XVII Legislatura

XI Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 14 di Mercoledì 25 settembre 2013

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Damiano Cesare , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE MISURE PER FRONTEGGIARE L'EMERGENZA OCCUPAZIONALE, CON PARTICOLARE RIGUARDO ALLA DISOCCUPAZIONE GIOVANILE

Audizione di rappresentanti di Confindustria.
Damiano Cesare , Presidente ... 3 
Dolcetta Stefano , Vicepresidente per le relazioni industriali di Confindustria ... 3 
Damiano Cesare , Presidente ... 8 
Pizzolante Sergio (PdL)  ... 8 
Fedriga Massimiliano (LNA)  ... 9 
Cominardi Claudio (M5S)  ... 10 
Tripiedi Davide (M5S)  ... 10 
Polverini Renata (PdL)  ... 10 
Madia Maria Anna (PD)  ... 11 
Rizzetto Walter (M5S)  ... 11 
Ciprini Tiziana (M5S)  ... 11 
Damiano Cesare , Presidente ... 11 
Dolcetta Stefano , Vicepresidente per le relazioni industriali di Confindustria ... 12 
Tripiedi Davide (M5S)  ... 13 
Damiano Cesare , Presidente ... 13 
Dolcetta Stefano , Vicepresidente per le relazioni industriali di Confindustria ... 13 
Albini Pierangelo , Direttore lavoro e welfare di Confindustria ... 13 
Dolcetta Stefano , Vicepresidente per le relazioni industriali di Confindustria ... 14 
Cominardi Claudio (M5S)  ... 15 
Damiano Cesare , Presidente ... 15

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: PdL;
Scelta Civica per l'Italia: SCpI;
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Lega Nord e Autonomie: LNA;
Fratelli d'Italia: FdI;
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero-Alleanza per l'Italia: Misto-MAIE-ApI;
Misto-Centro Democratico: Misto-CD;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI.

Testo del resoconto stenografico
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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE CESARE DAMIANO

  La seduta comincia alle 14.25.
  (La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti di Confindustria.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle misure per fronteggiare l'emergenza occupazionale, con particolare riguardo alla disoccupazione giovanile, l'audizione di rappresentanti di Confindustria.
  Ricordo che con l'audizione odierna si conclude il programma dell'indagine, approvato dalla Commissione nel giugno scorso, e che nel corso del prossimo mese di ottobre la Commissione stessa sarà chiamata ad esaminare il documento conclusivo che la presidenza si riserva di predisporre, sulla base del complesso delle audizioni svolte.
  Passo a presentarvi la delegazione di Confindustria, che ringrazio per la presenza qualificata. Sono presenti il dottor Stefano Dolcetta, vicepresidente per le relazioni industriali, il dottor Pierangelo Albini, direttore lavoro e welfare, il dottor Giulio De Caprariis, vicedirettore lavoro e welfare, il dottor Zeno Tentella, delle relazioni esterne, e la dottoressa Anna Candeloro, delle relazioni esterne.
  Ringrazio ancora i nostri ospiti e do la parola al vicepresidente Dolcetta per la sua relazione.

  STEFANO DOLCETTA, Vicepresidente per le relazioni industriali di Confindustria. Grazie, signor presidente e onorevoli deputati. Ringrazio la Commissione per quest'invito e per l'opportunità di condividere le considerazioni delle imprese in merito ai gravi problemi al centro di quest'indagine parlamentare.
  Non mi soffermo sulle cifre che descrivono la situazione del mercato del lavoro in Italia. Nelle audizioni precedenti avete già ascoltato i rappresentanti di autorevoli istituzioni di analisi economica e illustri studiosi del mercato del lavoro. Tra pochi giorni verrà presentato l'annuale rapporto del CNEL sul mercato del lavoro.
  È a tutti evidente che l'emergenza occupazionale di cui discutiamo oggi è in notevole misura una delle conseguenze della doppia crisi iniziata nel 2008. A questo si aggiungono fattori di più larga durata che hanno investito gran parte delle economie sviluppate: la globalizzazione delle produzioni, e gli effetti sull'occupazione dell'innovazione tecnologica.
  La crisi ci ha lasciato profonde ferite: dal 2007 la produzione industriale ha perso il 25 per cento; il tasso di disoccupazione è raddoppiato; il reddito per abitante è tornato ai livelli del 1997; è alto il rischio di distruzione della nostra base industriale.
  Oggi si cominciano a vedere primi indizi di recupero. Ovviamente ci auguriamo che questi segnali si consolidino, e che Pag. 4risultino confermate le previsioni che collocano alla fine di quest'anno l'avvio della ripresa economica. Secondo gli analisti sarà una ripresa lenta, perché le incertezze sono molte: dobbiamo fare i conti con il credito scarso, tanta capacità produttiva inutilizzata, una bassa redditività delle aziende, l'alta disoccupazione e le poche risorse nei bilanci delle famiglie. Se tutto va bene, alla fine del 2014 saremo ancora con un PIL di 8 punti percentuali sotto i livelli pre-crisi, e ci mancheranno 1,8 milioni di unità di lavoro.
  Siamo in un'emergenza economica e sociale. Dobbiamo riconquistare la crescita, creare lavoro, riconoscere e riaffermare la centralità delle imprese, infondere fiducia negli italiani, restituire ai giovani un futuro di progresso.
  Per far questo occorre rafforzare la ripresa dell'economia e rilanciare l'industria, vera colonna portante del Paese, intorno alla quale ruota tutto il sistema produttivo del made in Italy, dall'agricoltura al turismo e ai servizi. L'Italia deve puntare a un ritmo di crescita almeno del 2 per cento annuo. Servono dunque politiche economiche decise e coraggiose, anche a livello europeo. Senza queste, l'obiettivo di ridurre nettamente la disoccupazione, in Italia ma anche in Europa, non verrebbe raggiunto.
  Per l'Italia questo significa cambiare il mix della politica economica, in modo da promuovere la crescita, come abbiamo suggerito insieme ai sindacati qualche giorno fa, nel documento di proposte generali in vista della Legge di stabilità, dal titolo «Una Legge di stabilità per l'occupazione e la crescita».
  Occorre ridurre la tassazione sul lavoro e sulle imprese, e favorire gli investimenti pubblici e privati. Una delle priorità è infatti il rilancio della domanda interna, attraverso il sostegno agli investimenti pubblici e privati.
  Sono certamente positive le misure finora adottate dal Governo: il rinnovo dei bonus per l'efficienza energetica e la ristrutturazione edilizia, lo spostamento di fondi da alcune opere pubbliche ad altre, e gli incentivi finanziari per chi acquista macchinari. Occorre proseguire in questa direzione, ampliando e rafforzando questo tipo di interventi.
  È però necessario che le nostre imprese siano competitive. Altrimenti corriamo il rischio che siano le imprese di altri Paesi ad intercettare in discreta misura la ripresa della nostra domanda interna, oltre che di quella internazionale. Per questa ragione è indispensabile accompagnare alle politiche macroeconomiche pro-crescita, appropriate politiche micro per la competitività.
  A questo riguardo sono di grande importanza buone politiche del lavoro e del mercato del lavoro. La competitività sui mercati esteri è fondamentale. L’export ha un vero e proprio effetto turbo sul PIL. Se l'Italia puntasse sui mercati esteri nella stessa misura in cui l'ha fatto la Germania nei dieci anni prima della crisi, raddoppierebbe la velocità dell'intera nostra economia.
  Per questa ragione è importante la capacità delle imprese di internazionalizzarsi, ed è necessario sostenere le strategie di internazionalizzazione. Internazionalizzarsi vuol dire essere flessibili, globali e multinazionali, e rafforzare la presenza nei mercati asiatici, ormai i primi mercati per prodotti e manufatti. Questo significa cambiare passo dimensionale, aggregandosi, alleandosi e facendo rete.
  Occorre inoltre agire abbattendo in misura significativa il costo del lavoro. Nel Progetto per l'Italia del gennaio scorso, Confindustria aveva ipotizzato una terapia d'urto che, insieme a vari altri interventi su investimenti pubblici e privati, costo dell'energia e via dicendo, proponeva di eliminare completamente il costo del lavoro dalla base imponibile IRAP; tagliare di 11 punti gli oneri sociali che gravano sulle imprese manifatturiere (quindi portare all'8 per cento il costo del lavoro); e lasciare più soldi in tasca ai lavoratori dipendenti meno retribuiti, anche attraverso il miglioramento degli assegni familiari e un aumento delle specifiche detrazioni fiscali IRPEF.
  Le riduzioni proposte su un arco di più anni, in totale, erano pari a circa 21 Pag. 5miliardi, tra IRAP e contributi, e 12,5 miliardi di IRPEF. Si ipotizzava di ridurre i contributi in parte fiscalizzandoli, così da non perdere alcun diritto previdenziale per i lavoratori, e in parte armonizzando le aliquote contributive per gli ammortizzatori sociali, e adeguando l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni all'avvenuta diminuzione dei sinistri.
  I risultati economici erano stimati in 10 punti di PIL e 1,1 milioni di occupati in più al 2017, rispetto allo scenario in assenza di politiche.
  Anche il sistema contrattuale è una leva essenziale per rafforzare la produttività e la competitività dell'impresa, e per migliorare le retribuzioni dei lavoratori. Da tempo abbiamo spinto con i nostri interlocutori per modificare, come abbiamo fatto, il nostro sistema di contrattazione, dando maggior spazio alla contrattazione di secondo livello. Serve una contrattazione aziendale ordinata, governata dal contratto nazionale, proprio per evitare pericolose derive, ma capace di valorizzare la ricerca della competitività delle imprese.
  Nel 2009 e poi nel 2011 abbiamo previsto la possibilità di introdurre modifiche normative nelle regolamentazioni dei contratti collettivi nazionali da parte dei contratti aziendali (le cosiddette «deroghe»).
  Nel documento sulla produttività, sottoscritto a Palazzo Chigi nel novembre 2012, abbiamo introdotto la possibilità di destinare quote degli aumenti dei contratti collettivi nazionali di categoria alla contrattazione per obiettivi di livello aziendale. È però necessario incentivare questo percorso, e agevolare il potenziamento della contrattazione di secondo livello, finalizzata a definire premi legati ai risultati di produttività e redditività.
  Confindustria punta in questo modo ad avere due livelli contrattuali, che si integrino, ma non si sovrappongano, e soprattutto non sommino costi e aumenti contrattuali.
  In questa logica è sempre attuale l'obiettivo di una detassazione e decontribuzione delle retribuzioni legate ai risultati aziendali, per favorire gli elementi retributivi legati ad incrementi di produttività. Sarebbe pertanto opportuno rendere strutturali le attuali misure sperimentali di incremento della produttività del lavoro, destinandovi stabilmente almeno un miliardo di euro ogni anno.
  Inoltre bisognerebbe garantire un livello pari almeno al 5 per cento della retribuzione per lo sgravio contributivo sui premi di risultato e produttività previsti dai contratti collettivi di secondo livello, così come era stato previsto dal cosiddetto «Patto sul welfare» del 2007.
  Per aiutare l'occupazione, dobbiamo anche correggere le troppe rigidità del nostro mercato del lavoro; dobbiamo prevedere soluzione per i giovani, ma anche per i lavoratori anziani. Nell'affrontare questi temi non bisognerebbe mai dimenticare che il vero dualismo del mercato del lavoro italiano non è tanto tra lavoratori cosiddetti «precari» e quelli tutelati, ma semmai quello storico tra Nord e Sud del Paese.
  Prima dell'inizio della crisi, i numeri del mercato del lavoro, specie in alcune regioni del Nord, rivaleggiavano con quelli della Baviera. Nei tempi economici normali gli interventi di riforma della legislazione del mercato del lavoro sono stati infatti una storia di successo, con una notevole riduzione della disoccupazione e l'aumento dei tassi di occupazione.
  L'ispirazione della riforma Fornero, che avrebbe voluto affrontare il problema della transizione dal lavoro a termine a quello a tempo indeterminato, non era errata. Quello che non ha funzionato sono state le scelte operate per affrontare il problema in concreto, come dimostra proprio il caso degli interventi sul contratto a tempo determinato.
  Il contratto a termine non è il simbolo della precarietà tout court, ma uno strumento di flessibilità regolata, e come tale è utilizzato in tutti i principali Paesi europei. Credo che sarebbe un errore, nell'attuale situazione di incertezza e nell'orizzonte breve in cui operano le imprese, non voler promuovere le assunzioni, anche attraverso questo tipo di contratto.Pag. 6
  Con il decreto varato prima dell'estate, il Governo è intervenuto positivamente, operando alcuni interventi, in particolare abbreviando la durata degli intervalli fra un contratto a termine e l'altro, ossia riportando tale durata a quella vigente prima della legge Fornero.
  Nella discussione di tale provvedimento, il ministro Giovannini condivise inoltre l'utilità, previo accordo tra le parti sociali, di adottare ulteriori misure straordinarie a livello nazionale, agganciate all'evento Expo, e sperimentarne gli effetti sull'occupazione per un periodo di due o tre anni.
  Le misure a riguardo, proposte dalle organizzazioni di rappresentanza delle imprese, si sono concentrate su pochi punti qualificanti: la valorizzazione e il rilancio dell'apprendistato, anche attraverso l'azzeramento degli oneri contributivi, pure per le imprese che non fruiscono già di tale incentivo; la semplificazione della disciplina del contratto a tempo determinato, con l'estensione dell'ipotesi di acausalità; e l'introduzione di una misura incentivante che prevede l'integrale restituzione del contributo aggiuntivo Aspi dell'1,4 per cento.
  Nel corso del confronto, anche in ragione delle osservazioni mosse dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali e delle posizioni espresse dal sindacato, la proposta delle organizzazioni di rappresentanza delle imprese si è orientata sulla possibilità di introdurre in via sperimentale, per la durata dell'evento Expo, un nuovo istituto: il «contratto di inserimento lavorativo». Si trattava di un contratto di natura temporanea acausale, caratterizzato da una disciplina snella e di facile attuazione, che non si sovrapponesse ad altri istituti, come l'apprendistato, e che, nel rigoroso rispetto della disciplina comunitaria sugli incentivi, potesse fruire anche di un'incentivazione contributiva.
  Peraltro, consapevoli dei limiti più volte evidenziati dal ministro sull'effettiva possibilità di riconoscere incentivi che incidessero sui vincoli di bilancio, le organizzazioni di rappresentanza delle imprese avevano anche ipotizzato che questo nuovo istituto, anziché da incentivi di natura economica, potesse essere assistito solo da incentivi normativi, ossia fosse caratterizzato, oltre che dalla temporaneità e dalla acausalità, anche dalla possibilità di avvalersi del cosiddetto «sottoinquadramento iniziale», nel rispetto di una durata massima di 24 mesi.
  Su queste proposte non si è però realizzata una convergenza con le organizzazioni sindacali. Queste infatti non hanno mai condiviso l'idea che ogni eventuale misura da adottare si potesse applicare indistintamente a tutto il territorio nazionale e a tutti i settori produttivi. Non hanno quindi condiviso l'impostazione a base del confronto, ossia che l'evento Expo deve considerarsi come un'operazione di sistema Paese.
  Il secondo punto di divergenza riguarda sia le proposte di semplificazione della disciplina del contratto a termine sia l'ipotesi del nuovo contratto di inserimento. Lo stallo su questo tema tra parti sociali non è una novità, e sottende una difficoltà reale: conciliare efficienza ed equità.
  Secondo vari studi, una maggiore flessibilità dei mercati del lavoro è correlata a più alti livelli di occupazione e produttività. Si rileva anche che nei Paesi con mercati del lavoro più deregolati la distribuzione dei redditi è un po’ meno egualitaria. Una maggiore flessibilità del lavoro può dunque essere al tempo stesso un bonus per l'economia e un problema per la società nel suo complesso.
  Come si esce da questa aporia, posto che si rischia una discussione interminabile se si cerca di dimostrare la superiorità di uno dei due Stati rispetto all'altro ? La risposta non può essere che politica: perseguire l'efficienza, cercando al tempo stesso di temperarne gli eventuali risultati socialmente indesiderabili.
  Questa è la scelta che ha fatto la Germania, con le riforme Hartz, e in particolar modo con il cosiddetto «pacchetto Hartz IV». Io credo che la sufficienza con cui in Italia alcuni guardano a quest'esperienza, che spesso viene minimizzata Pag. 7e fatta polemicamente coincidere con la mera introduzione dei cosiddetti «minijobs», sia mal riposta.
  Si tratta di una risposta realistica al problema di far fronte nell'immediato alla rivoluzione in corso, accelerata dalla crisi della divisione del lavoro nel mondo. Non è una soluzione pienamente soddisfacente né strutturale, ma ha assicurato un funzionamento del mercato del lavoro, un basso tasso medio di disoccupazione, senza concentrazione su determinate categorie.
  È meglio sussidiare l'inattività e assistere inerti al depauperamento del capitale umano degli inattivi, oppure offrire occasioni di lavoro e salvaguardare gli skill lavorativi delle persone, e dei giovani in primo luogo ?
  Per far funzionare meglio il mercato del lavoro serve anche un'efficace organizzazione dell'incontro tra domanda e offerta di lavoro. L'Europa promuove un piano straordinario per i giovani: lo Youth guarantee. Non dobbiamo perdere quest'occasione di rendere più efficienti i nostri servizi per l'impiego.
  In questa prospettiva dobbiamo adattare alla strategia europea le nostre peculiarità, favorendo forme di collaborazione tra pubblico e privato, e ampliando la sfera di azione delle agenzie private. Le agenzie per il lavoro, peraltro, gestiscono la formazione dei lavoratori da inviare in missione. Dunque, per poter assolvere al meglio la loro attività, sono interessate a comprendere le dinamiche della domanda di lavoro, e a orientare a tal fine la formazione dei loro lavoratori. Vedo in questa convergenza di interessi un fattore di sicuro sviluppo dell'occupazione.
  Pensando all'importanza della formazione ai fini dell'occupabilità delle persone, devo ricordare la contrarietà di Confindustria sul modo in cui il Governo ha reperito le risorse destinate a finanziare gli ammortizzatori in deroga. Già con la Legge Fornero, e poi con il decreto-legge n. 54 del 21 maggio 2013, il Governo ha proceduto ad impiegare quota delle risorse previste (246 milioni) per il rifinanziamento della cassa integrazione in deroga. Ecco un chiaro esempio di come le soluzioni più facili non sono anche giuste.
  Rifinanziare le ammortizzazioni era indispensabile, ma farlo utilizzando in larga parte delle risorse destinate a sostenere l'occupazione, le politiche attive e la produttività è un errore strategico, che comporta il rischio concreto di rallentare l'assorbimento della disoccupazione.
  Allo stesso modo è giudicato negativamente l'utilizzo per il medesimo fine delle risorse già stanziate per la decontribuzione dei premi di risultato. Indipendentemente dall'effetto immediato o meno sulla fruibilità dello sgravio, va criticata la scelta di sottrarre risorse già previste per un intervento che va nella logica della riduzione del cuneo fiscale sul lavoro, fondamentale per la ripresa economica del Paese.
  Occorre uscire da questa logica miope e autodistruttiva per la quale per sopperire alle necessità di finanza pubblica si sottraggono risorse alle politiche attive del lavoro e a quelle per la competitività, indebolendo la crescita economica e quindi la prospettiva stessa di un risanamento strutturale dei conti pubblici.
  In verità, questo richiede anche di superare la logica dell'eccezionalità, e di porre fine all'esperienza degli ammortizzatori sociali in deroga, assegnando un preciso termine finale. Nel frattempo occorre definire per ogni settore, sulla base delle specificità di ciascuno, gli ammortizzatori utilizzabili e la contribuzione necessaria per il loro equilibrio. È altresì necessario ridefinire, innanzitutto con i sindacati, anche per i settori rappresentati da Confindustria, un sistema di ammortizzatori più adeguato al mutato contesto economico e normativo.
  Infine, un buon funzionamento del mercato del lavoro richiede anche buone relazioni industriali. In questi anni abbiamo fatto passi importanti in questa direzione, regolando rappresentanza e contrattazione collettiva, che in buona sostanza sono due facce della stessa medaglia.
  Il nostro obiettivo è un sistema di relazioni industriali semplice, non conflittuale, Pag. 8che poggi sul rispetto e sull'esigibilità dei contratti collettivi che si sottoscrivono con la maggioranza.
  L'accordo sottoscritto il 31 maggio scorso con CGIL, CISL e UIL definisce ora i principi per determinare la rappresentatività sindacale e le condizioni per avere finalmente contratti collettivi nazionali di lavoro pienamente esigibili.
  Per la prima volta dopo oltre sessant'anni sono stati fissati principi e regole, per dare compimento ad un modello di relazione sindacale che, ispirandosi all'articolo 39 della Costituzione, rende esigibili i contratti collettivi nazionali di lavoro e ne assicurerà il rispetto.
  Nessun sindacato si era mai impegnato a rispettare le decisioni della maggioranza, cedendo al volere di questa, parte della propria autonomia e della propria libertà. È un principio di democrazia e di civiltà, che antepone l'interesse generale all'interesse particolare della singola organizzazione.
  L'accordo prevede anche che i contratti collettivi nazionali di lavoro definiscano necessariamente le procedure per prevenire i conflitti, regolare l'esercizio dello sciopero, e determinare le sanzioni per la violazione degli accordi definiti secondo i principi concordati.
  Ora vanno scritte le regole di attuazione dei principi per la misurazione della rappresentanza, e la determinazione della rappresentatività sindacale, per dare a quest'insieme di regole la natura di un vero e proprio ordinamento.
  In conclusione, come si desume da quanto ho detto finora, non ci sono soluzioni miracolose per l'emergenza occupazionale che stiamo attraversando. Occorre porsi con realismo alcuni obiettivi prioritari, e adottare politiche conseguenti e rigorose.
  Nel ringraziare ancora una volta per quest'opportunità, vorrei permettermi di sottolineare il messaggio fondamentale di questo mio intervento, che è un pressante invito a mettere l'impresa e il lavoro al centro dell'azione del Governo e del Parlamento. Sono convinto che questa sia una scelta obbligata per superare l'emergenza occupazionale e dare al Paese quel segnale di speranza, di cui credo tutti sentiamo la necessità.

  PRESIDENTE. Ringraziamo il vicepresidente, il dottor Dolcetta, per la relazione molto impegnata e molto esaustiva. Anche noi ci associamo all'idea di mettere al centro impresa e lavoro. Ci auguriamo che l'attività del Governo vada in questa direzione. La legge di stabilità potrebbe essere un'utile occasione.
  Adesso passiamo alle domande. Io segnerò il tempo dopo 3 minuti, in modo tale che tutti possano, se lo desiderano, intervenire. Vi ricordo che i nostri lavori proseguiranno con gli altri impegni. Chiederei per favore a chi intende iscriversi di farlo rapidamente, in modo tale da avere un quadro della situazione e poterci regolare con gli orari.
  Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  SERGIO PIZZOLANTE. Ringrazio anch'io il vicepresidente Dolcetta per la relazione. I dati che noi tutti conosciamo sono drammatici. È drammatico il dato dell'occupazione e, se posso permettermi, lo è ancor di più il dato della corsa alla deindustrializzazione del Paese. Infatti, le speranze di ripresa dell'occupazione non possono che venire dalla salute del sistema industriale, perché è l'impresa che crea lavoro. Chi pensa che il lavoro possa essere creato dallo Stato, da leggi e decreti, è fuoristrada.
  I dati sulla fase drammatica di deindustrializzazione del Paese sono la cosa più allarmante di questi ultimi mesi e di questi ultimi anni. Peraltro, noi abbiamo la seconda manifattura d'Europa. Qualche decennio fa, uno dei Paesi più industrializzati d'Europa era l'Inghilterra, che nell'arco di poco tempo ha perso la sua capacità industriale e non l'ha recuperata più. Quando si perde la propria capacità industriale diventa difficile, o quasi impossibile, recuperarla. Questa è la questione centrale.
  Come diceva lei, tutto questo avviene a causa della crisi drammatica, ma anche Pag. 9perché, paradossalmente, in questa fase di crisi, lo Stato, anziché accompagnare le politiche tese ad agevolare le imprese, alcune volte ha assunto un atteggiamento opposto.
  Quando parlo di Stato intendo le istituzioni nelle sue diverse componenti, ossia il Parlamento e il Governo che, in un momento di crisi in cui si chiede più velocità e più flessibilità, introduce nuove rigidità. Mi riferisco alla riforma Fornero. Devo però sottolineare che nei confronti della riforma Fornero, da parte delle associazioni di categoria e da parte di Confindustria, non c’è stata la reazione che questa richiedeva.
  C’è poi un'altra parte dello Stato che ha avuto il suo ruolo. Mi riferisco, per esempio – per essere molto diretto e brutale – all'invadenza e alla rigidità sul sistema industriale da parte della magistratura, come nel caso dell'Ilva o anche nel caso della FIAT. Noi abbiamo scoperto, dopo 43 anni, che l'articolo 19 dello Statuto dei lavoratori sarebbe incostituzionale, per i tanti piccoli casi FIAT sparsi in giro per l'Italia. L'altro giorno hanno chiuso il delfinario di Rimini: 20 posti di lavoro andati a mare per un'azione della magistratura. Ci sono migliaia di questi casi in giro per l'Italia.
  Anche in questi casi, drammaticamente, non vedo una reazione all'altezza della situazione, né dal mondo politico né dal mondo industriale, rispetto a ciò che queste rigidità comportano sul processo di deindustrializzazione del nostro Paese.
  In ultimo, sono d'accordo col patto siglato nella sede del Partito Democratico a Genova fra le parti sociali. Tuttavia, ai tempi di Vannoni e di La Malfa, all'interno dei patti c'era uno scambio fra le parti sociali, che aveva come obiettivo principale l'aumento della produttività. L'aumento della produttività comportava uno sforzo delle parti sociali, e lo Stato era chiamato ad accompagnare questo sforzo.
  Io credo che lo Stato debba fare la sua parte, perché il cuneo fiscale è assolutamente inaccettabile. Tuttavia, in un patto di quel tipo, in cui tutto cade sullo Stato, manca la componente di responsabilità delle parti sociali, sia quelle industriali sia quelle sindacali. Ai tempi di Vanoni e di La Malfa questa era la struttura dei patti fra le parti sociali. Non c’è un patto in cui l'unica risposta deve venire dallo Stato, e non dalla disponibilità delle parti sociali a riorganizzare il lavoro e le relazioni industriali, e quindi a creare efficienza e produttività autonomamente.
  In Germania sono state fatte riforme e accordi sulla base delle teorie del direttore delle risorse umane di Volkswagen. In Italia sarebbe impensabile fare un patto sulla base delle teorie del direttore delle risorse umane della FIAT, per fare un parallelo. Anzi, addirittura in Italia la FIAT, per proporre il suo progetto d'investimenti e di riforme delle relazioni industriali, deve uscire da Confindustria.

  MASSIMILIANO FEDRIGA. Io starò nei tempi dettati, anzi probabilmente sarò più breve. Ho soltanto due domande veloci. Lei ha parlato giustamente dell'abbattimento del cuneo fiscale, che noi condividiamo. Vorrei sapere se avete quantificato l'investimento necessario affinché questa misura sia realmente incisiva, e favorisca la competitività delle nostre aziende. In altre parole, vorrei che ci aiutaste a capire quand’è che la misura diventerebbe concreta per le aziende.
  La nostra preoccupazione è che, con poche risorse investite, questa misura non sia abbastanza incisiva per offrire nuova capacità produttiva alle aziende, e quindi nuova forza occupazionale al Paese, e si riduca semplicemente a una mera misura propagandistica.
  In secondo luogo, è inutile nasconderci che il costo del lavoro è principalmente dettato da una forte presenza della parte contributiva (contributi previdenziali diretti, per la maternità, per le pensioni d'invalidità e altro). Vorrei capire come riuscire a coniugare l'esigenza della parte datoriale per la quale il costo del lavoro, con questi contributi, si innalza moltissimo, e la tutela del lavoratore. È chiaro che toccare quei costi vuol dire incidere sul futuro beneficio previdenziale del lavoratore, che, come sappiamo bene, è già Pag. 10stato estremamente ridimensionato in termini di percepimento previdenziale, con il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo e il conseguente abbattimento della pensione percepita.

  CLAUDIO COMINARDI. Vorrei sfatare un mito: la flessibilità non crea posti di lavoro. Lo dice l'OCSE, che afferma anche che l'Italia è uno dei Paesi industrializzati più flessibili al mondo.
  Io dico che i lavoratori sono abbastanza flessibili, a tal punto che sono quasi a novanta gradi. Esistono studi comparati, proprio dell'OCSE, in cui, includendo un arco temporale di venticinque anni, si dimostra come il lavoro è diventato sempre più flessibile, e quindi, nel contempo, più precario. Non ci sono state correlazioni dirette da cui si evince un aumento dei posti di lavoro. Questo è un mito assolutamente da sfatare.
  A proposito dell'Expo, cercare di estendere il principio di acasualità, ovvero un contratto ad hoc, è una cosa assolutamente sbagliata. Non si può andare in deroga ai contratti già esistenti, e bisogna prima di tutto capire qual è il vero valore del lavoro e la sua essenza. Il mondo sta cambiando. O i signori di Confindustria e i colleghi tutti lo capiscono, oppure siamo rovinati.

  DAVIDE TRIPIEDI. La disoccupazione giovanile è un tema molto delicato. Lo Stato sta svendendo l'Italia. Basta vedere il caso Telecom – per cui Confindustria non ha fatto niente – il caso FIAT, il caso Alitalia, e per ultimo il caso Ilva.
  Proprio Confindustria difende i Riva, nonostante ci sia una sentenza di un giudice. Si va avanti con il sistema berlusconiano, accusando la magistratura. È sempre colpa di qualcun altro. Se non si rispettano le regole, si diventa un mito.
  Voi pensate veramente che togliendo i diritti ai lavoratori – vedi l'articolo 8 di Sacconi, e l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori – si possa creare occupazione e investimento in Italia ?

  RENATA POLVERINI. Ho soltanto qualche domanda, su alcuni argomenti introdotti nella relazione dal vicepresidente, e che non ho capito. Innanzitutto non ho capito qual è la posizione di Confindustria sulla rappresentanza. Vorrei sapere, al di là dell'accordo, che cosa pensa Confindustria rispetto alla necessità di una legge di sostegno. Lei vi ha accennato, ma, almeno per me, non è stato sufficientemente chiaro.
  Ovviamente noi abbiamo delle proposte di legge, e ci interessa capire se c’è o no una necessità, perché non vogliamo sicuramente – almeno non io – legiferare contro. Quello che ha detto il vicepresidente, almeno per me, non è stato chiaro.
  La seconda questione riguarda l'apprendistato, che mi pare si confermi, anche per Confindustria, come lo strumento principe per l'ingresso dei giovani nel mercato del lavoro. Quello che non riesco a capire da nessuno, e magari mi potete dire voi, è se e come intervengono le regioni, che su questo tipo di contratto hanno un ruolo importantissimo, legislativo e anche di sostegno economico, e se c’è un modello migliore di un altro. Questa è una cosa che abbiamo sentito da vari rappresentanti, però, almeno ad oggi, a questa domanda non ha mai risposto nessuno.
  Vorrei anche capire, collegandomi all'intervento del collega del mio Gruppo, che futuro ha quel famoso accordo, peraltro sottoscritto durante una festa di partito (con tutto il rispetto per le feste di partito). Mi pare che sia stato sottoscritto con grande enfasi, però non riesco a capire se quest'accordo avrà un seguito in una sede istituzionale, oppure era uno di quei momenti che servono più a riunire le organizzazioni.
  Comunque, per noi è importante il ruolo delle parti sociali, al di là del contenuto, che pure è rilevante. Non ripeto le cose già dette, però vorrei capire se c’è un percorso successivo a quell'atto, seppure simbolico.
  Non apro la questione dell'industrializzazione, perché purtroppo questo film non è iniziato adesso, ma siamo forse alla parte finale. Al di là del tema specifico dell'audizione di oggi, vorrei sapere cosa fa Pag. 11Confindustria rispetto alla vicenda Telecom, alla vicenda Ansaldo, e alla vicenda Alitalia, che, peraltro, almeno per chi segue quel settore, era attesa.

  MARIA ANNA MADIA. Ho una domanda suscitatami sia dalla vostra relazione che da un incontro che ho avuto poco fa con la responsabile commerciale del distaccamento di una grande azienda italiana, che adesso non specifico, ma che è stata anche citata precedentemente.
  Questa ragazza mi confermava con il suo caso concreto delle cose che, peraltro, noi sappiamo già. Lei ha la responsabilità di circa sessanta lavoratori, che svolgono tutti più o meno la stessa mansione, di cui una ventina sono contrattualizzati con il contratto dei metalmeccanici, una ventina hanno la partita IVA, e una quindicina sono interinali. Gli altri sono stagisti che di volta in volta vengono rinnovati, e che non possono essere assunti, anche se sono persone molto valide.
  La domanda che vi pongo da legislatore, con umiltà, è cosa consiglia Confindustria al legislatore per unificare questo mercato del lavoro che oggettivamente è diventato una giungla contrattuale, dove il lavoratore diventa vittima, anche quando il lavoro c’è, e anche in aziende dove, malgrado la crisi, la congiuntura ancora regge.

  WALTER RIZZETTO. Ringrazio gli ospiti. Volevo intervenire sullo stesso tema affrontato dall'onorevole Madia, e quindi faccio un passo avanti.
  Vicepresidente, non ho capito se lei ha detto che dobbiamo impedire o favorire che le imprese di altri Paesi intercettino la nostra auspicabile crescita. In questo senso, vorrei chiedervi se avete già dato un'occhiata al documento «Destinazione Italia», che parla anche di questo tipo di cose. Si parla di un Fondo dei fondi, di un Fondo made in Italy, e di agevolare sempre di più un certo tipo d'investimento da parte di imprenditori esteri dentro le imprese italiane.
  Questo documento parla di un Fondo made in Italy, rivolto anche alle start-up innovative di gruppi di imprenditori. La conditio sine qua non per poter ottenere dei fondi e delle agevolazioni è che le imprese abbiano una quota societaria appartenente a qualcuno che è fuori dai confini italiani.
  Vorrei capire se avete visto questo documento, e se eventualmente vi interessa darci la vostra visione su questo tema. Mi ricollego alla domanda dell'onorevole Madia, chiedendovi di chiarire la posizione di Confindustria rispetto alle imprese di altri Paesi che intercetterebbero la nostra auspicabile crescita.

  TIZIANA CIPRINI. Vorrei chiedere a Confindustria qual è la visione dell'industria futura in Italia. L'impressione che ho è che si dovrebbe chiamare «Confdeindustria». Quello a cui stiamo assistendo è una vera e propria deindustrializzazione del Paese ed una delocalizzazione. Si continuano a usare termini edulcorati, come «internazionalizzazione», per celare realtà disgraziate come la delocalizzazione. Con delle relazioni industriali internazionali si portano via dall'Italia interi marchi, macchinari e progetti, e si lasciano per strada i lavoratori e le loro famiglie.
  È chiaro che un'associazione che si chiama Confindustria dovrebbe avere una visione di medio-lungo periodo sul futuro dell'imprenditoria in Italia. Come è noto, gli industriali non sono più tali; non si fa più imprenditoria, ma finanza.
  Come politici, se sappiamo che l'industria se ne va dall'Italia, possiamo orientare meglio le nostre azioni.

  PRESIDENTE. Prima di dare la parola al vicepresidente Dolcetta, vorrei fare delle brevi osservazioni. Scusatemi se alle volte derogo un po’ dal mio ruolo, ma a volte non riesco a trattenermi, vista la materia molto interessante.
  Mi pare che Confindustria, insieme ai sindacati confederali, abbia sottoscritto una pluralità di accordi nell'ultimo periodo. Personalmente ritengo la concertazione un fatto indispensabile per la crescita del Paese. Così l'ho sempre vissuta. Temo quando non c’è concertazione, Pag. 12quando c’è divisione tra i sindacati, e quando si comprime l'azione dei corpi intermedi. Penso che questi patti vadano nella giusta direzione.
  Quando le parti sociali chiedono più sviluppo e più occupazione, c’è una quantificazione di risorse necessarie da chiedere al Governo, oltre che al sistema delle imprese, per promuovere questo sviluppo e questa nuova occupazione ?
  La legge di stabilità dovrebbe affrontare temi molto importanti. Uno è sicuramente quello del cuneo fiscale e del costo del lavoro. Confindustria ha proposte in merito ? Voi pensate che questa volta, a differenza di quello che si fece al tempo del Governo Prodi, con una diminuzione a vantaggio dell'impresa, ci debba essere un doppio vantaggio per l'impresa e per i lavoratori, ad esempio con un incremento delle retribuzioni ?
  Infine, sul tema della rappresentanza, anch'io penso che sia stato fatto un ottimo accordo. Vedo che voi chiedete di scrivere le regole di attuazione dei principi per la misurazione della rappresentanza e la determinazione della rappresentatività sindacale. Voi pensate ad una riscrittura legislativa leggera, oppure si tratta di una riscrittura tutta interna al sistema delle parti sociali e della loro regolazione ?
  Do la parola al vicepresidente Dolcetta per la replica.

  STEFANO DOLCETTA, Vicepresidente per le relazioni industriali di Confindustria. Ringrazio per le domande numerose, e anche non particolarmente «amicali». Nel caso di interventi tecnici, chiederò l'aiuto del dottor Albini. Mi sono segnato tutte le domande e cercherò di ricordarmi tutto quello che è stato chiesto.
  Parto dall'onorevole Pizzolante. Confindustria non ha firmato un accordo con i sindacati. In occasione della festa del PD a Genova, a cui lei faceva riferimento, è stato solo indicato un elenco delle priorità che, secondo Confindustria e secondo i sindacati, dovrebbero essere attuate. È un documento di lavoro, e non c’è nessuna firma. Non è un patto sottoscritto da Confindustria e siglato col sangue. È stata solo un'elencazione, secondo me anche abbastanza generica, di quelle che Confindustria ritiene essere le esigenze e le priorità da portare avanti.
  Dire che è necessario ridurre il costo del lavoro è abbastanza generico, ed è diverso dal dire come faccio a ridurre il costo del lavoro, di quanto lo devo ridurre, e in quanto tempo. Temo che quando si inizierà a discutere di queste cose, allora cominceranno veramente i problemi.
  La seconda parte della sua domanda riguardava FIAT. Lei ha detto che FIAT è uscita da Confindustria. FIAT aveva in testa un modello di relazione basato sulle RSA, mentre Confindustria ha un modello di relazione basato sulle RSU. Questa è una visione concettualmente diversa fra noi e la FIAT. La FIAT ha perseguito questa strada. Vedremo se la scelta che ha fatto FIAT sarà vincente o meno.
  Bisogna anche dire che FIAT nel sistema economico italiano rappresenta un caso abbastanza anomalo. Non ci sono altre aziende delle dimensioni e dell'importanza di FIAT nel sistema economico-industriale italiano. Se togliamo Finmeccanica, che comunque lavora nella difesa, e quindi non è un'azienda esattamente paragonabile a FIAT, non ci sono altre realtà di questo tipo. Io credo che per il sistema industriale italiano la RSU sia certamente un sistema più corretto su cui basare le relazioni industriali.
  Voglio dire però che, per esempio, in Paesi come la Germania, ci sono aziende delle dimensioni della FIAT, o anche dello stesso settore, che hanno dei contratti aziendali che sono dei contratti nazionali. Loro lavorano in deroga al contratto nazionale, avendo un contratto aziendale che ha valore su tutto il territorio. Non è una cosa così strana. Evidentemente queste grandi aziende hanno delle necessità specifiche che solo loro sono in grado di gestire pienamente. In Italia questo caso è ancora più eclatante, proprio perché il sistema industriale italiano è basato sulle piccole e medie imprese, e l'unica vera impresa di queste dimensioni è la FIAT.
  L'onorevole Fedriga mi chiedeva di quanto bisognerebbe ridurre il costo del Pag. 13lavoro e che impatto avrebbe questo sui contributi. Dire una cifra non è facile. Io faccio solo un esempio. In Spagna il Governo in carica ha ridotto il costo del lavoro di circa 6-7 punti. L'industria manifatturiera spagnola è in crescita; hanno dimezzato il saldo negativo della loro bilancia commerciale; e l'occupazione in Spagna è ripresa.
  La produttività e la competitività non sono date solo dal costo del lavoro, ma da tanti altri fattori. Ciò nondimeno, il costo del lavoro è l'elemento su cui forse si può agire in tempi più brevi e che può dare una risposta più rapida a una situazione di crisi. Noi nel mese di luglio abbiamo diminuito le esportazioni del 3,6 per cento. Questa è una coincidenza, e non voglio dire che da questo si possa trarre una legge.
  Il problema dell'industria italiana in questo momento è la perdita di competitività – lo abbiamo visto anche nel documento presentato ieri dall'Europa – nei confronti di quasi tutti i Paesi europei. Non si riesce più a saturare le fabbriche in Italia, e quindi non c’è ripresa del lavoro, non c’è occupazione, e le fabbriche non lavorano al massimo. Questo comporta un aggravio sul costo unitario del prodotto. Di conseguenza il famoso clup (costo del lavoro per unità di prodotto), di cui tutti parlano, da noi cresce molto più velocemente che non in Germania. In parte ciò è dovuto proprio al fatto che, non lavorando a regime, le nostre fabbriche hanno una parte di costi fissi che incide pesantemente sul costo del lavoro.
  Questo ci rende sempre meno competitivi e ci fa perdere quote di mercato. Di conseguenza le nostre fabbriche lavorano meno. Per queste ragioni, il vero obiettivo è il recupero di competitività del sistema italiano, di cui il costo del lavoro è una componente molto importante. Ovviamente non è l'unica componente, perché anche l'innovazione dei processi produttivi e la formazione delle persone sono elementi che contribuiscono alla crescita della competitività. Tuttavia, innovazione e formazione richiedono molto tempo, mentre sul costo del lavoro si può agire in tempi più rapidi, con benefici certamente molto più veloci.
  Lei mi chiedeva del calo dei contributi. Nella mia relazione sono riportate le proposte fatte da Confindustria, che parlava di una riduzione di circa 21 miliardi tra IRAP e contributi e di 12 miliardi di IRPEF nell'arco di cinque anni. Questo avrebbe prodotto una crescita del PIL di 10 punti e un incremento dell'occupazione pari a 1,1 milioni di persone. Questo è quanto previsto dallo studio che Confindustria ha presentato all'inizio dell'anno.
  Lei diceva che la flessibilità non crea lavoro. Io non conosco questi studi OCSE che lei citava, ma posso riportarle dei casi concreti. Negli Stati Uniti e in Inghilterra c’è molta più flessibilità che da noi; la disoccupazione in Inghilterra è in calo del 6 per cento, e negli Stati Uniti è uguale. Non so cos'altro dirle.
  Non ricordo cosa ha chiesto l'onorevole Tripiedi.

  DAVIDE TRIPIEDI. Le ho chiesto come pensate di risolvere il problema occupazionale e della crescita del Paese togliendo i diritti ai lavoratori (vedi articolo 18 e articolo 8 di Sacconi).

  PRESIDENTE. Non è una domanda. È un'affermazione.

  STEFANO DOLCETTA, Vicepresidente per le relazioni industriali di Confindustria. Io credo che la disoccupazione non sia dovuta a questo, ma piuttosto, come ho detto prima, ad una perdita di competitività del sistema.
  La Polverini chiedeva se sulla rappresentanza la Confindustria ha interesse a fare una legge. Le rispondo che non è intenzione di Confindustria. Secondo noi l'accordo fatto con i sindacati vale molto di più sul piano concreto.

  PIERANGELO ALBINI, Direttore lavoro e welfare di Confindustria. All'onorevole Madia rispondo io, perché è un argomento più tecnico. Metto in fila anche due ragionamenti sull'apprendistato e sugli Pag. 14aspetti più squisitamente tecnici, così allievo un po’ di fatica al vicepresidente.
  Per quanto riguarda la pluralità degli strumenti, visto che tutti quanti compulsiamo internet e leggiamo studi internazionali, è facile vedere che in alcuni Paesi come la Gran Bretagna una pluralità di strumenti non c’è, perché c’è un sistema di libera recedibilità dal contratto a tempo indeterminato, per cui alla fine il contratto a termine diventa una mera eccezione.
  È chiaro che non esiste una regola generale: ogni Paese ha le sue norme e la sua storia, e ha costruito la sua legislazione del lavoro. Se si vuole conoscere qual è il posizionamento di Confindustria, per una semplificazione radicale delle nostre posizioni, basta leggere gli atti che abbiamo pubblicato in occasione del convegno del centenario nel 2010, anche in quel caso a Genova. In quel caso però abbiamo fatto tutto in casa nostra da soli.
  In quegli atti, sostanzialmente, indichiamo in maniera molto limpida l'idea che, accanto al contratto a tempo indeterminato come contratto standard, devono esistere l'apprendistato come forma che facilita l'ingresso dei giovani, e il contratto a termine, che ha una somministrazione con regole molto semplici. Questo riguarda il mondo del manifatturiero di Confindustria. Tuttavia Confindustria rappresenta orami un mondo molto più complesso, dove ci sono anche i servizi e le utility, e dove diverse tipologie contrattuali hanno dato una risposta positiva in termini occupazionali.
  Da questo punto di vista Confindustria, al di là delle continue dispute sul numero, non è affezionata a una moltiplicazione degli strumenti. Anzi, io da tempo vado sostenendo che in questo Paese bisognerebbe fare le riforme con la gomma e non con la matita.
  Sull'apprendistato diciamo sempre che si tratta della via d'accesso principale per i giovani nel mondo del lavoro. Tuttavia, il Titolo V della Costituzione conferisce alle regioni delle competenze che di fatto creano una situazione paradossale. Nel momento in cui l'Europa tenta di scrivere un glossario delle professioni e cerca di dire che un saldatore deve essere certificato come tale, in maniera universale, in modo da potergli consentire la libera circolazione in tutta l'Europa, noi abbiamo standard formativi in termini di contenuto e di riconoscimento delle professionalità del saldatore che sono diverse fra la Lombardia, il Veneto e la Toscana. Questo è un paradosso e crea una grande incertezza.
  Parlo del manifatturiero che ha evidentemente durate più lunghe (di solito l'apprendistato nell'industria ha una durata triennale). L'impresa non fa ricorso a questo tipo di strumento proprio perché l'incertezza è massima, e nel momento in cui non si è in condizione di dimostrare di aver fatto la formazione, il rischio a fronte di un accertamento da parte dell'ispettorato è il recupero di tutti i benefici contributivi. È quindi l'incertezza normativa a scoraggiare il ricorso a questo strumento.
  Se analizzate i dati sul ricorso al contratto di apprendistato, vedete che nelle ultime indagini presentate al CNEL (e credo che anche nella prossima emergerà questo dato) emergono degli utilizzi per periodi molto brevi.

  STEFANO DOLCETTA, Vicepresidente per le relazioni industriali di Confindustria. Rispondo molto brevemente alle ultime domande.
  Rizzetto chiedeva se bisogna favorire gli investimenti da investitori esteri. È chiaro che se vogliamo far crescere l'attività produttiva dobbiamo favorire gli investimenti esteri, però dobbiamo far sì che non ci siano acquisizioni di mercato, ma piuttosto acquisizioni di aziende che producono in Italia. Dobbiamo mettere le aziende nelle condizioni di essere competitive, e quindi di produrre in Italia.
  Io parlo da imprenditore. Io ho portato in Italia uno stabilimento che avevamo in Cechia e uno che avevamo in India. Ne abbiamo avviato uno ad Avezzano e uno a Veronella. Io sono un esempio concreto della volontà di sviluppare le attività produttive in Italia. L'obiettivo è rendere il sistema competitivo.Pag. 15
  L'onorevole mi chiedeva se sul lavoro dobbiamo solo ridurre il costo, oppure anche incrementare i salari. Secondo me è necessario che i salari dei lavoratori, soprattutto quelli minori, crescano, perché c’è bisogno di stimolare la domanda interna, che in questo momento langue.

  CLAUDIO COMINARDI. Non ha risposto alle mie domande !

  PRESIDENTE. Scusi, onorevole Cominardi, abbiamo concluso. Sono le 15,30 e dobbiamo passare agli altri punti. Avrà occasione di fare tutte le sue osservazioni in altre sedute. Mi attengo anch'io alla stessa regola. Cerchiamo di mantenere un minimo di regolazione, perché abbiamo un altro lavoro e alle 16,00 c’è l'Aula.
  Io ringrazio i rappresentanti di Confindustria. Con quella odierna abbiamo concluso il nostro ciclo di audizioni.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 15.30.