggiungere degli obiettivi.
  Pertanto, dobbiamo riflettere sulla ricaduta che c'è. Non mi posso lamentare che non genero posti di lavoro, se io non difendo un certo assetto istituzionale, che ha dietro una cultura e quant'altro.
  Non vi dico che funziona, perché il dato italiano è drammatico. Questi numeri sono quelli della Seconda guerra mondiale, su un intervallo di quindici anni. L'Italia è un Paese che strutturalmente non ha più la capacità di essere manifatturiero, di generare valore e di tenerlo sul territorio.
  Con –40 per cento di produzione rispetto al mondo le direi... Tenete conto – attenzione – che quando chiudo uno stabilimento non lo riapro più. Le competenze sono un problema enorme, che noi stiamo assolutamente sottovalutando.
  Come affermava Alberto, gli economisti forniscono rappresentazioni di qualcosa che non esiste. Sono convinti che ci si possa spostare da un settore all'altro e che si possa chiudere uno stabilimento e riaprirlo. Questo aprirebbe il tema degli investimenti diretti esteri, che però ci porterebbe un po’ più lontano.
  Un punto che deve essere chiaro nella decisione politica è che la rappresentazione economica di questi problemi che viene fornita è assolutamente parziale e dipende da fortissimi interessi, che sono legittimi da parte di chi li propone, ma forse non sono tanto legittimi da parte di chi li subisce.
  Subire in un'economia di mercato vuol dire fondamentalmente accettare lo smantellamento di quello che io definisco un sistema di welfare. «Welfare» è un termine molto vago, è il risultato di tutte le scelte che si sono fatte in un determinato periodo Pag. 11storico, che si sedimentano, che rappresentano il terreno su cui una comunità ha fatto affidamento. Quello che noi stiamo facendo è smantellare il nostro sistema di welfare. Tutta la generazione che è coinvolta in questi quindici anni si troverà davanti un futuro che è completamente differente da quello che si aspetta.
  Il TTIP rientra all'interno di un cambiamento epocale che non è comunicato. Un Paese che ha la capacità di imporlo – c'è un problema etico: è legittimo questo? – potrebbe averne anche un vantaggio.
  Sicuramente il nostro sistema da questo punto di vista ha problemi. Siamo 60 milioni di persone. Un Paese piccolo, che ha una specializzazione unica o abbastanza marcata, potrebbe anche reggere un sistema del genere, ma non un Paese come l'Italia, che ha 60 milioni di abitanti e che grossomodo ha una massa critica che gli consente di essere credibile su un tavolo di trattativa.
  L'assetto istituzionale è un problema fondamentale. La barriera non tariffaria non è un modo di rallentare il funzionamento del mondo, non è un modo di porsi contro i tempi; la barriera non tariffaria è il risultato di un modello competitivo, che deve essere visto nel suo complesso.
  Se io modifico la barriera non tariffaria, ma non intervengo sulle imprese e non analizzo la capacità del mio sistema industriale di mantenere valore con quel cambiamento di regole, commetto un errore enorme, a prescindere da qualunque tipo di valutazione concreta.
  I dati in questo aiutano sicuramente.

  PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  GIORGIO ZANIN. Mi scuso per essere arrivato in lieve ritardo rispetto ai lavori. Ovviamente queste sono riflessioni molto preziose, perché è evidente che si tratta di una discussione che mira a traguardare un ragionamento quadro, su cui evidentemente i punti di vista sono molteplici.
  Io li assumo e aggiungo dei punti di osservazione che forse la vostra associazione potrebbe ragionevolmente approfondire, nelle sue mansioni di player dentro questa struttura globale.
  La prima è che io mi professo neo-gandhiano nell'approccio economico. Il tema villaggio e autonomia ristrutturato nell'epoca di internet e della rete sta assumendo – questo ovviamente lo dicono Rifkin e altri – un profilo che va necessariamente messo in gioco.
  Se noi facciamo la cernita dei gruppi globali di produzione che negli ultimi vent'anni, a parità di marchio, sono rimasti in piedi, scopriamo che l'evoluzione è talmente veloce che il rosicare delle questioni modifica i soggetti stessi che agiscono, ovviamente anche nel manifatturiero.
  Se penso alle pubblicità che guardavo alla televisione quando ero ragazzo, oggi non trovo un prodotto di quell'epoca. A malapena si salva Strega, perché ha il premio, non perché il prodotto sia in casa mia.
  Detto questo, assumiamo anche un elemento di standard di valutazione, dentro cui fare dei dividendi nell'approccio. Ve li suggerisco. Il primo è che la più grande democrazia oligarchica del secondo millennio aveva sede vicino a casa mia e si chiamava Repubblica di Venezia. La base fondamentale dell'azione che ha stabilito quello splendore e quella qualità della vita in quel contesto non è stata la grandezza, ma la qualità dell'interazione commerciale.
  Dal dopoguerra il principale dividendo dell'interazione commerciale dei trattati è la pace. Dove ci sono trattati commerciali, c'è la possibilità di far viaggiare un'economia che porta un dividendo fondamentale in termini di pace.
  È ovvio che noi abbiamo tutto l'interesse a ricavare la pace, intesa non soltanto come pace non armata, ma evidentemente anche come ricaduta generosa in termini di avanzamento e di riequilibrio dei sistemi di agibilità sociale.
  Questo è il tema che è stato posto dal dottor Pozzi poc'anzi rispetto allo smantellamento del welfare. Bisognerebbe capire se questo sia un elemento o un portato nel sistema globale, legato, per esempio, agli indicatori della demografia. Questo è un altro elemento che sottopongo alla vostra Pag. 12attenzione: quanto noi siamo nelle condizioni.
  Il punto fondamentale è il seguente. Dentro una aggressione strutturale al sistema produttivo basato, in primo luogo, sulla delocalizzazione fondata sul costo della manodopera e, in secondo luogo, sull'innovazione tecnologica, che ovviamente aumenta la produttività a parità di ora-lavoro, noi abbiamo la necessità oggettiva di trovare nei prossimi 30, 40 o 50 anni un ammortizzatore che garantisca a noi, sistema a economia avanzata nel nord del pianeta, tra i protagonisti di questo trattato, una possibilità di mantenere – lo dico con terminologie del secolo scorso – il posto di lavoro alla classe operaia.
  La domanda è: questo trattato ragionevolmente può essere o può funzionare nell'agevolazione dello scambio tra realtà che hanno un PIL pro capite adeguato per comprare le cucine che facciamo noi della Valcucine, che in Ghana non verranno mai comperate? Non vendiamo in Gambia la bottiglia dell'Oltrepò pavese o del DOCG di Valdobbiadene, ma la vendiamo a New York. Questa è una domanda cruciale.
  Noi abbiamo interesse a costruire degli ammortizzatori di carattere commerciale e sistemico su scala globale, rispetto a un'aggressione a doppia cifra. Infatti, è evidente che, nell'avanzamento del sistema produttivo, finché gli standard di sicurezza e di garanzia di ritorno sociale non saranno in certe parti del pianeta almeno simili, per non dire pari, ai nostri, ci sarà uno spread competitivo.
  Io penso che su questa questione la vostra associazione potrebbe fornire una prima indagine di orientamento.

  SILVIA BENEDETTI. Ringrazio gli auditi. Avrei una domanda. Avete sottolineato come gli effetti delle modifiche alle barriere non tariffarie vadano valutati sul tessuto produttivo del Paese.
  Io vorrei capire se c'è un margine di certezza sul fatto che, se queste barriere non tariffarie prendessero il meglio di quanto è presente, potrebbero avere degli effetti positivi, o se, invece, non si sa. Vorrei capire se, trovando il massimo comune denominatore, anziché l'armonizzazione o l'accettazione di parametri diversi come equivalenti, questo potrebbe avere un riflesso positivo sul tessuto produttivo.

  GIUSEPPE L'ABBATE. Ringrazio gli auditi per la chiarezza nell'esposizione. Io vorrei porre una questione in particolare al professor Pozzi, che ha affermato che insegna a Foggia. In questo momento a Foggia si vive il problema del grano.
  Quanti vantaggi può portare l'organizzazione delle filiere al nostro sistema agricolo, anche all'interno di un eventuale accordo di libero scambio con gli Stati Uniti? Oggi abbiamo una problematica che riguarda un po’ tutte le filiere in Italia. Se, invece, siglassimo l'accordo avendo filiere organizzate, quanto si riuscirebbe a sopravvivere in termini economici? Andrebbe comunque male per il nostro settore?

  PRESIDENTE. Do la parola ai nostri ospiti per una brevissima replica, perché purtroppo siamo in fortissimo ritardo con le altre audizioni.
  Vi faccio presente che potete integrare la vostra relazione o fornire dettagli rispetto alle questioni che sono state sollevate dai colleghi anche in forma scritta. Un'integrazione scritta alle cose che abbiamo detto sarebbe gradita.

  ALBERTO BAGNAI, Presidente di a/simmetrie – Associazione italiana per lo studio delle asimmetrie economiche. Innanzitutto vi ringrazio per l'opportunità di presentare qualche dato in forma scritta, che senz'altro aiuterà ad avere un quadro della situazione.
  Rispondo molto brevemente nell'ordine, tralasciando la terza domanda che era più specificamente per il professor Pozzi.
  Parto dal problema del rapporto fra integrazione commerciale e pace e della necessità, che va assolutamente riconosciuta, di creare degli ammortizzatori commerciali. Questa necessità è in effetti tanto più forte per il nostro Paese nel quadro dell'Unione europea, perché quest'ultima ha preso la strada di reagire con politiche di austerità alle fasi di recessione. Se noi scegliamo la strada dei tagli, è assolutamente Pag. 13 opportuno – concordo con lei – che nel resto del mondo qualcuno sostenga la nostra economia.
  Per quel che riguarda il quadro europeo, ritengo che, in realtà, la pace, più che da un accordo di libero scambio come questo accordo transatlantico, negli ultimi anni sia stata garantita dal Patto atlantico, cioè dall'assetto politico e strategico che si è determinato nel secondo dopoguerra, per cui noi siamo integrati da un punto di vista militare e politico con gli Stati Uniti.
  Il punto riguarda lo scenario che ci si apre. Concordo sul fatto che per noi, in quanto produttori di prodotti di fascia alta, idealmente l'interlocutore statunitense è un interlocutore privilegiato. Tenderei a non sottovalutare, però, l'importanza dei mercati emergenti, che in questo momento si stanno aprendo ai consumi di fascia alta, perché lì sta apparendo quello che sta un po’ scomparendo da noi e anche negli Stati Uniti: la classe media.
  Di conseguenza, la riflessione strategica probabilmente deve essere ad ampio spettro, con un'attenzione da prestare sempre alle specificità del nostro Paese.
  Fra le questioni cui vi avrei voluto accennare ce n'è una che si integra con il discorso del professor Pozzi, che può sembrare estemporanea, ma in realtà rientra nell'argomento: la dieta mediterranea è considerata dall'UNESCO come un asset e un patrimonio intangibile dell'umanità. Dobbiamo pensare che la dieta mediterranea non è solo un ricettario, ma è anche un modo di organizzazione del territorio, che fatalmente confliggerebbe con quello che un certo meccanismo di agricoltura meccanizzata tenderebbe a imporci.
  La domanda sollevata dall'onorevole Benedetti è estremamente interessante: siamo sicuri che l'armonizzazione regolamentare sarebbe al ribasso oppure non ci sarebbero aspetti positivi?
  Il punto fondamentale è che l'economista, quando affronta un tema di assetto istituzionale, deve fare un lavoro di quantificazione, cioè deve trovare l'equivalente in termini di prezzo. Sotto questo profilo, gli studi di cui disponiamo non ci forniscono un grande supporto.
  La constatazione che va fatta è che da noi in Europa le barriere tariffarie sono prevalentemente barriere che costringono i produttori a internalizzare i costi ambientali del loro processo produttivo, mentre negli Stati Uniti il meccanismo è diverso.
  Di conseguenza, possiamo fare una presunzione generale, che ovviamente deve essere oggetto di studi specifici, secondo cui l'armonizzazione sarebbe, ahimè, al ribasso, almeno per quel che riguarda gli aspetti ambientali.
  Per esempio, alcuni studi affrontano il tema del rapporto fra TTIP e sue ricadute sul settore agricolo e il problema del riscaldamento globale e del controllo delle emissioni, che anche in agricoltura hanno una loro rilevanza. Anche in quel caso vediamo che in Europa abbiamo delle norme e negli Stati Uniti, invece, c'è una situazione molto più libera.
  Su questo, quindi, farei una valutazione lievemente pessimistica.

  CESARE POZZI, Membro del comitato scientifico di a/simmetrie – Associazione italiana per lo studio delle asimmetrie economiche. Cerco di essere il più sintetico possibile. Le domande che sono state poste sono tutte interessanti.
  Lei ha citato la Repubblica di Venezia. La nostra è un'economia di specializzazione e i problemi del commercio sono completamente differenti a seconda che l'economia sia di specializzazione o meno. La nostra è un'economia di mercato, perché ha aumentato la produttività media dei fattori e, quindi, produce una quantità di cose che mai nella storia dell'umanità si sono prodotte. Cambia completamente, mentre noi la leggiamo – lei ha ragione – con le categorie di Adam Smith, che scrive nel 1776.
  L'economia non serve per comprendere il nostro mondo. L'indicatore di surplus o deficit di partite correnti, che viene utilizzato per capire la forza, non serve, perché da dopo la seconda guerra mondiale – la strategia è in primis americana – io vado a produrre sul mercato. È una strategia poco conflittuale. È inutile riprendere la storia. Di conseguenza, il dato di partite correnti non mi aiuta. Pag. 14
  Gli americani fanno 500 miliardi di deficit. Andate a fare il cumulato all'anno degli ultimi dieci anni. Il dollaro dovrebbe essere non carta straccia, ma meno, se uno dovesse seguire la teoria economica, invece non è così.
  Come faccio a sapere se io ho surplus o deficit? Quando compro un Big Mac, che incide sulle partite correnti? Quando compro una lattina di Coca Cola, che incide sulle partite correnti? No.
  Io esporto più di quanto importo. In parte rispondo a lei. È impossibile. Se vado ad analizzare, io posso trovare un caso in cui ci sarà un vantaggio e posso trovare un altro in cui non ci sarà svantaggio.
  Se parto da sotto, io non riuscirò mai a prendere una decisione politica che funzioni per un Paese. Per prenderla, devo ricostruire in termini concettuali. Non avrò mai i dati e le informazioni. Un Paese, quando è molto forte, può cominciare a imporre i suoi standard.
  Galbraith, che è stato pubblicato anche su Il Corriere della sera, nei primi anni 1990 scrive che «globalizzazione» è un termine per menti vuote, che serve per mascherare una politica di penetrazione aggressiva. Galbraith, americano, scrive: «Abbiamo introdotto noi questo termine».
  Non voglio fare pubblicità. La società che produce questo telefonino, che venne fondata nel 1938, era un esportatore di frutta e verdura. Ha investito 14 miliardi di dollari l'anno scorso per fare la fabbrica tecnologicamente più avanzata. Nel 1938 – alcuni uomini politici italiani erano già nati – esportava frutta e verdura.
  Le cose cambiano. Il problema è che questo è il risultato di una strategia. Non so se sia giusta o sbagliata, ma tutto si può cambiare. È un problema di competenze, è un problema di analisi dei mercati e di valutare che cosa si vuole fare.
  Il calo demografico, come lei ha ricordato, è sicuramente uno dei termini del problema. Se il 1965 è il millesimo più numeroso in Italia in questo momento e dal 1964 siamo in calo demografico, sicuramente dovrei pormi qualche domanda.
  È inutile che ne discutiamo. Il nostro sistema è già collassato. Andate a prendere i dati dell'ISTAT e proiettateli. Infatti, l'ISTAT proietta fino al 2051. Prendete i dati e andate oltre, perché gli altri sarebbero preoccupanti. Comunque, questo è un tema che sicuramente investe le scelte politiche.
  Vengo ora alla filiera del grano a Foggia. Kotler, che è forse il più grosso esperto di marketing, introduce un tema: il marketing of nations. Sui mercati globali l'impresa è riconosciuta per il Paese di appartenenza. Questo legge solo una parte del problema.
  Io ho una strategia di Paese, difendo il mio assetto istituzionale e creo un sistema che potenzialmente aiuta le imprese. Se non esce niente – lei conosce il territorio meglio di me – allora c'è poco da fare. Si può fare molto, ma sono politiche coordinate, che sono quelle dell'università, quelle della scuola, quelle della formazione delle competenze, che sono strettamente legate a quello che ho.
  La ricerca, che è il termine più vago e confusionario che introducono gli economisti, si può fare ed è a spese della comunità, se io sono in grado di appropriarmi dei risultati. È strettamente legata al sistema delle imprese, quindi devo sapere che imprese ci sono, fare un'analisi del territorio e aiutare quello che c'è, ovviamente giocando sul potere della domanda e giocando su quello che ho, che in questo momento in Italia è molto meno di quello che avevo quindici o vent'anni fa.

  PRESIDENTE. Ringrazio i nostri ospiti per l'interessante contributo che hanno portato ai nostri lavori e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 15.35.

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