XVII Legislatura

XI Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 8 di Martedì 17 giugno 2014

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Polverini Renata , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SUI RAPPORTI DI LAVORO PRESSO I CALL CENTER PRESENTI SUL TERRITORIO ITALIANO

Audizione di esperti della materia.
Polverini Renata , Presidente ... 3 
Castelli Fulvio , Avvocato ... 3 
Polverini Renata , Presidente ... 5 
Fortunato Vincenzo , Ricercatore presso il Dipartimento di sociologia e scienza politica dell'Università di Reggio Calabria ... 5 
Polverini Renata , Presidente ... 7 
La Macchia Carmen , Professore associato di diritto del lavoro nell'Università di Messina ... 7 
Undiemi Lidia , Dottore di ricerca in diritto dell'economia ... 10 
Polverini Renata , Presidente ... 13 
Albanella Luisella (PD)  ... 13 
Rizzetto Walter (M5S)  ... 14 
Dell'Aringa Carlo (PD)  ... 15 
Polverini Renata , Presidente ... 15 
Castelli Fulvio , Avvocato ... 15 
Polverini Renata , Presidente ... 16 
Fortunato Vincenzo , Ricercatore presso il dipartimento di sociologia e scienza politica dell'Università di Reggio Calabria ... 16 
La Macchia Carmen , Professore associato di diritto del lavoro nell'Università di Messina ... 17 
Undiemi Lidia , Dottore di ricerca in diritto dell'Economia ... 17 
Polverini Renata , Presidente ... 18 

ALLEGATO: Documentazione presentata dagli esperti della materia ... 19

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: FI-PdL;
Scelta Civica per l'Italia: SCpI;
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Nuovo Centro-destra: NCD;
Lega Nord e Autonomie: LNA;
Per l'Italia (PI);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero-Alleanza per l'Italia: Misto-MAIE-ApI;
Misto-Centro Democratico: Misto-CD;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI.

Testo del resoconto stenografico
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PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE RENATA POLVERINI

  La seduta comincia alle 11.05.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di esperti della materia.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sui rapporti di lavoro presso i call center presenti sul territorio italiano, l'audizione di esperti della materia.
  Sono presenti l'avvocato Fulvio Castelli, il professor Vincenzo Fortunato, la professoressa Carmela La Macchia e la dottoressa Lidia Undiemi
  Avverto che i nostri ospiti hanno messo a disposizione della Commissione una documentazione di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato).
  Nel ringraziare ancora una volta i nostri ospiti per la loro presenza, do loro la parola. Potete parlare ciascuno per 10-15 minuti, in maniera tale da lasciare spazio per le eventuali domande dei colleghi e per le vostre eventuali risposte.
  Do la parola all'avvocato Fulvio Castelli per lo svolgimento della sua relazione.

  FULVIO CASTELLI, Avvocato. Buongiorno. Stiamo trattando l'argomento del lavoro presso i call center, argomento che vede interessato un settore definito human intensive, che nasce agli inizi degli anni ’80, come settore che dovrebbe garantire ai giovani un passaggio, come lavoro temporaneo. Viceversa, si è trasformato in un lavoro di lungo termine, che spesso riesce a qualificare anche i giovani e le persone che oggi vi lavorano, che, secondo le ultime indagini, sono circa 80.000.
  Detto questo, mi riservo di parlare ulteriormente di questo aspetto. Desidererei tracciare un po’ le linee del mio intervento, dicendo che parlerò essenzialmente di imposte e del modo in cui le imposte gravano sui settori human intensive, naturalmente in Italia e negli altri Paesi dell'Europa e dell'area di libero scambio. Parlerò inoltre della privacy, del rischio della delocalizzazione relativamente alla privacy e delle delocalizzazioni in generale.
  Il mio studio prende le mosse dal fatto che in Italia esiste un'imposta, che si chiama IRAP, che è quella che tratterò più diffusamente, perché è quella più distorsiva nel settore. L'IRAP, come tutti sappiamo, incide, non sul reddito prodotto, bensì sull'EBITDA (Earnings before interest, taxes, depreciation and amortisation), cioè sul risultato di gestione, con delle maggiorazioni in aumento per la parte degli oneri finanziari, con un calcolo un po’ particolare di cui non ci occuperemo, e sul monte salari, cioè su tutti i salari che l'azienda paga.
  Conseguentemente, questa imposta, assolta dalla Corte costituzionale e dall'Unione europea come imposta sull'organizzazione, a mio sommesso avviso, determina quella che definirei una violazione della Costituzione, perché in realtà grava sul lavoro e non sul reddito prodotto.Pag. 4
  Nell'aziende di call center o CRM, che sono aziende ad altissimo indice di lavoratori, questa imposta ha un effetto veramente perverso, perché, ottenuto il risultato di gestione, dobbiamo maggiorare tutti i salari, i quali vengono contemperati da un abbattimento sugli stessi in base alle regioni. Soprattutto le regioni del Sud hanno un abbattimento più alto. Mediante questo abbattimento riduciamo parzialmente il monte salari, ma il resto viene tassato con un'aliquota abbastanza significativa. Questo porta tutti questi settori ad avere delle perdite significative di gestione, che non consentono di competere.
  A questo si aggiunge un fenomeno che osserviamo notevolmente in Italia, che è quello delle agevolazioni che io definisco nel mio studio «a macchia di leopardo», che sono attribuite in maniera non conforme e senza degli aggiustamenti. Mi riferisco in particolare alla legge n. 407 del 1990, con la quale si concedono agevolazioni alle imprese che assumono dei dipendenti in Italia fino al 50 per cento della contribuzione, mentre nelle regioni del Mezzogiorno fino al 100 per cento per tre anni.
  Questa legge ha consentito di fare un uso difforme di questa agevolazione, perché non è ancorata a due fenomeni molto importanti, che sono il permanere delle aziende sul territorio e soprattutto la vetustà e le proiezioni future delle aziende.
  Cosa intendo dire ? Molte aziende, utilizzando in maniera opportunistica la legge, assumevano dei lavoratori e poi partecipavano alle gare (noi sappiamo che in Italia le gare si fanno al massimo ribasso), potendo competere esclusivamente sulla base di questi vantaggi, mentre le aziende che non avevano questi vantaggi, o perlomeno avevano meno lavoratori assunti con i benefici della legge n. 407, non riuscivano a raggiungere una competitività tale da poter stare sul mercato.
  Non essendo questo meccanismo di agevolazione collegato all'assunzione di lungo periodo e al perdurare delle aziende, spesso si è verificato il fenomeno di aziende che nascevano per tre anni, venivano chiuse, mentre ne nascevano delle altre. Questo, oltre a essere un danno per la concorrenza in generale, poco premiale per le aziende più strutturate, dava un effetto successivo, che era quello di portare le aziende a correre per commesse a basso valore aggiunto e a non investire nello sviluppo delle professionalità dei lavoratori. Infatti, se devo tenere un lavoratore solo per tre anni non investirò sulla sua formazione e sul suo futuro collocamento professionale.
  Detto questo, dovremmo occuparci di un altro fenomeno, che è nato proprio per il pagamento delle imposte. Tratterei sommariamente l'IRES, perché l'imposta sulla società in realtà non è distorsiva per questo settore. Infatti, operando sul margine operativo lordo, è probabilmente l'imposta meglio accettata. Anche su questa si potrebbero fare degli interventi, ma è sicuramente la meglio percepita.
  La scarsa attrattività territoriale dell'Italia ha fatto sì che con l'ingresso in Europa di Paesi emergenti, tutte le produzioni di questi servizi fossero spostate o nei Paesi di libero scambio o nei Paesi dell'Unione europea che sono entrati recentemente. Tra i Paesi di libero scambio il più importante è sicuramente l'Albania. Tra i Paesi europei ci riferiamo invece a Romania e a Bulgaria.
  Questi Paesi hanno avuto la capacità di attrarre gli investimenti, perché hanno una tassazione molto bassa. Innanzitutto non esiste l'IRAP e, quindi, non c’è questa distorsione. Naturalmente le garanzie sul lavoro sono molto basse e anche quelle sulla sicurezza.
  Pensiamo che questi sono i Paesi che hanno maggiori reati di pirateria informatica. Questo è un dato a cui dovremmo stare molto attenti quando affidiamo le commesse; mi riferisco ai dati dello Stato e a quelli delle persone all'estero. È vero che è intervenuta una legge che prevede che l'operatore che risponde al telefono debba avvisare il soggetto che sta dall'altra parte che sta ricevendo la telefonata da un Paese terzo, ma questo già comporta che il dato è acquisito. Spesso sono dati sensibili Pag. 5e sono acquisiti da parte dell'operatore che sta parlando con chi riceve la telefonata.
  Le delocalizzazioni sono un fenomeno molto importante, che porta a una parziale desertificazione del settore e all'obbligo di intervenire spesso con forme di cassa integrazione piuttosto che con altri ammortizzatori sociali.
  Trattato sommariamente il problema della privacy, a cui ho accennato poc'anzi, ritengo che la cosa più importante sia poter aprire un tavolo o fare degli interventi che mirino a lasciare invariato il gettito dello Stato e ad abbattere l'IRAP – o perlomeno a far sì che questa non sia calcolata sul monte salari – intervenendo con altre misure tali da consentire il mantenimento e lo sviluppo delle professionalità sul territorio italiano.

  PRESIDENTE. Grazie a lei, avvocato Castelli. Do la parola al professor Vincenzo Fortunato per lo svolgimento della sua relazione.

  VINCENZO FORTUNATO, Ricercatore presso il Dipartimento di sociologia e scienza politica dell'Università di Reggio Calabria. Buongiorno. Il mio punto di vista è un po’ diverso, nel senso che è una lettura da sociologo di un fenomeno che, come è stato già accennato precedentemente, ha avuto una larghissima diffusione in tutto il mondo occidentale e in Italia, soprattutto a partire dagli anni ’90.
  Da sociologo vorrei sottolineare alcuni aspetti, che emergono da una ricerca che abbiamo condotto, con colleghi di altre università italiane (mi riferisco all'Università Statale di Milano, all'Università La Sapienza e ai colleghi siciliani dell'Università di Catania), sui call center in Italia, attraverso una survey, ovvero dei questionari somministrati a operatori dei call center e interviste in profondità ad alcuni giovani che vivono questa esperienza lavorativa.
  La presentazione richiederebbe molto più tempo, perché è abbastanza approfondita ed entra nel merito di alcuni temi fondamentali, che ci permettono di ricostruire la situazione, a partire da una classificazione dei call center.
  Infatti, i call center non sono tutti uguali. Esistono differenti tipologie (basta ricordare quelli pubblici e quelli privati) e differenti mansioni (inbound e outbound), alle quali corrispondono delle garanzie e delle modalità di esercizio delle competenze profondamente diverse.
  Il valore aggiunto di questa ricerca è che sostanzialmente è la prima di una certa entità. Noi abbiamo ottenuto 1.715 questionari in 19 strutture, che abbiamo disaggregato, proprio in base al principio che non tutte le organizzazioni hanno le stesse caratteristiche.
  Sarò molto veloce e poi lascerò i riferimenti e la memoria su questi aspetti, qualora si voglia entrare nel merito dei risultati raggiunti.
  Dalla ricerca tirerò fuori alcune cose importanti. Innanzitutto, abbiamo classificato i call center, che non sono tutti uguali. I call center possono essere differenziati in base alle dimensioni, in base alla natura pubblica o privata e in base alla mission dell'organizzazione, che può essere multitasking oppure dedicata.
  Abbiamo guardato nel merito le differenti mansioni di operatori inbound e outbound e abbiamo cercato di capire se ci fossero delle differenze territoriali che potessero influire sul lavoro e sulle condizioni di lavoro nei call center.
  A differenza della letteratura che guarda al call center come alla fabbrica dei servizi, assimilandolo a dinamiche organizzative di stampo taylor-fordista, quindi di lavoro routinizzato e dequalificato, noi abbiamo cercato di capire se, come sosteneva una parte della letteratura, ci fossero anche degli elementi di competenza professionale e di flessibilità del lavoro, ascrivibili alla diffusione della cosiddetta «società della conoscenza».
  Un altro elemento che volevamo capire è se, come spesso si dice e si verifica, i call center sono caratterizzati da un elevato turnover dei giovani e dei meno giovani che entrano ed escono da questi luoghi di lavoro.Pag. 6
  Da meridionali e da calabresi, noi abbiamo cercato di capire se ci fosse un quadro leggermente diverso e più variegato. In realtà, come dirò alla fine, in alcuni contesti – penso ad esempio alla Calabria e alla Sicilia, che erano due delle aree che noi abbiamo investigato – il lavoro nei call center non è necessariamente assimilabile ai cosiddetti bad job, cioè a quei lavori «usa e getta», che si iniziano e dai quali si cerca di scappare velocemente. A certe condizioni, possono diventare dei lavori socialmente accettabili, che hanno pari dignità rispetto a tantissime altre occupazioni.
  Mi rendo conto che questa è un'affermazione che può sembrare forte, però è un dato importante che verrà fuori.
  Abbiamo somministrato questo questionario, articolato in tantissime sezioni, che ci ha permesso di ricostruire l’identikit del lavoratore: chi sono i lavoratori dei call center e da dove vengono. Spesso si parla di giovani e giovanissimi, persone che entrano nel call center come prima occupazione o di donne. In realtà, emergono anche delle situazioni molto più differenziate, soprattutto guardando ai due poli, la Lombardia e la Calabria.
  Abbiamo guardato anche alle pratiche di gestione delle risorse umane, alle relazioni di lavoro e alle formule contrattuali. Vi dirò velocemente alcune cose a mo’ di spot, sperando che ci sia poi il tempo, magari in base a domande, per entrare nel merito, guardando ai dati.
  Un primo elemento riguarda proprio l'età e la distribuzione territoriale dei giovani, in base alla comparazione che noi abbiamo fatto. Vado direttamente al dato che si riferisce all'incrocio di età per area. I lavoratori dei call center in Calabria sono molto più giovani rispetto a quelli delle altre regioni (si concentrano prevalentemente nella fascia di età tra 25 e 30 anni), mentre il dato della Lombardia si caratterizza per la maggiore concentrazione di operatori di call center nella fascia over 40.
  Un altro dato importante riguarda il livello di istruzione. I lavoratori dei call center nelle regioni meridionali (Calabria e Sicilia) sono quelli più istruiti (sono per il 70 per cento laureati o studenti universitari), cosa che invece non accade per la Lombardia e la provincia di Milano. C’è quindi una prima differenziazione: i lavoratori del Sud sono più giovani, spesso entrano alla ricerca di un'occupazione d'ingresso, oppure, nel caso delle donne, di un'occupazione che permetta di rientrare da situazioni più problematiche, mentre è assolutamente marginale la percentuale di lavoratori dei call center dai 40 anni in su, in maniera inversamente proporzionale alle regioni del Nord. La stessa cosa, come dicevo, vale per il livello di istruzione.
  Un'altra domanda riguardava il motivo per cui si sceglie di lavorare nei call center. Questo è un elemento importante, soprattutto guardando alle varie caratteristiche del mercato del lavoro in Italia. La maggior parte dei giovani sceglie il lavoro nel call center per assenza di alternative. Ancora una volta, la differenza tra Nord e Sud è sempre più marcata, nel senso che la percentuale è molto più alta per i lavoratori del Sud e più contenuta per il Nord.
  Soprattutto per i giovani della Lombardia e del Lazio, si aggiunge una dimensione di flessibilità. Oltre alla mancanza di alternative, subentra la possibilità di fare più cose, cioè di coniugare, ad esempio, il tempo per la cura, nel caso delle donne, all'opportunità di lavoro. Parliamo, quindi, di assenza di alternative e di ragioni squisitamente economiche per i giovani del Sud, mentre c’è un'incidenza più contenuta di queste variabili per i lavoratori del Nord, a cui si associa un'alta percentuale di persone che sceglie di lavorare nei call center perché permette loro di conciliare più attività.
  Passiamo agli altri aspetti. Una cosa che noi abbiamo guardato sono le differenze rispetto alla mansione. Si fa presto a parlare di operatore di call center. In realtà, abbiamo visto che gli operatori di call center assumono caratteristiche assolutamente diverse guardando al lavoro che svolgono.
  Per esempio, i lavoratori inbound sono lavoratori tutelati, hanno nella gran parte Pag. 7dei casi un contratto di lavoro a tempo indeterminato e, quindi, è molto più difficile parlare di precarietà. Dal punto di vista dei salari, grazie anche alla contrattazione, alle norme e alla «legge Damiano», sono persone che riescono a percepire degli stipendi che in base all'orario di lavoro variano da un minimo di 550 a oltre 1.000 euro. I lavoratori outbound invece sono quei giovani che telefonano, quindi hanno orari di lavoro molto più flessibili e, in alcuni casi, hanno ancora contratti di lavoro a progetto. Comunque, non hanno tutte quelle tutele e quelle garanzie che sono riconosciute invece agli operatori inbound.
  Inoltre, abbiamo cercato di capire come sono distribuiti questi operatori all'interno delle differenti tipologie di call center. Guardando la nostra classificazione emerge che i call center «migliori», se posso usare questa espressione, sono quelli di grandi dimensioni. Noi abbiamo distinto i call center anche in base al numero di postazioni (inferiori alle 200 e maggiori alle 200), sia quelli in outsourcing generalisti, sia quelli dedicati e quelli di pubblica utilità.
  I call center che sembrano avere una maggiore distribuzione di operatori tutelati inbound sono sicuramente quelli di grandi dimensioni, quelli dedicati, cioè quelli specializzati che svolgono esclusivamente una mansione, e quelli di pubblica utilità, soprattutto se di grandi dimensioni.
  Lavorare in queste tipologie di call center potrebbe rappresentare un valore aggiunto rispetto a quelli più piccoli, soprattutto a quelli generalisti che sono specializzati in multitasking, che prevedono un numero misto o comunque maggiore di operatori outbound, che, come dicevo, sono quelli meno tutelati e ai quali si associa più frequentemente l'idea di un lavoro precario o di un bad job.
  Avrei tantissime altre cose da dire e dati da mostrare, però mi avvio alla conclusione del tempo che mi è stato concesso. Il punto di partenza della riflessione era capire se i call center potessero, soprattutto in questo momento di crisi, rappresentare un'opportunità e non necessariamente ed esclusivamente un lavoro d'ingresso per i giovani, che poi si trovano costretti a cambiare o a voler cambiare.
  Occorre premettere che per le mansioni inbound sono richieste determinate competenze, prevalentemente di tipo relazionale, ma anche di conoscenza delle lingue e dei pacchetti informatici, di lavoro in gruppo e di problem solving. Premesso questo, io credo che, creando le opportune condizioni, cioè incentivando le imprese e creando un contesto tale da incentivare le istituzioni ad attrarre gli investimenti e a mantenerli per un periodo che non sia soltanto di due o tre anni, in modo che non si delocalizzi nel momento in cui viene meno la variabile incentivante, cioè il sussidio o l'investimento da parte del pubblico, e creando le condizioni affinché i giovani e meno giovani possano essere tutelati con formule contrattuali che non siano necessariamente flessibili, nel senso di precarie e perché, per molti giovani il lavoro nei call center possa rappresentare un'innovazione socio-territoriale, tale da creare condizioni per ridurre il gap, o quantomeno evitare quella segmentazione del mercato del lavoro che attualmente rappresenta una caratteristica del modello italiano.
  Mi fermerei qui, per rimanere nei 10-15 minuti, però ci sono tantissime altre cose alle quali potrei rispondere con domande più precise.

  PRESIDENTE. Ringrazio, anche per il rispetto dei tempi, sia lei che l'avvocato Castelli.

  CARMEN LA MACCHIA, Professore associato di diritto del lavoro nell'Università di Messina. Buongiorno a tutti. Vi ringrazio per questo invito. In questa mia breve comunicazione, di cui ho depositato una versione un po’ più estesa per contenermi nei termini che ci sono stati assegnati, affronterò quattro temi in particolare.
  Il primo è la questione dei call center come fattore propulsivo dello sviluppo economico. La seconda questione che affronterò invece riguarderà più concretamente la problematica sociale dei call Pag. 8center e, quindi, i rapporti di lavoro (io sono una giurista del lavoro). Quanto al terzo tema farò un breve cenno al quadro normativo europeo, che mi sembra molto interessante. Da ultimo, consiglierò alcune ipotesi modificative dell'attuale normativa.
  Innanzitutto, mi preme dire che i call center dovrebbero essere considerati in una cornice giuridica un po’ più ampia, connessa agli interessi generali dei consumatori-utenti. Infatti, come diceva prima il collega, il panorama dei call center si compone di uno spettro molto ampio di servizi, dall'assistenza per l'utilizzazione dei mezzi informatici, fino all'assistenza per il pagamento dei tributi o per la migliore fruizione del servizio sanitario. Tutte queste attività dei call center presentano un elemento comune: sono rivolte al consumatore-utente.
  Tutti noi abbiamo fatto questa esperienza. L'evoluzione tecnologica, la spersonalizzazione dei servizi, la velocità imposta dagli impegni personali quotidiani possono essere avvilenti o contribuire a migliorare la nostra qualità della vita.
  I call center, quindi, possono costituire lo strumento che consente al consumatore di non avvilirsi, o di avvilirsi un po’ meno. Guardati nella loro funzione sociale, come sostegno ai consumatori-utenti, i call center possono essere considerati un fattore propulsivo dello sviluppo economico, perché sono strumenti di ausilio alla diffusione dell'acquisto e all'utilizzazione dei mezzi tecnologici, alla semplificazione degli adempimenti burocratici e all'accesso ai servizi.
  Venendo al piano squisitamente giuridico, la prospettiva che considera la funzione dei call center nel quadro delle politiche di sviluppo economico incontra un riferimento sicuro nel diritto alla protezione del consumatore, che nell'ordinamento europeo ha rilievo costituzionale.
  L'articolo 169 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea assegna all'Unione il compito, a beneficio dei consumatori, di assicurare un livello elevato di protezione dei consumatori. L'articolo 12 dello stesso Trattato impone che nella definizione e nell'attuazione delle politiche e nell'attività dell'Unione siano prese in considerazione le esigenze inerenti alla protezione dei consumatori.
  Vi ricordo che nell'ordinamento italiano esiste una norma corrispondente, l'articolo 1, comma 1, del Codice del consumo, che assicura un elevato livello di tutela dei consumatori e degli utenti.
  Spetta, quindi, al legislatore introdurre tecniche di correzione e di integrazione delle norme negoziali, sulla scia di quanto già sperimentato nella normativa a tutela dei consumatori, proprio al fine di assicurare l'imposizione di atti e modalità esecutive conformi a livelli adeguati di qualità dei servizi.
  Potete ben capire la direzione del mio argomento: la collocazione della problematica dei call center nel più ampio contesto della tutela del consumatore-utente rende immediatamente più comprensibile la correlazione tra la qualità dei servizi e la necessità di assicurare agli operatori del settore continuità dell'occupazione e misure di promozione della professionalità, al fine – lo ribadisco – di sostenere nella competizione le imprese più virtuose del settore call center per migliorare la qualità dell'offerta.
  Vengo adesso alla problematica sociale, cioè alle norme in materia di rapporto di lavoro nei call center, che a mio avviso rappresentano proprio l'aspetto patologico della normativa in materia di appalti.
  Come probabilmente vi è noto, nel nostro ordinamento è vigente una disciplina iniqua e non conforme alle normative europee, sulla quale bisogna intervenire, perché conduce a due effetti negativi: trattamenti retributivi e normativi condizionati da una competitività che mira esclusivamente alla riduzione del costo del lavoro, con prassi generalizzate di evasione degli obblighi contrattuali, previdenziali e fiscali, e una occupazione in perenne instabilità nel vortice della successione degli appalti.
  La materia, come è noto, è regolata dall'articolo 29 del decreto legislativo n. 276 del 2003 ed è stata più volte modificata dal legislatore.Pag. 9
  Accenno subito a un argomento su cui mi diffonderò a proposito della normativa europea. La normativa italiana, in modo del tutto ingiustificato rispetto alla legislazione europea, ha creato uno spazio aperto all'arbitrio e alla corruzione, sottraendo l'appalto alla disciplina di cui all'articolo 2112 del Codice civile, che garantisce, in occasione di qualsiasi tipo di mutamento nella titolarità di un'attività economica organizzata, la continuità dei rapporti di lavoro e i diritti che ne derivano. Ai lavoratori impiegati nell'appalto è garantita solo l'obbligazione solidale tra committente e appaltatore ed eventuali subappaltatori.
  Peraltro, vi faccio presente che la possibilità di recupero dei crediti è quasi aleatoria, perché naturalmente è affidata ai tempi lunghi e incerti del giudizio civile. Il committente, chiamato in giudizio dal lavoratore, può rendere più difficile la soddisfazione dei crediti oggetto del contenzioso, avendo la facoltà di eccepire la preventiva escussione del patrimonio dell'appaltatore e degli eventuali subappaltatori.
  Da ultimo, il decreto legislativo n. 76 del 2013 ha esteso la garanzia dell'obbligazione solidale anche ai lavoratori con contratto di lavoro autonomo – questo è certamente positivo – ma ha esentato da detta obbligazione le pubbliche amministrazioni, creando una grave disparità di trattamento tra lavoratori, dettata unicamente in ragione del tipo di committente.
  Vi faccio presente che dall'esclusione dell'appalto dallo schema normativo di cui all'articolo 2112 consegue anche l'esclusione dalla procedura di consultazione sindacale di cui all'articolo 47 della legge n. 428 del 1990, che ha ulteriori riflessi negativi, perché deprime lo strumento di regolazione virtuosa del mercato costituito dalla contrattazione collettiva.
  Infatti, l'articolo 29 riserva uno spazio assai angusto alla contrattazione, a cui compete solo il potere di introdurre deroghe al regime di solidarietà tra committente e appaltatore in relazione ai crediti retributivi.
  Passo rapidamente a fare un breve cenno al quadro normativo, che mi sembra molto interessante, dei Paesi europei, per rendere evidente che all'esame, anche non sommario, delle discipline straniere, appare che il recepimento della direttiva n. 23 del 2001 negli ordinamenti interni è avvenuto qualificando come «trasferimento», ai sensi della direttiva, qualsiasi operazione circolatoria di beni o servizi, astenendosi il legislatore europeo da ogni specificazione circa la fonte del trasferimento.
  Peraltro va rimarcato che la direttiva ha il precipuo scopo di assicurare il mantenimento dei diritti dei lavoratori, primo fra tutti ovviamente il posto di lavoro, al quale gli altri diritti accedono.
  Interessanti sono le soluzioni normative – di cui farò cenno – applicate in alcuni Paesi europei. Nel Regno Unito nel 2006 una normativa, che ha recepito la direttiva sui trasferimenti d'azienda, dispone che tutti i diritti, le facoltà e gli obblighi del cedente derivanti dal contratto sono trasferiti al cessionario. Pertanto, la normativa britannica demanda alla contrattazione collettiva la disciplina di dettaglio del trasferimento. Ancora la giurisprudenza inglese ha ammesso la validità di clausole contrattuali cosiddette «dinamiche» di conservazione dell'occupazione, che si trasferiscono anche ai contratti collettivi successivi. Sono in sostanza i contratti collettivi che possono inserire delle clausole di ultrattività dei diritti di conservazione dell'occupazione per un certo numero di anni.
  In Svezia la disciplina dispone che i contratti di lavoro e le condizioni in vigore al momento del trasferimento seguano i dipendenti nel rapporto di lavoro con il nuovo datore. Sono i contratti collettivi, che in Svezia hanno una percentuale di effettività pari al 90 per cento, a disciplinare nel dettaglio le vicende circolatorie.
  In Belgio, che mi sembra l'esempio su cui si dovrebbe svolgere la riflessione del legislatore, i contratti collettivi, che in quel Paese hanno efficacia erga omnes, dispongono che in caso di successione di appalti il datore di lavoro tenterà, per quanto Pag. 10possibile, di realizzare la continuità dei contratti di lavoro. In ogni caso è assicurato il mantenimento dell'occupazione per i rappresentanti sindacali. Il nuovo appaltatore ha comunque l'obbligo di offrire il 75 per cento dei posti di lavoro ai dipendenti dell'impresa che ha perso l'appalto.
  Quali sono, quindi, le proposte per coniugare, a mio avviso, la tutela dei consumatori e la tutela dei lavoratori ?
  Inizio queste conclusioni segnalando quanto ho già detto: il caso della normativa in materia di rapporti di lavoro nei call center è una peculiarità italiana. Nei Paesi a più alto tasso di sviluppo appartenenti al numero dei fondatori dell'Unione europea l'emergenza sociale call center è un fenomeno del tutto marginale.
  In questi Paesi, infatti, il sistema si articola su due fattori positivi: è stata correttamente trasposta la direttiva sul trasferimento d'azienda includendo la fattispecie degli appalti e sono stati assicurati elasticità e adattamento alle esigenze del mercato, affidando la dinamica degli appalti e la disciplina delle relative conseguenze sociali alla contrattazione collettiva.
  È utile, a mio avviso, ribadire come la direttiva 2001/ 23/CE sia insensibile al mutamento della titolarità nell'impresa e colleghi la continuità dei rapporti di lavoro esistenti al trasferimento dell'utilità economica, quale che sia la vicenda circolatoria del bene e del servizio.
  Ancora di recente la Corte di giustizia nel 2014 ha ribadito che la direttiva ha l'obiettivo di garantire il mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di cambiamento dell'imprenditore, consentendo loro di rimanere al servizio del nuovo imprenditore alle stesse condizioni pattuite con il cedente.
  Mi sembra ovvio che le modifiche da introdurre nel nostro ordinamento debbano muovere dalla volontà di dare esatto adempimento alla direttiva europea e sono tecnicamente assai semplici. Nel solco delle esperienze nazionali ed europee, sarebbe sufficiente estendere la procedura di cui all'articolo 2112 del Codice civile anche alle vicende circolatorie relative alla successione degli appalti, affidando poi la regolamentazione dei diversi aspetti, dal mantenimento dell'occupazione a livelli normativi e retributivi, alla contrattazione collettiva.
  Faccio soltanto un accenno al nostro problema. Noi abbiamo un grosso problema rispetto agli altri Paesi europei: la contrattazione collettiva nel nostro Paese, per la mancata attuazione dell'articolo 39 della Costituzione non ha efficacia erga omnes, però anche questo di recente è stato superato. Infatti, c’è un accordo nel Testo unico sulla rappresentanza sottoscritto il 10 gennaio 2014 da Confindustria, CGIL, CISL e UIL, che consente oggi al legislatore di indicare con esattezza i requisiti di rappresentatività delle organizzazioni stipulanti l'accordo, al quale il legislatore può fare rinvio ai fini della definizione della normativa di dettaglio. Grazie.

  LIDIA UNDIEMI, Dottore di ricerca in diritto dell'economia. Innanzitutto ringrazio tutti i presenti e mi riservo di poter rilasciare una documentazione più organica, perché in realtà questa è una bozza.
  Sono molto contenta di essere qui, perché da tanti anni seguo le problematiche del precariato nei call center, sia in ambito universitario, avendo fatto un dottorato di ricerca proprio sulla materia dell’outsourcing, sia perché contemporaneamente ho seguito una serie di vertenze, aiutando sul campo i lavoratori a capire come poter difendere il proprio posto di lavoro rispetto a tutta una serie di vicende.
  Il mondo dei call center ha in sé un bagaglio di conoscenze che, secondo me, è straordinario, anche per capire le dinamiche dell'attuale crisi economica.
  Quando abbiamo fatto ingresso nell'euro è accaduto qualcosa di grande, che noi abbiamo tralasciato, e cioè che tanti giovani in massa hanno iniziato a fare ingresso in queste grandi fabbriche virtuali che sono i call center. Parliamo di lavoratori che venivano pagati molto spesso ad ore (5 o 7 euro all'ora), assunti molto spesso, non dalle grandi società di telecomunicazioni, ma da delle società appaltatrici, Pag. 11che garantivano delle condizioni nettamente inferiori rispetto a quelle della grande azienda.
  In realtà, diversi anni fa ci furono dei tentativi di regolamentazione del fenomeno, tant’è che è stata realizzata una bozza di accordo fra le organizzazioni collettiva e l'Assocallcenter, adesso Assocontact, in base alla quale si prevedeva un periodo di graduale stabilizzazione dei lavoratori precari come lavoratori subordinati, perché in qualche modo si ammetteva che un lavoratore di call center non potesse essere un lavoratore autonomo a progetto, bensì un dipendente. Questo contratto prevedeva, da un lato, una regolamentazione ad hoc e, dall'altro, un processo di stabilizzazione.
  In realtà, sin da subito, l'accordo venne disatteso da un ulteriore accordo a livello locale da parte della più grande azienda del settore a Palermo, che, tra le altre cose, è la mia città, in cui sostanzialmente si disattendevano quelle garanzie che erano inserite all'interno dell'accordo.
  Il mercato, da un lato, tendeva ad aprirsi verso una regolamentazione e la stabilizzazione dei lavoratori, ma, dall'altro, non ne aveva alcuna intenzione.
  Questa ipotesi è stata messa da parte e poi si è dovuti arrivare sino alla circolare dell'ex Ministro Damiano per avere un'idea di regolamentazione e un percorso di stabilizzazione. Anche in questo caso, come ben sapete, non è andata a buon fine, perché da questa circolare venne fatto un accertamento ispettivo al call center Atesia. Dopodiché, è intervenuto il TAR e sono state salvaguardate le esigenze delle aziende.
  I lavoratori sono stati stabilizzati, ma non come prevede la legge, secondo la quale laddove si accerti che si tratti di un contratto di lavoro subordinato il lavoratore deve essere assunto ex tunc, cioè dalla data del primo giorno di lavoro, con un contratto a tempo pieno e indeterminato. Attraverso una serie di transazioni, quel lavoratore ha rinunciato ai diritti pregressi ed è comunque stato assunto part-time a 500 euro al mese.
  Dopo che il lavoratore ha fatto questa grande rinuncia, l'azienda ha aperto delle procedure e, quindi, i lavoratori sono andati in cassa integrazione.
  Questo ci spiega che, da un lato, il tentativo è stato fatto, ma, dall'altra parte, in realtà, le ultime politiche vanno in senso opposto. Anche con l'articolo 24-bis del decreto-legge n. 83 del 2012 si disattende questo percorso e si ritorna anche un po’ indietro. Questo vale anche per gli accordi che sono stati di recente raggiunti dai sindacati.
  Secondo me, questo ci fa capire che stiamo andando un po’ in controtendenza rispetto a un dato fattuale, che è quello che i lavoratori dei call center non possono essere autonomi.
  C’è un passaggio ulteriore che ho potuto comprendere seguendo la vertenza dal basso: il motivo per cui i lavoratori sono precari e anche le aziende di outsourcing sono precarie è che la grande organizzazione di impresa, l'infrastruttura informatica, questa grande fabbrica virtuale che regge l'attività del call center in cui l'operatore viene integrato viene mantenuta all'interno delle grosse società di telecomunicazioni.
  Ci siamo mai chiesti, perché, per esempio, gli scioperi che sono stati fatti nell'arco di quindici anni dai lavoratori dei call center non hanno prodotto nemmeno un centesimo dei risultati che venivano realizzati nelle grandi fabbriche negli anni 1970 ? Il motivo è che, essendo una fabbrica virtuale, nel momento in cui uno stabilimento, per esempio il call center di Palermo, sciopera, siccome la struttura centrale viene gestita dalla società di telecomunicazioni, questa è già attrezzata, non soltanto con operatori al proprio interno, ma anche con altri call center in outsourcing di altre aziende.
  Questo significa che è la stessa società di outsourcing a essere precaria, poiché non possiede questa grande struttura, quindi, nel momento in cui due o tre presidi vanno in sciopero, si attivano gli altri e noi riceviamo le chiamate alla stessa maniera.Pag. 12
  Peraltro, noi non possiamo nemmeno renderci conto se l'operatore che risponde al telefono è assunto direttamente dalla Wind, dalla Vodafone o da FastWeb, perché questa infrastruttura tecnologica, e più in generale il CRM, cioè la strategia di relazione con il cliente che la società di telecomunicazione porta avanti per fidelizzarli, è standardizzata. Noi non sentiremo mai la differenza. Gli operatori sanno che lo script, cioè il percorso che devono seguire per fornire assistenza, è sempre quello. Questo vale sia per le attività inbound che per quelle outbound.
  Anche se la normativa ha posto una differenza, in realtà anche i lavoratori outbound sono subordinati, perché molto spesso non è l'operatore che prende l'elenco telefonico, sceglie i numeri e chiama, ma ci sono dei flussi che il sistema manda direttamente all'operatore, tant’è che in molte società di outsourcing l'operatore viene adibito molto spesso indifferentemente all'attività inbound e a quella outbound.
  Anche in questo caso, come ha giustamente evidenziato la professoressa La Macchia, è un problema di regolamentazione, che va ben al di là del problema del precariato del call center, perché investe tutto il mercato del lavoro.
  Io vi ho lasciato uno schema da cui si evince che il grande fenomeno del precariato nei call center segue la diffusione dell’outsourcing che si è avuta con la new economy. Il call center viene gestito in outsourcing.
  Che significa un call center gestito in outsourcing ? Significa che, anziché essere la grande società a gestire gli operatori, è un'altra società che li assume. In questi ultimi anni abbiamo assistito a un'ondata di precarizzazione dei lavoratori stabili, perché le grandi aziende cedevano i dipendenti a queste società e stipulavano contemporaneamente un contratto di appalto che andava al ribasso del costo del lavoro. Quello che era il precedente datore di lavoro, cioè la grande società di telecomunicazioni, diventava semplicemente il committente e l'appaltante dei servizi, dopodiché giocava al ribasso del costo del lavoro. Il dipendente non aveva alcuna forma di difesa.
  Dal punto di vista sociale, cosa hanno fatto i lavoratori, anche in vista di un'azione sindacale che non si è mostrata efficace rispetto al fenomeno ? Hanno iniziato ad autorganizzarsi per grandi vertenze. Per esempio, una grande cessione da parte di una grande azienda faceva sì che quei lavoratori si organizzassero in gruppi, avendo come unico sbocco il giudice nel lavoro.
  Perché ? L'articolo 2112 del Codice civile, che ha citato la professoressa, ha una formulazione che sotto certi punti di vista è diabolica, perché da un lato è stata predisposta per consentire ai lavoratori di mantenere i diritti nei casi in cui vengono trasferiti in un'altra azienda; dall'altro, in deroga al principio generale dell'articolo 1406 del Codice civile, il lavoratore non può opporsi alla propria cessione, quindi viene ceduto tale e quale, come qualsiasi merce. Soltanto ricorrendo in giudizio e chiedendo al giudice di verificare l'illegittimità del trasferimento, è possibile per il lavoratore rientrare nelle grandi aziende.
  Uno dei lavori che, secondo me, andrebbe fatto è quello di censire queste grandi vertenze che ci sono nei vari tribunali, che sono inondati di questi casi, che non riguardano soltanto i call center ma anche altre attività.
  Cosa fa il giudice del lavoro ? Qui emerge un lato straordinario del diritto del lavoro che molto spesso viene trascurato. Deve verificare se quel ramo di attività che viene trasferito è un ramo di azienda autonomo, cioè se funziona come una singola azienda autonoma, e quindi agganciare la tutela del lavoratore al fatto che quell'impresa rappresenti un'impresa reale e l'economia reale rispetto a qualsiasi altra attività di intermediazione.
  Deve verificare, quindi, se quel pezzo di attività che è stato ceduto corrisponde a due requisiti: l'organizzazione dell'attività in capo al nuovo datore di lavoro appaltatore e l'assunzione del rischio di impresa, e il fatto che i dipendenti devono essere soggetti al potere direttivo e di Pag. 13controllo del nuovo datore di lavoro. Qualora questi requisiti non si verifichino, il lavoratore rientra all'interno.
  Qual è un'altra caratteristica di queste attività ? Noi sentiamo spesso parlare di gruppi-società. Il più grande operatore di mercato internazionale è il gruppo di società. Ne sentiamo spesso parlare in qualsiasi ambito: gruppi bancari, gruppi delle telecomunicazioni, e anche nell'ambito della pubblica amministrazione.
  Sappiate che il gruppo di società è semplicemente un fenomeno economico, perché non esiste una disciplina che attribuisca al gruppo di società, in quanto operatore di mercato, una personalità giuridica. Di conseguenza, non esistono i lavoratori del gruppo di società. Per esempio, io potrei essere tranquillamente assunta da una società costituita e partecipata al 100 per cento da Telecom Italia a Fastweb, quindi da una grande azienda che dà un senso di solidità, ma, poiché si tratta di due soggetti giuridici distinti, società controllante e società controllata, in automatico io sono dipendente di quell'altra società, che non ha alcuna responsabilità, tranne che non si dimostri l'intento fraudolento.
  Infatti, la maggior parte delle operazioni di outsourcing avvengono con la costituzione delle cosiddette «Newco», aziende create ad hoc in occasione dell'operazione di cessione, in cui vengono canalizzati i dipendenti.
  L'anomalia che è emersa è che in moltissimi accordi sindacali, addirittura in sede di accordi sindacali ex articolo 47, della legge n. 428 del 1990, che prevede per chi cede e per chi assume un ramo di azienda l'obbligo di attuare una procedura di informazione sindacale, la società cessionaria nemmeno esiste. Per esempio, nel caso di una cessione Vodafone, in realtà è il grande gruppo di outsourcing che acquisisce l'attività e crea la capogruppo. Siccome si sa che a governare la cessione è in realtà la grande azienda, pensano che non c’è bisogno di costituire la società, che talvolta viene addirittura costituita dopo. Si effettua una procedura sindacale, quando ancora la società cessionaria non c’è. Qua siamo nell'ambito di un'economia che non è reale, ma è fittizia.
  Concludo riassumendo i tre grandi ambiti di intervento e di analisi che dovrebbero essere affrontati relativamente ai call center. Innanzitutto, bisognerebbe capire in che modo disciplinare la tutela dei lavoratori nei gruppi di società. Questo attualmente non viene fatto, quindi io posso costituire una miriade di società, dare un appalto e poi dopo due anni dimezzare il corrispettivo, per cui metà dei lavoratori sono fuori o tutti prendono la metà dello stipendio.
  Dall'altra parte – io ho già elaborato un progetto di legge con una relazione tecnica – occorre introdurre il diritto di opposizione dei lavoratori al trasferimento di ramo di azienda, e quindi non considerare più il lavoratore come una merce, ma come un soggetto che può decidere se essere trasferito o meno.
  In terzo luogo, occorre iniziare a capire come funziona il mondo sindacale, perché, se è vero come è vero che il gruppo di società in realtà è un'unica azienda con una testa pensante, credere di poter gestire il conflitto sindacale o per singola società di outsourcing, o per singola grande società o per singola società partecipata all'interno di un grande gruppo significa sostanzialmente paralizzare l'azione collettiva.
  Se il punto di riferimento è il grande imprenditore e il gruppo di società, bisogna che la contrattazione collettiva venga fatta proprio in questi termini.

  PRESIDENTE. Do la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  LUISELLA ALBANELLA. Innanzitutto vorrei ringraziare tutti i nostri ospiti, perché ho dato un'occhiata molto veloce ai documenti che ci hanno lasciato che sono veramente interessanti.
  Vorrei porre una domanda all'avvocato Castelli e una domanda alla professoressa La Macchia.
  Mi pare che la professoressa La Macchia abbia evidenziato nel suo intervento il Pag. 14fatto che in Italia noi non abbiamo recepito alcune direttive europee fondamentali per i cambi d'appalto. Inoltre, anche i contratti collettivi nazionali del lavoro del settore non hanno delle clausole sociali che obblighino, in caso di cambi d'appalto, a trasferire i lavoratori dell'appalto precedente alla ditta che subentra.
  Mi piacerebbe capire meglio da lei, professoressa, se è importante inserire nei contratti collettivi nazionali una clausola sociale. Sarebbe indispensabile che la legislazione italiana recepisse obbligatoriamente le direttive europee al fine di garantire le tutele da lei segnalate.
  Avvocato Castelli, lei ha evidenziato in modo particolare le questioni che riguardano l'importanza di una riduzione dell'IRAP, perché questo renderebbe più competitive le aziende, anche rispetto alle delocalizzazioni che vengono fatte, perché molto probabilmente le aziende, non essendo competitive, vanno a delocalizzare in Paesi extraeuropei.
  Un altro punto che lei ha toccato, e che per me è di fondamentale importanza capire meglio, è la questione della privacy. Non viene tutelato il diritto dei clienti italiani con le delocalizzazioni. Come bisognerebbe intervenire per tutelare il diritto alla privacy ? Io direi che tutelando questo diritto, oltre alla questione relativa alla riduzione dell'IRAP, forse riusciremmo a garantire anche un utilizzo minore delle delocalizzazioni.
  Pongo un'ultima questione al professor Fortunato. Voi avete svolto un'indagine con dei questionari, che sono stati fatti anche tramite l'università di Catania, dove è emerso un quadro generale della situazione. Un tempo questo settore era considerato solo di passaggio. Oggi, molto probabilmente a causa della crisi e anche grazie a quanto fatto dall'allora Ministro Damiano, che ha ridato una dignità a questi lavoratori con una stabilizzazione molto consistente degli operatori, questo non è più da considerare un settore di passaggio, ma sta diventando una prospettiva di lavoro.
  Considerando questo settore non più come marginale, ma come un vero e proprio settore industriale, con un'attenzione da parte del Governo, io penso che noi potremmo avere delle prospettive di sviluppo e di crescita. Vorrei capire che cosa ne pensa.

  WALTER RIZZETTO. Sarò telegrafico, perché immagino che l'orario è andato oltre alle aspettative. Ho una domanda per i nostri ospiti, nello specifico per la dottoressa Undiemi e per il dottor Fortunato, che ha parlato anche di queste cose, rispetto alla gara al massimo ribasso, che anche secondo noi è una stortura, a mio avviso, in ogni ambito lavorativo e non soltanto nei call center. Vorrei capire se scorporare il costo del lavoro e stabilire una tariffa minima per quanto riguarda il costo del lavoro da scorporare dalla gara al massimo ribasso possa essere una soluzione, proprio per non fare andare le aziende in rovina.
  Ci sono molte aziende che prendono delle commesse mandando i lavoratori a lavorare a 2-3 euro all'ora, chiaramente per ottenere un'offerta inferiore rispetto ai competitor.
  È interessante, tra l'altro, quanto diceva lei, professoressa La Macchia, rispetto al caso del Belgio, dove il 75 per cento dei posti di lavoro viene dato ai lavoratori dell'azienda che perde l'appalto.
  Pongo una seconda domanda, anche questa telegrafica, alla dottoressa Undiemi. Mi ha stupito parecchio quando lei ha detto che praticamente l'azione sindacale a questo punto è inutile in seno a un'azienda di questo tipo, perché, anche qualora ci fosse un'azione sindacale, l'azienda farebbe fare le telefonate da qualche altra parte. Probabilmente non c’è un rapporto forte tra sindacato e lavoratori come c’è in altri settori.
  Vorrei sapere se mi conferma che l'azione sindacale in questo settore è assolutamente insufficiente.
  Rivolgo la terza e ultima domanda all'avvocato Castelli. Sono assolutamente d'accordo con lei quando parla di IRAP. Immagino che sia uno dei cavalli di battaglia più cavalcati negli ultimi anni. D'altra parte, come ripeto spesso, Visco all'epoca Pag. 15non c'aveva visto male rispetto a questa iniqua tassa che le aziende stanno versando, sicuramente non sull'utile d'esercizio, ma su qualcos'altro.
  La legge n. 446 del 1997 dice che il 90 per cento dell'IRAP andrebbe a finanziare la sanità delle regioni. Ricordo, presidente, che l'ultimo dato utile di IRAP che noi abbiamo è del 2011, dove l'IRAP ha finanziato per il 30 per cento. Evidentemente manca un 50-60 per cento e non si sa dove sono finiti questi soldi.
  Vorrei capire però la sua posizione. Lei dice che, lasciando invariato il gettito per lo Stato, dobbiamo pagare meno IRAP. Noi da un anno e mezzo ci chiediamo come fare ed evidentemente è una domanda a cui non siamo ancora riusciti a dare risposta.

  CARLO DELL'ARINGA. Ho una curiosità per il professor Fortunato. Avete chiesto un grado di apprezzamento della flessibilità di conciliare diverse attività. C’è una differenza nelle risposte fra coloro che lavorano inbound e outbound ?

  PRESIDENTE. Siccome ci sono varie richieste di chiarimento per tutti, io vi darei la parola, chiedendovi di essere ulteriormente sintetici, con lo stesso ordine di prima.
  Do la parola ai nostri ospiti per la replica.

  FULVIO CASTELLI, Avvocato. Presidente, la ringrazio. Io sarò sintetico e risponderò innanzitutto all'onorevole Albanella.
  Dobbiamo occuparci di diversi aspetti della privacy ed è vero quello che dice lei, onorevole: limitando la delocalizzazione verso i Paesi sia europei che extraeuropei avremmo dei vantaggi. Tuttavia, la limitazione di questo trasferimento, così come da lei suggerito, può intervenire soltanto inserendo nella nostra legislazione delle norme che limitino veramente il trasferimento dei dati, che sono spesso dati sensibili dei clienti e intervengono sulla sicurezza dello Stato. Infatti, molti dati dallo Stato vengono trasmessi ai call center, che poi, se delocalizzati, ad esempio, in Albania, mettono a rischio anche la sicurezza dello Stato.
  A poco serve il decreto-legge n. 83 del 22 giugno 2012, perché è una norma che interviene a valle, quando i dati sono già andati fuori. Io suggerirei di intervenire sulla legislazione nazionale, limitando, da un lato, l'utilizzo della delocalizzazione quando il committente è lo Stato e, dall'altro, come suggeriva la professoressa La Macchia, dando grande risalto alle norme dell'Unione europea sulla tutela dei dati personali e della privacy.
  Per quanto riguarda l'IRAP, si tratta, per dirla in maniera simpatica, come ha osato dire Marchionne, di un'imposta «stupida». Innanzitutto, come tutti sappiamo, l'imposta è stata salvata in ambito comunitario dalla Corte di giustizia, solo perché i bilanci degli Stati sarebbero andati a male, ma, all'epoca in cui io frequentavo gli ambienti dell'Unione europea, veniva considerata contraria alle norme europee. Poi c’è stato un certo revirement, non tanto per l'IRAP dei call center, che incide molto poco – rispondo anche all'onorevole Rizzetto – quanto piuttosto per il fatto che questa imposta grava sul monte salari, come abbiamo ripetuto più volte.
  Incide anche in maniera diversa a seconda che si benefici o meno della legge n. 407 del 1990, a seconda che si lavori in una regione piuttosto che in un'altra, perché ogni regione dà uno sconto su una parte del salario, creando un dumping territoriale assai disdicevole. La Calabria mette 10.000 euro di sconto, la Sicilia ne mette 6.000. Vediamo questa migrazione di anime del Purgatorio, visto che le strutture non si spostano completamente. Si tratta solo di far migrare poca roba, perché le strutture restano ferme.
  Dicevamo che l'IRAP interviene sul margine operativo lordo, più comunemente detto all'inglese «EBITDA», con la maggiorazione del monte salari, e la sottrazione delle agevolazioni territoriali. Conseguentemente, osserviamo il fenomeno per cui un'azienda che ha, per esempio, un margine operativo lordo negativo Pag. 16e, quindi, non dovrebbe pagare imposte per la Costituzione italiana, si trova a dover maggiorare questo monte salari che, naturalmente, come mi insegnate, incide moltissimo nei posti in cui vi è molta densità umana. Nei call center, che sono ad alta densità umana, questo monte salari è più grande e, quindi, incide di più.
  Tra l'altro, nei call center non incide solo l'IRAP, ma anche una serie di imposte territoriali. Non ci scordiamo la nuova TASI, la TARI e l'IMU. Tutte queste cose sono state semplificate nel mio lavoro, dove c’è anche un prospetto che dimostra la differenza, così come è stata illustrata, non da me, ma da Mediobanca e da Unioncamere. Epurato dall'IRAP, il tax rate delle aziende passa da 6 punti in meno a 10 punti in meno. È un'enormità, perché abbiamo Paesi extracomunitari che con il 10 per cento del risultato di gestione tassano l'intera azienda. Penso di essere stato abbastanza chiaro.
  L'onorevole Rizzetto mi chiedeva quale magia o quale alchimia attuare per poter lasciare invariato il bilancio dello Stato ed intervenire sull'IRAP. Se vediamo alcune piccole tabelle senza nessuna pretesa che ci sono nel mio lavoro, ci rendiamo conto che in realtà il gettito dell'IRAP nel settore dei call center è veramente irrisorio.
  È tanto irrisorio che abbiamo fatto un confronto con gli ammortizzatori sociali che utilizziamo, perché le aziende delocalizzano e, soprattutto, chiudono e non pagano le tasse. Noi sappiamo che una parte molto piccola è iscritta a Confindustria e, quindi, paga il contributo per la cassa integrazione, mentre le altre hanno meccanismi in deroga. Se noi calcoliamo quanto incide questo sullo Stato, sia in termini di danaro sia in termini di peso sociale, ci rendiamo conto che è facile trovare delle misure per sostituire l'IRAP e soprattutto per eliminare l'IRAP sul monte salari.
  Un'altra cosa che io riterrei veramente importante è smettere di dare agevolazioni a macchia di leopardo, che spesso agevolano i più furbi e non sono mai a sostegno del lavoro di lunga durata.
  Se razionalizzassimo tutti questi sistemi, utilizzando anche in maniera conforme i contributi dell'Unione europea nelle regioni ancora fortemente vocate (parliamo dei famosi Obiettivo 1), ci renderemmo conto che è facile dare un'agevolazione a tutti e far vincere il competitor più qualificato e più rispettoso delle regole, che è l'unico da premiare. Il compito dello Stato è proprio premiare il competitor più serio, che rappresenta sul territorio la vocazione allo sviluppo di tutte le abilità, prima tra tutte il lavoro.

  PRESIDENTE. Vi pregherei di essere un pochino più sintetici. Non ho interrotto l'avvocato, perché nel suo primo intervento aveva parlato meno di dieci minuti.
  Andiamo avanti con il professor Fortunato.

  VINCENZO FORTUNATO, Ricercatore presso il dipartimento di sociologia e scienza politica dell'Università di Reggio Calabria. Io sarò sintetico. Parto al contrario, dal professor Dell'Aringa, per risalire all'onorevole Albanella.
  Tra i vari incroci, abbiamo anche cercato di capire se la flessibilità si rintracciasse maggiormente nelle motivazioni degli operatori inbound o outbound. La differenza percentuale non è rilevantissima, ma sono soprattutto gli operatori outbound. Per quanto riguarda il genere, sono ovviamente più le donne rispetto agli uomini.
  Nel materiale che ho lasciato c’è una sintesi con tutte le tabelle e con tutti i dati. Ci sono altre informazioni pubblicate sotto forma di articoli o testi, in cui sono riportate e commentate tutte queste informazioni.
  Per quanto riguarda invece il discorso sullo scorporo del costo del lavoro, questo ovviamente potrebbe essere un elemento che aiuterebbe, però non mi sentirei di dire che questa è sicuramente la soluzione del problema. Certamente potrebbe essere un punto di partenza.
  Per quanto riguarda il ruolo del call center come modalità strategica in questa fase, come dicevo all'inizio, diversamente Pag. 17dal mainstream che vede il call center come fabbrica dei servizi o come luogo in cui il lavoratore viene necessariamente e obbligatoriamente sfruttato, io credo che, a certe condizioni, in certe tipologie di call center, in certe situazioni in cui il competitor, come veniva ricordato prima, è affidabile e offre determinate garanzie, i call center possano rappresentare sicuramente delle opportunità, laddove altre opportunità non ci sono.
  Ho sottomano i dati e ne voglio ricordare due: uno direttamente riconducibile alla sua domanda e uno esterno, relativo al ruolo del sindacato. Il 67 per cento del nostro campione (come dicevo, sono 1.715 operatori) non sta cercando un altro lavoro. Questo dato può essere legato al fatto che, in qualche misura, avendo una visione positiva, sono moderatamente soddisfatti.
  Nella ricerca abbiamo anche dati relativi alla qualità del rapporto di impiego, alle relazioni di lavoro con i superiori e con i colleghi e anche rispetto alla prestazione lavorativa.
  Sicuramente il mio punto di vista è quello che, in certe condizioni e in alcune realtà in misura maggiore rispetto ad altre, il call center può sicuramente rappresentare un'opportunità, in misura maggiore per chi ha un contratto a tempo indeterminato e una retribuzione soddisfacente.
  L'altro dato riguarda il sindacato. Io mi occupo di relazioni industriali, nel settore metalmeccanico in particolare, e, quindi, ho in mente alcune grandi realtà. Il 75 per cento degli operatori non è assolutamente iscritto al sindacato. Questo non è un dato generalizzabile, però ci dà un'idea della caratteristica dell'organizzazione call center. Sono tradizionalmente ambienti union free, in cui il rapporto è spesso mediato tra l'operatore e i manager che gestiscono l'organizzazione.
  In un contesto di desindacalizzazione, il numero degli operatori a livello di settore è ancora molto basso. In tutte le confederazioni principali c’è ancora bisogno che cresca la consapevolezza e, quindi, anche i processi possono diventare più efficaci in termini di contrattazione.

  CARMEN LA MACCHIA, Professore associato di diritto del lavoro nell'Università di Messina. In relazione al quesito sul recepimento della direttiva, voglio chiarire che la direttiva è stata recepita, però, per tutte le ipotesi circolatorie di cessione di beni e servizi, in realtà è stato espunto proprio il contratto d'appalto. È questa l'anomalia italiana rispetto agli altri Paesi europei. Forse mi sono spiegata male.
  Invece, con riguardo alle clausole sociali, ricordo che in molti contratti collettivi vi sono clausole sociali. Il problema è un po’ più complesso, perché, come dicevo, da noi non è stato attuato l'articolo 39 della Costituzione e, quindi, manca una contrattazione collettiva che abbia efficacia erga omnes, come invece – lo ricordo sempre – esiste nella grandissima parte dei Paesi europei. Anche questa è un'anomalia pesante.
  Mi permettevo di dire che invece oggi abbiamo un riferimento normativo sicuro al quale ancorare il rinvio del legislatore, anche con riferimento alle clausole sociali, rendendole quindi vincolanti.

  LIDIA UNDIEMI, Dottore di ricerca in diritto dell'Economia. Anch'io sarò brevissima. Ho dei dubbi per quanto riguarda la possibilità di tutelare il lavoro negli appalti, senza giocare al ribasso del costo del lavoro, per il semplice fatto che il contratto di appalto non è che un accordo commerciale fra due impresse. Ciò significherebbe invadere la sfera dell'autonomia imprenditoriale, perché, in ogni caso, resta ferma la possibilità da parte dell'appaltante di disdire il contratto di appalto. È un contratto commerciale. L'appaltante può dire che, se l'anno prima aveva dato 100, l'anno successivo può dare 50, e se l'azienda non può fornire quel servizio, va da un'altra azienda che assume un lavoratore con prerogative economiche differenti e, quindi, in automatico il gioco è fatto.
  Sul ruolo dei sindacati, il punto è che il loro ruolo attualmente non garantisce il Pag. 18lavoratore rispetto all'evolversi del fenomeno. Mi riferisco al fatto di siglare degli accordi con delle aziende che ancora non esistono e di non prendere atto di come funzionino determinate cose.
  Non faccio i nomi, ma mi sto occupando di una grande vertenza e ultimamente stiamo adottando una tecnica che alla fine è sindacale: laddove ci sono queste operazioni dove il lavoratore in sede di trattativa dice al sindacato che non deve valutare positivamente la cessione di ramo d'azienda in cui è coinvolto, stiamo sperimentando sul campo la possibilità per i lavoratori di poter dare una delega precisa al sindacato per quanto riguarda le trattative, quando i lavoratori vengono trasferiti da un'azienda all'altra, nel senso di dire: «questa è la normativa, rappresentanti in questa maniera».
  In alcune città ci sono già stati degli scontri tra sindacato e lavoratori. Quel che certo è che ci sono gruppi organizzati di lavoratori che sono molto coscienti del fenomeno e che stanno ponendo le basi per una nuova attività sindacale.

  PRESIDENTE. Ringrazio ancora i nostri ospiti per il contributo fornito all'indagine e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 12.20.

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