XVII Legislatura

VI Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 3 di Mercoledì 25 febbraio 2015

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Pelillo Michele , Presidente ... 2 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE TEMATICHE RELATIVE AGLI STRUMENTI FINANZIARI DERIVATI

Audizione del Professor Cesare Conti.
Pelillo Michele , Presidente ... 2 
Conti Cesare , Professore di Finanza aziendale presso l'Università Bocconi di Milano ... 2 
Pelillo Michele , Presidente ... 8 
Pesco Daniele (M5S)  ... 9 
Paglia Giovanni (SEL)  ... 9 
Causi Marco (PD)  ... 10 
Pisano Girolamo (M5S)  ... 11 
Pelillo Michele , Presidente ... 11 
Conti Cesare , Professore di Finanza aziendale presso l'Università Bocconi di Milano ... 11 
Causi Marco (PD)  ... 14 
Conti Cesare , Professore di Finanza aziendale presso l'Università Bocconi di Milano ... 14 
Pisano Girolamo (M5S)  ... 14 
Conti Cesare , Professore di Finanza aziendale presso l'Università Bocconi di Milano ... 14 
Paglia Giovanni (SEL)  ... 14 
Conti Cesare , Professore di Finanza aziendale presso l'Università Bocconi di Milano ... 14 
Pelillo Michele , Presidente ... 14 

ALLEGATO: Documentazione depositata dal professor Cesare Conti ... 15

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: (FI-PdL);
Area Popolare (NCD-UDC): (AP);
Scelta Civica per l'Italia: (SCpI);
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Lega Nord e Autonomie: LNA;
Per l'Italia-Centro Democratico: (PI-CD);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero-Alleanza per l'Italia: Misto-MAIE-ApI;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI;
Misto-Alternativa Libera: Misto-AL.

Testo del resoconto stenografico
Pag. 2

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE MICHELE PELILLO

  La seduta comincia alle 14.40.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione del Professor Cesare Conti.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle tematiche relative agli strumenti finanziari derivati, l'audizione del Professor Cesare Conti.
  Do la parola al professore Conti in attesa che, al termine della sua relazione, i colleghi possano rivolgerle domande o richieste di chiarimento.

  CESARE CONTI, Professore di Finanza aziendale presso l'Università Bocconi di Milano. Buongiorno a tutti. Mi fa molto piacere essere qua oggi e spero di dare un contributo utile ai lavori di quest'indagine parlamentare.
  Mi soffermerò sul tema dell'utilizzo dei prodotti derivati nelle imprese e negli enti territoriali, il quale è abbastanza specifico nell'ambito dalla problematica dei derivati in generale. Cercherò, in particolare, di affrontarlo individuando problemi e soluzioni che potrebbero caratterizzare questi derivati, articolando la mia presentazione tra soluzioni già intraprese e soluzioni eventualmente ancora aperte.
  Si tratta della materia che insegno all'università e che studio da diversi anni; cercherò di sintetizzarla, essendo una materia complessa, nel minor tempo possibile e cercando di adottare un linguaggio il più semplice possibile, perché mi rendo conto che si tratta di una materia tutt'altro che facile.
  A questo scopo vi ho consegnato due documenti: una traccia argomentata dei temi che affronterò e 5 slide che presenterò oggi e che mi aiuteranno nell'esposizione, nel senso che vi aiuteranno a seguirmi meglio. Naturalmente, resterò a disposizione nel caso in cui vi fossero delle domande per chiarire ulteriormente alcuni temi.
  Ho cercato di individuare cinque domande, per ciascuna delle quali c’è una slide. Passo in rassegna le domande che affronteremo una alla volta. La prima domanda è: perché i derivati sono problematici ? La seconda è: quali mancanze hanno esasperato la problematicità dei derivati ? Ci sono, infatti, degli aspetti tecnici di prodotto di per sé importanti e poi delle variabili di contesto. Il terzo punto, invece, è: quali problemi si sono in concreto manifestati ? Il quarto punto è: quali sono i rimedi già adottati a livello istituzionale e regolamentare ? Credo, infatti, che abbia senso che la Commissione conosca anche i rimedi già intrapresi e i possibili eventuali ulteriori rimedi. La quinta e ultima domanda è: quali sono i possibili ulteriori rimedi ?
  Parto dal primo punto, e cioè dalla ragione per cui i derivati sono prodotti problematici, non nel senso che creano dei problemi, ma nel senso che non sono Pag. 3banali, bensì abbastanza complessi. Una prima ragione della loro complessità è che è oggettivamente difficile capire se sia economicamente opportuno coprire i rischi finanziari (tasso d'interesse, tasso di cambio e prezzi delle commodities) utilizzando i prodotti derivati.
  Su questo tema vi è un'ampia letteratura, che sintetizzo così: i derivati sono utili se usati con finalità di copertura quando consentono di finanziare le perdite inattese e di garantire in tal modo la realizzazione del piano degli investimenti programmati. Se si manifesta una perdita inattesa, il derivato aiuta a finanziarla, quindi da questo punto di vista i derivati sono un po’ delle sentinelle degli investimenti o, se preferite, del piano industriale di un'azienda. Quando questo accade, i derivati fanno bene perché preservano il vantaggio competitivo di un'impresa rispetto alle altre, in tal modo mantengono basso il costo dei finanziamenti e per tale via mantengono il valore dell'impresa, cioè consentono al valore dell'impresa di non affossarsi.
  Al tempo stesso, però, i prodotti derivati, se non utilizzati con finalità di copertura, sono «pericolosi» perché – questa è una loro caratteristica – se si manifestano delle perdite sui prodotti derivati, queste possono nel tempo condurli ad avere un valore di mercato negativo, con conseguente maggior debito per le aziende, le quali vedono così aumentare il loro passivo. Al tempo stesso, si manifestano dei flussi di cassa in uscita per l'azienda e, se perdura nel tempo, questa è una spirale viziosa che può produrre effetti molto negativi.
  Sicuramente, quindi, i derivati sono utili e hanno una loro finalità ben precisa, ma se usati male sono pericolosi. Il punto è che anche usarli bene non è facile, per tre ordini di motivi. In primo luogo, perché tra rose pressoché infinite di possibili prodotti, è difficile selezionare quelli giusti. In secondo luogo, il pricing, cioè la possibilità di dare un prezzo ai derivati, è molto complesso; si tratta di una variabile molto rilevante, su cui torneremo in seguito. In terzo luogo, essi richiedono molta competenza anche dopo l'acquisto: sia in termini di reporting, che devono essere fatti all'interno delle aziende, sia per adempiere alla compliance sia regolamentare che contabile, cioè per rispettare gli obblighi di legge relativamente all'uso dei prodotti derivati. Abbiamo spiegato, quindi, perché i derivati sono prodotti problematici, nel senso che hanno caratteristiche di prodotti non banali.
  Mi soffermerei ora sul secondo quesito, relativo a quali mancanze hanno esasperato la problematicità dei derivati. In primo luogo, è mancata la capacità di governance, nel senso che il board delle imprese di fatto non aveva le competenze e le capacità per indirizzare e controllare il processo di utilizzo dei prodotti derivati, quindi è mancata quello che nelle imprese è un documento importante, ossia la financial risk policy, una politica formalizzata che descrive le modalità di utilizzo dei prodotti derivati: quando ha senso usarli, in che misura, quali prodotti derivati, e così via.
  Sono mancate, inoltre, una disciplina e le competenze manageriali sia al momento dell'acquisto sia dopo l'acquisto. Al momento dell'acquisto, non sono sempre stati comprati prodotti derivati giusti proprio per la difficoltà di selezionarli, ma soprattutto spesso è stato difficile attribuire loro il prezzo giusto.
  Questo tema merita un minimo di attenzione, perché dare un prezzo ai prodotti derivati comporta investimenti in tecnologia e in capacità di pricing e in competenze di cui solo le banche o le grandi imprese riescono a dotarsi. La grande impresa o la banca, infatti, ha volumi di negoziazione dei derivati che consentono di fare questi investimenti, mentre le imprese che hanno meno derivati evidentemente non possono dotarsi di questa capacità di pricing.
  Ciò ha determinato un aspetto rilevante, cioè l'asimmetria nella capacità di pricing tra enti e imprese, da un lato, e intermediari finanziari, dall'altro. Questo è stato molto importante. Tenete conto che, per quanto riguarda il pricing, il fatto di negoziare un derivato adesso o tra cinque Pag. 4o dieci minuti può avere differenze di prezzo molto rilevanti. Se non si è capaci di monitorare queste variazioni di prezzo, su operazioni importanti pochi basis point possono significare tanti milioni. O si è capaci di farlo, quindi, o si perde qualcosa.
  È mancata, inoltre, la trasparenza contabile nell'utilizzo di derivati. Per molto tempo, i derivati sono stati iscritti off-balance-sheet, cioè non nel bilancio, e al costo storico. Ciò ha significato, in pratica, che alla chiusura del bilancio non era data la possibilità di conoscere il valore di mercato dei derivati, e tale fenomeno si è verificato per molto tempo. Queste sono, quindi, le tre mancanze principali: di governance, di capacità manageriali e anche di opacità dei bilanci.
  Per fare un esempio un po’ forzato, è come se un paziente volesse prendere l'antibiotico senza avere la prescrizione medica, senza prestare attenzione a scegliere quello giusto, oltre che senza una certa disciplina nell'usarlo nei giorni giusti e nel dosaggio giusto, e senza la possibilità di verificare se tale antibiotico nel corso del tempo faccia effetto o meno. Questo è quello che è successo relativamente all'uso dei prodotti derivati.
  Vengo quindi al terzo quesito, per esporre i problemi che si sono concretamente manifestati per effetto dell'uso dei prodotti derivati. La combinazione delle circostanze di cui abbiamo parlato, cioè la problematicità del prodotto, le mancanze manageriali e l'opacità contabile, hanno di fatto determinato un utilizzo di derivati che definirei un po’ anarchico e opaco.
  Ciò ha incentivato comportamenti opportunistici, a volte anche fraudolenti, nella catena di relazioni e di interessi che legano, innanzitutto, chi eroga i prodotti derivati, cioè gli intermediari finanziari, il management finanziario amministrativo che compra i prodotti derivati e, infine, il board.
  Cito un esempio di comportamenti opportunistici: il caso di un normale contratto di finanziamento a cui è associato un prodotto derivato di copertura del rischio di interesse, quindi un normale strumento di finanziamento con un prodotto di copertura, molto diffuso per esempio nell'ambito del project financing.
  Capite che, se valgono tutte le premesse che ho anticipato, chi eroga il prodotto derivato insieme al finanziamento ha tutta la convenienza a praticare un tasso di interesse molto basso, perché tutti sanno capire il tasso di interesse, è visibile nel bilancio, conveniente per l'impresa. Allo stesso tempo l'intermediario può «rifarsi» applicando un prezzo non altrettanto conveniente sul prodotto derivato, il quale è più opaco e non risulta dal bilancio. Capite che, se quest'atteggiamento è portato alle sue estreme conseguenze, causa evidentemente un uso quantomeno disinvolto, e anche un po’ perverso, dei prodotti derivati, i quali non sempre sono stati utilizzati quando servivano e a volte sono stati utilizzati da contesti aziendali che non erano in grado di usarli.
  Dopo la negoziazione dei derivati, poco alla volta i nodi sono, per così dire, «venuti al pettine», attraverso la manifestazione di perdite e di flussi di cassa negativi di cui vi parlavo. Si è trattato di un amaro risveglio dopo un torpore un po’ incauto, che ha causato un cambiamento di atteggiamento da parte delle imprese, le quali sono passate da un atteggiamento un po’ inconsapevole a uno ingiustificatamente negativo e diffidente nei riguardi dei derivati. Tutti e due questi atteggiamenti affondano le radici in un'ignoranza di base su tali prodotti: tanto l'uno, prima, quanto l'altro, dopo, di diffidenza.
  Questo cambiamento di atteggiamento ha, però, anche causato un repentino cambiamento e un maggiore ricorso, sia da parte delle imprese sia da parte degli enti, ai tribunali, a volte per valide ragioni, altre volte, onestamente, meno. Poiché i tribunali sono stati investiti di problematiche tecniche non banali, hanno fatto fatica in alcuni casi a trovare competenze adeguate per risolverle. Nel corso del tempo, quindi, a una difficoltà tecnica si è aggiunta una difficoltà anche di natura giuridica.
  Vengo al quarto punto, e cioè a quali siano i rimedi che sono già stati adottati, perché è importante sapere che cosa è stato fatto dopo questa fase iniziale un po’ Pag. 5pericolosa dei primi anni. Negli ultimi dieci anni, sono accadute fondamentalmente tre cose dal punto di vista regolamentare.
  Innanzitutto, l’accounting è molto migliorato per effetto di princìpi contabili internazionali, in base ai quali, soprattutto alle società quotate, è richiesto un insieme di documentazione che, da un lato, ha reso i prodotti derivati molto più trasparenti nel bilancio, e dall'altro, ha creato un effetto, forse inatteso, di riduzione nell'uso di tali strumenti.
  Ciò è accaduto perché per il management era difficile motivare al proprio board, per esempio, le perdite sui derivati ora visibili nei bilanci, anche laddove esse fossero giustificate. Una perdita sui derivati di per sé non è un fatto negativo se essi sono usati con finalità di copertura, ma è difficile da spiegare al board. D'altro canto, la documentazione richiesta in ambito contabile è diventata molto impegnativa. Di fatto, quindi, le norme nuove contabili hanno prodotto più trasparenza e, al tempo stesso, anche un minore uso dei prodotti derivati.
  La seconda regolamentazione intervenuta – sempre a livello internazionale, che tocca non solo l'Italia, ma tutti i Paesi europei e gli USA – è la cosiddetta regolamentazione EMIR (European Market Infrastructure Regulation), che riguarda il mercato dei derivati over the counter, cosiddetto OTC, cioè quello nell'ambito del quale le negoziazioni avvengono tra l'impresa o l'ente, da un lato, e la banca dall'altro.
  Questa regolamentazione ha inciso su diversi aspetti. Vi riporto, in sintesi, quelli secondo me più rilevanti dal vostro punto di vista. Anzitutto, è stato ridotto il rischio di controparte; non mi soffermo su tale aspetto perché presenta aspetti tecnici troppo complessi. Credo, invece, che possa essere interessante dal vostro punto di vista il fatto che questa regolamentazione abbia molto accresciuto il livello di trasparenza del mercato, attraverso l'istituzione dei cosiddetti trade repository; si tratta sostanzialmente di banche dati a cui tutte le imprese che negoziano strumenti derivati devono trasmettere le relative informazioni e dati.
  Si tratta di un fatto importante per chi vuole svolgere un'indagine conoscitiva sui derivati, perché i dati contenuti in questi repository sono messi a disposizione dei regulator, e quindi, nel contesto italiano, della Consob, che dovrebbe già essere nelle condizioni di avere un insieme di informazioni molto completo e ricco su tutti i prodotti derivati utilizzati da chiunque. Credo che questo fatto meriti una certa attenzione dal vostro punto di vista.
  Un terzo intervento è la cosiddetta normativa MiFID (Markets in Financial Instruments Directive), che ha riguardato, sostanzialmente, la trasparenza dei prodotti derivati applicata dagli intermediari finanziari nell'erogazione dei prodotti stessi. In pratica, gli intermediari sono tenuti a dare un insieme di informazioni sui derivati che vendono e a profilare le esigenze delle imprese.
  Questa materia è ad oggi al centro dell'attenzione per effetto di un'iniziativa intrapresa, sempre a livello comunitario, da ESMA (European Securities and Markets Authority), da EBA (European Banking Authority) e da EIOPA (European Insurance and Occupational Pensions Authority), authority europee che si stanno concentrando su questo tema.
  Questi tre rimedi, quello relativo all’accounting, quello che riguarda i mercati e la normativa MiFID hanno prodotto ottimi risultati. La situazione si è quindi molto rasserenata. Se prima avevo delineato un quadro «catastrofico», di fatto questi interventi hanno migliorato molto la situazione.
  Al tempo stesso, però, credo sia opportuno prendere atto di taluni altri aspetti che meritano di essere considerati. In primo luogo, questi tre provvedimenti non sono stati pensati sposando la prospettiva delle imprese e degli enti. L’accounting è stato pensato per salvaguardare gli investitori attraverso l'informazione in bilancio; altri aspetti di regolamentazione sono stati concepiti per rendere il mercato dei derivati più sicuro; la MiFID è stata pensata Pag. 6nella prospettiva delle banche e in particolare della trasparenza che esse devono adottare nell'erogazione dei prodotti derivati. Le imprese e gli enti , quindi, sono state toccati di sponda da tutti questi interventi, ma non sono stati al centro dell'attenzione.
  Ciò significa che gli aspetti di criticità che ho individuato in relazione a imprese e enti, cioè la mancata capacità di governance e la mancata capacità gestionale, sono aspetti che permangono.
  Il secondo punto che, a mio avviso, merita attenzione dal punto di vista di un'indagine parlamentare come la vostra è quello che riguarda l’accounting. Esso è stato applicato infatti alle società quotate, ma molto meno a quelle non quotate, le quali rappresentano la maggioranza. Tutte le imprese che non applicano i princìpi contabili internazionali si trovano ancora in una situazione abbastanza provvisoria. Negli atti di recepimento delle direttive comunitarie a questo riguardo, erano stati assunti dei provvedimenti a suo tempo attraverso decreti legislativi per l'attuazione delle disposizioni facoltative che riguardavano la contabilizzazione dei prodotti derivati. Mi sembra peraltro che essi non siano ancora stati realizzati dal 2008.
  Un tema che, secondo me, merita quindi di essere indagato è quello della contabilizzazione anche da parte delle società non quotate e degli enti. Per quanto riguarda gli enti, di fatto mi sembra che ci sia un progetto dell'OIC, Organismo italiano di contabilità, risalente al 2011, che però non ha avuto un seguito.
  Inoltre, l'implementazione di queste regolamentazioni non è stata effettuata nello stesso modo, cioè con la stessa sollecitudine e lo stesso rigore, in tutti i Paesi europei. In alcuni Paesi esse sono state attuate più velocemente e seriamente che in altri. Si tratta anche di capire, quindi, una volta adottata la regolamentazione, come viene attuata e se i controllori svolgono un'attività di controllo per verificare se tutto ciò che è stato previsto viene realizzato.
  In sintesi, sebbene buona parte dei problemi sperimentati in passato si siano progressivamente ridimensionati, a tutt'oggi rimangono secondo me delle criticità, percepite soprattutto da parte delle imprese che appartengono ai Paesi più severi, le quali sono consapevoli che in quei mercati si è creato uno spazio economico nuovo che prima non c'era, occupato dai cosiddetti consulenti finanziari indipendenti specializzati nella gestione dei rischi finanziari, i cosiddetti independent financial risk advisor.
  Si tratta di soggetti che fanno grossi investimenti in tecnologia e competenza, e quindi sono in grado di supportare le imprese e gli enti sia nel decidere quali prodotti comprare sia a che prezzo comprarli, oltre che nella realizzazione di tutte le fasi successive che riguardano la compliance contabile e regolamentare. Questi soggetti producono un report, in cui viene certificato tutto ciò che viene fatto, così risolvendo, in buona parte, i problemi dei conflitti di interesse sia interni all'azienda tra board e management, laddove vi fossero, sia tra impresa e banca. L'asimmetria nella capacità di pricing, per esempio, viene in gran parte risolta attraverso gli advisor finanziari esterni indipendenti.
  Vengo al quinto e ultimo punto, cioè ai possibili ulteriori rimedi. Prima di parlare di possibili rimedi, sgombrerei il campo dal dubbio circa l'utilizzo o meno dei prodotti derivati. La mia posizione, certamente discutibile, è che il discorso merita di essere articolato distinguendo tra imprese da un lato ed enti dall'altro.
  Per quanto riguarda le imprese, mi sembra davvero improbabile pensare di eliminare il ricorso ai prodotti derivati. Se è vero che i derivati sono le sentinelle degli investimenti e dei piani di investimento industriali, perché finanziano le perdite inattese, inibirne l'utilizzo nel solo contesto domestico determinerebbe uno svantaggio competitivo notevole per le nostre imprese, che denoterebbero un rischio molto maggiore in termini comparati rispetto alle altre imprese non domestiche e quindi anche un costo dei finanziamenti più alto. Sarebbe quindi una soluzione che mi sembra molto onestamente non praticabile. Pag. 7Creerebbe uno svantaggio competitivo delle nostre imprese rispetto alle imprese estere concorrenti.
  Mi rendo conto che il discorso sugli enti è più delicato e complesso ma io constato che, come molti di voi sanno meglio di me, per molti enti il debito è una delle forme di entrata principali, insieme alle tasse: poiché il debito degli enti territoriali altro non è che un rinvio nel tempo delle imposte, ne consegue che un debito fuori controllo si riflette, in prospettiva, sui taxpayer. Una cattiva gestione del debito è un cattivo servizio, quindi, nei riguardi di chi paga le tasse.
  Poiché i derivati sono una componente importante per la gestione del debito, farne a meno è quanto meno discutibile, ancorché, come mi sembra abbia ricordato la dottoressa Cannata nel corso della sua audizione, nel contesto italiano gli enti per il momento non fanno uso di prodotti derivati. Secondo me, quindi, il tema non è tanto l'uso o meno dei prodotti derivati, ma che gli enti dovrebbero avere una politica di gestione del debito. Una volta che ci fosse quella, usare o meno i derivati diventa una questione di dettaglio. Pur non utilizzando i prodotti derivati, anche una decisione banale, come quella di emettere a tasso fisso o variabile, senza una politica di gestione del debito è, evidentemente, una decisione difficile.
  Se non pare ragionevole, dunque, rinunciare ai derivati a priori, ha senso ragionare sulle possibili soluzioni che potrebbero ovviare ai problemi che ancora residuano, i quali, come vi ho già detto, riguardano le imprese e gli enti. Sono consapevole del fatto che vi sono molte soluzioni in un senso o nell'altro. Mi concentrerò su una in particolare, che giudico la più convincente: una soluzione che va nel senso di incentivare le imprese a rafforzare le competenze necessarie per gestire i rischi. Andrei in questa direzione, promuovendo un rafforzamento e un avvicinamento delle nostre imprese ai modelli virtuosi già adottati dalle imprese degli altri Paesi.
  Che cosa si potrebbe fare per raggiungere quest'obiettivo ? Forse potrebbe essere presa in considerazione l'introduzione di un sistema molto snello di certificazione, basato su due documenti, che potrebbero essere autoprodotti dalle imprese o anche delegati a dei certificatori esterni specializzati.
  In particolare, identificherei due tipi di certificati: una sorta di «patente», che altro non sarebbe se non un documento che riassume la financial risk policy, la quale è finora sempre mancata. Essa serve a esplicitare, in modo molto semplice, quali derivati un'azienda può usare, perché e in che misura, come una specie di prescrizione medica, ex ante.
  Serve a far capire se ha senso usare questi strumenti, se ci sono cioè motivazioni di tipo economico e, eventualmente, come e quando usarli. È una specie di patente che idealmente fa una profilazione interna all'azienda anziché delegata alla banca. Dovrebbe essere quindi un documento che l'impresa presenta poi alla banca, la quale, sulla base di essa, farà le proprie proposte.
  A mio avviso, tuttavia, questo tipo di documento non è sufficiente. Non basta sapere, infatti, che cosa fare, poiché poi ciò va fatto, concretamente, bene. Servirebbe, quindi, anche una specie di report di conformità e congruità: a fronte di ciascuna transazione in derivati servirebbe una certificazione la quale attesta che i derivati sono stati stipulati conformemente a quanto previsto nella patente, e che ciò è stato fatto al prezzo giusto. Questo è un secondo tipo di certificazione che si propone di fare trasparenza sul concreto utilizzo dei prodotti derivati. Pertanto, i report relativi alle singole transazioni dovrebbero essere consultabili dai revisori e dagli organi aziendali di controllo, mentre un report sintetico di conformità/congruità annuale dovrebbe essere riportato nel bilancio, tra le note integrative.
  L'iniziativa e la responsabilità della certificazione dovrebbe fare capo, a mio giudizio, al board delle imprese o agli organi di governo degli enti territoriali, seppure con un distinguo. Le imprese potrebbero avere un'ampia autonomia nella scelta tra autocertificazione o certificazione Pag. 8esterna, perché le imprese di maggiori dimensioni, in quanto già dotate di competenze e tecnologie, sono facilmente in grado di produrre un'autocertificazione. Il discorso è diverso, invece, per gli enti. Almeno per la mia esperienza, in essi le competenze interne sono molto più contenute e, al tempo stesso, è maggiore l'interesse a tutelare la stabilità. In questo caso, vedo molto più difficile che si possa ricorrere a un'autocertificazione, mentre una certificazione esterna rilasciata da soggetti specializzati mi sembra la soluzione migliore.
  Il medesimo sistema di certificazione, secondo me, potrebbe essere utilizzato anche per chiudere le posizioni in derivati già in essere, laddove fossero ritenute problematiche. A questo riguardo, la soluzione tecnica più diffusa per chiudere i prodotti derivati è quella di emettere nuovo debito o ristrutturare il debito esistente. In sostanza, si prende il derivato vecchio che si vuole chiudere, che di solito ha un valore di mercato negativo, e lo si trasforma in un debito – inglobandolo quindi in un nuovo debito futuro – ristrutturato o di nuova costituzione. Questo, peraltro, è anche quanto previsto attualmente dalla legge per le Regioni, e forse meriterebbe di essere esteso ad altre situazioni di dimensioni rilevanti.
  Trovo che questa soluzione prevista per le Regioni sia molto ragionevole, ma credo che meriti di essere preso in considerazione un aspetto critico: anche qui servirebbe una certificazione sul valore di mercato del derivato chiuso. Posto che è difficile, come vi ho spiegato, dare un valore al derivato chiuso, se nessuno certifica il suo valore e poi questo è inglobato nel debito, il valore di mercato di quel derivato è una variabile importante. Una certificazione che riguarda la congruità e la conformità di quel prodotto derivato alla ristrutturazione del debito merita, quindi, di essere presa in considerazione. Anche questo tema può meritare, a mio avviso, un certo approfondimento.
  Concludo soffermandomi su due aspetti distintivi di questo sistema snello di certificazione. Uno risiede nei suoi princìpi ispiratori, mentre il secondo negli eventuali sforzi implementativi nella prospettiva del legislatore.
  Quanto ai princìpi ispiratori, tutto fa perno sulla responsabilizzazione del board, fulcro del sistema, che dovrebbe incentivare il board stesso ad acquisire competenze al suo interno, oltre che all'esterno dell'impresa. Queste competenze, infatti, esistono già. Si tratta semplicemente di andarsele a procurare sul mercato. Questo incentivo darebbe modo di ottenere l'obiettivo proprio, a mio avviso, del sistema di certificazione, ossia il rafforzamento della competenza e della tecnologia utilizzata dalle imprese nell'uso dei prodotti derivati.
  L'ultimo punto è lo sforzo di implementazione a carico del legislatore e anche il costo. Secondo me, questo aspetto non è difficile da risolvere. Sarebbe sufficiente: 1) da un lato predisporre alcune linee guida circa i contenuti minimali dei due certificati; 2) dall'altro identificare requisiti stringenti per l'iscrizione e la permanenza in un apposito Registro da parte dei soggetti abilitati a svolgere la certificazione esterna.
  Il costo della certificazione verrebbe così trasferito per intero sulle imprese, per le quali però esso non ha delle implicazioni competitive, dal momento che gli aziendalisti lo definirebbero un costo necessario e normale, cioè fisiologico per le aziende. Sono costi che tutte le altre aziende estere già normalmente sostengono per utilizzare i prodotti derivati. Da questo punto di vista, quindi, non avrebbe un impatto così significativo.
  Spero di non aver abusato troppo del vostro tempo. Ho cercato di rimanere nei tempi che mi erano stati indicati e mi fermo. Mi rendo conto di aver affrontato molti temi, forse esposti velocemente. Sono volentieri a vostra disposizione qualora fossero necessari chiarimenti. Vi ringrazio per l'attenzione.

  PRESIDENTE. Ringraziamo il professor Conti per il suo contributo e per aver impostato la sua relazione puntualizzando questi cinque aspetti, i quali possono Pag. 9senza dubbio essere una guida agevole in una materia così complessa.
  Prima di passare la parola all'onorevole Pesco, vorrei fare una brevissima riflessione sulla quinta questione da lei posta, che mi sembra quella di maggior interesse in questa sede, collegandola con un aspetto che lei ha evidenziato all'inizio della sua relazione, e cioè l'eccessiva opacità nei comportamenti registrati nell'ambito dell'utilizzo di questo tipo di contratti in passato, la quale ha creato tantissimi problemi.
  La complessità dello strumento, la difficoltà di comprensione, la frequente stesura dei contratti non in lingua italiana hanno spesso attribuito all'intermediario finanziario un potere straordinario, di cui qualcuno certamente ha abusato. Da questo punto di vista, ritiene che le sue proposte sul quinto punto possano essere sufficienti a colmare questo gap di trasparenza, che nei fatti si è rivelato particolarmente dannoso ?
  Do ora la parola agli onorevoli colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  DANIELE PESCO. Ringrazio innanzitutto il professore per la relazione. Avrei qualche domanda, la prima delle quali in merito alle cosiddette «porte girevoli»: come valuta il fenomeno per cui molti dirigenti di istituti finanziari vengono poi assunti dalla pubblica amministrazione e in quest'ultima veste provvedono all'acquisto di prodotti derivati, magari anche dalla stessa banca da cui provenivano e viceversa ?
  Inoltre, penso che spesso sui derivati siano riconosciuti premi molto ingenti ai dirigenti degli istituti bancari: può indicarci l'ordine di grandezza di questi premi ?
  Mi interesserebbe inoltre sapere se, secondo lei, attualmente, presso le strutture pubbliche e private possano esserci dei prodotti derivati simili a quelli che sono stati oggetto di procedimenti giudiziari e se, quindi, non sarebbe utile operare una sorta di scansione degli strumenti posseduti dagli enti pubblici, compreso lo Stato, per verificare se vi siano prodotti critici, per i quali magari sono già state emesse sentenze dagli organi della magistratura.
  Quanto al profilo di rischio, speravo riuscisse ad accennarvi, ma immagino si tratti di un tema abbastanza complesso. So che esistono due metodi per calcolarlo, uno probabilistico e un altro un po’ più difficoltoso: tali metodi sono stati utilizzati in passato ? Sa se siano utilizzati attualmente o se lo saranno in futuro ? Non servirebbe uno strumento chiaro grazie al quale si possa evincere, fin dalla sottoscrizione del prodotto, l'entità delle possibili perdite ? Non dovrebbe essere obbligatorio istituire un tetto alle possibili perdite per chi sottoscrive questi strumenti finanziari ?

  GIOVANNI PAGLIA. La ringrazio per l'illustrazione chiara e interessante e che credo costituisca un contributo molto utile. Farò, più che domande, delle considerazioni anche a vantaggio della Commissione.
  Ho apprezzato molto l'enfasi o, comunque, l'attenzione posta su due questioni: quelle della competenza e della trasparenza, e il fatto che si dica che alcuni problemi del passato abbiano avuto a che fare con la presenza di un management delle imprese in parte inadeguato a interagire con tale tipo di strumenti finanziari, il quale aveva, come «controparte», board che non disponevano di informazioni sufficienti o delle competenze necessarie a interpretarli adeguatamente. Ciò attiene al tema della competenza e a quello della trasparenza rispetto ai contratti e quant'altro.
  Dato che qui ci interessiamo dei derivati rispetto sia al settore privato sia a quello pubblico, faccio presente alla Commissione – domani avremo di nuovo un'audizione della dottoressa Cannata – che tali temi valgano anche per il settore pubblico. Dovremmo, per esempio, assicurarci, anche rispetto al MEF – anche solo attraverso le poche valutazioni che ci consente di effettuare la pubblicazione di un curriculum – che le competenze di chi, Pag. 10nella pubblica amministrazione, ha a che fare con questi strumenti, siano certificate. Peraltro, si tratta anche di una questione di trasparenza.
  Lo stesso discorso vale per il controllo «a monte», che spetterebbe a noi. È infatti evidente che, sebbene forse il Parlamento non abbia le competenze necessarie a giudicare dei contratti derivati, esso è il tramite attraverso cui questi contratti diventano trasparenti per il Paese. Ho chiesto e chiederò di nuovo che anche i contratti derivati pubblici siano messi a disposizione del Parlamento in base a una norma elementare di trasparenza, e perché ritengo che il fatto che, attraverso questo tramite, essi possano essere analizzati da chiunque nel Paese non peggiori la sicurezza finanziaria del Paese stesso e, anzi, possa migliorarla, attraverso un confronto pubblico sui contratti e gli strumenti utilizzati.
  A tale richiesta ci è stato risposto che ci sarebbe, invece, da opporre un vincolo di segretezza o riservatezza. A me sembra assurdo e non particolarmente credibile che in un mercato gestito da pochi soggetti, tra poche grandi banche d'affari, esistano segreti rispetto alle condizioni medie che si applicano agli Stati, soprattutto a Stati ritenuti mediamente rischiosi come l'Italia. Chiedo quindi se, a suo avviso, un elemento di maggiore trasparenza sui contratti derivati sottoscritti dal settore pubblico potrebbe comportare un aumento del rischio e del costo o, piuttosto, un elemento positivo di trasparenza.

  MARCO CAUSI. Ringrazio il professore per la relazione. Ho due domande da porre.
  Sicuramente sarà venuto a conoscenza di un dato che ha fatto scalpore, presentato dall'Ufficio parlamentare di bilancio qualche settimana fa, in coincidenza con l'inizio di quest'indagine conoscitiva, in base al quale l'attuale mark to market del complesso dell'operazione sui derivati delle amministrazioni centrali ha un segno negativo e con un numero anche abbastanza alto.
  In merito a tale circostanza, posto che queste operazioni sono state fatte dallo Stato italiano a copertura del rischio di tasso sul debito a tasso fisso, quindi sul BTP a tasso fisso, e quindi in sostanza a copertura dal rischio di aumento del tasso d'interesse, è sbagliato o meno pensare, come io tenderei a fare, che sia naturale trovarle oggi con un mark to market negativo ?
  Evidentemente, con i tassi d'interesse crollati a zero in questo momento, la copertura assicurativa non scatta e la valutazione della congruità o meno di quei contratti andrebbe fatta su un periodo di tempo molto lungo, in base a un modello probabilistico che tenga conto dell'oscillazione dei tassi d'interesse. Le chiedo un parere su questo dato, reso pubblico dall'Ufficio parlamentare di bilancio, il quale ha, come spesso accade nel campo della finanza derivata, suscitato commenti un po’ superficiali.
  La seconda domanda che voglio porle è sulla proposta del sistema di certificazione che lei ha fatto alla fine della sua esposizione. Vorrei chiederle se, sulla base della sua esperienza, ritenga che in Italia ci sia un pool di risorse professionali indipendenti e adeguate per costituire un sistema di certificazione indipendente come quello che lei propone.
  Per quanto riguarda la mia esperienza da amministratore pubblico locale, nel primo decennio degli anni Duemila, forse anche prima, a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila, questo pool non c'era ed era evidentissimo che non ci fossero molte expertise e che, quindi, il rapporto che si instaurava tra amministrazioni pubbliche e banche, e forse anche tra imprese e banche, presentasse forti asimmetrie informative. Era infatti molto difficile, per un'impresa o un'amministrazione pubblica, trovare risorse indipendenti che asseverassero o certificassero.
  Nel mio caso specifico, un po’ particolare perché relativo al più grande comune d'Italia, potemmo permetterci il lusso di costruire un ufficio interno apposito, come naturalmente non in tutti i comuni è possibile, e di chiedere all'allora Direttore Pag. 11generale del Tesoro, nell'ambito dei rapporti di leale collaborazione, di inviare un dirigente del Tesoro, che svolgeva questo lavoro sul debito pubblico nazionale, presso il Comune di Roma a gestire questa contrattualistica. Tantissimi altri enti i quali, invece, non hanno internalizzato queste competenze, hanno avuto gravi problemi di asimmetria informativa.
  Qualche anno fa, a me sembrava, paradossalmente – forse oggi non è più così – che le maggiori competenze fossero proprie di coloro i quali gestiscono il Tesoro. Sono stati poi stabiliti dei limiti per gli enti locali, nella direzione indicata dall'ANCI anche su mia proposta e a seguito di una mia battaglia, con l'obiettivo di assoggettare il ricorso degli enti locali e territoriali a questi mercati a un coordinamento dello Stato centrale, centralizzando quindi, in qualche modo, questa operatività, presso la piattaforma di competenze dell'ufficio attualmente diretto dalla dottoressa Cannata, che costituiva un pool di competenze fidato, il quale operava in assenza di altri pool di competenze.
  Le chiederei, se può, quindi, descriverci come si è evoluto il mercato della professionalità e se, quindi, un operatore privato o pubblico italiano possa trovare un certificatore indipendente che abbia sufficienti conoscenze, ma soprattutto che possa garantire sufficiente indipendenza rispetto al sistema finanziario.

  GIROLAMO PISANO. Rispetto alle osservazioni svolte ho il dubbio che spesso la maggioranza usi a suo vantaggio l'argomentazione di alcune tesi. Stiamo parlando di contratti che hanno un valore non soltanto in quanto tali, ma anche per la provvigione prevista alla loro stipula. Sostanzialmente, quindi, ci sono diversi interessati alla stipula dei contratti derivati, non solo l'ente pubblico, l'impresa, la banca o le istituzioni che li emettono, ma anche il certificatore o l'intermediario commerciale.
  Secondo me, gli albi, la centralizzazione di uffici, per quanto pubblici, ovvero l'ipotesi di lasciare al libero mercato la presenza, e quindi l'accesso, a certificatori indipendenti, sono tutte strade che presentano ciascuna i propri rischi. A mio avviso, andrebbero percorse tutte contemporaneamente per dare a un ente pubblico amministrato onestamente la possibilità di avere una visione veritiera del contratto che sta firmando. Sinceramente, non mi fiderei a prescindere né del sistema burocratico né di un albo istituzionalizzato, che già in passato abbiamo visto cosa abbia prodotto in altri casi.
  Relativamente alla slide 4, ha parlato della possibilità da parte della Consob di accedere a una serie di informazioni: vorrei conoscere, se possibile, di quale tipo di informazioni si tratta e sapere se all'interno della banca dati a disposizione della Consob siano presenti tutti i contratti derivati, nessuno escluso, o se ci si riferisca esclusivamente a quelli stipulati dopo una certa data, in cui questo registro è stato istituito.
  Sostanzialmente, ho la stessa domanda per la nuova normativa MiFID, che ha citato: nei contratti derivati preesistenti è stato posto l'obbligo di adeguarsi o tale obbligo riguarda soltanto quelli successivi alla regolamentazione ?

  PRESIDENTE. Do ora la parola al professor Conti per la replica.

  CESARE CONTI, Professore di Finanza aziendale presso l'Università Bocconi di Milano. Vi ringrazio innanzitutto per le numerose domande che mi avete posto. Nei limiti del possibile, cercherò di rispondere a tutte, andando nell'ordine in cui le ho annotate.
  La prima domanda riguardava l'opacità nei comportamenti e la complessità di comprensione dei contratti, anche dal punto di vista contrattuale. Si tratta di un'asimmetria, anche dal punto di vista delle conoscenze giuridiche, tra chi stipula il contratto derivato, banca ed ente o impresa.
  A questo riguardo, gli advisor indipendenti che esistono a livello mondiale svolgono una verifica, anche dal punto di vista contrattualistico, sui contratti ISDA (International Swaps and Derivatives Association), Pag. 12di cui controllano le singole clausole in modo che esse non siano penalizzanti per chi le sottoscrive. Anche questo fa quindi parte dell'attività svolta dagli advisor indipendenti più evoluti, e ne costituisce anzi uno dei punti chiave.
  Io li ho visti lavorare: non intervengono al momento della chiusura del contratto, bensì molto prima, per lavorare su di esso e, per esempio, per fare i cosiddetti «dry run», ossia delle simulazioni di chiusura di derivati o di stipula di derivati, interagendo con le banche per confrontarsi sui metodi applicati nel pricing e arrivare alla fine a un pricing condiviso. Anche questi aspetti legali, quindi, possono essere affrontati anche in una fase antecedente alla stipula dei contratti su prodotti derivati.
  Relativamente ai quesiti posti all'onorevole Pesco, ometterei di esprimermi sul tema delle cosiddette «porte girevoli», perché mi sembra che si commenti da sé; ciascuno può fare le proprie valutazioni. Mi sembra che tale aspetto non meriti ulteriori commenti e che si giudichi da sé.
  Passo ora alla domanda sui bonus molto rilevanti che sono stati corrisposti. Essi hanno costituito uno stimolo. Attualmente, per la verità, molto meno, ma originariamente, in un momento in cui c'era molta asimmetria nella capacità di pricing tra le banche, le imprese e gli enti, e chi lavora in banca è remunerato anche sulla base di bonus, questi sono stati, evidentemente, anche rilevanti. Onestamente, non so quantificarli, però c'era un sistema perverso che forniva incentivi in questa direzione. Atteneva a tutto quello di cui abbiamo detto, cioè all'opacità e alla non visibilità dei derivati nei bilanci. Evidentemente, come spesso accade, dove il mercato è più opaco si annidano più problematiche.
  Credo che valga la pena di fare una scansione dei prodotti derivati e che essa sia opportuna, però vorrei precisare che il punto non è identificare i prodotti derivati di per sé problematici. Non esistono, cioè, prodotti problematici o non problematici in sé: è il loro uso che può essere problematico, nel senso che il rischio è connesso al loro cattivo utilizzo.
  Un prodotto anche banale, come uno swap plain vanilla, il più semplice di tutti, se usato a sproposito, può produrre danni perché non è usato con finalità di copertura. Non è, quindi, una questione di tipologia di prodotto, ma di capire come il prodotto viene usato. Anche nei casi che ho avuto modo di verificare nell'ambito degli enti, raramente si trattava di prodotti particolarmente complessi. Erano abbastanza semplici. La questione era se chi li usava sapesse farlo e valutarli. Questo è il punto.
  Con riguardo al profilo di rischio, probabilistico o meno, da lei sollevato, è un dibattito piuttosto lungo. I tre enti governativi che le citavo, l'ESM, l'EBA e l'EIOPA, in realtà si stanno occupando proprio di questa materia, proponendo una soluzione che va nel senso probabilistico.
  Personalmente, penso che sia utile, ma, anche in questo caso, non credo che un'ottima e complessa informativa, com’è quella probabilistica, sia necessariamente compresa dall'utente. C’è bisogno di qualcuno che la capisca, quindi c’è di nuovo un problema di competenze. È un po’ come per i «bugiardini» dei medicinali: possono essere anche molto completi ma è necessario comprenderli.
  Lo stesso vale per le automobili: si possono fornire ottime istruzioni per guidare un'automobile, ma poi, per guidarla, probabilmente le istruzioni non bastano. È, quindi, utile, ma a mio avviso serve altro. I certificati di cui si parlava vanno, a mio avviso, in quella direzione. È quello «l'addome molle» su cui, secondo me, conviene operare.
  Per quanto riguarda il tema della competenza e della trasparenza, per gli enti territoriali, le imprese e gli enti pubblici, compreso il Tesoro, si applicano, a mio avviso, le regole che ho enunciato.
  Premetto che non è il mio ambito principale di competenze, ma credo sia opportuno che venga descritta una politica di gestione del debito – come mi sembra sia stato fatto dalla dottoressa Cannata nel corso della sua audizione in Commissione Pag. 13– fornendo linee guida, le quali sono assimilabili a quella che io chiamavo la «patente».
  A latere di ciò, a mio avviso, serve anche capire cosa in concreto si faccia, cioè se le cose che si fanno siano confacenti ai contenuti della «patente» e siano fatte a condizioni di mercato giuste.
  Non so valutare in termini competitivi il fatto che un Paese fornisca più informazioni di altri dal punto di vista del debito e che implicazioni possa avere. Penso che ne abbia molte, ma questo è un tema che non so valutare. Ciò premesso, preferirei una maggiore trasparenza piuttosto che correre il rischio di non sapere chi stia facendo cosa e come. Questo è il mio punto di vista.
  Si presuppone che ci sia una grande competenza presso la Direzione generale del Tesoro, sicuramente tale competenza c’è, come è stato affermato, però sostanzialmente è un «si dice»: crediamoci. In passato hanno dato prova di possedere tale competenza, ma al momento dati in tal senso misurabili concretamente non ve ne sono.
  Questo è un ambito rispetto al quale parlo in base alla mia sensibilità, ma non ho una competenza specifica come in altri settori.
  Quanto al tema sollevato del segno negativo delle operazioni sui derivati delle amministrazioni centrali, un segno negativo non vuol dire niente di grave di per sé. Si tratta di capire perché ci sia. Se ci si è coperti dal rischio d'interesse del debito pubblico in un contesto in cui i tassi sono scesi, è presumibile che il valore di mercato dei derivati sia negativo, e anche ampiamente negativo. Ciò non vuol dire che il Tesoro non abbia stabilizzato il tasso di interesse al quale remunera il debito. Di per sé, quindi, le perdite non sono un sintomo negativo.
  Di nuovo e una volta di più, serve una risk policy precedente, perché essa consente di capire in un momento successivo se i prodotti derivati sono stati usati bene; se non esiste tale politica ex ante, è facile dire che essi vanno bene perché hanno segno positivo, o vanno male perché hanno segno negativo. Ex post si può dire tutto e il contrario di tutto, ma deve essere detto in coerenza con ciò che è stato deciso prima.
  Anche nell'ambito di molti enti territoriali a me è capitato di assistere a grandi polemiche perché i derivati erano di segno negativo e, dopo tre o cinque anni, verificare che gli stessi derivati erano di segno ampiamente positivo, costituendo anche, in alcuni casi, una fonte di entrata significativa per gli enti pubblici. Per dare una risposta alla domanda dell'onorevole Causi, ritengo non sia sorprendente che le operazioni in derivati della Repubblica italiana abbiano un mark to market negativo.
  Quanto al tema che sollevava l'onorevole Causi in relazione all'adeguatezza delle risorse professionali in tale materia e ai soggetti esistenti, nel contesto italiano, per quanto mi risulta, essi sono relativamente pochi e di dimensioni modeste. Di contro, nel contesto anglosassone ci sono colossi con 200-300 dipendenti e oltre, che investono molto nelle tecnologie idonee a determinare correttamente il pricing dei derivati e, proprio perché operano su scala globale, e quindi possono utilizzare questa tecnologia su un mercato molto ampio, hanno ragion d'essere e lavorano molto bene.
  Ce ne sono di molto capaci, quindi esiste un mercato di soggetti forti in quest'ambito e ha senso, secondo me, che tale mercato si sviluppi, perché esso risponde a un'esigenza concreta degli operatori, che non vedo facilmente risolvibile in altro modo, per esempio attraverso la centralizzazione delle competenze. Le soluzioni sono queste: o si accentrano le competenze (ad esempio in una sorta di Authority) o si lascia che gli operatori utilizzino le competenze già disponibili sul mercato, posto che le competenze sul mercato ci sono. Credo che la seconda soluzione sia meno costosa, sia affidabile e dia comunque modo di ottenere il risultato desiderato.
  Passo a rispondere all'onorevole Pisano, il quale parlava di albi e di centralizzazione Pag. 14di uffici. Personalmente, propendo più per la soluzione che ho proposto, ma è un tema aperto.
  L'altra questione da lei sollevata riguarda le trade repository. Forse mi sono espresso male, perché esse non sono della Consob, bensì sono entità private costituite da banche che trasferiscono le loro informazioni ai regulator, tra cui la Consob, il cui contenuto è raccolto sulla base di tracciati molto analitici. Alle trade repository devono quindi essere comunicate tutte le informazioni sui derivati, da parte di chiunque li negozi. Ciò ha ridotto di molto l'opacità di tale settore di mercato, aumentandone trasparenza e sicurezza.
  Il problema dei derivati risiedeva infatti nella difficoltà per il mercato di capire dove si annidassero i rischi.

  MARCO CAUSI. Questo vale, però, solo per le imprese ?

  CESARE CONTI, Professore di Finanza aziendale presso l'Università Bocconi di Milano. No, questo vale per tutti ma c’è un termine: questa regolamentazione ha iniziato a essere applicata nel 2014, quindi le informazioni raccolte sono a far tempo da quell'anno. Aggiungo – facendo riferimento al tema dei Paesi più o meno seri e rigorosi nell'osservare le regolamentazioni europee, come nel caso dell'EMIR – che non ho prova che nel contesto italiano ci sia tutta questa velocità e questo rigore nell'attuazione di questi obblighi. Si dovrebbe fare. Si tratta di obblighi che è necessario rispettare ma mi domando se tutte le aziende, come dovrebbero, lo facciano e chi debba controllare al riguardo.

  GIROLAMO PISANO. (fuori microfono) Non esiste, quindi, una normativa che le obblighi.

  CESARE CONTI, Professore di Finanza aziendale presso l'Università Bocconi di Milano. C’è una normativa che le obbliga e tutti dovrebbero farlo. In realtà, però, chi controlla che questi obblighi siano stati assolti ? Tante imprese sono piuttosto indietro, un po’ in tutto il mondo. Si tratta, infatti, comunque di una materia complessa e sappiamo che non è facile, dall'oggi al domani, completare i tracciati. Peraltro alcuni Paesi già lo fanno. Secondo me, questo è un tema che potrebbe essere sollevato in un eventuale incontro con la Consob.
  Qualunque derivato venga comunicato è quindi per voi una fonte informativa molto importante.
  Non ho dati quantitativi in merito: sarei contento che fosse il contrario ma, a mio avviso, i dati non sono completi al 100 per cento; ritengo tuttavia che le grandi aziende già comunichino tali dati.

  GIOVANNI PAGLIA. I soggetti più strutturati lo fanno...

  CESARE CONTI, Professore di Finanza aziendale presso l'Università Bocconi di Milano. Certo, mi aspetto che le grandi e le medie aziende lo facciano. Dubito che lo facciano tutti.

  PRESIDENTE. Professore, la ringraziamo molto per il suo contributo. Ci sarà certamente molto utile per il nostro lavoro.
  Autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna della documentazione consegnata dal professor Cesare Conti (vedi allegato).
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 15.45.

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