XVII Legislatura

VI Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 3 di Martedì 24 febbraio 2015

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Capezzone Daniele , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA FISCALITÀ NELL'ECONOMIA DIGITALE

Audizione del professor Franco Gallo.
Capezzone Daniele , Presidente ... 3 
Gallo Franco , professore emerito di diritto tributario presso l'università LUISS Guido Carli ... 3 
Capezzone Daniele , Presidente ... 8 
Gallo Franco , professore emerito di diritto tributario presso l'università LUISS Guido Carli ... 9 
Capezzone Daniele , Presidente ... 9 
Busin Filippo (LNA)  ... 9 
Gallo Franco , professore emerito di diritto tributario presso l'università LUISS Guido Carli ... 10 
Causi Marco (PD)  ... 10 
Gallo Franco , professore emerito di diritto tributario presso l'università LUISS Guido Carli ... 10 
Capezzone Daniele , Presidente ... 10 
Causi Marco (PD)  ... 10 
Gallo Franco , professore emerito di diritto tributario presso l'università LUISS Guido Carli ... 11 
Causi Marco (PD)  ... 12 
Gallo Franco , professore emerito di diritto tributario presso l'università LUISS Guido Carli ... 12 
Paglia Giovanni (SEL)  ... 12 
Gallo Franco , professore emerito di diritto tributario presso l'università LUISS Guido Carli ... 13 
Ruocco Carla (M5S)  ... 13 
Gallo Franco , professore emerito di diritto tributario presso l'università LUISS Guido Carli ... 13 
Carbone Ernesto (PD)  ... 13 
Gallo Franco , professore emerito di diritto tributario presso l'università LUISS Guido Carli ... 14 
Carbone Ernesto (PD)  ... 14 
Gallo Franco , professore emerito di diritto tributario presso l'università LUISS Guido Carli ... 14 
Capezzone Daniele , Presidente ... 14 

ALLEGATO: Documentazione depositata dal professor Franco Gallo ... 15

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: (FI-PdL);
Area Popolare (NCD-UDC): (AP);
Scelta Civica per l'Italia: (SCpI);
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Lega Nord e Autonomie: LNA;
Per l'Italia-Centro Democratico: (PI-CD);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero-Alleanza per l'Italia: Misto-MAIE-ApI;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI;
Misto-Alternativa Libera: Misto-AL.

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
DANIELE CAPEZZONE

  La seduta comincia alle 14.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione del professor Franco Gallo.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla fiscalità nell'economia digitale, l'audizione del professor Franco Gallo, che ringrazio per avere avuto la gentilezza di accogliere il nostro invito.
  Stiamo conducendo un'indagine conoscitiva sulla fiscalità nell'economia digitale. Abbiamo cominciato ad ascoltare alcuni soggetti del mondo imprenditoriale, portatori di interessi in tale ambito, a volte anche fortemente contrapposti, e audiremo anche voci scientifiche autorevoli.
  Do quindi la parola al professor Gallo per lo svolgimento della relazione, pregandolo di rendersi poi disponibile a rispondere a qualche eventuale domanda.

  FRANCO GALLO, professore emerito di diritto tributario presso l'università LUISS Guido Carli. L'argomento oggetto di questa indagine conoscitiva è molto difficile e pone in imbarazzo gli studiosi, perché, partendo dal presupposto che sia necessario tassare il reddito delle imprese multinazionali, ci si scontra poi contro l'obiettiva difficoltà di porre in essere procedure per applicare il tributo. Credo sia successo in tutti i Paesi d'Europa e del mondo. Attualmente anche negli Stati Uniti si stanno prendendo iniziative in questo senso.
  Ho organizzato la mia relazione nel senso di porre in evidenza i problemi e di individuare le proposte fatte a livello comunitario e a livello OCSE per ovviare a questo inconveniente della detassazione dei redditi delle multinazionali; nell'ultima parte della mia relazione farò qualche proposta, riportando qualche mia idea personale, da prendere quindi cum grano salis.
  L'economia digitale può essere analizzata sotto due profili, dal punto di vista fiscale. Il primo è quello del reddito delle digital entreprises che operano in tutto il mondo, le quali intervengono ponendo in essere, come soggetti non residenti, un'attività che non integra i requisiti della stabile organizzazione e trasferiscono i guadagni in paradisi fiscali, fatta salva l'ipotesi dell'imposta sulla pubblicità, la quale rimane sul territorio.
  Normalmente tali società passano attraverso Paesi come l'Irlanda, o l'Olanda, per arrivare a Bermuda, dove c’è una tassazione molto ridotta, addirittura quasi pari a zero. Non entro nei dettagli della questione; qualunque commercialista o fiscalista potrà farlo. Ciò premesso, il sistema, ormai noto, che viene utilizzato, è il «double Irish with a Dutch sandwich», un sistema che gioca sulla regola della doppia esenzione che esiste nei rapporti tra Stati. La maggior parte di queste società sono residenti negli Stati Uniti dove, negli anni passati, avevano fatto un accordo con il Governo per tassare il loro Pag. 4reddito al 2-3 per cento; ciò che si è poi verificato è che hanno spostato il reddito a Bermuda e quindi gli Stati Uniti ancora aspettano che arrivi il reddito «di risulta».
  Si tratta di un discorso molto complesso. Nella relazione scritta che ho consegnato ho inserito una nota molto lunga in cui spiego esattamente come funziona la triangolazione tra Olanda, Irlanda e Bermuda, partendo dagli Stati Uniti, e via dicendo. È inutile che vi parli di aspetti molto tecnici che attengono a come si elude legittimamente la tassazione. Rinvio, perciò, a tale nota.
  Si tratta di una situazione ben conosciuta a livello internazionale. L'OCSE se n’è occupata e il G20 si occupa, ormai, di questo tema in ogni sua riunione.
  Vi sono due vie per tassare l'economia digitale. La via più diretta è quella di tassare il reddito o, comunque, il patrimonio di queste società attraverso forme che si collocano tra l'imposizione sul reddito e l'imposizione para-patrimoniale.
  L'altra via è non tassare affatto le società ma il bene pubblico internet, cioè tassare l'utilizzo della rete internet. In questo caso si tratta di un'ipotesi completamente diversa, che non attiene al reddito prodotto dalle imprese, ma soltanto alla capacità contributiva dimostrata dal soggetto che utilizza internet, la comunicazione e l'informazione. Al riguardo, parleremo più avanti della bit tax.
  Qual è il punto cruciale che consente alle imprese multinazionali di sottrarsi al pagamento dell'imposta ? Si tratta del fatto che la loro attività è riconducibile a beni immateriali, gli intangibles, i quali sono, per loro natura, mobili; tutta l'economia delle imprese multinazionali si fonda su tale categoria di beni.
  L'uso massivo dei dati concernenti i consumatori, l'effetto network che deriva dall'interazione delle sinergie fra gli utenti, la tendenza a creare monopoli e oligopoli derivanti dalla combinazione dell'effetto network, sono le caratteristiche di cui approfittano le imprese multinazionali per sottrarsi al pagamento dell'imposta.
  Intendo dire che l'elevatissimo grado di dematerializzazione dell'industria digitale consente di evitare di avere una taxable presence nel territorio presso il cui mercato, invece, sono attive. Quindi, esse riducono e suddividono le funzioni, gli asset e i rischi nel territorio di più Stati, perché non hanno a che fare con un prodotto concreto, fisico, materiale, ma con un prodotto dematerializzato, cioè intangible.
  Pertanto, la presenza di questi beni immateriali, i quali sono beni fortemente remunerativi, favorisce il trasferimento infragruppo di questi beni al solo scopo di minimizzare il carico fiscale. Anche se si potesse configurare una taxable presence alla «fonte», queste imprese potrebbero pur sempre disporre di tecniche di erosione della base imponibile che consistono nella massimizzazione delle deduzioni per i pagamenti effettuati nei confronti dell’head office (la capogruppo) e di altre imprese del gruppo non residenti sotto forma di interessi, royalties, service fees. Le imprese sfruttano l'interposizione soprattutto di cosiddette «shell companies» – società quasi inesistenti dal punto di vista pratico, localizzate in diversi Paesi – per godere dei regimi convenzionali privilegiati. È un discorso complicato, ma credo che vi sia ben noto, trattandosi di una questione ampiamente trattata dalla letteratura.
  Quale domanda sorge spontanea al riguardo ? Come si fa a determinare e a misurare l'attività che questi soggetti svolgono nel territorio di un Paese senza avere una stabile organizzazione ? Ad esempio, Amazon ha un magazzino a Cagliari con 2.000 dipendenti, ma è appunto un magazzino, un deposito, non c’è la struttura che consente di integrare la stabile organizzazione.
  Come si può riuscire a trattenere un'attività nello Stato in cui queste società la svolgono e a tassarla ? Non si può tassarla come reddito, perché il reddito viene determinato e formato all'estero.
  L'OCSE ha pensato a varie soluzioni. La più importante e incisiva è quella della ripartizione dei profitti del gruppo tra i vari Paesi, i Paesi della cosiddetta «fonte» e quelli della residenza. In altre parole, non si guarda più al reddito prodotto Pag. 5prendendo come riferimento la presenza di una stabile organizzazione, ma si ripartisce il profitto in funzione di tutti i fattori che concorrono a formare il reddito e la ricchezza: i salari, le vendite, la destinazione degli assets, ciò si chiama apportionment.
  L'OCSE ha avuto questa idea, secondo me vincente, di non ragionare più in termini di risultato che va imputato a una stabile organizzazione, ma di scomporre le componenti del reddito, che vengono distribuite in funzione degli elementi che ho richiamato (assets, salari e così via).
  Se si riuscisse a portare avanti questa idea, ritengo potrebbe verificarsi l'effetto positivo di sostituire, in un sol colpo, sia il criterio della tassazione nello Stato di residenza sia il criterio della tassazione nello Stato d'origine, perché si opererebbe una ripartizione che funzionerebbe in un soggetto o nell'altro.
  Questa è un'idea che ormai l'OCSE porta avanti da molti anni. L'Unione europea l'ha fatta propria, in un primo momento, quando ha tentato di costruire una base imponibile comune dell'imposta societaria a livello comunitario, la Common Consolidated Corporate Tax Base (CCCTB), che è il consolidamento delle basi imponibili. Tuttavia, a livello comunitario, ci si è arrestati e non si è andati avanti a causa della reazione di Paesi come l'Olanda, l'Irlanda e così via. Rimane, quindi, questa proposta a livello OCSE, la quale potrebbe essere una delle soluzioni per cominciare a ripartire, all'interno dei diversi Paesi, queste entità, secondo la composizione del reddito. La Commissione europea ha operato bene: ha recepito le proposte dell'OCSE e ha emesso alcune raccomandazioni la più importante delle quali è, forse, quella relativa alla cosiddetta «pianificazione fiscale aggressiva». La Commissione ha suggerito l'adozione di una clausola anti-abuso comune a tutti gli Stati membri. Questo è un aspetto importante anche se, come vedremo più avanti, l'unico Paese che ha accolto questo consiglio è la Gran Bretagna.
  La Commissione chiede agli Stati membri di inserire nelle convenzioni bilaterali contro la doppia imposizione la regola del divieto della cosiddetta «doppia esenzione», su cui giocano le società multinazionali per avere questi vantaggi. Certo, se l'abolizione della doppia esenzione fosse adottata, saremmo in grado di mettere in crisi i sistemi di pianificazione aggressiva di cui vi ho parlato finora.
  Tutto ciò, tuttavia, non è avvenuto perché l'Unione europea garantisce agli Stati l'autonomia delle loro politiche fiscali e, quindi, i tentativi fatti dalla Commissione sono falliti. L'unica via percorribile potrebbe essere costituita dall'adozione di convenzioni bilaterali, ma non mi sembra si stia andando in questa direzione.
  La conclusione di questa mia premessa, un po’ generica, è che tutti questi atti dell'OCSE, della Commissione europea, sono atti di buona volontà, ma sono poco utili nella realtà a porre rimedio agli inconvenienti di cui stiamo trattando, perché operano sempre costruendo le alternative in modo tradizionale, con riferimento, ad esempio, alle convenzioni sulla doppia imposizione, alla scomposizione del reddito. Si guarda sempre alle stabili organizzazioni virtuali o, comunque, a espressioni di capacità contributiva significative, sempre misurate con il metro tradizionale.
  Come si supera questa impasse ? La si supera se si riflette in termini più generali, a livello teorico e scientifico, sulle fonti della ricchezza, sulla catena di creazione del valore, sui presupposti dell'imposizione e sulla ripartizione del potere di imposizione fra le diverse giurisdizioni. Credo siano questi i problemi centrali.
  Mi domando, come studioso, se siamo in una fase in cui c’è una trasformazione ovvero una crisi della fiscalità internazionale. Probabilmente la risposta è che si va nel secondo senso.
  Vediamo alcune proposte, quelle più concrete. Tutti i Paesi si sono adoperati su questi temi, compresa l'Italia con l'emendamento presentato dall'onorevole Boccia, ad esempio. L'OCSE ha presentato la proposta, che sembrava all'inizio molto interessante, Pag. 6di applicare una ritenuta a titolo di imposta sui pagamenti effettuati da soggetti residenti in un determinato Stato a titolo di corrispettivo dei beni digitali o dei servizi prestati dall'economia digitale.
  Questa proposta presuppone che il provider non residente realizzi un certo volume d'affari con la propria attività, in un determinato Stato, senza avere in tale Stato una stabile organizzazione. Come si è pensato di affrontare tale situazione ? Applicando una ritenuta sul prezzo che il residente paga al non residente che presta il servizio. Voi direte che si tratta di una soluzione piuttosto semplice e, infatti, l'OCSE all'inizio era ottimista: posto che i pagamenti internazionali per transazioni via internet si fanno tramite carte di credito e altri mezzi di pagamento elettronico, secondo l'OCSE si sarebbero potute incaricare le banche e gli istituti finanziari di effettuare tale ritenuta, dato che questi soggetti controllano i movimenti di pagamento.
  Tuttavia, ci si è resi conto, in primo luogo, che le banche hanno difficoltà ad accettare questa soluzione. Già ora svolgono la funzione costosa di intermediari per le operazioni sui redditi di capitale e i redditi diversi realizzate in Italia.
  In secondo luogo, non si tiene conto che non tutti i soggetti pagano con carte di credito, non tutti i soggetti utilizzano strumenti di pagamento elettronico che passano attraverso le banche. La maggior parte dei soggetti, infatti, non sono professional users, sono users e basta, quindi come possono i consumatori finali operare una ritenuta ? Dovremmo imporre tale obbligo al cittadino qualunque; mi pare che questa idea sia stata ormai superata perché irrealizzabile.
  Gli altri Stati si sono guardati intorno, e questa forse è la parte più interessante della mia relazione. Non vi parlo del caso spagnolo, perché tutti saprete che la Spagna ha provato a fare una sorta di prelievo, ma che in realtà non è un vero prelievo tributario, a favore degli editori. Sapete, però, che Google ha reagito chiudendo Google news e a quel punto non si è più proseguito su questa strada.
  Gli ungheresi ci hanno provato, non tassando le società multinazionali bensì l'uso di internet, dando alle multinazionali il diritto di rivalsa sul consumatore finale. In questo caso, c’è stata la reazione dei cittadini ungheresi, i quali sono scesi nelle piazze per lamentare che, invece di tassare le multinazionali, si tassavano i loro cittadini. Del resto, quello ungherese è un sistema particolare, perché non si fonda sul criterio di progressività delle imposte e prevede quindi molte imposte che sono basate sul mero criterio della proporzionalità e sono molto ridotte, con aliquote al 12-15 per cento. È un sistema poco improntato al rispetto del principio costituzionale italiano della progressività delle imposte e costituisce, quindi, un caso che non si può utilizzare come parametro.
  L'esempio che trovo più interessante (si tratta peraltro del mio punto di vista, ma vi anticipo che molti miei colleghi non sono d'accordo con me) è quello del Regno Unito. Il cancelliere dello Scacchiere Osborne ha convocato i rappresentanti delle multinazionali, ha detto loro che risulta che essi operano in Gran Bretagna svolgendo un'attività che produce redditi tassati poi nello Stato di Bermuda, e che la Gran Bretagna intende regolare tale situazione. Dunque hanno avviato con loro una forma, per così dire, di mediazione e di transazione.
  A fronte di ciò, le OTT non hanno dato la propria disponibilità a trattare. Quindi il Governo britannico ha adottato una norma, che entrerà in vigore il primo aprile di quest'anno, ma è già stata approvata, che viene chiamata «diverted profits tax». È molto interessante, perché si tratta di un'imposta che ha l'obiettivo di associarsi all'imposta societaria – ma non è un'imposta societaria – la quale colpisce i profitti diverted, cioè dirottati dalla Gran Bretagna nei Paesi a più bassa tassazione.
  Le ipotesi considerate dalla legge inglese sono due. La prima è quella in cui una società non residente effettui vendite o, comunque, operazioni rilevanti nel Regno Unito, senza la creazione di una stabile organizzazione. La legge britannica rimette all'amministrazione finanziaria, Pag. 7che, in verità, in quel Paese è molto efficiente, il potere di verificare se abbiano avuto luogo nel Regno Unito attività economiche (cito testualmente la legge inglese) connesse con la fornitura di beni e servizi a clienti residenti e strutturate in modo tale da non dar luogo a una stabile organizzazione.
  Quindi, se una multinazionale del settore digitale opera in questo modo, ossia non creando una stabile organizzazione ma avendo comunque una rete da cui ottiene ricavi, scatta il criterio previsto dalla legge inglese: in tutti i casi di operazioni che comportano l'esercizio di queste attività significative si applica, cioè, una norma a carattere antielusivo. In altre parole, alle società non residenti che realizzano forniture di beni e servizi a favore di utilizzatori residenti nel Regno Unito, nell'ipotesi in cui sia ragionevole assumere che l'attività economica svolta è diretta a evitare l'applicazione delle norme sui redditi prodotti mediante stabile organizzazione, si applica un'aliquota, che in Inghilterra è fissata al 25 per cento.
  È un caso classico che tutti conosciamo, di utilizzo dell'istituto dell'abuso del diritto. In Italia ci ragioniamo da tanti anni. La delega fiscale affronta anche questo tema.
  Gli inglesi non hanno, come noi, una norma generale anti-abuso che ha la sua fonte in una norma costituzionale, come la Corte di cassazione italiana ha sancito. Hanno costruito una specifica norma antielusiva molto dettagliata, che consente all'amministrazione di fare indagini sulle attività societarie. Se l'amministrazione finanziaria ritiene che venga svolta un'attività nel territorio della Gran Bretagna, svolge un'indagine al riguardo e determina i valori corrispondenti ai profitti che ritiene siano stornati verso l'estero.
  Questa è l'unica proposta legislativa che abbia un senso tra quelle di cui ho sentito parlare finora. Certo, è pericolosa, non tanto nell'ottica di un pericolo di fuga quanto nell'ottica dei problemi dell'abuso del diritto, dell'elusione e dell'accertamento delle attività elusive. Obiettivamente, però, un'amministrazione ben organizzata, con norme efficienti, a mio avviso potrebbe essere in grado, come avviene in Gran Bretagna, di fare questo tipo di accertamenti. Tuttavia, è una questione che attiene all'efficienza dell'amministrazione più che al senso della proposta legislativa.
  La Francia ha fatto un ragionamento abbastanza interessante. Si è completamente disinteressata del concetto di stabile organizzazione e non ha considerato l'attività delle multinazionali come un'attività che opera attraverso una stabile organizzazione occulta. Ha piuttosto guardato alla disciplina prevista per i tributi ambientali. Ha considerato che, in fondo, chi, come le digital enterprises, agisce così pesantemente raccogliendo dati, svolge un'attività che – come dicono i francesi nel loro rapporto ufficiale – è predatoria, è di raccolta gratuita, è callida. In altre parole, i soggetti si impossessano di dati senza averne l'autorizzazione, li raccolgono, li organizzano e da essi producono reddito. Tutto questo, secondo loro, inquina la rete e il sistema nel suo complesso e, al fine di impedire questo fenomeno, hanno pensato a un'imposta di tipo para-patrimoniale, che colpisce queste attività prima che diventino reddito. È un'idea interessante ma io ho qualche dubbio che sia vero che l'attività di Google sia un'attività capziosa, scorretta, addirittura predatoria e del tutto gratuita. Certo, l'attività di raccolta è svolta con i mezzi che conoscete; tuttavia, arrivare a punire chi svolge questa attività con un'imposta mi sembra una soluzione esagerata. Quindi, personalmente, scarterei la proposta francese.
  Torniamo quindi al discorso iniziale: come si può «toccare» fiscalmente la materia digitale ? Lo si può fare, o colpendo i redditi delle multinazionali e le loro attività che vengono svolte attraverso «non stabili organizzazioni» con i meccanismi – tutti da calibrare – di cui vi ho parlato, oppure tentando di affrontare il tema di un'imposta che colpisca il prodotto di internet. A tale riguardo, vi ricordo che, negli ultimi 7-8 anni, gli economisti hanno ipotizzato diverse imposte.Pag. 8
  Arthur Cordell ha «inventato» la «bit tax», apprezzata anche dall'OCSE che l'ha fatta propria. Questa tassa presenta tuttavia un inconveniente, che ne costituisce peraltro anche il vantaggio: è un'imposta planetaria. Va, cioè, applicata da tutti gli Stati a livello planetario, insomma necessita di un accordo mondiale che consentirebbe di colpire ciascun bit con una tassa di 0,00001 centesimi di dollaro. Non costerebbe molto; un fruitore medio non dovrebbe essere eccessivamente colpito da questo tipo di imposta.
  Servirebbe tuttavia un accordo tra tutte le giurisdizioni e, in questo momento storico, non mi pare sia un obiettivo semplice da raggiungere. Tuttavia, la bit tax è un'imposta molto interessante, perché diretta a tassare i dati trasmessi via internet usando come mediatori i common carriers, le telecomunicazioni. È un'imposta sulle telecomunicazioni, che potrebbe colpire anche la televisione, la radio, le reti satellitari e i sistemi via cavo. Non sarebbe difficile da applicare ma prevede un accordo tra gli Stati.
  Sarebbe interessante perché il relativo gettito, rilevante a livello mondiale, potrebbe essere destinato a fondi sociali: pensate ai Paesi dell'ONU, i quali hanno l'obiettivo di aiutare l'Africa o Paesi sottosviluppati.
  Gli economisti guardano con interesse a questa imposta, ma a me sembra si tratti di qualcosa ancora di là da venire. Se ci fosse un accordo su queste cose, allora ci sarebbe anche sulle proposte OCSE sulla doppia esenzione di cui ho detto.
  Prenderei in considerazione, invece, la richiamata imposta inglese. Nel momento storico contingente, un'imposta come questa è infatti abbastanza interessante. L'inconveniente, di cui vi ho già parlato, è che potrebbe comportare delle difficoltà applicative, perché richiede che l'amministrazione finanziaria sia in grado di determinare in via induttiva i profitti non tassati dallo Stato e dirottati in paradisi fiscali. Non dimentichiamo, tuttavia, che svolgono questo tipo di attività solo un ristretto numero di multinazionali. Si potrebbero quindi effettuare degli studi, a livello europeo (insieme agli inglesi), per riuscire a comprendere ciò che avviene in Italia e a incrociare questi dati con quelli degli altri Paesi. Si tratta di una questione molto delicata, ma forse questa potrebbe essere una via d'uscita.
  Il vantaggio di tale tributo, che per taluni può essere anche uno svantaggio, è che ruota tutto intorno al difficile concetto di elusione fiscale. Si tratta di un tributo che si applica in funzione dell'elusione posta in essere. Il presupposto per l'applicazione di tale imposta, la quale sarebbe un'imposta penalizzante – non essendo un'imposta societaria ma aggiungendosi ad essa – sarebbe l'aggiramento delle norme sulla stabile organizzazione, il quale viene perseguito attraverso procedimenti tecnici e negozi giuridici che hanno come esclusiva finalità quella fiscale.
  Si deve quindi supporre che le operazioni siano effettuate sul territorio e la base imponibile sarebbe costituita dagli stessi profitti che sarebbero stati tassati se le operazioni fossero state poste in essere attraverso una stabile organizzazione, cioè applicando le norme eluse. È ciò che si fa quando si accerta l'elusione.
  Non trovo altre vie d'uscita possibili, in questo momento, se la Commissione europea non riesce a mettere d'accordo gli Stati europei e ci si muove in un'ottica di accordi intergovernativi. Vi ringrazio per l'attenzione.

  PRESIDENTE. Grazie a lei, professor Gallo. Nell'attesa che i colleghi si iscrivano a parlare, se permette vorrei porle io una questione.
  Le pongo una questione di fondo, culturale e politica, approfittando anche dello spirito di un'indagine conoscitiva, che è una sede di approfondimento libero e fuori dagli schemi.
  Ammetto di non essere un ammiratore di questo genere di proposte fiscali e ammetto anche che la conclusione del mio ragionamento forse corrisponde troppo ai miei gusti culturali in materia fiscale. Ognuno deve sempre essere in grado di fare obiezioni a se stesso e non inseguire troppo i propri gusti. Ammetto, dunque, di Pag. 9non essere un ammiratore di questi strumenti fiscali, meno che mai se abbinati, come a volte accade, a normative di stampo novecentesco sul diritto d'autore, come nel caso delle pretese delle imprese radiotelevisive di trascinare nel nuovo secolo meccanismi di diritto d'autore propri del secolo scorso. Questo atteggiamento, abbinato a questo tipo di interventi fiscali, produce la fuga verso altri Paesi. Credo che gli esempi spagnolo e tedesco, con i relativi passi indietro che, alla fine, sono stati richiesti dagli stessi editori tradizionali, ne siano una prova.
  Tuttavia, lo ripeto, questo corrisponde ai miei gusti. Mi domando, professore, e la invito ad abbandonare ciascuno i propri schemi mentali e appartenenze culturali: non sarà sbagliato l'approccio europeo di chi si esercita su questo tema solo attraverso i verbi «colpire», «acchiappare», «prendere» ? Tale ragionamento vale sia per i Governi, sia per la dottrina.
  Non potrebbe darsi che proprio questo approccio esprima bene, ahimè, il declino europeo e il tentativo del morto europeo di afferrare il vivo, mentre, anziché inseguire impossibili armonizzazioni al rialzo, sarebbe forse il caso di adottare un'impostazione più liberale di concorrenza fiscale al ribasso, tale da rendere i nostri territori più attraenti ? Anziché avere l'approccio culturale di pensare che «questi mascalzoni» di Amazon e di Google ci prendono qualcosa, non sarebbe il caso di creare le condizioni per cui ci siano dieci Amazon e dieci Google che nascono qui (sto sognando, evidentemente), quindi di renderci noi degli aeroporti accoglienti dove possano atterrare, anziché degli inferni che neanche riusciamo a organizzare per «acchiapparli» ?

  FRANCO GALLO, professore emerito di diritto tributario presso l'università LUISS Guido Carli. Quello che lei dice sta già avvenendo: c’è libero mercato e le società operano senza problemi e inibizioni; a livello di reddito, hanno ormai profitti elevatissimi e, anche quando non fanno profitti, come Google, possiedono un patrimonio di borsa molto elevato. Pertanto, non avrei queste preoccupazioni. La immaterializzazione del bene che loro vendono è ormai talmente diffusa !
  Vorrei leggervi le ultime righe della mia relazione scritta, perché prevedevo questa osservazione. La proposta inglese aprirebbe la porta a forme innovative di tassazione, tutte da studiare, sulla mera presenza e sull'esistenza di un valido nesso economico con il territorio – che non è la stabile organizzazione, ma qualcosa di diverso – nonché sull'uso del mercato locale dall'esterno. Questo è importante: l'uso del mercato locale da fuori; il Paese Italia che è condizionato dall'esterno da qualcuno.
  Insomma, la caratteristica positiva di questo tipo di imposizione è che essa si limiterebbe a garantire il diritto degli Stati alla tutela e alla protezione delle proprie basi imponibili, senza mettere in discussione i princìpi e le libertà economiche, nel rispetto del diritto fondamentale del privato a operare liberamente sui mercati.
  Non so se questa risposta la soddisfa. Si tratterebbe di un prelievo diretto solo a contrastare la pianificazione fiscale aggressiva e l'abuso del diritto, che la stessa Unione europea condanna. Questo tipo di imposta non condiziona la concorrenza nel mercato, bensì condiziona la concorrenza fiscale dannosa tra Stati, alcuni avvantaggiati, altri lesi nel loro interesse erariale.

  PRESIDENTE. Infatti, tra tutte le soluzioni prospettate quella inglese è la meno illiberale e forse anche la più efficace.
  Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  FILIPPO BUSIN. Pongo una domanda semplice. Visto che la diverted profits tax, che deve entrare in vigore ad aprile, si basa su una valutazione induttiva del profitto sottratto al mercato in cui avviene la vendita, le chiedo: questo può verosimilmente provocare un problema a livello giurisdizionale, nel caso in cui Google o queste multinazionali si oppongano a Pag. 10quanto verificato, visto che le basi di calcolo sono induttive e basate su stime ?
  Può farci una previsione circa gli eventuali conflitti internazionali che potrebbero scaturire da questo tipo di tassazione ?

  FRANCO GALLO, professore emerito di diritto tributario presso l'università LUISS Guido Carli. Questo è il vero problema. Un'amministrazione efficiente e un tribunale attento possono decidere volta per volta. Si tratta di questioni attinenti alla fase applicativa della norma. Certo, quando si parla di abuso del diritto sappiamo, vivendolo sulla nostra pelle qui in Italia, che ci sono dei rischi.

  MARCO CAUSI. Quale sarebbe il tribunale competente ?

  FRANCO GALLO, professore emerito di diritto tributario presso l'università LUISS Guido Carli. Quello inglese, in questo caso.

  PRESIDENTE. Attenzione, perché qualcuno proporrà una superprocura !

  MARCO CAUSI. Credo che con l'audizione del professor Gallo la nostra indagine conoscitiva entri nella sua fase calda. Abbiamo ascoltato proposte e analisi molto interessanti.
  Vorrei porre due questioni. La prima riguarda il profilo della stabile organizzazione. Mi sembra di capire che, sia in sede OCSE, sia in sede G20, sia in sede europea, la strada maestra ipotizzata sia quella della revisione del concetto di stabile organizzazione. Se ben ricordo, il concetto attuale di stabile organizzazione, accettato a livello internazionale, è molto antico, risale agli anni Cinquanta ed è quindi collegato a uno stato della tecnologia, dei trasporti e delle comunicazioni assolutamente «preistorico» rispetto a quello attuale. Questa è quindi la strada maestra da seguire.
  Che previsioni possiamo fare su come andare avanti con questa first best ? Mi domando se il fatto che non si riescono a raggiungere accordi internazionali in questa materia sia solo legato all'interesse di alcuni Paesi particolarmente potenti, come l'Olanda o lo stesso Regno Unito, oppure se non ci siano aspetti teorici e metodologici da approfondire.
  Il ragionamento sul fatto che teoricamente dovremmo ripartire i profitti per legislazione di consumo, piuttosto che di produzione, funziona in modo diverso per i beni materiali rispetto ai beni non materiali.
  Quando mio figlio compra su internet un paio di scarpe o una tuta, c’è qualcuno da qualche parte che produce le scarpe o la tuta, quindi c’è un'unità produttiva ospitata in un Paese. Tradizionalmente i Paesi attraggono le unità produttive per avere posti di lavoro e per avere un flusso fiscale; dato che la produzione ha anche delle esternalità, le unità produttive che producono le scarpe, o qualsiasi altro bene materiale comprato su internet, pagano le imposte nel Paese dove è situata la stabile organizzazione, perché è quello il Paese che, accogliendole, sopporta anche dei costi.
  Naturalmente, a questo punto, una totale ridefinizione del concetto di stabile organizzazione, predicata solo sui beni immateriali, andrebbe contro gli interessi dei Paesi produttori nei quali sono localizzate le unità produttive e, in particolare, quelle che hanno esternalità negative. Se le unità produttive producono soltanto bit o «creatività», le esternalità sono evidentemente molto più basse. C’è da capire, quindi, se in questa cosiddetta «strada maestra» o first best del partitioning si possa pensare a un equilibrio fra Paesi consumatori e Paesi produttori. Il Paese consumatore, come possono essere l'Italia, la Francia o la Spagna, non può dimenticare infatti che esistono anche i Paesi produttori.
  Quindi, la mia prima domanda è se sia possibile pensare a una revisione del concetto di stabile organizzazione che tenga anche conto degli interessi dei Paesi produttori.
  La seconda è una domanda secca. Vista la proposta a cui vanno le preferenze del professor Gallo e vista la norma generale Pag. 11anti-abuso del diritto che abbiamo inserito nella legge delega per la riforma del fisco e che stiamo, com’è auspicabile, per attuare con un prossimo decreto legislativo di cui lei è a conoscenza, essendo il presidente di un gruppo di lavoro istituito dal Ministro dell'economia che ha esaminato anche questo tema, la norma generale anti-abuso che abbiamo inserito nella nostra legislazione è compatibile con questa norma specifica anti-abuso che sta per essere sperimentata in UK ?

  FRANCO GALLO, professore emerito di diritto tributario presso l'università LUISS Guido Carli. Chi di voi ha esperienza di cose legali ricorderà la famosa sentenza Philip Morris: questa multinazionale, che produce sigarette e tabacco, aveva la sua principale sede europea in Svizzera e non aveva una stabile organizzazione in Italia; quindi produceva in Italia redditi rilevantissimi, che non erano tassati perché imputati alla casa madre svizzera.
  La Cassazione italiana ha anticipato queste tematiche con una sentenza molto bella, che ricordavo sempre ai miei studenti, in cui ha affermato che la Philip Morris, pur non avendo una vera e propria stabile organizzazione, aveva tuttavia una ramificazione di rapporti tra la Svizzera e il territorio italiano, che passava attraverso soggetti, attività e depositi i quali consentivano di imputare una ricchezza ad essa. Quindi, le sentenze della Cassazione hanno stabilito che la Philip Morris dovesse essere tassata in Italia.
  Non è forse questo l'inizio, in via giurisprudenziale, dell'evoluzione delle vicende di cui ci stiamo occupando ? In fondo, a cosa tende l'OCSE ? A elaborare un concetto di stabile organizzazione che non sia legato al reddito d'impresa costruito su attività tradizionali, come la produzione di mattoni o pietre, bensì sui beni immateriali. L'OCSE ha affermato: manteniamo la stabile organizzazione per quanto riguarda le attività tradizionali, mentre, soltanto per ciò che riguarda l'economia digitale, cambiamo le regole. Mi sembra una soluzione corretta, se ci fosse l'accordo degli Stati (che tuttavia ancora non c’è).
  Un dato positivo, a mio avviso, è la proposta fatta dal Presidente degli Stati Uniti di recuperare dalle multinazionali che hanno la residenza negli Stati Uniti il gettito che il Paese ha perso negli ultimi anni. Come ho ricordato all'inizio della mia relazione, c’è infatti un accordo fra gli Stati Uniti e queste società perché queste paghino il 2 o 3 per cento di tasse sui redditi.
  In questa vicenda peraltro è successo qualcosa che ha molto disturbato gli Stati Uniti: queste società residenti non hanno riportato nel Paese i loro redditi ma li hanno spostati a Bermuda e gli Stati Uniti sono ancora in attesa che tali redditi tornino nel loro territorio.
  Tale vicenda probabilmente può essere l'indice di una disponibilità, a livello internazionale, a operare in questo settore attraverso un certo tipo di meccanismi. Credetemi, il reddito sottratto a tassazione è rilevantissimo, non soltanto in Italia, ma in tutto il mondo.
  Gli Stati Uniti hanno fatto delle valutazioni sul reddito figurativo, ipotetico, che avrebbero potuto tassare ed è rilevantissimo. Qualcosa dovrà accadere in proposito.
  Con riferimento all'altra questione posta dall'onorevole Causi: non vedo un problema di incompatibilità con la norma generale anti-abuso, che riguarda le ipotesi in cui un'attività è svolta soltanto a fini fiscali senza ragioni economiche. In quel caso, l'amministrazione finanziaria svolge una verifica che fa emergere la non economicità dell'attività, bensì l'esclusivo fine fiscale dell'attività stessa e l'uso distorto di strumenti negoziali. Nel caso di specie, non siamo di fronte a una norma generale di questo tipo. Abbiamo una norma specifica anti-abuso che è costruita proprio sul reddito delle multinazionali che operano nel territorio del Paese. Nel nostro ordinamento, noi abbiamo moltissimi casi di norme specifiche anti-abuso che si aggiungono alla norma generale. Si Pag. 12tratterebbe di una norma specifica, che prende in considerazione una determinata circostanza.

  MARCO CAUSI. Si tratta quindi di norme tra loro compatibili ?

  FRANCO GALLO, professore emerito di diritto tributario presso l'università LUISS Guido Carli. Sì, come lo sono le numerose norme anti-abuso italiane specifiche già vigenti con il sistema dell'abuso generale.

  GIOVANNI PAGLIA. A differenza sua, presidente Capezzone, credo che stiamo parlando di un tema decisivo. È evidente infatti che, se le imprese multinazionali, che riescono a essere in cima alla catena globale di estrazione del valore sono anche tax free, abbiamo un problema: le tasse sarebbero esclusivamente a carico di chi ha difficoltà a pagarle, il quale si vedrebbe oltretutto schiacciato, rispetto alla produzione del valore, dai soggetti più grandi.
  Ho l'impressione tuttavia che, in qualche modo, stiamo inserendo nel dibattito elementi tra loro differenti: da un lato, la tassazione delle multinazionali, dall'altro la tassazione dell'economia digitale, le quali in parte coincidono ma non sono la stessa cosa. Parliamo di due ambiti diversi, in realtà, perché la tassazione delle multinazionali vale anche per FCA, per esempio, mentre l'economia digitale sfugge al prelievo anche per altre ragioni. Nelle multinazionali tradizionali ci possono aiutare gli strumenti dell'abuso del diritto, della stabile organizzazione e dell'elusione; nel caso dell'economia digitale questi elementi ci aiutano, invece, meno, perché ci troviamo di fronte a soggetti economici i quali effettivamente non hanno una stabile organizzazione e non stanno necessariamente abusando del diritto. Si tratta di un tema del tutto aperto.
  Anche nell'economia cosiddetta digitale, io tenderei a vedere una differenza, ad esempio, fra Amazon e Google: una è comunque una catena commerciale che vende beni all'interno di un Paese; l'altra è una catena completamente immateriale che trae valore da tutt'altro. Se ho capito bene, la proposta francese può intervenire su Google, ma non su Amazon, perché interviene sull'utilizzo di dati. Ci sono anche imprese multinazionali che non hanno stabile organizzazione, ma ciononostante non vengono minimamente colpite da una tassazione che intervenga sui bit. L'idea della bit tax peraltro mi convince pochissimo; lo dico in anticipo.
  Fatta questa premessa, vorrei porre alcune domande.
  La proposta OCSE di una tassazione in qualche modo multinazionale, ripartita rispetto ai consumi, mi sembra potenzialmente interessante, però mi chiedo come potrebbe coniugarsi con l'assenza di un'armonizzazione fiscale, se ogni Stato poi tassa secondo le proprie aliquote. Sarebbe interessante poter dire a quelle multinazionali che esse vengono tassate a livello multinazionale secondo un'aliquota standard il cui gettito sarà poi distribuito nei diversi Paesi. Diversamente mi sembra un'ipotesi difficile da gestire tecnicamente. Tuttavia, potrei sbagliarmi e su questo le chiedo quindi un ulteriore chiarimento.
  Per quanto riguarda il sistema inglese, vorrei capire se ho compreso bene. Quando parliamo di reddito trasferito all'estero, la prima domanda è se questo venga concepito al di fuori e indipendentemente da un accertamento giudiziario circa il fatto che lo stesso sia stato prodotto in assenza di stabile organizzazione. In altre parole, vengono individuati dei soggetti e si dà per scontato che si trovino in quella condizione ?
  In secondo luogo, quando parliamo di reddito trasferito all'estero, intendiamo reddito trasferito all'estero in qualsiasi modo, anche attraverso le pratiche di profit shifting ? Una royalty pagata alla casa madre è considerata, secondo la norma che hanno approvato in Inghilterra, automaticamente sottoposta a questo surplus di tassazione ? Parlo di una royalty o dell'utilizzo di un marchio e via dicendo. Mi sembra sia quella la questione decisiva. Per quel poco che so, ma forse mi sbaglio, quella è la prassi che normalmente viene utilizzata da questi soggetti.Pag. 13
  C’è un trasferimento di costi, non è semplicemente un dividendo che se ne va, altrimenti sarebbe più semplice.

  FRANCO GALLO, professore emerito di diritto tributario presso l'università LUISS Guido Carli. È chiaro che le ipotesi sono due: c’è chi, come Amazon, fa vendite e chi, come Google, raccoglie dati. Per quanto riguarda le vendite, è chiaro che c’è un prezzo che qualcuno paga per comprare, ad esempio, un libro. Tutti sappiamo come funziona. In questo caso, il problema è capire dove Amazon va a produrre il proprio reddito: infatti, incassa il prezzo in Italia, da un lettore italiano, organizza il tutto con una sua struttura che in pochi giorni fa arrivare il bene all'acquirente, tuttavia il ricavo viene trasferito altrove.
  Questo però rientra nel discorso complessivo generale, perché si tratta di un modo di far diventare un ricavo, un corrispettivo, deducendo i costi, un reddito tassato fuori dal Paese.
  Poi c’è l'ipotesi di Google, che invece, come dicono i francesi, raccoglie dati in modo predatorio, ne approfitta, entra nel privato e così via. In questo caso, Google raccoglie i dati, li mette insieme, li somma e organizza, e li utilizza personalizzandoli attraverso la pubblicità (la mattina presto, quando apriamo il computer, troviamo la pubblicità che deriva dall'informazione e dalla raccolta dei dati). Questo costituisce un problema di reddito che non viene tassato in Italia, nonostante l'attività di raccolta si svolga in Italia, presso utenti italiani.
  Mi sembra che il discorso alla fine si congiunga.

  CARLA RUOCCO. La materia è sicuramente complessa e, comunque, se non si passa attraverso un'armonizzazione dei sistemi fiscali, difficilmente se ne verrà a capo.
  Vorrei riportare la vostra attenzione sulla situazione in Europa. La direttiva sulle prestazioni dei servizi, la n. 8 del 2008, ha fondamentalmente spostato la tassazione dal luogo di residenza del prestatore al luogo di residenza del committente. A suo parere, tale direttiva è venuta incontro a questo tipo di esigenze, dato che in effetti questo spostamento era stato concepito proprio per una tassazione più consona alla nuova economia digitale ?

  FRANCO GALLO, professore emerito di diritto tributario presso l'università LUISS Guido Carli. L'Unione europea, dal primo gennaio di quest'anno, ha previsto il meccanismo del «Mini One Stop Shop» (MOSS): i servizi di telecomunicazione, di teleradiodiffusione saranno assoggettati a IVA con un meccanismo di inversione del soggetto. Penso che noi italiani dovremmo applicare tale nuovo sistema.
  Ho qualche dubbio che questa operazione sia facile. Qual è la difficoltà ? I prestatori di attività devono rispettare tutte le regole in materia di IVA vigenti nei Paesi in cui i consumatori finali sono residenti o domiciliati. Questo significa che chi opera con il MOSS deve conoscere e applicare il complesso delle norme IVA in vigore negli Stati membri. Quindi, se c’è uno Stato membro consumatore, una società italiana deve conoscere tali norme, anche se le operazioni vengono formalmente effettuate in Italia.
  Non è una piccola complicazione. Spero che questo sistema funzioni, ma speriamo bene.

  ERNESTO CARBONE. Professor Gallo, più che porle una domanda vorrei confrontarmi con lei su un punto. La norma che regola la stabile organizzazione d'impresa è l'articolo 162 del Testo unico delle imposte sui redditi, il quale, al comma 5, esclude esplicitamente che, quando si hanno degli elaboratori elettronici sul territorio, ci sia stabile organizzazione. Noi però abbiamo due dati certi che possiamo facilmente ricavare: l'utilizzo della rete nazionale, mobile, fissa o satellitare, e gli indirizzi IP. Tutte le volte che qualcuno si collega c’è modo di sapere se ha un indirizzo IP italiano o francese o inglese.
  Secondo lei, è possibile arrivare a stabilire che ci sia stabile organizzazione d'impresa quando vengono utilizzate queste Pag. 14«strade digitali», anche partendo dall'estero ? Ad esempio, come per la Philip Morris, se ho i miei server in Svizzera e mando dei servizi a Roma (e questo lo riscontro facilmente perché vedo che utilizzo la mia rete e vedo l'indirizzo IP), potrebbe essere questo il parametro per stabilire che ci sia stabile organizzazione in Italia ? Soprattutto quando parlo di pubblicità e poi di vendita di prodotti, quindi sia nel caso di Google sia nel caso di Amazon.

  FRANCO GALLO, professore emerito di diritto tributario presso l'università LUISS Guido Carli. Questo è il problema: ciò non è possibile. Se fosse possibile fare un accertamento dicendo che c’è una stabile organizzazione occulta, quindi operare applicando la norma italiana, non ci sarebbe problema.
  In effetti, la dematerializzazione comporta che non ci sono le condizioni e i requisiti previsti dalla legge italiana perché ci sia una stabile organizzazione. Questo è il problema.

  ERNESTO CARBONE. Io parlo proprio di modificare l'articolo 162 del TUIR, cioè arrivare a modificare la nozione giuridica di stabile organizzazione.

  FRANCO GALLO, professore emerito di diritto tributario presso l'università LUISS Guido Carli. Ci sono le convenzioni sulla doppia imposizione fiscale; questa non è quindi una questione che può essere risolta in Italia in modo unilaterale, ma va affrontata anche negli altri Stati. Occorre infatti modificare una convenzione. L'OCSE vuole arrivare a questo e infatti avanza proposte nel senso di dire «cambiamo il concetto di stabile organizzazione, chiamiamola significativa, chiamiamola virtuale» e propone, a tal fine, dei parametri diversi da quelli classici tradizionali, come ad esempio la ripartizione dei salari e altre condizioni.
  Tale mutamento va realizzato, però, quantomeno a livello europeo. È un problema di convenzioni sulla doppia imposizione fiscale. Nel momento in cui, tutti d'accordo, ci daremo dei criteri che daranno importanza al rapporto economico e a determinati elementi, che non sono quelle tradizionali, che sono quelli meno rilevanti ma qualificanti, avremo trovato la soluzione. Purtroppo, l'Italia non ha autonomia, da questo punto di vista.

  PRESIDENTE. Ringraziamo molto il professor Gallo per il tempo che ha trascorso con noi e per le sue valutazioni.
  Autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna della documentazione consegnata dal professor Franco Gallo (vedi allegato) e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 15.10.

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