XVII Legislatura

VI Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 10 di Mercoledì 13 luglio 2016

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Bernardo Maurizio , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE TEMATICHE RELATIVE AI RAPPORTI TRA OPERATORI FINANZIARI E CREDITIZI E CLIENTELA

Audizione dei rappresentanti dell'Associazione nazionale fra le imprese assicuratrici (ANIA).
Bernardo Maurizio , Presidente ... 3 ,
Farina Maria Bianca , Presidente dell'Associazione nazionale fra le imprese assicuratrici (ANIA) ... 3 ,
Bernardo Maurizio , Presidente ... 8 ,
Pesco Daniele (M5S)  ... 8 ,
Farina Maria Bianca , Presidente dell'Associazione nazionale fra le imprese assicuratrici (ANIA) ... 8 ,
Ribaudo Francesco (PD)  ... 9 ,
Farina Maria Bianca , Presidente dell'Associazione nazionale fra le imprese assicuratrici (ANIA) ... 9 ,
Busin Filippo (LNA)  ... 11 ,
Farina Maria Bianca , Presidente dell'Associazione nazionale fra le imprese assicuratrici (ANIA) ... 11 ,
Bernardo Maurizio , Presidente ... 11 ,
Farina Maria Bianca , Presidente dell'Associazione nazionale fra le imprese assicuratrici (ANIA) ... 12 ,
Bernardo Maurizio , Presidente ... 12 

Audizione della professoressa Marina Brogi:
Bernardo Maurizio , Presidente ... 12 ,
Brogi Marina , Ordinario di International banking and capital markets della facoltà di economia dell'Università di Roma «La Sapienza» ... 12 ,
Pagano Alessandro (AP)  ... 19 ,
Brogi Marina , Ordinario di International banking and capital markets ... 19 ,
Bernardo Maurizio , Presidente ... 20 ,
Pagano Alessandro (AP)  ... 20 ,
Pisano Girolamo (M5S)  ... 22 ,
Petrini Paolo (PD)  ... 22 ,
Pesco Daniele (M5S)  ... 22 ,
Brogi Marina , Ordinario di ... 23 ,
Bernardo Maurizio , Presidente ... 26 

Allegato 1: Documentazione depositata dalla dottoressa Farina ... 27 

Allegato 2: Documentazione depositata dalla professoressa Brogi ... 60

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà- Berlusconi Presidente: (FI-PdL);
Area Popolare (NCD-UDC): (AP);
Sinistra Italiana-Sinistra Ecologia Libertà: SI-SEL;
Scelta Civica per l'Italia: (SCpI);
Lega Nord e Autonomie - Lega dei Popoli - Noi con Salvini: (LNA);
Democrazia Solidale-Centro Democratico: (DeS-CD);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-Alleanza Liberalpopolare Autonomie ALA-MAIE-Movimento Associativo italiani all'Estero: Misto-ALA-MAIE;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI;
Misto-Alternativa Libera-Possibile: Misto-AL-P;
Misto-Conservatori e Riformisti: Misto-CR;
Misto-USEI-IDEA (Unione Sudamericana Emigrati Italiani): Misto-USEI-IDEA;
Misto-FARE! - Pri: Misto-FARE! - Pri;
Misto-Movimento PPA-Moderati: Misto-M.PPA-Mod.

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
MAURIZIO BERNARDO

  La seduta comincia alle 14.10.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione dei rappresentanti dell'Associazione nazionale fra le imprese assicuratrici (ANIA).

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle tematiche relative ai rapporti tra operatori finanziari e creditizi e clientela, l'audizione dei rappresentanti dell'Associazione nazionale fra le imprese assicuratrici (ANIA).
  Ringrazio la dottoressa Farina, presidente di ANIA e amministratore delegato di Poste Vita. Saluto anche il dottor Di Falco, il dottor De Santis, il dottor Bramucci e la dottoressa Azzaroni.
  Teniamo in modo particolare a questa audizione. Tenuto conto del ruolo della dottoressa Farina, mi sembra importante ascoltarla oggi, nell'ambito dell'indagine che stiamo svolgendo sul sistema della finanza e delle politiche economiche sul fronte delle banche e delle assicurazioni, con riguardo alla tutela del risparmiatore.
  Le darei, quindi, subito la parola.

  MARIA BIANCA FARINA, Presidente dell'Associazione nazionale fra le imprese assicuratrici (ANIA). Grazie, presidente. Desidero, innanzitutto, ringraziare la Commissione per aver invitato l'ANIA a questa audizione.
  Il tema del corretto ed efficiente funzionamento del mercato finanziario è cruciale per la stabilità e la crescita economica del Paese. È evidente che di questo sistema fa parte anche l'industria assicurativa.
  Abbiamo predisposto alcune slide, così articolate: nella prima parte del mio intervento esse spiegano, in estrema sintesi, che cos'è l'assicurazione e, soprattutto, quali sono le dimensioni di questo settore e in quale direzione esso sta andando; nella seconda parte, invece, abbiamo evidenziato i presidi posti alla base della stabilità, della sicurezza e della tutela dei nostri clienti.
  Vi premetto che quello assicurativo è un settore importante, che nel corso degli anni ha dimostrato sempre grande solidità e serietà.
  Affrontiamo subito il tema del ruolo delle assicurazioni, lo sviluppo che esse hanno avuto e l'entità del risparmio assicurativo. Partiamo dall'origine del rapporto assicurativo. L'assicurazione si basa sul concetto di mutualità, nel senso che molti individui, i quali condividono un certo rischio, accedono a una copertura assicurativa. Ognuno di questi paga un premio, che è, nella sostanza, equivalente all'aspettativa del danno che qualcuno di loro avrà.
  Da questo punto di vista, si coglie la funzione sociale del contratto assicurativo. L'assicurazione è, infatti, nata come mutua. Oggi il rapporto è un po’ diverso, ma il concetto che sta alla base del contratto assicurativo è sempre lo stesso: c'è qualcuno che si rivolge alla compagnia di assicurazione per trasferirle il proprio rischio, dal quale vuole proteggersi; l'impresa assicuratrice mette insieme i rischi di tanti Pag. 4soggetti, dai quali acquisisce un premio; dopodiché, quando l'evento si verifica per alcuni, a quei pochi fornisce le prestazioni garantite dal contratto.
  I contratti di assicurazione si dividono in due macrocategorie: i contratti cosiddetti «sulla vita» e quelli di protezione contro una serie di rischi. Bisogna tenere conto, però, del fatto che nei contratti vita è sempre presente una componente di rischio demografico. Essi vengono utilizzati come fonti di risparmio e di investimento da molti cittadini italiani. Si tratta, infatti, soprattutto di raccolta di risparmio a lungo termine e di previdenza (sapete tutti che gestiamo prodotti previdenziali di terzo pilastro).
  Abbiamo parlato di premorienza e rischio demografico; c'è poi anche la non autosufficienza, cioè le malattie tipiche dell'età molto avanzata, per le quali le persone possono perdere la capacità di accudire sé stesse.
  Per quanto riguarda i danni, i contratti di protezione mettono al riparo dai danni ai beni delle persone, come i contratti assicurativi volti a dare protezione alla casa da eventi quali incendi, furti, allagamenti, e così via; vi sono poi i danni derivanti dalle responsabilità civili che ognuno di noi ha nei confronti di tutti gli altri cittadini, oltre ai danni alla persona, come quelli derivati da infortuni e malattie (pensate ai temi della salute e ai contratti assicurativi del settore).
  Ci sono inoltre tipi di contratti, relativi al credito. Avrete sicuramente sentito parlare della credit protection, che generalmente accompagna operazioni di mutuo o di prestito. Abbiamo anche i rami trasporti (marittimi, fluviali, terrestri e aerei), cauzioni e così via.
  Di norma, l'indice di penetrazione assicurativa di un Paese è indicativo, in qualche modo, del suo sviluppo. Infatti, non c'è dubbio che un Paese dove l'assicurazione e, quindi, la protezione per i cittadini, è più sviluppata, può liberare risorse che possono essere investite nello sviluppo.
  Con riguardo all'entità del mercato assicurativo, le compagnie di assicurazione hanno raccolto oltre 145 miliardi di euro di premi (per la precisione 147). Di questi, circa l'80 per cento rappresenta assicurazioni sulla vita e il 22 per cento assicurazioni cosiddette «danni». Di queste ultime, quasi la metà è rappresentata dalla RC auto, che, come sapete, oggi in Italia è una copertura obbligatoria. Il resto riguarda tutte le altre cause di rischio.
  Nel mercato assicurativo operano 220 imprese, di cui un terzo detenuto da gruppi internazionali e i due terzi da società italiane. La distribuzione è multicanale, anche se per quanto riguarda il ramo vita è ancora estremamente predominante il canale bancario o postale, mentre per quanto riguarda i rami danni il canale prevalente è quello degli agenti.
  La vendita diretta misura intorno al 7-8 per cento; si è sviluppata abbastanza, ma ha raggiunto un livello oltre il quale fa fatica a crescere. Con riferimento ai nostri competitor europei, il confronto tra l'Italia e i principali Paesi europei vede, con riguardo al 2015, che l'Italia ha una penetrazione dei premi vita sul PIL del 7 per cento e dei premi danni del 2 per cento. Se analizziamo i dati relativi ai principali Paesi europei, i premi del ramo vita pesano per il 5 per cento sul PIL, quindi siamo sicuramente all'avanguardia, mentre siamo indietro per quanto riguarda i rami danni, perché negli altri Paesi essi rappresentano il 3,4 per cento.
  Questi numeri peraltro non esprimono, nella sua totalità, il fenomeno della «sottoassicurazione» che connota l'Italia, perché all'interno di questi dati è inclusa anche la RC auto che, essendo obbligatoria, è ovviamente molto diffusa. L'assicurazione «non auto», infatti, in Italia pesa sul PIL per meno dell'1 per cento. Per la Germania tale percentuale è pari al 2,5 per cento, per la Francia al 2,4 e, per la Spagna, è pari al doppio del dato italiano.
  Come vi dicevo, questo è un gap importante, che rende il nostro Paese – intendo le famiglie, gli individui e le imprese – molto più fragili rispetto ai loro competitor europei.
  La famiglia media italiana risparmia, per il 65 per cento, al fine di fare fronte a rischi futuri. Questo significa che mantiene Pag. 5liquido quel risparmio, non lo può investire in forme più fruttifere e, soprattutto, che quando si verifica l'evento inatteso, quando cioè si manifesta il rischio, quel risparmio svanisce, o addirittura può non essere sufficiente.
  Recentemente è emerso che vi sono fasce di cittadini che non riescono nemmeno a curarsi, o che devono ritardare le cure perché non hanno mezzi per affrontarne il costo. Se questi cittadini acquisissero una copertura assicurativa, la quale, ad oggi, costerebbe meno di quanto essi spendono, di tasca propria, per la salute, avrebbero una maggior tutela, perché non avrebbero più il limite dei propri risparmi per far fronte all'evento dannoso. Potrebbero infatti fare riferimento a quanto convenuto nella loro polizza assicurativa, il che è, generalmente, di gran lunga di più del risparmio medio di una famiglia italiana.
  Quindi, da una parte, i cittadini raggiungerebbero una maggiore efficacia nella copertura del rischio, spendendo meno di quanto oggi spendono con i propri risparmi e, dall'altra, potrebbero utilizzare i loro risparmi per le necessità della famiglia, ovvero investirli in maniera più efficiente.
  Passiamo ora ad analizzare quanto l'attuale rapporto tra il risparmio assicurativo e il totale del risparmio degli italiani, che ha raggiunto cifre più alte rispetto a ogni altro Paese europeo. Stiamo parlando di quasi 4 trilioni di euro. Nel 2014 – che è l'ultimo anno rispetto al quale disponiamo di cifre ufficiali per tutte le categorie di investimento – le riserve vita, quindi il risparmio raccolto dagli assicuratori, era pari al 13,3 per cento di questa enorme ricchezza.
  Il peso delle riserve assicurative del ramo vita sul totale della ricchezza finanziaria degli italiani per il 2015, è cresciuto ulteriormente, raggiungendo il 14 per cento.
  Ciò conferma che gli italiani sono persone che amano risparmiare e sono molto prudenti. Al contempo, ci dice anche che in questo settore, per quanto riguarda la gestione dei rischi del risparmio, gli italiani si fidano molto delle assicurazioni, che da questo punto di vista non hanno mai deluso le aspettative.
  Peraltro, il risparmio investito nelle forme tradizionali assicurative gode di stabilità di rendimenti, che sono molto attrattivi. Tenete conto del fatto che, negli ultimi anni, i ritorni lordi di queste gestioni sono stati sempre nell'ordine del 4 per cento circa.
  Come dicevo, la domanda ha continuato a crescere negli ultimi anni e anche nell'ultimo anno, tra il 2014 e il 2015, ma abbiamo registrato un differente atteggiamento dei risparmiatori. Ci siamo, infatti, trovati in una realtà di tassi pari a zero, quindi le compagnie hanno cercato di diversificare i propri investimenti per avere maggiori aspettative di rendimento. Anche i clienti hanno cercato maggiori fonti di rendimento e si sono orientati verso prodotti cosiddetti «multiramo», che fanno riferimento, per una parte, ai prodotti tradizionali – con la piena garanzia da parte della compagnia di assicurazione per quanto riguarda la restituzione del capitale e, qualche volta, anche dei rendimenti – dall'altra, su prodotti un po’ più rischiosi, i quali, però, per l'equivalenza tra rischio e rendimento, presentano maggiori aspettative di rendimento.
  Noi abbiamo assecondato i bisogni e le richieste dei nostri clienti e abbiamo messo sul mercato una quantità maggiore di questi prodotti.
  Nei primi mesi del 2016 la crisi delle banche e la Brexit ci hanno fatto rilevare un'inversione di questa tendenza: nei primi cinque mesi del 2016 abbiamo assistito a una riduzione abbastanza significativa della vendita di questi prodotti un po’ più rischiosi e un ritorno, da parte dei nostri clienti, alla domanda di prodotti garantiti.
  Sulla slide di pagina 11 c'è un diagramma che evidenzia in modo molto chiaro il fatto che, ancora oggi, la quota di risparmio che i nostri clienti investono in prodotti garantiti è notevolmente preponderante. Stiamo parlando di un rapporto di circa 70 a 30, a favore di quel tipo di risparmi e di investimenti che le assicurazioni hanno sempre gestito. Pag. 6
  I risparmi che affluiscono alle compagnie assicurative vengono gestiti dalle compagnie stesse nell'interesse del cliente e sono investiti in maniera diversificata.
  Nell'attività di investimento dei risparmi che raccogliamo dobbiamo seguire regole molto numerose, le quali vanno rispettate. C'è un'attività di vigilanza molto attenta sulla nostra attività, con un'attenzione ancora maggiore per quanto riguarda gli investimenti.
  La rischiosità degli investimenti che facciamo deve essere correlata al rischio che gli assicurati hanno deciso di prendere e non deve mettere in discussione la solidità dell'impresa.
  Fino a qualche tempo fa, i nostri investimenti, che oggi raggiungono la cifra di quasi 700 miliardi di euro, sono stati investiti prevalentemente in titoli di Stato italiani. In questo senso, abbiamo supportato il debito in momenti difficili, nei quali i titoli di Stato italiani venivano venduti a mani basse. Le compagnie assicurative hanno, invece, comprato titoli di Stato, sicuramente nell'interesse dei risparmiatori, perché offrivano un buon rendimento. Peraltro, non credevamo al default dell'Italia, quindi eravamo sicuri di fare un buon investimento per i nostri clienti.
  Oggi quei titoli non sono più la parte preponderante, anche se rappresentano una quota sempre molto importante degli investimenti, visto che al 31 dicembre 2015 le compagnie di assicurazione detenevano 280 miliardi in titoli di Stato italiani. In ogni caso anche le compagnie sono obbligate ad andare alla ricerca di rendimento e, poiché i titoli di Stato hanno un rendimento quasi pari a zero, soprattutto se a breve termine, hanno iniziato a diversificare il loro patrimonio.
  Da un sostegno del debito pubblico – se posso sintetizzare la situazione – stiamo passando gradualmente a un sostegno dell'economia reale. Di fatto, si cominciano a vedere nei portafogli delle compagnie assicurative i cosiddetti «investimenti alternativi» (parliamo di private equity, investimenti in progetti infrastrutturali, finanziamento delle PMI, e via dicendo).
  Ovviamente, tutto questo viene fatto sempre nel rispetto dei rischi che un'assicurazione può prendersi per garantire la restituzione del capitale.
  Spero di avervi dato una panoramica generale di che cos'è l'assicurazione e dell'ampiezza del mercato assicurativo. Vediamo adesso quali sono i presidi alla base della sicurezza e della tutela dei risparmiatori.
  Vorrei innanzitutto dirvi che l'industria assicurativa è molto solida. Il patrimonio delle compagnie assicurative, a fine 2015, era pari a 66 miliardi di euro. L'indice di solvibilità è pari a 1,5 nell'assicurazione vita e al 2,8 nei rami danni.
  Non so quanto il concetto di indice di solvibilità sia noto. Dal 1° gennaio di quest'anno è entrata in vigore la nuova regolamentazione chiamata «Solvency II», che ha rivoluzionato il modo con il quale si misura la solvibilità del settore, a maggior tutela degli assicurati. In base alla precedente normativa in materia, un'azienda che si sviluppava doveva accantonare il 4 per cento delle proprie riserve, per quanto riguarda il ramo vita, e doveva avere capitale proprio.
  Questo significava maggior tutela per gli assicurati, perché non solo potevano fare affidamento sugli investimenti fatti dalle compagnie a fronte dei risparmi ricevuti – tenete conto che su quegli investimenti gli assicurati hanno una prelazione; in caso di fallimento dell'azienda quegli investimenti vengono segregati a favore innanzitutto degli assicurati – ma sapevano che la compagnia aveva un proprio capitale con cui far fronte a eventuali andamenti negativi.
  Il risparmiatore è molto tutelato. Questa tutela si comprende bene, se pensiamo che l'industria assicurativa è forse l'unica a ciclo finanziario invertito: prima incassa il prezzo, cioè i premi, e poi paga le prestazioni.
  È ovvio che ci sia da sempre un'enorme attenzione del legislatore e del regolatore nel verificare e nel vigilare che quei fondi siano ben utilizzati e che le compagnie di assicurazione, a fine contratto, mantengano fede alle promesse fatte nel contratto Pag. 7di assicurazione, il quale può essere stato stipulato venti o trent'anni prima.
  L'attenzione dell'assicuratore, che ha nel proprio DNA la cultura della gestione del rischio, e l'attenzione del legislatore e del regolatore, i quali sono sempre stati quasi spasmodici nei riguardi del nostro settore, ha fatto sì che, da moltissimi anni, in Italia non si sia verificato un default di una compagnia di assicurazione.
  Ancora oggi la patrimonializzazione delle compagnie del settore assicurativo è più alta di quanto non richieda la norma. Con l'entrata in vigore della normativa Solvency II, questa solidità si è dimostrata ancora più forte.
  Infatti, Solvency II richiede una misura di capitale direttamente correlata ai rischi che quella compagnia ha in termini di investimento, contrattuali, e così via. Quindi, se nelle misurazioni Solvency II le compagnie risultano più solide che dalle misurazioni fatte in base alla precedente normativa, evidentemente i rischi che esse si sono assunte sono tali da non mettere in discussione i loro impegni.
  Ci sono, inoltre, norme molto importanti in materia di stesura dei bilanci, di valutazione delle poste e di determinazione del rendimento per gli assicurati. È importante, a questo riguardo, la priorità che hanno i crediti degli assicurati rispetto a quelli degli altri creditori, nell'eventualità che una compagnia fosse insolvente.
  C'è anche una grandissima attenzione all'informativa pre-contrattuale e post-contrattuale. C'è stato, in materia, un sovrapporsi di norme, che in qualche caso ci procura qualche disappunto e problema di sovrapposizione, perché su certe questioni c'è una vigilanza sia dell'IVASS, sia della COVIP e della CONSOB.
  È vero che le materie sono divise in base alle competenze di ciascuno di questi regolatori, ma, in concreto, su taluni aspetti, le cose si sovrappongono e ci complicano la vita.
  Le norme in materia di trasparenza dell'informativa al cliente sono numerosissime. A nostro giudizio, sarebbe utile una loro razionalizzazione e semplificazione.
  Siamo in attesa dell'adozione delle nuove norme sui PRIIPs (Packaged Retail Investment Products), che dovrebbero «standardizzare» il modo di presentare l'informativa al cliente. Credo, però, che tutti noi dobbiamo fare uno sforzo per capire quali sono le notizie veramente fondamentali, quelle che veramente fanno comprendere al cliente la misura del rischio che assume. Ho infatti verificato molte volte, nella mia esperienza di assicuratore, che dare un gran numero di informazioni non significa necessariamente maggiore trasparenza, visto che il cliente rimane non dico confuso, ma quantomeno disattento, rispetto a pagine di note e informazioni molto numerose riguardanti il contratto che si accinge a stipulare.
  Per fortuna, c'è un movimento trasversale in questa direzione che punta alla semplificazione. Noi auspichiamo che si proceda in questa direzione nell'interesse dei nostri clienti.
  C'è grande attenzione anche sull'attività di vendita, cioè di distribuzione dei prodotti. Vi sono norme stringenti anche da questo punto di vista, in attuazione di una normativa comunitaria che sarà recepita a breve in Italia, ma che, di fatto, per gran parte è già vigente in base a norme che ci siamo precedentemente dati.
  Ci sono ancora maggiori tutele e restrizioni per il distributore di prodotti assicurativi, rispetto al confronto tra più offerte che devono essere messe a disposizione del cliente e rispetto all'obbligo di verifica che il prodotto che sta offrendo sia adeguato al profilo di rischio del cliente. Vorrei ora richiamare la vostra attenzione su un altro fattore, che risulta determinante rispetto ai profili di trasparenza e di servizio al cliente. Mi riferisco all'educazione finanziaria del cliente.
  Tutti gli operatori devono impegnarsi su questo tema. Stiamo cercando di fare molto, come assicuratori, anche su questa materia. Abbiamo un forum ANIA-consumatori, di cui fanno parte assicuratori e Associazioni dei consumatori, nel quale, avendo a cuore questo tema, abbiamo lavorato molto sulla formazione, soprattutto nelle scuole. Pag. 8
  Abbiamo fatto molto anche per quanto riguarda gli adulti, ma ci sembrava importantissimo andare proprio là dove le persone vengono formate. Abbiamo svolto numerose giornate di formazione. Faccio, dunque, un appello a tutti perché questo tema sia ritenuto davvero centrale.
  In conclusione, siamo fermamente convinti che, attualmente, le assicurazioni costituiscano per la nostra clientela un punto di approdo affidabile, serio, vigilato e controllato, che è in grado di darsi, da solo, regole molto stringenti. La cultura del rischio è nel DNA dell'assicuratore.
  Ciò è confermato dal fatto che abbiamo attraversato le crisi epocali degli ultimi anni rimanendo, per fortuna, sempre in piedi, e onorando sempre gli impegni che ci eravamo assunti. A garantire questo è certamente il modello di business stesso, ma anche la cultura del rispetto del cliente, nonché della conoscenza e della gestione del rischio da parte di noi assicuratori.
  È chiaro che una maggiore consapevolezza dei clienti sulle regole finanziarie basilari aiuterebbe tutti in maniera importante. Vi ringrazio della vostra attenzione e sono a disposizione per qualunque domanda vogliate pormi.

  PRESIDENTE. Grazie, presidente.
  Do la parola ai colleghi che desiderano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  DANIELE PESCO. La ringrazio per il suo intervento, presidente Farina. Vorrei chiedervi se vi sono miglioramenti dal punto di vista della concentrazione del mercato. Sappiamo infatti che, anche nel settore assicurativo, vi sono pochi grandi gruppi che detengono molte società, le quali, pur avendo nomi diversi, fanno capo alla stessa società. Vi è quindi un problema di concentrazione e di scarsa concorrenza.
  A partire da questo, vorrei collegarmi al tema dell'erogazione del credito. Proprio ieri facevo notare ai colleghi come le assicurazioni oggigiorno abbiano la possibilità di erogare credito. In Italia stiamo, quindi, vivendo un periodo nel quale molti operatori del settore creditizio sono posti in difficoltà nel continuare la loro attività (basti pensare alle piccole banche che stanno chiudendo o alle MAG – Mutue di autogestione, la cui operatività non viene migliorata). Abbiamo, però, nuovi operatori del credito, come le società di assicurazione.
  Alla luce di ciò, posto che i grandi gruppi che svolgono attività assicurativa in Italia sono pochi, mi chiedo se si siano volute privilegiare queste società nell'attività di erogazione del credito, andando incontro alla concentrazione dell'attività bancaria. Quindi, mentre i grandi gruppi la fanno da padrone nel settore bancario, l'erogazione del credito è stata ampliata ma a favore del ramo assicurativo, a sua volta detenuto da poche società. Secondo noi del Movimento 5 Stelle, stiamo andando incontro a una concentrazione ancora maggiore nell'attività di erogazione del credito. Vorrei chiederle che cosa pensa di questo fenomeno e come sta andando la nuova attività di erogazione del credito svolta dalle compagnie assicurative.

  MARIA BIANCA FARINA, Presidente dell'Associazione nazionale fra le imprese assicuratrici (ANIA). Per quanto riguarda la concentrazione del mercato – che c'è, ha ragione il deputato Pesco – mi lasci dire che è il mercato che porta in quella direzione. Ad oggi, se si vuole competere, occorre una certa scala di grandezze.
  Tenga conto che l'ANIA fornisce un supporto importante alle aziende meno grandi. Vogliamo, però, fare ancora di più in futuro. Occorre pensare a servizi, come l’advisory finanziaria di altissimo livello, che un'azienda piccola da sola non si può permettere di svolgere, ma che, se svolta a livello di associazione, consente di stare sul mercato anche all'azienda meno importante. Oggi ci sono molte medie e piccole aziende tra le 220 società di assicurazione che citavo all'inizio del mio intervento. Sarà comunque il mercato a decidere. Non c'è una volontà, né delle aziende, né al di sopra delle aziende.
  Affronto ora il tema del credito. Effettivamente, una norma ha consentito anche alle compagnie di assicurazione di poter dare direttamente credito alle piccole e Pag. 9medie imprese, a condizione che avessero una struttura adeguata per poterlo fare.
  Ho due considerazioni da fare su questo tema. La prima è che l'Italia è uno dei Paesi in cui l'attività di erogazione del credito è concentrata esclusivamente nelle banche. Nessun altro Paese è in queste condizioni. C'è, negli altri Paesi, una pluralità di operatori del credito. Ritengo che anche l'Italia andrà inevitabilmente in quella direzione; sarà un percorso lungo, che dovrà essere attentamente controllato.
  Gli assicuratori, proprio perché assicuratori e non banchieri, non avendo strutture in grado di valutare se si può fare credito a un determinato soggetto, hanno fatto qualche operazione diretta solo in qualche caso molto circoscritto, perché magari fanno parte di un gruppo polivalente in cui è presente anche una expertise bancaria.
  Tuttavia, nella maggior parte dei casi, si sono rivolti a operatori specializzati, quindi sono arrivati al credito in maniera indiretta.
  In ogni caso, questo tipo di attività è ancora circoscritto per due motivi sostanziali. Il primo è perché per gli assicuratori questa è una attività nuova, e quindi ci stanno andando con i piedi di piombo, come sono sempre abituati a fare, conoscendo bene i rischi.
  Il secondo è perché non ci sono strumenti di mercato. Non c'è un mercato regolamentato di questi strumenti, quindi è più difficile. Spesso si fanno ancora transazioni one-to-one e face-to-face, ma non è questo il modo di allargare quel mercato.
  Quindi gli assicuratori devono farsi le ossa. Secondo me, il modo più corretto per le assicurazioni di fare credito è quello indiretto, cioè utilizzando operatori che sanno fare quel mestiere e che gli assicuratori possono finanziare. La grande mole di risparmio che gli assicuratori raccolgono può svolgere la funzione di ponte tra il risparmio e l'economia reale.
  Tuttavia, poiché il risparmio non si può investire come capita perché per noi è sacro, bisogna trovare strumenti, regole e operatori adeguati. Di fatto, bisogna operare in un mercato.

  FRANCESCO RIBAUDO. La ringrazio, presidente, per la sua relazione, così ricca di contenuti. Ho notato che, per un motivo anche culturale, in Italia il risparmio investito in strumenti assicurativi è molto inferiore a quello investito in Francia e Germania. Ciò nasce dalla cultura e dalla mentalità italiana. Probabilmente, anche il lavoro che si sta facendo al Senato e alla Camera sulla proposta di legge in materia di educazione finanziaria potrà produrre effetti positivi in tal senso. Al di là di ciò che il Parlamento e le norme possono prevedere in tema di obbligatorietà dell'assicurazione (penso all'assicurazione sulla casa di abitazione), mi chiedo se avete altre proposte su un ventaglio più ampio di assicurazioni per i danni a cose o persone.
  Dico questo senza considerare le aziende e le società, ovvero le persone giuridiche, che già hanno la possibilità di detrarre fiscalmente il costo dell'assicurazione. Le persone fisiche non possono farlo. Vorrei capire se avete proposte in questo senso, perché per me è un fatto di civiltà che il cittadino possa assicurare il futuro non solo della propria persona, ovvero della propria salute, ma dei beni che lo circondano.

  MARIA BIANCA FARINA, Presidente dell'Associazione nazionale fra le imprese assicuratrici (ANIA). Ha detto una cosa sacrosanta. È una questione di civiltà, cioè di vivere civile, avere, soprattutto nella parte più fragile della vita, gli strumenti adeguati per assicurarsi un tenore di vita appropriato e le cure necessarie, visto che l'età avanzata non sempre è accompagnata da una salute splendida e ci potrebbe, quindi, essere bisogno di un supporto medico, più o meno importante.
  Si ragiona molto su queste tematiche. Dal punto di vista della protezione, alla nostra attenzione ci sono due grandi temi. Il primo è quello della previdenza integrativa. Pensate che, attualmente, solo il 25 per cento dei potenziali pensionati di domani ha aderito a una forma di previdenza integrativa. Questo numero inoltre non dice tutto, perché ci sono settori che sono in condizioni notevolmente peggiori, come quello dei dipendenti delle PMI, i quali Pag. 10detengono forme di previdenza integrativa solo per il 10 per cento rispetto al numero potenziale. I giovani, i quali avranno bisogno di una forma di previdenza integrativa, sono al 16 per cento.
  Le regole ci sono, nel senso che c'è un sistema il quale, però, va aggiornato e favorito. Bisogna sensibilizzare soprattutto i giovani a questa esigenza, facendo capire loro che basta un impegno economico piccolo, perché hanno davanti un arco di tempo lungo. Anche versando poco ogni mese, e magari versando somme più elevate quando avranno un lavoro più importante, potranno avere un'integrazione della propria pensione tale da far loro vivere la terza e la quarta età in maniera più che decorosa.
  Occorre sensibilizzare le persone su queste esigenze. Da questo punto di vista, la cosiddetta «busta arancione» inviata dall'INPS sta dando dei risultati.
  Dall'altra parte, secondo me, andrebbero rivisti gli incentivi fiscali, i quali non sono stati aggiornati da molti anni. C'è stata una crisi, e quindi tutti questi strumenti vanno rivisti. Dato che quel risparmio oggi non c'è, incentivare una cosa che, appunto, non c'è, forse anche per le casse dello Stato non sarebbe così terribile.
  Completamente diverso è, invece, il discorso relativo alla sanità, che per questo Paese rappresenta ormai un'emergenza rispetto alla quale non si può più attendere. Se guardiamo al confronto internazionale, la nostra spesa pubblica per la sanità è, più o meno, pari a quella degli altri Paesi, mentre la spesa privata è molto più alta di quella degli altri Paesi. Ciò è dovuto al fatto che, negli altri Paesi vi sono forme di sanità integrativa che in Italia non abbiamo.
  La spesa sanitaria privata degli italiani è pari a 35 miliardi di euro, ossia 1.400 euro a famiglia. Pensate che di questa quantità di denaro una larga parte è spesa per far fronte a prestazioni che il servizio sanitario nazionale già erogherebbe, però magari c'è una lista d'attesa e la necessità di far presto. Si tratta di una situazione di inefficienza. Le risorse sono relativamente poche, quindi dobbiamo fare in modo che siano spese al meglio.
  Secondo noi, su questa tematica c'è da definire un sistema integrato pubblico-privato che oggi non c'è. Ognuno fa quel che può. La spesa pubblica fa tanto. Abbiamo un sistema sanitario che fa invidia a molti altri Paesi, ma i trend demografici sono inequivocabili. Nel 2050, se non ricordo male, una persona su tre avrà più di 65 anni. La spesa sanitaria e il bisogno sanitario cresceranno.
  Pensiamo che la spesa pubblica possa crescere? Temo di no, proprio per i problemi che abbiamo, il che significa che è destinata a crescere la spesa privata. Dobbiamo, però, cercare di capire qual è il valore della copertura assicurativa e di metterla a sistema perché, dopo lo Stato, la mutualità più grande è gestita dalle compagnie di assicurazione le quali, per mission e per il loro DNA, sanno fare questo.
  Occorre intervenire su due tematiche cruciali per il nostro Paese, previdenza integrativa e sanità integrativa. Peraltro, su questo tema c'è un altro aspetto da affrontare.
  Se un dipendente di una qualunque azienda accede a un fondo sanitario aziendale, gode di un'incentivazione fiscale; se, invece, un cittadino qualunque – che non lavora, o è un libero professionista o un precario – vuole accedere a quel tipo di copertura e acquista un contratto d'assicurazione, non beneficia di alcun incentivo, nemmeno di un euro. Che senso ha questo?
  Noi, da tempo, chiediamo che chi non può accedere a un fondo sanitario aziendale e compra un contratto di assicurazione abbia almeno la stessa agevolazione data al dipendente che aderisce a un fondo sanitario integrativo. In conclusione, sulla sanità bisogna rivedere il sistema. Dobbiamo impegnarci tutti per il bene degli italiani.
  Con riferimento al tema dell'assicurazione contro i danni alle cose, gli italiani risparmiano, comprano una casa e poi, purtroppo, non la assicurano. Solo qui in Italia succede questo, perché i cittadini sono abituati alla copertura pubblica dei rischi. Lo Stato è intervenuto spesso, in passato, ma lo Stato siamo noi e dovremmo Pag. 11capire quando è necessario che ci facciamo carico in prima persona di certe esigenze.
  Anche su questo le persone andrebbero sensibilizzate e vi dovrebbe essere un'integrazione pubblico-privato. Sto pensando alle catastrofi naturali. La gente non si rende conto, ma è chiaro che lo Stato, in caso di catastrofi, è costretto ad aumentare le imposte per trovare le risorse necessarie. Il sistema sarebbe molto più efficiente se ragionassimo a priori, ovvero se ognuno di noi pagasse un poco e lo Stato facesse da supervisore o da assicuratore di ultima istanza, perché il settore assicurativo non riesce a tenere tutto sulle proprie spalle.
  Quelli che vi ho esposto sono, a mio avviso, i temi che non possono essere lasciati da parte. Oggi, secondo me, tutti noi – secondo il ruolo che ricopriamo – siamo obbligati ad affrontarli sentendo una forte responsabilità civile.

  FILIPPO BUSIN. Di fronte a una crisi del sistema bancario che non è ancora, ma potrebbe potenzialmente essere, sistemica, vorrei capire il grado di interdipendenza del settore bancario stesso con il settore assicurativo. Inoltre vorrei sapere se avreste la capacità di resistere a richieste di soccorso da parte del Governo per un intervento straordinario, ovvero se le interdipendenze tra i settori bancario e assicurativo sono talmente strette che, caduto l'uno, cadrebbe necessariamente anche l'altro, essendo i loro destini uniti e indissolubili.

  MARIA BIANCA FARINA, Presidente dell'Associazione nazionale fra le imprese assicuratrici (ANIA). Riguardo ad eventuali richieste del Governo, nessuno ci ha messo la pistola alle spalle. È sempre il senso di responsabilità civile che ci muove, quindi se un Governo dice che c'è un'emergenza, ci riflettiamo su.
  Il punto è che non c'è dubbio che quello bancario sia un altro settore cruciale per la nostra economia, quindi se esso andasse a mare, tutta l'economia ne risentirebbe. Credo sia assolutamente evidente. Non si salverebbe nessuno, perché c'è un'interdipendenza di sistema.
  Noi siamo sicuramente molto più protetti rispetto a evenienze di questo tipo, perché abbiamo strutture di risk management e non siamo molto esposti verso le banche in maniera diretta.
  Tuttavia, c'è stata quell'operazione che – sia ben chiaro – non ha potuto risolvere tutti i mali perché i problemi sono ben più ampi. In quel momento abbiamo pensato che se, dopo un certo periodo di tempo, Veneto Banca e la Banca Popolare di Vicenza fossero fallite – come era evidente che sarebbe accaduto – avremmo avuto 700.000 obbligazionisti in piazza. Inoltre, riflettete sugli effetti che vi sarebbero stati per l'Italia e per lo spread dei Btp. Sarebbe arrivato a un livello per cui avremmo avuto problemi tutti, anche i nostri risparmiatori e i nostri investimenti, che stanno sul mercato. Abbiamo 280 miliardi di euro in titoli di Stato, immaginate cosa sarebbe potuto accadere se lo spread fosse salito di 100 punti.
  Il sistema bancario è, inevitabilmente, linfa del sistema economico, così come lo è quello assicurativo. Si tratta di settori interconnessi per loro natura.
  Ritengo, quindi, che dobbiamo fare tutto ciò che è possibile perché il sistema tenga. È importante che chi deve supervisionare lo faccia e che chi ha sbagliato paghi, però oggi siamo di fronte a questo tema, che dobbiamo affrontare responsabilmente.
  A questo proposito, mi preme sottolineare un punto. Se questo tema fosse affrontato di nuovo con strumenti e in una logica di mercato, sono sicura che i finanziamenti arriverebbero e probabilmente sarebbe possibile trovare una soluzione globale e non parziale.

  PRESIDENTE. Anch'io vorrei fare una domanda velocissima in materia di rischi ambientali delle grandi industrie. Tra l'altro, quello delle possibili coperture assicurative sui rischi ambientali, in relazione alle grandi aziende, fu uno degli argomenti di cui parlammo, in altra occasione, con il suo predecessore alla presidenza dell'ANIA. Ha qualche notizia su questo?

Pag. 12

  MARIA BIANCA FARINA, Presidente dell'Associazione nazionale fra le imprese assicuratrici (ANIA). Come dicevo poc'anzi, per i rischi ambientali, e quindi climatici, ma anche per alluvioni e terremoti, dobbiamo definire un sistema strutturato. Siamo rimasti il fanalino di coda non solo dell'Europa, ma del mondo. Tutti hanno un sistema, che può piacere o meno, invece noi non l'abbiamo. Ogni volta che c'è una tragedia di questo tipo, gestiamo l'emergenza con imposte speciali, e così via.
  Abbiamo più volte affrontato questo tema e abbiamo pronti alcuni progetti. Abbiamo discusso del fatto che gli italiani sono poco sensibili alla protezione in genere, quindi il rischio è che, su materie di questo tipo, in cui i danni sono importanti, si assicurino solo le persone che corrono quel tipo di rischio. Ora, proprio per il concetto che sta alla base delle assicurazioni, cioè quello della mutualità, dobbiamo sapere che, su 100 persone che si assicurano, una subirà il danno, e quel danno verrà ripartito tra le 100 persone. Se invece si assicurano solo le 100 persone che subiranno quel danno specifico perché, ad esempio, abitano sul Vesuvio o hanno costruito le proprie case sul letto di un fiume, l'impresa di assicurazione fallisce e ciò non è un bene per nessuno.
  Dobbiamo gestire quello che, in gergo assicurativo, si chiama «rischio di antiselezione» o di «selezione avversa», cioè che si assicurino solo coloro che corrono quel rischio concreto. È come se sulla salute si assicurassero solo i malati. Per evitare ciò, un sistema valido consisterebbe nell'obbligare coloro che hanno una casa o uno stabilimento industriale ad assicurarsi contro questo tipo di catastrofi.
  Mi rendo conto che la parola «obbligatorio» è brutta, ma è l'unica che consentirebbe di far pagare poco a tutti. Altrimenti, dobbiamo concepire un sistema a più alto rischio, che sicuramente costerebbero di più al cittadino.
  Tuttavia, secondo me, anche su questo è importante aprire una discussione, dichiarare con trasparenza i dati e decidere insieme che cosa può fare lo Stato, con molta lucidità e razionalità.
  Noi siamo pronti a mettere in campo tutta la nostra expertise e a fare tutto il possibile a tutela del Paese.

  PRESIDENTE. Grazie, presidente. È un tema che riprenderemo e che approfondiremo alla ripresa dei lavori parlamentari, dopo la pausa estiva. Autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna della documentazione consegnata dalla dottoressa Maria Bianca Farina (vedi allegato 1) e dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione della professoressa Marina Brogi.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle tematiche relative ai rapporti tra operatori finanziari e creditizi e clientela, l'audizione della professoressa Marina Brogi, Ordinario di International banking and capital markets nella facoltà di economia dell'Università di Roma «La Sapienza».
  Lascio subito la parola alla professoressa Marina Brogi.

  MARINA BROGI, Ordinario di International banking and capital markets della facoltà di economia dell'Università di Roma «La Sapienza». Ringrazio la Commissione e in particolare il suo presidente per avermi invitata a intervenire nell'ambito di questa indagine conoscitiva sulle tematiche relative ai rapporti tra operatori finanziari e creditizi e clientela.
  È la seconda volta che vengo ascoltata in audizione presso questa autorevole Commissione. La prima volta fu a febbraio del 2012, in occasione del recepimento della direttiva 2013/36/UE (CRD 4); quella odierna è quindi per me un'occasione preziosa anche per riesaminare quanto dissi allora alla luce di quello accaduto in questi quattro anni.
  Il programma dell'indagine conoscitiva deliberato dalla Commissione con riguardo alla clientela bancaria tiene conto sia di quelli che tradizionalmente sono gli operatori che necessitano di finanziamento, cioè le imprese, e quindi fa riferimento – Pag. 13cito testualmente – al «tenere anche conto dell'evoluzione delle problematiche emerse nei meccanismi di finanziamento delle imprese italiane alla luce della recente crisi economico-finanziaria, che ha a sua volta inciso profondamente sui rapporti tra mondo produttivo e sistema finanziario e creditizio» sia dell'altro grande gruppo di clienti, ossia quello dei risparmiatori, con particolare riferimento all'impatto che potrebbe avere su questi ultimi il nuovo meccanismo di risoluzione delle crisi bancarie, introdotto dalla disciplina europea.
  Per questo motivo mi concentrerò su tre punti: il rapporto tra banche e imprese, il rapporto tra banche e risparmiatori e, al fine di capire le implicazioni della direttiva BRRD (Bank Recovery and Resolution Directive), la stabilità del sistema bancario. Dopo una breve premessa tratterò questi tre punti e poi mi avvierò alle conclusioni per quanto riguarda i potenziali correttivi, tanto in ambito europeo quanto in ambito domestico.
  Perdonerete se ogni tanto leggerò i miei appunti, ma le tematiche sono numerose e ci terrei a mettere a frutto al meglio l'audizione odierna.
  La premessa che vorrei fare si riferisce al taglio della mia relazione. Avete ascoltato tanti autorevoli relatori nell'ambito di questa indagine conoscitiva, i quali vi hanno proposto i punti di vista di molti player importanti del sistema finanziario italiano. Credo che la mia presenza oggi abbia invece l'obiettivo di ascoltare una voce terza e indipendente, e sia volta a dare una visione d'assieme delle problematiche. Tale visione d'assieme è necessaria per identificare i giusti correttivi: si parla infatti di «sistema economico» proprio perché tanti elementi sono collegati tra di loro; si parla di «sistema bancario» perché le banche sono tra di loro collegate e si parla di «sistema finanziario» perché le banche e i mercati sono collegati.
  Se ragioniamo quindi sui possibili correttivi da introdurre, modificare un aspetto potrebbe avere effetti a catena non desiderati, quelli che in inglese si chiamano unintended consequences, oppure ci possono essere interrelazioni nei correttivi che vanno considerate. Una visione sistemica, alta e indipendente, è quindi l'obiettivo del mio intervento di oggi.
  Con riguardo al primo aspetto, cioè il rapporto tra banche e imprese e «le problematiche emerse nei meccanismi di finanziamento delle imprese italiane», le attuali problematiche riflettono le caratteristiche delle imprese italiane che sono, in media, più piccole, più dipendenti dal credito bancario e meno patrimonializzate di quelle europee. Se guardiamo all'economia italiana, la circostanza che le imprese siano sottocapitalizzate e che facciano pochi investimenti in ricerca e sviluppo implica che la produttività del lavoro in Italia sia più bassa. Questo significa che spesso le imprese italiane non sono sufficientemente competitive a livello internazionale.
  Per poter invertire la situazione attuale sarebbe importante che le imprese facessero più investimenti, per migliorare la loro capacità produttiva e la loro produttività. Per fare investimenti, occorre che gli stessi siano fisiologicamente sostenuti da fonti finanziarie adeguate. Se si vogliono fare investimenti il cui valore si dispiega in un orizzonte temporale lungo, occorre che le fonti siano di pari durata; quindi, non serve tanto il credito bancario a breve, bensì piuttosto maggiore patrimonio. Alle imprese italiane serve più capitale proprio, quindi una delle prime misure importanti sulle quali riflettere sono le misure a favore di una maggiore patrimonializzazione delle imprese.
  Intendiamoci: il problema della sottopatrimonializzazione delle imprese di minori dimensioni non è un problema solo italiano, e sono molto contenta di avere qui oggi la coautrice del mio lavoro, la dottoressa Lagasio, perché insieme abbiamo svolto uno studio su 60.000 piccole e medie imprese dell'area euro – studio che ci è stato chiesto di presentare anche all'OCSE a settembre – da cui emerge che ci sono molte medie e piccole imprese europee che sono sottopatrimonializzate.
  Tuttavia, se suddividiamo le imprese, anche quelle di minori dimensioni, alla luce della loro struttura finanziaria e calcoliamo il margine di tesoreria e di struttura, Pag. 14 che è la coerenza nella durata tra fonti e impieghi di cui vi parlavo, scopriamo che il problema del credit crunch, cioè del razionamento del credito, non c'è stato per quelle imprese che avevano una struttura finanziaria coerente, bensì per le imprese che non erano più capaci di sostenere credito, perché avevano già una situazione finanziaria di debito eccessivo.
  La sostanza di questo studio dimostra inoltre che la giusta struttura finanziaria aiuta le imprese a crescere di più. È emerso infatti che le imprese che escono dalla loro categoria perché si ingrandiscono hanno la struttura finanziaria giusta; la finanza opera a supporto della strategia, quindi le imprese che crescono hanno una struttura finanziaria adeguata e riescono a ottenere credito e ad aumentare il capitale proprio.
  Una prima area di intervento fondamentale deve essere quella di favorire la ripatrimonializzazione delle imprese. Si è fatto già qualcosa: mi riferisco allo strumento dell'ACE (Aiuto alla crescita economica), che ho analizzato molto dettagliatamente nel mio intervento scritto. Vorrei soltanto rilevare che l'ACE è stata una misura che ha avuto un qualche successo, ma molto resta ancora da fare.
  Vorrei darvi il senso di quante cose restano da fare: se esaminate il campione utilizzato da Mediobanca, che ogni anno fa un censimento delle più grandi società italiane, e ha, da ultimo, preso in considerazione un campione di circa 2.050 aziende italiane, noterete che alle aziende italiane mancano circa 220 miliardi di euro di capitale proprio. Ci sono cioè 220 miliardi di immobilizzazioni delle imprese italiane che, anziché essere finanziate da patrimonio, il quale per sua natura è durevolmente destinato alle sorti dell'azienda, sono finanziate da altre fonti, quindi credito a medio-lungo termine o addirittura credito a breve termine. Queste società, che sono tra le società italiane più grandi, hanno quindi un margine di struttura negativo per oltre 220 miliardi.
  Vi è stato un miglioramento di questo dato, pari a circa 10 miliardi rispetto all'anno precedente, ma c'è ancora tantissimo da fare per quanto riguarda la corretta patrimonializzazione delle imprese.
  Occorre anche meglio informare le imprese sull'utilizzo delle misure esistenti; molte imprese italiane non sanno che esistono i minibond né che c'è la possibilità di ottenere agevolazioni fiscali se si aumenta il capitale proprio, quindi va svolta un'opera di sensibilizzazione in questo senso, come dichiarato anche dal Governatore della Banca d'Italia nelle sue Considerazioni finali di quest'anno.
  Passando al secondo punto, cioè al tema del rapporto tra le banche e i risparmiatori, storicamente l'Italia è un Paese di risparmiatori. A volte capita di ascoltare analisi abbastanza critiche sull'impatto della politica monetaria espansiva nei confronti dell'economia italiana. Si tratta infatti di un impatto ritenuto da alcuni non sufficiente e inferiore rispetto a quello verificatosi in altri Paesi.
  Al riguardo va rilevato che, storicamente, le famiglie italiane, essendo risparmiatrici, non beneficiano dei tassi di interesse bassi come modalità per favorire il consumo. In altri Paesi invece le famiglie sono indebitate, quindi quando i tassi di interesse sono bassi, si indebitano e consumano di più.
  Questo non fa parte della nostra cultura, che è una cultura di famiglie risparmiatrici, le quali dieci anni fa avevano i loro risparmi investiti in Buoni Ordinari del Tesoro e ottenevano da quei titoli un certo tipo di remunerazione, e oggi, se vogliono avere il privilegio di investire in BOT, devono essere loro a pagare, come se ci trovassimo in una specie di mondo al contrario. Coloro che arrotondavano le proprie entrate grazie ai titoli di Stato adesso non hanno più questo introito. Una situazione di tassi di interesse bassi, quindi, non favorisce necessariamente i consumi.
  L'altro elemento da considerare è che l'OCSE ha rilevato come la cultura finanziaria o, per meglio dire, l'educazione finanziaria, degli italiani sia assai inferiore a quella esistente in altri Paesi. Non solo gli imprenditori italiani non conoscono le misure agevolative esistenti, ma hanno competenze, Pag. 15 in materia finanziaria, inferiori rispetto ai risparmiatori di altri Paesi.
  Si può iniziare a fare qualcosa, in questo senso, per quanto riguarda i nostri figli: essi dovrebbero essere messi nelle condizioni di imparare alcuni rudimenti di economia e di diritto alle scuole medie inferiori, posto che, nella realtà in cui viviamo, non si riesce a sopravvivere se non si è in grado di comprendere un contratto o non si sa investire, in maniera previdente, per la propria futura pensione. Dobbiamo essere sicuri che, nelle scuole pubbliche italiane, queste conoscenze di base vengano date a tutti i ragazzi. Ciò tuttavia non basta, perché abbiamo bisogno che anche gli adulti di oggi siano dotati di quelle competenze.
  Vorrei utilizzare al meglio la mia audizione odierna per comunicare il concetto più semplice per quanto riguarda i rischi e i rendimenti: normalmente, a maggiori rendimenti si associano maggiori rischi, ma, se dico così, non è sufficiente, bisogna che io aggiunga alla mia affermazione qualche dato numerico. Un famoso economista ha studiato i rendimenti di obbligazioni e azioni su orizzonti temporali lunghi: le obbligazioni, su orizzonti temporali molto lunghi, rendono tendenzialmente fra il 2 e il 3 per cento, mentre le azioni tra il 7 e l'8 per cento.
  Quando pensiamo ai grafici rappresentativi di questi due trend, a tutti vengono in mente due rette, una un po'più inclinata dell'altra, ma non è così, nel senso che il 2-3 per cento medio annuo relativo alle obbligazioni è dato dalla media tra meno 2 e più 4; viceversa, il 7-8 per cento di rendimento delle azioni rappresenta la media tra più 87 e meno 80.
  Se l'investitore non ha un orizzonte temporale lungo e quindi non è in condizione di poter fare a meno dei suoi risparmi per un periodo lungo, non dovrebbe investire in titoli rischiosi, perché i titoli azionari portano a un rendimento migliore nel lungo periodo, durante il quale però essi subiscono oscillazioni molto forti e, probabilmente, su qualche titolo presente in portafoglio l'investitore subirà una perdita importante.
  Questo è il rischio. It's a bumpy ride, cioè ci sono molte più oscillazioni. È chiaro che tutti i risparmiatori intuitivamente dovrebbero sapere che ci sono scelte che abbattono il rischio, una delle quali è decidere di non concentrare tutti i propri investimenti su un unico titolo.
  Ciò che è sicuramente utile, è di affidare i propri risparmi a un professionista competente, consci però che anch'egli non sfugge alla regola che il futuro è incerto per tutti. Questo vale per qualunque investitore, incluse le banche nel momento in cui erogano un prestito a un altro soggetto che prende quei soldi per farne qualcosa e si aspettano la controprestazione in un momento futuro.
  Quella controprestazione, proprio perché differita nel tempo, è soggetta all'incertezza che si può soltanto tentare di misurare e ipotizzare facendo degli scenari. I quali tuttavia non eliminano il fatto che, in ogni caso, il futuro è incerto per tutti. Ne consegue che anche il migliore gestore professionale può sbagliare e che, anche qualora si affidino i propri risparmi a gestori professionali, questo non significa necessariamente avere ritorni positivi. Deve essere chiaro anche nella relazione tra cliente e banca: il futuro è incerto per tutti, quindi, ogni volta che si fa un investimento, esso è soggetto al rischio di perdere, in tutto o in parte, il capitale, o di non avere i flussi di reddito previsti.
  Ha senso investire in titoli rischiosi? Probabilmente sì, se si vogliono avere dei rendimenti, perché c'è una differenza molto importante, tra il montante che si ha alla fine di un periodo di vent'anni con un investimento che consente di avere un rendimento medio annuo dell'8 per cento rispetto al montante che si ha, dopo lo stesso periodo, con un investimento al 2 per cento medio annuo. Alla fine degli anni ’50 il mio maestro, il professor Tancredi Bianchi, che cito sempre volentieri, scriveva che il mercato della Borsa dà comunque opportunità importanti. Esso consente infatti anche ai piccolissimi risparmiatori di avere, per quella piccola porzione di risparmio che riescono a investire nelle azioni delle aziende quotate, il tipo di remunerazione Pag. 16che ha il grande investitore, o il fondatore dell'azienda, perché partecipano, in piccolissima parte, al rischio di quell'impresa. Comprano infatti il capitale di rischio e, in piccola parte, partecipano a quella grande possibilità di guadagno; certo, assumendosi il rischio di perdere tutto il capitale.
  L'azione, che è uno strumento rischioso, implica che si possa perdere il capitale investito. Anche i titoli subordinati implicano, in alcune circostanze, che si possa perdere il capitale. È quindi molto importante che, quando si collocano allo sportello i prodotti finanziari, questo fatto sia reso noto.
  Le autorità di regolamentazione possono fare alcune cose. Sono stata per un certo periodo nello stakeholder group dell'ESMA (European Securities and Markets Authority). Tale organismo, all'inizio di giugno, ha inviato a tutti un richiamo (per quanto riguarda le banche italiane, la CONSOB si era mossa in questo senso già lo scorso novembre), dando l'indicazione di fare attenzione a che cosa era cambiato, con l'entrata in vigore della BRRD, dal punto di vista delle caratteristiche dei titoli collocati.
  I requisiti stabiliti in base alla direttiva MiFID 1 impongono valutazioni di adeguatezza della clientela rispetto a una serie di indicazioni, per esempio per quanto riguarda la liquidità dei titoli, che può modificarsi significativamente.
  Certamente serve uno sforzo per assicurarsi, da un lato, che le informazioni vengano date, e dall'altro lato per essere sicuri, nel rapporto con i risparmiatori, che essi siano in grado di capire quello che viene detto loro e che siano indotti a leggere ciò che è scritto sui prospetti informativi.
  Da questo punto di vista, per quanto riguarda l'educazione finanziaria, certamente qualcosa viene fatto, il problema è che si tratta di iniziative singole. Considero quindi molto importante coordinare gli sforzi di tutti e creare un'entità che consenta di valorizzare i diversi contributi offerti, ripartendo i compiti e quindi svolgendo un lavoro più analitico, che valorizzi ciò che viene già fatto attraverso una strategia unitaria, come previsto nella proposta di legge presentata dal Presidente Bernardo in materia di educazione finanziaria.
  Sia nel rapporto con le imprese, sia nel rapporto con i risparmiatori, bisogna tener conto della stabilità del sistema bancario. Se, da un lato, la politica monetaria espansiva dovrebbe aiutare le imprese e favorire una ripresa dell'economia, dall'altro lato però si tratta certamente di un contesto particolarmente difficile per le banche.
  Infatti chi, come le banche italiane, svolge un'attività di raccolta di depositi e di investimento in prestiti, in un contesto di mercato con tassi pari a zero, o negativi, si trova ad agire in una situazione molto difficile. Al riguardo consentitemi anche di dire che la scelta del Presidente Draghi è stata una scelta molto coraggiosa; a livello internazionale, né Ben Bernanke né Janet Yellen si sono spinti così avanti nella politica monetaria espansiva – fino ad arrivare a tassi d'interesse negativi – pur essendo due grandi studiosi del quantitative easing.
  Fra le conseguenze indesiderate dei tassi molto bassi, o negativi, sulla redditività delle banche, c'è la circostanza che, se alle banche rimane liquidità depositata presso la BCE, sono le banche a pagare su quella liquidità. Esse naturalmente non traslano questo onere sui depositanti e quindi i tassi negativi producono effetti negativi sulla redditività delle banche.
  Volendo semplificare, le banche che svolgono attività di banca commerciale guadagnano sulle due aree dell'intermediazione creditizia: guadagnano con il mark-up, quanto chiedono in più alle imprese per erogare i prestiti rispetto al rendimento di mercato, e guadagnano sul mark-down, cioè quanto riconoscono in meno ai depositanti rispetto al tasso di mercato.
  Evidentemente il mark-down non esiste più, perché le banche non traslano i tassi negativi sui clienti; invece, a meno che non sia il contratto a regolare esplicitamente questo aspetto, nella misura in cui i tassi vanno in negativo sui prestiti, le banche devono partire dal tasso base negativo e applicare lo spread oltre il tasso negativo, Pag. 17quindi sulla redditività delle banche questo «morde» molto.
  Fino a quando la politica monetaria espansiva fa sì che, in ogni caso, l'andamento dei titoli di Stato rifletta l'andamento dei tassi di interesse, comunque le banche guadagnano, perché hanno delle plusvalenze (spesso non realizzate) sull'area dei titoli di Stato. Se prendete in esame il conto economico di una banca, c'è un problema di margine di interesse, derivante dall'aspetto legato al fatto che il markdown non esiste più, ma ciò è compensato dal fatto che ci sono i capital gain sui titoli di Stato.
  Ciò che deve accadere abbastanza rapidamente è che la politica di tassi d'interesse bassi della Banca Centrale Europea comporti o maggiori volumi di credito, per cui, anche se a prezzi più bassi, si vende più credito e si riesce a mantenere la redditività in valore assoluto, oppure un vistoso miglioramento per quanto riguarda l'assorbimento derivante dalle sofferenze o dagli accantonamenti che le banche devono fare sui prestiti dati alle imprese in difficoltà.
  Se il miglioramento nella parte bassa del conto economico non è abbastanza rapido, alle banche non rimane che ridurre in maniera molto vistosa il costo del personale; infatti, se si ha una minore redditività da margine di interesse, quando i guadagni sui titoli iniziano a essere meno vistosi, come sta accadendo attualmente, occorre lavorare in maniera diretta sui costi.
  Qualche banca ha dichiarato di poter fare molto per quanto riguarda i ricavi da commissioni, ma Sabine Lautenschläger (venerdì scorso c'è stato un incontro con la vicepresidente del Supervisory Board del Single Supervisory Mechanism) ha illustrato l'approccio all'analisi dei business model nel corso di una conferenza che coinvolgeva gli amministratori delegati, i chief risk officer e i chief financial officer delle banche vigilate. In tale ambito ha proiettato una serie di slide dalle quali è emerso che le banche italiane hanno già ricavi da commissioni molto simili a quelli delle banche tedesche e delle banche francesi.
  Pensare, quindi, che le banche italiane possano facilmente compensare il minor margine da interesse con maggiori ricavi da commissioni mi sembra, nel complesso, un'idea abbastanza forte. Non sarà così facile, perché effettivamente le banche italiane hanno già ricavi da commissioni che sono significativi. Rimane spazio per ridurre i costi del personale, però questo non risolve fino in fondo il tema della redditività.
  Non mi sottraggo anche a un commento sull'andamento di mercato delle banche italiane e, soprattutto, sul tema del giorno, cioè i non performing loans. Sul mercato ci troviamo in una situazione in cui le banche italiane sono quotate a prezzi molto diversi rispetto al loro valore di libro, il price to book è molto più basso. Il mercato dice che banche le quali, a libro, hanno 100 euro di patrimonio netto, in base alla capitalizzazione di Borsa valgono 10, 20, 30, o 40 euro; quindi, una frazione molto piccola.
  Questo dato può essere interpretato in due modi. Il primo è che il mercato ritiene che ci siano attivi che non valgono il valore al quale sono iscritti: ad esempio, si hanno una serie di partite in sofferenza valutate 40 (valevano 100 in origine e sono state svalutate di 60), ma in realtà secondo il mercato valgono 20.
  L'altra interpretazione è che, poiché già si sa che, in prospettiva, quella banca non avrà una redditività sufficiente a remunerare il suo attuale patrimonio, si vende fino al punto in cui la capitalizzazione riconosciuta dal mercato è quella che la banca sarà in grado di remunerare. Si tratta di un meccanismo analogo a quello con cui si muovono i prezzi di mercato delle obbligazioni. Immaginiamo delle obbligazioni emesse a 100 con una cedola fissa pari a 5, se poi i tassi di interesse di mercato vanno a 10 per cento, quel titolo viene venduto fino a quando il prezzo di mercato non scende al punto da far si che il tasso di rendimento implicito, derivante dalla cedola più il guadagno in conto capitale per chi dovesse acquistare al minor prezzo quotato dal mercato, non sarà tale da riallinearne Pag. 18 il rendimento al nuovo tasso di mercato del 10 per cento.
  Il mercato ci sta dicendo quindi che per le banche c'è una questione di redditività. Probabilmente queste due interpretazioni possono convivere, quindi sulle banche italiane c'è la preoccupazione che da un lato abbiano degli attivi iscritti a valori superiori rispetto al loro effettivo valore e, dall'altro, che in futuro non abbiano una redditività sufficiente.
  Naturalmente incombe su di noi il risultato dello stress test alla fine di questo mese. In realtà le tappe importanti saranno due: una intermedia, un po'meno nota, che cade il 19 luglio e riguarda la decisione della Corte di giustizia europea sul bail-in delle banche slovene, e poi il 29 luglio con i risultati dello stress test.
  Mi avvio alle conclusioni. Per quanto riguarda gli stress test sarebbe opportuno che l'Italia lavorasse a una soluzione per il caso in cui qualche banca non fosse in grado di passare lo stress test. Quando gli Stati Uniti hanno fatto gli stress test avevano già preparato il programma Tarp (Troubled Asset Relief Program), in modo tale che, qualora una banca avesse fallito gli stress test, si sapeva già come intervenire.
  Ho l'impressione che si possa lavorare a una garanzia statale degli aumenti di capitale di cui quelle banche avessero eventualmente bisogno. Se una banca fallisce lo stress test, vuol dire che ha bisogno di più patrimonio e l'aumento di capitale necessario potrebbe, forse, in via astratta, essere garantito dallo Stato, senza che sia inizialmente lo Stato a intervenire in maniera diretta. Questa garanzia potrebbe avere un orizzonte temporale quinquennale, probabilmente utile per risolvere in modo graduale il problema dei non performing loans.
  Questo, a mio parere, è importante perché ho la preoccupazione che la vendita dei prestiti non performing, in sofferenza, sia una scelta che libera i bilanci da attivi che presentano dei problemi, ma che sono al contempo attivi che presentano una redditività potenziale prospettica interessante.
  Una delle tentazioni che può esistere, e che va evitata, è la circostanza di vendere, e quindi liberare lo stato patrimoniale, ma a costo di un peggioramento del conto economico del futuro. Si vendono bene gli attivi che hanno una redditività futura, per questo qualcun altro li vuole comprare; si risolve il problema dello stato patrimoniale di oggi al prezzo del conto economico di domani; così facendo, quindi, può sembrare di aver trovato una soluzione, ma si cura il sintomo e non la malattia. Se riteniamo che le banche italiane abbiano bisogno di più capitale proprio, quella è la cura.
  Per tornare sul tema dei non performing loans, gli operatori di mercato disponibili a comprare quegli attivi in sofferenza li comprerebbero a prezzi più bassi rispetto a quelli a cui li hanno a libro le banche italiane, perché ipotizzano di poter rientrare del loro investimento in un orizzonte temporale quinquennale e fanno l'ipotesi di avere capitale proprio investito che normalmente sul mercato è tra il 15 e il 17 per cento. C'è un player, che non sono le banche, che è disponibile a comprare a 20 un attivo, perché ritiene, in un orizzonte temporale di cinque anni, di avere comunque un ritorno sul suo capitale del 17 per cento.
  Se, però, la banca ha attivi che possono avere una remunerazione di questo tipo, forse è meglio fare un aumento di capitale e mantenere un po’ più di quegli attivi in portafoglio: quindi si fa un aumento di capitale sapendo di avere attivi più buoni e attivi più rischiosi, come gli NPL, sui quali il mercato mi dice che ci potrà essere un ritorno dell'investimento. Se la banca vende a 20 attivi che ha iscritti a un valore di 40, realisticamente farà delle perdite e, a quel punto, avrà comunque bisogno dell'aumento di capitale, ma non avrà più quegli attivi redditizi, perché li ha già venduti.
  Non sto affermando che questa sia la ricetta, ma sto semplicemente immaginando un'ipotesi che andrà valutata. Certamente fare un aumento di capitale significa, in molti casi, diluire gli azionisti esistenti, e questo può costituire un problema, nel senso che ci possono essere azionisti Pag. 19che non sono disponibili ad aumentare la loro quota. Se la soluzione è l'aumento di capitale, forse la strada maestra è adottare quella soluzione, e non passare da altre vie.
  Per quanto riguarda la stabilità del sistema bancario, sarebbe quindi opportuno cercare una strada da combinare a quella della vendita di parte degli NPL, lavorando su una soluzione che consenta comunque di attuare aumenti di capitale garantiti dallo Stato. Si tratta di una formula che va elaborata e concordata a livello europeo; potrebbe essere utile una strada mediana, perché fare gli stress test senza avere la possibilità di risolvere il problema finisce con l'essere destabilizzante anziché favorire la stabilità.
  Mi avvio quindi alle conclusioni, perché abbiamo trattato i tre punti che vi ho indicato inizialmente e mi sembra che la sintesi del mio intervento possa essere questa. Per quanto riguarda gli interventi correttivi a livello domestico, certamente un intervento a costo molto contenuto riguarda il miglioramento della cultura finanziaria delle persone, dei giovani, degli imprenditori e dei risparmiatori, quindi ben venga un qualcosa che aiuti l'educazione finanziaria.
  Sarebbe poi opportuna una misura che riguardi più da vicino gli investimenti nell’equity, favorendo un più forte ritorno alla cultura dell’equity in Italia. Mi spiego subito: il sistema inglese, che pure ha un mercato più sviluppato rispetto al nostro anche nel private equity, favorisce in tutti i modi l'investimento diretto dei soggetti privati nelle piccole imprese innovative; si tratta di un investimento non tramite il credito, ma tramite l’equity, perché esso consente sgravi fiscali del 50 per cento.
  Una persona che investa direttamente nel capitale proprio di una piccola impresa innovativa e ha diritto a detrarre dal reddito il 50 per cento del suo investimento, allorché dovesse perdere tutto – cosa che non è un'ipotesi remota, visto che investe nel capitale di rischio di un'azienda, per giunta piccola – beneficerà di un credito di imposta del 50 per cento di quello che ha perso moltiplicato per l'aliquota marginale. Il risultato finale è che il 50 per cento lo ha detratto prima, sul 50 per cento di quanto avesse eventualmente perso dopo, ha il credito di imposta, quindi, messo effettivamente a repentaglio solo il 55 per cento del suo investimento iniziale.
  Questa è una misura pensata per gli investitori individuali e che sarebbe certamente utile in Italia, che è un Paese di risparmiatori che deve sviluppare maggiormente una cultura imprenditoriale, legata a imprese che lavorano con il capitale proprio: la soluzione per le imprese non sono, infatti, necessariamente le banche, ma anche il capitale proprio dell'investitore.

  ALESSANDRO PAGANO. Le volevo chiedere di fare un esempio...

  MARINA BROGI, Ordinario di International banking and capital markets della facoltà di economia dell'Università di Roma «La Sapienza». Il sistema inglese prevede, con una serie di tetti, un meccanismo, chiamato Seed Enterprise Investment Scheme, per cui c'è innanzitutto una detrazione di imposta pari al 50 per cento dell'investimento iniziale. Il soggetto investe quindi 100 in una piccola impresa innovativa e detrae dal reddito il 50 per cento di quella cifra. Nel caso in cui guadagni, ovviamente, è soggetto alla tassazione normale prevista per quei titoli.
  Supponiamo invece il malaugurato caso in cui perda tutto: aveva investito 100 e aveva detratto un primo 50 per cento. In tal caso avrà un credito di imposta di nuovo di 50 moltiplicato per la sua aliquota marginale, quindi in sostanza, è come se avesse perso il 55 per cento del suo investimento, perché le tasse che avrebbe pagato se non avesse fatto l'investimento sarebbero state pari a 45. È un modo per rendere più appetibile questo tipo di investimento in quanto si riduce la perdita per il singolo.
  Si potrebbe obiettare che questo può essere uno svantaggio per lo Stato, tuttavia l'esperienza dimostra che le agevolazioni fiscali funzionano quando, come nel caso di quelle volte alla migliore patrimonializzazione delle imprese, sono volte a creare maggiore capitale per le imprese, e quindi Pag. 20maggiori investimenti e una maggiore capacità competitiva. Normalmente, infatti, se l'impresa cresce vengono comunque raccolte dallo Stato più tasse, sia dall'impresa stessa, sia dai lavoratori che vi lavorano.
  Se ci poniamo in un'ottica temporale pluriennale, capiamo che è vero che, forse, per un anno, abbiamo uno svantaggio, però, se il meccanismo funziona, darà frutti futuri superiori; è importante quindi passare da un orizzonte uniperiodale a uno pluriperiodale, avendo in mente che cosa può succedere in un orizzonte temporale di medio-lungo periodo.
  Quello che vi ho descritto è uno strumento che ha iniziato a dare risultati in Inghilterra, nonostante si tratti di un Paese che ha già un mercato del private equity particolarmente importante. Ciò per quanto riguarda gli interventi domestici, unitamente alla possibilità, ancora tutta da studiare, per lo Stato, di garantire gli aumenti di capitale delle banche nei momenti di difficoltà, ad esito degli stress test e per un orizzonte temporale circoscritto di cinque anni.
  A livello europeo, ma vorrei dire anche mondiale, c'è inoltre una serie di sfide regolamentari che vanno tenute in considerazione e riguardano per esempio lo SME Supporting factor, cioè un'attenuazione dei requisiti patrimoniali richiesti quando si fanno erogazioni alle piccole e medie imprese. È in ipotesi, da parte del Comitato di Basilea, una riforma del modello standard che sarebbe molto, forse troppo, penalizzante per le banche italiane. Questo è un tema che va tenuto in considerazione. C'è un'ipotesi di modifica dell'assorbimento per rischio operativo, che sarebbe particolarmente penalizzante per le grandi banche italiane e l'idea di mettere dei tetti ai titoli di Stato prima di passare a una garanzia europea sui depositi.
  Si tratta di tematiche da tenere in attenta considerazione, già oggetto di attenzione dell'ABI e del Parlamento europeo. Ricordo di nuovo che, nelle prossime settimane, ci sono due date fondamentali, cioè il 19 e il 29 luglio, nelle quali avranno luogo, rispettivamente, la pronuncia della Corte di giustizia europea sul bail-in delle banche slovene e, a mercati chiusi, il 29 luglio, la divulgazione dei risultati degli stress test. Sarebbe quindi importante che l'Italia avesse già predisposto un backstop allorché, all'esito di tali test, qualche banca italiana avesse bisogno di una ricapitalizzazione.
  Lo sforzo congiunto che va fatto con il coinvolgimento di tutti gli studiosi, i practitioner e della politica è l'adozione di un orizzonte temporale più lungo. Il mercato ci prezza minuto per minuto dandoci la sua percezione del valore, però bisogna stare attenti a impostare scelte e decisioni di politica economica. Ora sono in questo contesto ma, in modo analogo, quando sono in un consiglio di amministrazione parlo di strategie aziendali, che non guardino solo a un orizzonte temporale breve e abbiano sempre una prospettiva temporale di medio termine.
  È un tema all'attenzione in tutti i Paesi: nelle sue prime dichiarazioni, Theresa May, prima dell'insediamento a Downing Street, ha detto che sta valutando come modificare la governance per fare in modo che ci siano rappresentanti dei lavoratori all'interno dei consigli di amministrazione. Ascoltare, da parte di un primo ministro conservatore, un'ipotesi del genere mi è sembrato espressione di un'apertura totalmente diversa rispetto al passato. Non mi ha colpito tanto lo strumento ipotizzato quanto piuttosto l'idea che occorra darsi un orizzonte di valore più di medio termine, per costruire un futuro migliore.
  Credo che, al di là di tanti dettagli, questo sia il tema sistemico sul quale ragionare.
  Vi ringrazio dell'attenzione.

  PRESIDENTE. Ringrazio, a nome della Commissione, la professoressa Brogi. Lascio la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  ALESSANDRO PAGANO. Il tema della corretta patrimonializzazione è il tema centrale in Italia, perché c'è stata una finzione giuridica, o meglio un trucco, o un accordo sottobanco. Per decenni, infatti, si Pag. 21è detto che l'indebitamento delle banche era, tutto sommato, sostenibile, perché i tassi di interesse altissimi venivano erosi dall'inflazione e il costo diminuiva sensibilmente se gli utili di azienda venivano investiti in beni reali, quindi in immobili (i nostri imprenditori avevano sette, otto o dieci case dappertutto, in cui stavano solo un giorno all'anno). Il sistema quindi si è trovato garantito da immobili che oggi sono assolutamente superflui rispetto al numero di abitanti, e sta scontando oggi le note difficoltà.
  Il fatto grave è che negli ultimi quindici anni, da quando siamo entrati nell'euro, si sia continuato ad andare avanti su questa strada. Questo è un dato drammatico, il quale dimostra che il sistema non era flessibile o, forse, che è stato volutamente orientato in questa direzione dal sistema bancario sul presupposto che, poiché era sempre andata bene, si supponeva dovesse continuare così. Ci sono quindi, sicuramente, in questo senso, responsabilità indirette.
  Oggi bisogna invertire tutto ciò e, come lei ha spiegato bene, occorre aumentare il capitale proprio delle aziende. Il capitale non si trova dietro l'angolo, però abbiamo il Paese più risparmiatore del mondo. A tale proposito lei ha citato il meccanismo già realizzato in Inghilterra e che potrebbe costituire un'ipotesi di lavoro da replicare in Italia.
  Su questi argomenti abbiamo un Moloch che è lo Stato, cioè il Governo, il quale sostiene che non ci sono entrate a sufficienza, mentre io sono dell'avviso di radicalizzare ulteriormente le misure da lei descritte e, fino a quando il sistema imprenditoriale italiano non acquisisca un minimo di capitale proprio, di rendere il reddito non tassabile. Il 100 per cento di quello che viene investito in quelle società non deve essere tassato, in caso di utili, oppure, in caso di perdita, come accade in Inghilterra, attraverso la possibilità di portare in detrazione tale perdita. In tal modo il piccolo risparmiatore il quale, da un lato, sa che dai BOT ottiene lo 0,50 per cento e, dall'altro, sa di poter raddoppiare il proprio capitale nell'arco di qualche anno, non ci penserà neanche un secondo a buttarsi a capofitto in questo tipo di investimenti, purché ci siano misure fiscali in questa direzione.
  Sono quindi a favore di una misura molto più ampia rispetto a quella inglese. Mi fa piacere che lei ne abbia parlato, perché il mondo accademico dimostra, con dati di fatto, che è possibile cambiare il sistema non con le solite ricette, ma soltanto se abbiamo il coraggio di sovvertire logiche di tipo statalista o di cattiva finanza, portando avanti ragionamenti di questo genere.
  Mi piacerebbe sapere quali sono, da un punto di vista econometrico, le proiezioni degli effetti di questa misura nel tempo: sarebbe interessante che l'università ci dicesse cosa succederebbe se si investisse 100 con questo meccanismo. Il vantaggio per il piccolo risparmiatore infatti è chiaro, ma dobbiamo spiegare tale meccanismo a livello di sistema, in termini complessivi. Mi piacerebbe conoscere il suo parere oggi su questo e poi, in futuro, rafforzarlo sulla base di analisi di livello universitario.
  La seconda domanda è la seguente: lei parla di educazione finanziaria e per me questo è un altro invito a nozze, perché il dramma delle nuove generazioni è che non hanno assolutamente il valore del denaro. La mentalità consumistica è oggi così diffusa che, quando i giovani hanno del denaro (poco, purtroppo, perché i contratti oggi sono a livelli bassissimi), li sprecano tutti in beni di consumo e, al primo momento di difficoltà, si trovano a dover rinunciare a cose indispensabili.
  L'educazione finanziaria non è soltanto quindi sugli strumenti finanziari, e lo dico anche rispetto all'ottima proposta di legge del presidente Bernardo. Occorre infatti anche educare i nostri ragazzi all'A, B, C, e si tratta di un'impresa complessa. Essi, per anni, sono stati abituati dalle generazioni precedenti ad avere la paghetta, che era il minimo indispensabile per sopravvivere, e oggi sono impreparati, per cui già da giovanissimi hanno un valore del denaro distorto. Dovrebbe essere svolta un'approfondita analisi pedagogica su questo, perché quello che vedo fare attualmente non è Pag. 22sufficiente. Anche su questo mi piacerebbe conoscere il suo parere.

  GIROLAMO PISANO. Ringrazio la professoressa Brogi per l'esposizione molto chiara e, seppur sintetica, anche molto approfondita. Le chiederei di darci, con la stessa sintesi, la sua opinione riguardo alle cause originarie dell'inadeguata struttura patrimoniale delle imprese italiane, perché andare alle origini del problema significa anche individuare che cosa correggere per il futuro.
  Riguardo al quantitative easing, è sotto gli occhi di tutti, anche grazie agli studi fatti tramite Eurostat e da altre fonti, che l'inflazione reale locale non è uguale in tutta l'Unione europea; essa è diversa nelle varie nazioni e, all'interno di ciascun Paese, è diversa su basi territoriali locali. Vorrei farle una domanda su un'ipotesi di cui si sta discutendo. L'applicazione di un tasso di interesse flat su tutto il territorio europeo, nell'ambito del quantitative easing, ma in una nuova edizione che richiede, come collaterali, la garanzia di cartolarizzazione di crediti erogati alle imprese, è ancora uno strumento utile, oppure sarebbe opportuno cercare di localizzare il tasso di interesse in funzione della situazione reale?
  Viviamo infatti in un sistema dove ormai molta della politica economica non viene realizzata dal singolo Paese, quindi come si può attuare, ad oggi, la compensazione tra quegli squilibri territoriali – che un tempo veniva attuata dai diversi Paesi attraverso la politica monetaria – posto che lo Statuto della BCE ha come unico obiettivo il mantenimento del tasso di inflazione? Secondo lei potrebbe essere utile cercare di localizzare il tasso applicato da parte della BCE, e in che maniera ciò potrebbe essere fatto?
  Mi interessano molto, inoltre, le analisi sulla situazione delle banche e sul modo in cui risolvere i problemi delle banche stesse, della loro performance, degli NPL e di tutti gli aspetti i quali sono stati in parte causati dalla regolamentazione europea. In passato, infatti, non ci saremmo creati tanti problemi e le banche sarebbero andate avanti; oggi, invece, con la regolamentazione attuale, una serie di parametri sono sotto osservazione e devono essere sottoposti a stress test.
  Mi chiedo però se sia utile parlare esclusivamente delle banche e della soluzione delle loro problematiche, dimenticando che è il sistema economico nel quale esse vivono che sta affondando, per cui abbiamo un Paese che economicamente non va più bene ed è caratterizzato da un dualismo economico tra nord e sud sempre più grave. Una banca che vive in un contesto di depressione economica non può essere una banca in salute che rispetta tutti i parametri stabiliti.
  Ha senso quindi pensare al salvataggio delle banche con tutti gli strumenti più fantasiosi, senza pensare che la vera cura andrebbe praticata all'economia e non al sistema bancario?

  PAOLO PETRINI. Ringrazio innanzitutto la professoressa Brogi per la precisa rappresentazione della situazione e per gli spunti di riflessione che ci ha offerto. In particolare, con riferimento all'intervento sulle banche da parte dello Stato, in termini di garanzia sulla ricapitalizzazione, ci sono proposte che prevedono di vendere a prezzi di mercato gli NPL e poi ricapitalizzare; vi sono però anche altre proposte nel senso che lo Stato intervenga per creare un mercato degli NPL, facendo sì che essi valgano tanto quanto sono iscritti a bilancio, così da avere lo stesso risultato che una ricapitalizzazione darebbe per valorizzarli in un termine di medio-lungo periodo. Che cosa pensa di questa seconda possibilità?
  A fronte di una situazione in cui la redditività e la rappresentazione degli attivi delle banche sono nei termini di cui lei ci ha parlato, e sapendo quanto sono numerosi gli sportelli e, di conseguenza, anche il personale degli istituti bancari, quanto sono alte le probabilità di avere ancora acquisizioni e fusioni in ambito bancario, che possano risolvere alcune situazioni?

  DANIELE PESCO. Grazie per il suo intervento, professoressa Brogi. Prima ci ha detto che i titoli subordinati hanno rendimenti più alti perché sono più rischiosi. Nel caso delle quattro banche, in Pag. 23cui i titoli subordinati avevano rendimenti vicini a quelli dei BTP, e a volte anche inferiori ad essi, secondo lei è stato escogitato qualcosa per venderle più facilmente? Il fatto di prevedere un rendimento così basso dimostra che, probabilmente, si voleva associare a questi titoli l'idea di un investimento meno rischioso di quello effettivo.
  Con l'introduzione del bail-in, il recepimento della direttiva europea e il successivo decreto-legge di risoluzione delle banche, i titoli subordinati non avrebbero dovuto essere ritirati e rivenduti? Oppure si sarebbe potuto modificare il contratto per rendere chiaro che era cambiato qualcosa, visto che era entrato in vigore il bail-in?
  Sul motivo per cui sono nate le sofferenze bancarie, secondo lei è stata più colpa della crisi economica o del fatto di questi crediti sono stati erogati in modo troppo allegro?
  Con riferimento al valore di mercato delle sofferenze, vorrei chiederle: ci è stato detto che era necessario creare più mercato per le sofferenze, quindi sono stati introdotti strumenti nuovi, come ad esempio il nuovo patto marciano, cioè il pegno non possessorio. Non si tratta di strumenti tardivi? Si è andati a chiudere il recinto quando ormai i buoi erano scappati? Si tratta cioè di misure tardive, o eccessive, rispetto all'obiettivo di creare un mercato delle sofferenze, visti i risultati attesi e visto che il valore delle sofferenze non crescerà molto?
  Rispetto a un possibile intervento dello Stato sulle sofferenze, vorrei inoltre chiederle: non sarebbe opportuno, come primo passo, accertare le responsabilità di coloro che hanno erogato quei finanziamenti che hanno condotto a sofferenze, mettendo quindi le banche nelle difficoltà attuali?
  Per quanto riguarda la gestione delle sofferenze, non sarebbe utile fornire strumenti alle banche, affinché riescano a gestirle in modo interno, così da non essere costrette a venderle (concordo con lei sull'esigenza di valutare se venderle tutte o una parte)? In questo senso, una gestione interna e strutturata non potrebbe essere più utile?
  Sul dato da lei citato del 17 per cento, con riferimento al caso del Banco di Napoli, che ha recuperato quasi tutte le proprie sofferenze in dieci anni, il rendimento è stato più alto del 17 per cento. Al riguardo, non ricordo però a quanto le avevano comprate.

  MARINA BROGI, Ordinario diInternational banking and capital markets della facoltà di economia dell'Università di Roma «La Sapienza». Sugli effetti delle misure agevolative è chiaro che la loro introduzione in Gran Bretagna è recente e, per capire l'impatto di una misura strutturale anche robusta, ci vuole del tempo; purtroppo quindi non abbiamo ancora studi econometrici su questo.
  Per quanto riguarda il fatto che l'educazione finanziaria più ampia è, meglio è, non c'è dubbio: ci sono tante aree, che riguardano, ad esempio, la previdenza del futuro sulle quali i cittadini hanno difetti cognitivi. C'è moltissimo lavoro da fare e ce ne sarà sempre più in futuro, posto che lo Stato non sarà in grado di gestire le pensioni dei nostri figli come ha gestito le pensioni dei nostri genitori. Su questi temi quindi c'è un bisogno fortissimo di informazione.
  Sulla questione delle cause originarie della struttura finanziaria delle imprese, a mio parere, alla base c'è l'assetto normativo introdotto con la legge bancaria del 1936, come anche il punto di vista degli imprenditori. Secondo quella legge, infatti, le banche potevano erogare credito a breve termine. Quando un'azienda va bene, ha un buon management, un buon mercato, guadagna e ha prodotti buoni, normalmente è redditizia; quando l'azienda è redditizia si può anche fare a meno di preoccuparsi della coerenza tra fonti e impieghi, mal che vada si chiede la prestazione di garanzie. In questi casi, quindi, finché va tutto bene (e in molti casi è andato tutto bene per lungo tempo) si è guardato più al conto economico e meno allo stato patrimoniale; il banchiere poteva dare credito a breve e lo dava.
  Siamo quindi partiti da una situazione Pag. 24in cui l'azienda, in quanto redditizia, normalmente riusciva a farsi accordare più credito e quindi a rimandare l'aumento di capitale; si era, purtroppo, instaurato questo meccanismo e andava bene così.
  Il tema posto dal deputato Pisano, in relazione a tassi d'inflazione reale diversi in zone diverse: anche quando c'era la lira e la Banca d'Italia gestiva la politica monetaria per l'Italia, tale politica è stata sempre impostata secondo una media ponderata, tarata più per le regioni più prospere rispetto a quelle meno prospere. La politica monetaria, cioè, non è lo strumento che consente di favorire in maniera selettiva coloro che hanno bisogno di tassi proporzionalmente più bassi.
  La questione quindi è sicuramente centrata, ma non è la politica monetaria che può risolverla. Per porre rimedio a tali squilibri servono altre tipologie di politiche. Al riguardo ritengo che le politiche di sgravio fiscale sul reinvestimento degli utili siano certamente positive. Una delle critiche mosse all'Italia è che sono state sostenute molte imprese le quali, probabilmente, non erano così redditizie e faticavano a stare sul mercato. Sarebbe meglio allocare le risorse nelle aziende che vanno bene, introducendo sgravi fiscali sugli utili non distribuiti delle imprese in grado di fare utili, perché così si selezionano le migliori. La politica industriale non si fa cercando di far andare bene chi non è in grado di stare sul mercato.
  Al riguardo, ricordo il proprietario della Mivar, società che produceva tubi catodici. Aveva un'azienda florida e lui era una persona che vi si dedicava molto; però non ha compreso in che direzione sarebbe andato il suo settore. Era una persona eccezionale e l'ho conosciuto personalmente, quindi dico questo con vero dispiacere: purtroppo, se l'imprenditore sbaglia scelta strategica, l'impresa perisce.
  Probabilmente servono misure mirate e l'Europa ne ha già adottate molte per cercare di agevolare le zone disagiate; sta a noi cercare di intercettarle meglio.
  Sul tema «banche e regolamentazione». Sinceramente possono essere stati commessi alcuni errori, per quanto riguarda la comunicazione maldestra di certe misure. C'è stato un fraintendimento del mercato in relazione alle lettere inviate dalla BCE e ci sono stati incidenti di comunicazione ma, se andiamo ad analizzare quello che la normativa europea ha richiesto, secondo me è nella direzione della sana e prudente gestione.
  Ne ho già parlato nella mia precedente audizione presso questa Commissione, quindi non vorrei ripetermi, però le banche italiane, al momento delle privatizzazioni, erano molto più patrimonializzate e avevano un patrimonio di migliore qualità rispetto al 2008. Le grandi quotate privatizzate avevano distribuito tantissimi dividendi, probabilmente troppi, cosa che succede ancora adesso, mentre bisogna cercare di tenere fieno in cascina e non distribuire dividendi così alti.
  Qualcuno sostiene che, se non si danno i dividendi, non si riesce a fare gli aumenti di capitale; è vero, però in ogni caso, se il mercato è contro, è meglio avere un buffer maggiore rispetto a un buffer un po’ più piccolo.
  Sul tema della creazione di un mercato degli NPL, l'Italia ha un sistema giuridico molto complicato per il recupero dei crediti, e questo sicuramente non ha favorito la situazione. La creazione di un mercato con players specializzati è uno degli obiettivi che ci si può dare, ma non è così facile da raggiungere.
  Con riguardo alla possibilità di ulteriori acquisizioni dall'estero, non ne sono così sicura. Per le nostre banche commerciali è importante che ci sia una ripresa economica, la quale non è facile da realizzare, ma quella probabilmente è la strada.
  In primo luogo è importante che si tratti di fusioni e non di acquisizioni, perché se una società viene acquisita i fondi vengono utilizzati per pagare gli azionisti in uscita e, quindi, il risultato finale non è una maggiore patrimonializzazione. Invece è meglio avere un'entità più patrimonializzata, pertanto sono preferibili le fusioni. La creazione di valore c'è se si riduce il personale, quindi l'impatto Pag. 25 nel breve periodo è comunque abbastanza destabilizzante. Il sistema bancario italiano si sta muovendo gradualmente su questa strada, perché non è così facile mandare a casa le persone, ma la verità è che il modello di business è completamente cambiato e quindi gli sportelli non servono più. Ora servono figure professionali differenti. Si tratta di una sfida molto impegnativa e le fusioni, in prima battuta, servono per ridurre i costi.
  Sulla questione dei titoli subordinati, posto che ci possono essere casi in cui essi, come anche le azioni, durante gli aumenti di capitale, sono stati venduti in maniera inadeguata, faccio l'esempio dei dieci comandamenti: li abbiamo da 2000 anni e sul loro contenuto siamo tutti tendenzialmente d'accordo, primo fra tutti «non uccidere». Ciò nonostante, tutti i giorni c'è qualche donna che viene uccisa dal marito o dal fidanzato; quindi la regola c'è, ma non basta, come dimostrato dal fatto che qualcuno la disattende.
  È quindi possibile che tanti titoli siano stati venduti male; il self placement, in particolare, è qualcosa di molto complicato, perché c'è un conflitto intrinseco tra chi vende e chi compra. Detto questo, è anche possibile che qualche investitore che ha comprato sul mercato secondario, quando i prezzi, non nella fase di emissione, ma successivamente, avevano un rendimento implicito comunque interessante, sia stato ingolosito da questo tasso d'interesse alto.
  Nel 2008 ci sono state emissioni di titoli in cui le banche hanno comprato e hanno, quindi, perso i loro soldi su Banca Etruria esattamente come li hanno persi i risparmiatori. Non dico questo per sostenere che «mal comune è mezzo gaudio», bensì per sottolineare che il rendimento richiesto dal mercato sui titoli subordinati era effettivamente molto basso e ho in mente casi di banche che hanno perso esattamente come i risparmiatori su specifici titoli subordinati emessi alla fine degli anni 2000. Questo è un dato di fatto, poi le valutazioni specifiche vanno fatte caso per caso. Naturalmente è sbagliato se tutto il patrimonio di una persona è investito in un unico titolo, ma ciò è vero anche se non si tratta di un titolo subordinato. Non vale la pena di avere un unico titolo azionario, o comunque un'unica obbligazione, anche qualora si trattasse di una tripla A; è comunque meglio diversificare.
  La ricerca delle responsabilità è sicuramente utile, però la cosa più importante è guardare avanti, cioè essere sicuri che le cause che hanno portato ai dissesti non si ripetano più. Certamente c'è una serie di norme che già esistono e che vanno applicate in maniera estremamente rigorosa (mi riferisco, per esempio, alle norme sui conflitti d'interesse e sulle parti correlate). Su questo in Italia c'è un sistema di norme assolutamente adeguato, che va applicato, e le persone che hanno la responsabilità di prendere le decisioni devono applicarlo in maniera molto attenta e rigorosa.
  Non dobbiamo però cadere nella tentazione di pensare che la regola che il futuro è incerto per tutti non valga, appunto, per tutti, compresi i consiglieri di amministrazione quando prendono decisioni. Anche costoro non hanno la sfera di cristallo e possono solo cercare di fare del proprio meglio. Si acquisiscono tutte le informazioni possibili, si cerca di analizzare la decisione da tutti i punti di vista, di fare un po’ di sano «challenge» a chi propone l'operazione, poi si fa del proprio meglio e si decide. Per sapere se si è fatto bene, ci vuole tempo, ma sapere come andrà è un privilegio che chi decide non ha.
  Credo che, in molti casi, decisioni che si sono poi rivelate sbagliate, come quelle citate del proprietario della Mivar, siano state prese in buonissima fede. Se una decisione viene presa senza acquisire informazioni, o mentre si è in una posizione di conflitto di interessi, allora si tratta di situazioni da perseguire in maniera molto decisa. Non si può pensare, però, che chi assume le decisioni conosca il futuro, perché questo non è vero; occorre sempre la consapevolezza che il Pag. 26futuro è incerto per tutti.
  Io ho concluso. Vi ringrazio molto della vostra attenzione.

  PRESIDENTE. Ringrazio la professoressa Brogi, la quale siede in alcuni consigli di amministrazione importanti a livello italiano e in alcuni organismi internazionali, sia europei sia americani. Ascoltare il suo parere su argomenti così delicati e di grande attualità è stato estremamente importante.
  Autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna della documentazione consegnata dalla professoressa Marina Brogi (vedi allegato 2) e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 16.15.

ALLEGATO 1

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ALLEGATO 2

Audizione indagine conoscitiva sulle tematiche relative ai rapporti tra operatori finanziarie creditizi e clientela

  13 luglio 2016

  Ringrazio la Commissione e, in particolare, il suo Presidente per avermi invitata a riferire nell'ambito di questa indagine conoscitiva sulle tematiche relative ai rapporti tra operatori finanziari e creditizi e clientela. È la seconda volta che vengo ascoltata in audizione presso questa autorevole Commissione, la prima fu a febbraio 2012 in occasione del recepimento della CRD IV; quella odierna è quindi per me anche un'occasione preziosa per riesaminare quanto dissi allora, alla luce di quanto è successo in questi quattro anni.
  Il Programma dell'indagine conoscitiva deliberato dalla Commissione con riguardo alla clientela bancaria tiene conto sia di quelli che in Italia tradizionalmente sono gli operatori che necessitano di finanziamento ossia le imprese e quindi fa riferimento all'importanza, cito testualmente, di «tenere anche conto dell'evoluzione e delle problematiche emerse nei meccanismi di finanziamento delle imprese italiane, alla luce della recente crisi economico-finanziaria, che ha a sua volta inciso profondamente sui rapporti tra mondo produttivo e sistema finanziario e creditizio» sia dell'altro grande gruppo di clienti ossia i risparmiatori ed in particolare dell'impatto su questi ultimi «del nuovo meccanismo di risoluzione delle crisi bancarie introdotto dalla disciplina europea».
  Si tratta di tematiche estremamente ampie e la Commissione ha già avuto modo di beneficiare degli interventi di numerosi altri assai autorevoli relatori.
  La mia trattazione si concentrerà, quindi, su tre punti, preceduti da una premessa, e seguiti da alcune considerazioni conclusive con qualche indicazione, che spero dia un contributo – di nuovo cito la declaratoria programmatica istitutiva dell'indagine conoscitiva – con riguardo agli «interventi correttivi, tanto in ambito europeo quanto in ambito domestico». In considerazione dell'ampiezza degli argomenti e del poco tempo a disposizione mi concentro su pochi punti mentre lascerò una memoria dettagliata agli atti.
  I tre punti sono:

   – il rapporto banca impresa e le problematiche emerse nei meccanismi di finanziamento delle imprese italiane;

   – il rapporto banca risparmiatori;

   – e, al fine di capire le implicazioni della BRRD (Bank Recovery and Resolution Directive), la stabilità del sistema bancario nell'attuale contesto di tassi di interesse bassi o negativi e le conseguenti implicazioni per le relazioni con imprese e risparmiatori.

  La premessa che vorrei fare si riferisce al taglio che darò alla mia relazione. Avete audito tanti autorevoli relatori nell'ambito di questa indagine conoscitiva, i quali vi hanno proposto i punti di vista di molti player importanti del sistema finanziario italiano. Credo che la mia presenza oggi abbia l'obiettivo di ascoltare una voce terza e indipendente, Pag. 61 e sia volta ad avere una visione d'assieme delle problematiche. Tale visione d'assieme è necessaria in quanto le tematiche sono collegate, ed è fondamentale quindi anche per identificare i giusti correttivi che non possono prescindere dai collegamenti e delle loro implicazioni sistemiche. Si parla infatti di «sistema economico» proprio perché si compone di elementi collegati tra di loro; si parla di «sistema bancario» perché le banche sono collegate tra di loro; e si parla di «sistema finanziario» perché le banche e i mercati sono collegati.
  Se ragioniamo quindi sui possibili correttivi da introdurre, modificare un aspetto potrebbe avere effetti a catena non desiderati, quelli che in inglese si chiamano unintended consequences, oppure ci potrebbero essere interrelazioni nei correttivi che vanno considerate.
  Con riguardo al primo aspetto, cioè il rapporto banca impresa e le problematiche emerse nei meccanismi di finanziamento delle imprese italiane, le attuali problematiche riflettono le caratteristiche delle imprese italiane che sono in media più piccole, più dipendenti dal credito bancario e meno patrimonializzate di quelle europee. Se consideriamo l'economia italiana, la circostanza che le imprese siano sottocapitalizzate, e che facciano pochi investimenti in ricerca e sviluppo, implica che la produttività del lavoro in Italia sia più bassa. Questo significa che spesso le imprese italiane non sono sufficientemente competitive a livello internazionale.
  Per poter invertire la situazione attuale sarebbe importante che le imprese realizzassero più investimenti, per migliorare la loro produttività. Per una sana e prudente gestione occorre coerenza tra la durata degli impieghi e la durata delle fonti, serve quindi il finanziamento degli investimenti con fonti durevolmente legate alle sorti delle imprese, ossia capitale proprio. Se alla scadenza dei debiti a medio termine, o alla richiesta di rimborso di quelli a breve, l'azienda non è in grado di trovare altre fonti sostitutive entra in crisi. Anche i prestiti a medio termine a tasso fisso, negoziabili in questo momento a condizioni particolarmente favorevoli, andranno ad un certo punto rimborsati.
  Ciò presuppone non tanto di disporre di credito bancario a breve, bensì di maggiore patrimonio. Alle imprese italiane serve più capitale proprio, quindi una delle prime misure importanti sulle quali riflettere sono le misure a favore di una maggiore patrimonializzazione delle imprese.
  Sin dalla conferenza stampa di presentazione del Quantitative Easing a gennaio 2015, il Presidente Draghi ha fatto appello agli altri attori di politica economica perché contribuiscano a favorire la ripresa e sfruttino il margine disponibile per adottare politiche più favorevoli alla crescita, ricordando anche il ruolo degli investimenti effettuati dalle imprese per la ripresa. Sono nuovi investimenti – nelle parole del Presidente della BCE già avviati o programmati nei successivi mesi – che serviranno per innalzare durevolmente la competitività, per migliorare la produttività, per innovare, per entrare in nuovi mercati, per creare nuovi posti di lavoro.
  Va rilevato che la sottocapitalizzazione delle imprese di minori dimensioni non è un fenomeno solo italiano, come dimostrato in un lavoro recente – presentato a settembre all'OCSE – sulla struttura finanziaria come determinante del credito alle imprese e sull'impatto di una corretta struttura finanziaria sulla crescita delle SME (Brogi M., Pag. 62Lagasio V., 2016). Un campione di quasi 60.000 aziende medie e piccole nel periodo 2006-14 – selezionate alla luce della definizione di SME europea – ossia, (i) microimprese, con meno di 10 dipendenti e un fatturato o bilancio annuo inferiore ai 2 milioni di euro; (ii) piccole imprese, con meno di 50 dipendenti e un fatturato o bilancio annuo inferiore a 10 milioni di euro; (iii) medie imprese, con meno di 250 dipendenti e un fatturato annuo inferiore a 50 milioni di euro o un bilancio inferiore a 43 milioni di euro – dei 4 grandi paesi dell'euro area è stato suddiviso in base alla struttura finanziaria, calcolando il margine di tesoreria e di struttura, che misurano la coerenza tra la durata delle fonti e degli impieghi. Emerge:

   a) che il problema del credit crunch – cioè del razionamento del credito – non c'è stato per quelle PMI che avevano una struttura finanziaria equilibrata, bensì solo per le imprese che non erano capaci di sostenere credito, perché già avevano una situazione finanziaria caratterizzata da un debito eccessivo;

   b) una carenza di capitali propri di circa 140 miliardi come media del periodo che vale nei diversi paesi;

   c) che la struttura finanziaria è importante e che contribuisce alla crescita. Le imprese che escono dalla loro categoria perché si ingrandiscono hanno la struttura finanziaria giusta; la finanza opera a supporto della strategia, quindi le imprese che crescono hanno una struttura finanziaria adeguata e riescono ad ottenere credito e ad aumentare il capitale proprio

  In altri termini, la politica monetaria espansiva non porta a maggiori erogazioni di credito alle imprese di minori dimensioni se sono già troppo indebitate. Occorrono invece delle misure complementari di natura fiscale volte a migliorare l'accesso al capitale di rischio. Una prima area di intervento fondamentale deve essere quella di favorire la ripatrimonializzazione delle imprese. Si è fatto già qualcosa con l'Aiuto alla Crescita Economica (ACE), misura che ha avuto un qualche successo, ma molto resta ancora da fare.
  Anche il progetto di Capital Markets Union, avviato l'anno scorso, sarà tanto più efficace a sostegno di una crescita durevole quanto più riuscirà a diffondere la cultura dell’equity e a favorire la raccolta di capitale di rischio. Peraltro un maggiore ricorso al mercato da parte delle imprese migliorerà anche la qualità del credito delle banche.
  Sarebbe opportuno che i nuovi investimenti auspicati da Draghi si accompagnino ad un incremento nella dotazione patrimoniale delle imprese. Il riequilibrio nelle fonti di finanziamento delle aziende italiane, necessario per riportarle ad una leva finanziaria in linea con la media europea, è stato quantificato dal Governatore Visco nelle Considerazioni finali del 2013 in un aumento di circa 200 miliardi del capitale proprio e in una corrispondente riduzione dei prestiti. Un'altra quantificazione stima, per difetto, il fabbisogno di capitale proprio delle imprese italiane a fine 2014. Le circa 2050 grandi aziende che compongono l'ultimo campione Mediobanca presentano un margine di struttura negativo di circa 220 miliardi di euro. In altri termini, 220 miliardi di euro di immobilizzazioni fisse nette che anziché essere finanziate da capitale proprio – per sua natura durevolmente destinato Pag. 63alle sorti dell'azienda – sono finanziate da capitale di debito e in parte anche da debiti bancari a breve. Ancorché vi sia stato un miglioramento in questo dato, pari a circa 10 miliardi rispetto all'anno precedente, tanto resta da fare per quanto riguarda la corretta patrimonializzazione delle imprese

  L'attuale contesto di tassi di interesse bassi potrebbe rivelarsi favorevole, una volta svanito l'effetto destabilizzante di Brexit, per le ammissioni alle quotazioni e non solo per l'allungamento delle scadenze delle fonti di finanziamento a titolo di credito, che sta già avvenendo. Non andrebbe quindi persa l'occasione per nuovi apporti di capitale di rischio – derivanti dall'autofinanziamento, immessi dall'imprenditore, raccolti sul mercato e/o provenienti dall'estero – atti a finanziare fisiologicamente quei nuovi investimenti delle imprese che possono innalzarne la produttività e migliorarne stabilmente la competitività anche quando l'effetto cambio non sarà più così favorevole e i tassi si saranno normalizzati a livelli più elevati.
  Negli ultimi anni vi sono state delle aree di miglioramento ma ve ne sono altre sulle quali lavorare. Con riguardo al rafforzamento patrimoniale, una ricerca condotta dalla Banca d'Italia su un campione di aziende con più di venti addetti mostra che la metà di queste ha aumentato il patrimonio netto tra il 2012 e il 2015 e che per più di un'azienda su dieci la decisione è stata influenzata dagli incentivi fiscali previsti dall'Aiuto alla Crescita Economica (ACE). Nello stesso arco temporale vi sono state circa 100 emissioni di minibond, prevalentemente da parte di aziende di medie dimensioni, favorite dalla recente estensione di agevolazioni fiscali ai titoli delle società non quotate che di fatto si traduce in una riduzione dei costi di emissione. Pag. 64
  Occorre anche meglio informare le imprese sulle misure esistenti (Visco, 2016). Infatti, dalla medesima ricerca emerge che queste agevolazioni non sono note alla generalità delle imprese: nel caso dell'ACE, a circa un terzo delle aziende censite, soprattutto a quelle di piccole dimensione; nel caso delle agevolazioni fiscali per i minibond, quasi al 40 per cento delle imprese censite.
  Bisogna anche incentivare l'imprenditorialità e la nascita di nuove imprese, soprattutto innovative, che sappiano attirare investitori disposti a scommettere su un'idea che, per definizione, non potrà essere remunerativa oggi, né domani, ma solo nel lungo periodo. Ed è questo il momento giusto per favorire e premiare chi investe nel capitale di rischio. Nella relazione si ricorda che gli investimenti diretti alle imprese nelle fasi iniziali di attività, seppure in crescita, continuano a essere meno del 2 per cento, una piccola porzione degli investimenti totali in private equity che ammontano a 4,6 miliardi di euro nel 2015. Si potrebbero attivare anche degli incentivi rivolti ai risparmiatori che investono nel capitale di rischio delle PMI, in totale coerenza con il progetto di Capital Markets Union, l'unione dei mercati dei capitali avviata dalla Commissione Europea a settembre – richiamata dal Governatore – che persegue l'obiettivo di diversificare le fonti di finanziamento dell'economia reale e ridurre i costi di raccolta del capitale per le PMI. Agevolazioni fiscali mirate fanno parte delle decisioni di politica economica lasciate ai singoli Paesi UE e sono fondamentali per rafforzare la cultura dell’equity.
  Per inciso, agevolazioni fiscali mirate a rafforzare la cultura dell’equity sia per le imprese sia per i risparmiatori di cui vi dirò tra poco, a prima vista potrebbero sembrare uno svantaggio per l'erario, tuttavia adottando un orizzonte temporale che vada oltre l'immediato, è plausibile che al minor introito nel breve possa corrispondere un maggior gettito nel medio. Trovando finanziamenti a titolo di capitale di rischio, le aziende crescono e hanno successo.
  Passando al secondo punto, cioè al tema del rapporto tra banche e risparmiatori. In Italia la propensione al risparmio delle famiglie è assai più alta che in altri paesi e le banche sono storicamente state il loro punto di riferimento nelle scelte di investimento.
  L'impatto della politica monetaria espansiva sull'andamento dei consumi e quindi di riflesso sull'economia italiana viene ritenuto da alcuni non sufficiente e inferiore rispetto a quello verificatosi in altri Paesi. Al riguardo occorre considerare il risultato complessivo dell'effetto negativo dei minori rendimenti sugli investimenti e l'effetto positivo del minor tasso applicato sui mutui. Va rilevato che le famiglie italiane, sono in maggior misura risparmiatrici, pertanto l'effetto depressivo del calo delle entrate da interessi sul reddito disponibile più che compensa i minori interessi pagati sui debiti, con il risultato che si attenua lo stimolo ai consumi. Una situazione di tassi di interesse bassi, quindi, non favorisce i consumi in un Paese come l'Italia quanto nei Paesi in cui le famiglie sono indebitate, che quando i tassi di interesse sono bassi, si indebitano e consumano di più.
  Per le famiglie risparmiatrici, prevalenti in Italia, la politica di tassi bassi o negativi comporta una riduzione del reddito disponibile in quanto dieci anni fa chi aveva i propri risparmi investiti in Buoni Ordinari del Tesoro otteneva un rendimento assai più elevato, e anzi Pag. 65oggi, devono essere loro a pagare se vogliono avere il privilegio di investire in BOT. Si è verificato una specie di mondo al contrario. Coloro che arrotondavano le proprie entrate grazie ai titoli di Stato adesso non hanno più questo introito. In un contesto come quello attuale di tassi vicini allo zero sugli investimenti in titoli di stato, i risparmiatori sono attratti da strumenti più rischiosi.
  La relazione tra banca e i risparmiatori deve basarsi sulla comune consapevolezza che il futuro è incerto per tutti e che qualsiasi decisione di investimento in cui si trasferisce il proprio risparmio per conseguire un rendimento comporta dei rischi. Rischi che possono arrivare al completo azzeramento della somma investita. Quanto più il rendimento è alto tanto più il rischio è elevato. Sul mercato esistono strumenti finanziari con combinazioni rischio rendimento diverse. Ricerche condotte ex post su orizzonti temporali lunghi dimostrano che le azioni consentono di conseguire rendimenti medi annui tra il 7 e l'8 per cento, le obbligazioni tra il 2 e il 3 per cento. I profili di rischio sono però molto diversi, con il valore delle azioni che oscilla assai di più rispetto a quello delle obbligazioni. In altri termini, il 7 per cento medio è frutto di valori molto più lontani ad es. +87 per cento –80 per cento mentre il rendimento medio delle obbligazioni riflette oscillazioni molto più contenute. Il rischio misura quanto sono lontane le osservazioni effettive rispetto alla media che ci si attende ex ante. Se l'investitore non ha un orizzonte temporale lungo e quindi non è in condizione di poter fare a meno dei suoi risparmi per un certo periodo, non dovrebbe investire in titoli rischiosi, perché i titoli azionari portano a un rendimento migliore nel caso di un periodo di investimento più lungo, durante il quale però essi subiscono oscillazioni molto forti e, probabilmente, su qualche titolo presente in portafoglio l'investitore subirà una perdita importante. Per poter investire in strumenti più rischiosi occorre avere un orizzonte temporale lungo e anche poter aspettare prima di liquidare l'operazione se il momento di mercato è ritenuto congiunturalmente sfavorevole.
  Questo è il rischio. It's a bumpy ride, cioè ci sono molte più oscillazioni. È possibile ridurre il rischio con una diversificazione del portafoglio e forse attenuarlo affidando la gestione a un professionista competente. Tuttavia, mentre è sicuro che è sbagliato in termini di rischio concentrare i propri risparmi in un unico investimento, non è certo che i professionisti che vengono delegati facciano bene o meglio del mercato, proprio perché anche loro non sfuggono alla legge che il futuro è incerto per tutti. Questo, peraltro, vale anche per le banche nel momento in cui erogano un prestito e si aspettano la controprestazione, gli interessi e il rimborso del capitale, in un momento futuro.
  La controprestazione, proprio perché differita nel tempo, è soggetta all'incertezza che si può soltanto tentare di misurare e ipotizzare facendo degli scenari. I quali tuttavia non eliminano il fatto che, in ogni caso, il futuro è incerto per tutti. Ne consegue che anche il migliore gestore professionale può sbagliare e che, anche qualora si affidino i propri risparmi a gestori professionali, questo non significa necessariamente avere ritorni positivi. Deve essere chiaro anche nella relazione tra cliente e banca: il futuro è incerto per tutti, quindi, ogni volta che si fa un investimento, esso è soggetto al rischio di perdere, in tutto o in parte, il capitale, o di non avere i flussi di reddito previsti. Pag. 66
  Ha senso investire in titoli rischiosi? Probabilmente sì, se si vogliono avere dei rendimenti interessanti e si ha la possibilità di mantenere l'investimento oltre il breve termine. C'è una differenza significativa, tra il montante che si ha alla fine di un periodo di vent'anni con un investimento che consente di avere un rendimento medio annuo dell'8 per cento rispetto a un montante che si ha, dopo lo stesso periodo, con un investimento al 2 per cento medio annuo. Già alla fine degli anni 50 il mio maestro Tancredi Bianchi scriveva che il mercato di borsa consentiva una democratizzazione dell'investimento del risparmio consentendo ai piccoli risparmiatori di poter guadagnare quanto i grandi imprenditori che avevano creato l'azienda. Certo investendo in capitale di rischio e quindi rischiando di perdere il capitale.
  L'investimento in capitale di rischio è importante all'interno di un'economia in quanto da un lato consente al risparmiatore di conseguire un maggior rendimento e dall'altro lato è il capitale proprio che fisiologicamente finanzia gli investimenti che servono a migliorare la produttività e in ultima analisi la competitività delle aziende, come richiamato al primo punto di questa relazione.
  Come detto, le politiche fiscali fanno parte delle decisioni di politica economica lasciate ai singoli Paesi UE. Importante nel favorire la cultura dell’equity è un contesto di tassazione favorevole e, con riguardo alla domanda di titoli azionari, altri paesi hanno sistemi assai più aggressivi dei nostri. Un esempio interessante è il Seed enterprise investment scheme britannico. Sebbene il mercato del private equity del Regno Unito sia già più sviluppato rispetto al nostro, si incentiva l'investimento diretto dei soggetti privati nelle piccole imprese innovative; si tratta di un investimento non tramite il credito, ma tramite l'equity, che consente sgravi fiscali consistenti.
  Una persona che investa direttamente nel capitale proprio di una piccola impresa innovativa ha diritto a detrarre dal reddito il 50 per cento del suo investimento, allorché dovesse perdere tutto – ipotesi non remota, considerando che investe nel capitale di rischio di un'azienda, per giunta di piccolissime dimensioni – beneficerà di un credito di imposta del 50 per cento di quello che ha perso moltiplicato per l'aliquota marginale. Dato che il 50 per cento lo ha detratto prima, e sul 50 per cento di quanto avesse eventualmente perso dopo, ha il credito di imposta, l'investitore ha messo effettivamente a repentaglio solo il 55 per cento del suo investimento iniziale. Il meccanismo descritto fa si che, nella sostanza a causa dei diversi benefici concessi, lo stato limiti l'effetto della perdita conseguibile dall'investitore al 55 per cento del capitale investito nel capitale di rischio dell'azienda innovativa.
  Le azioni sono rappresentative del capitale di rischio dell'azienda e comportano la possibilità di perdere l'intero capitale investito. Lo stesso può valere per i titoli subordinati, come pure per le obbligazioni senior, in caso di default dell'emittente o di bail-in della banca. È quindi molto importante che, al momento dell'acquisto di strumenti finanziari, il loro profilo di rischio sia comunicato e ben compreso.
  Con riguardo al primo aspetto, l'informativa al cliente sui rischi, le autorità possono intervenire. L'ESMA (European Securities and Markets Authority) – che ho avuto modo di frequentare, come componente Pag. 67del Securities and Markets Stakeholder Group – all'inizio di giugno, ha ribadito agli intermediari dei 28 paesi dell'UE, i loro doveri quando collocano strumenti finanziari soggetti alla nuova disciplina della risoluzione delle crisi delle banche (BRRD). Come oramai noto, le nuove procedure europee per la risoluzione delle crisi non consentono più il bail-out da parte dello stato, che quindi ricade sulle spalle di tutti i contribuenti, e prevedono invece il bail-in da parte degli investitori che hanno sottoscritto certe categorie di titoli: azioni, com'è sempre stato, ma anche obbligazioni e altre passività detenute per oltre 100.000 euro. Quindi è fondamentale che vi sia consapevolezza dei rischi da parte dei risparmiatori che comprano o detengono strumenti soggetti a bail-in. L'ESMA ha ricordato che oltre ai doveri di trasparenza ed informativa ai clienti, quando effettuano le valutazioni di adeguatezza /appropriatezza richieste da MiFID, le banche devono tener conto degli effetti dell'entrata in vigore della BRRD sul rischio di mercato, di liquidità e di credito dei titoli soggetti a bail-in collocati.
  La comunicazione dell'autorità europea non introduce nuove regole, riporta obblighi già esistenti. Peraltro, per quanto riguarda l'Italia, la CONSOB si era mossa il 24 novembre 2015 con una sua comunicazione pochi giorni dopo il recepimento della BRRD.
  La comunicazione ESMA affronta anche il delicato tema del self-placement, ossia il collocamento da parte della banca dei propri strumenti soggetti a bail-in alla clientela retail. In quest'ambito si richiede alle banche di presidiare adeguatamente i potenziali conflitti di interesse, definendo politiche di collocamento e di remunerazione che evitino che l'interesse della banca sia perseguito a discapito di quello del cliente.
  Non basta che le informazioni siano comunicate o scritte nel prospetto informativo, occorre che siano lette e comprese dai risparmiatori. L'OCSE ha rilevato una cultura finanziaria degli italiani insufficiente e comunque inferiore a quella esistente in altri Paesi e questo può rendere difficile la comprensione dei rischi. Emerge quindi un'altra area di intervento: bisogna sviluppare una competenza finanziaria di base diffusa. Tutti gli studenti dovrebbero essere messi nelle condizioni di imparare alcuni rudimenti di economia e di diritto alle scuole medie inferiori, considerato che nel mondo moderno è fondamentale comprendere un contratto o saper investire, in maniera previdente, per la propria futura pensione. Occorre lavorare affinché nelle scuole italiane queste conoscenze di base vengano fornite a tutti i ragazzi. Anche per coloro che sono già adulti occorre potenziare la cultura finanziaria.
  Diverse iniziative singole sull'educazione finanziaria esistono già. È molto importante coordinare gli sforzi e creare un'entità che consenta di valorizzare i diversi contributi offerti, ripartendo i compiti e quindi svolgendo un lavoro analitico, che valorizzi attraverso una strategia unitaria ciò che viene già fatto, come previsto nella proposta di legge presentata dal Presidente Bernardo in materia di educazione finanziaria. Su questo fronte anche i media possono dare un utile contributo.
  Terzo punto: la stabilità del sistema bancario nell'attuale contesto di tassi di interesse bassi o negativi e le implicazioni per le relazioni con imprese e risparmiatori. Se, da un lato, la politica monetaria espansiva Pag. 68dovrebbe aiutare le imprese a favorire una ripresa dell'economia, dall'altro lato si tratta di un contesto difficile per le banche, in particolare quelle, come le banche italiane, che svolgono principalmente un'attività di raccolta di depositi e di investimento in prestiti. Le banche italiane si trovano strette fra un margine di interesse sotto pressione e una qualità dell'attivo che non può che riflettere le problematiche dell'economia che dalla crisi ad oggi ha visto una consistente riduzione nella produzione industriale (di quasi il 20 per cento).
  Con la decisione di politica monetaria del 16 marzo 2016, la BCE ha operato un'ulteriore riduzione del tasso applicato sui depositi delle banche presso la banca centrale di 10 basis point portandolo al –0,4 per cento, come i mercati finanziari si aspettavano.
  Ancorché attesa dal mercato, è stata comunque una decisione coraggiosa se si considera che negli Stati Uniti, né Ben Bernanke né Janet Yellen, profondi conoscitori dei meccanismi della politica monetaria e sostenitori dell'allentamento quantitativo, abbiano mai richiesto alle banche di pagare per poter mantenere la loro liquidità presso la Fed.
  Ci sono tuttavia, alcune conseguenze indesiderate dei tassi molto bassi o negativi sulla redditività delle banche soprattutto quelle il cui modello di business è incentrato sull'attività bancaria tradizionale, che non riescono a generare un flusso di commissioni sufficiente a compensare il calo del margine di interesse.
  Il margine di interesse delle banche, ossia quanto si guadagna dall'intermediazione creditizia – raccolta di depositi ed erogazione di prestiti – può essere interpretato come frutto di due componenti: il mark up (quanto si richiede in più sui prestiti rispetto ad un tasso di riferimento, ad es. euribor 1 mese) e il mark down (quanto si riconosce in meno sui depositi rispetto al medesimo tasso di riferimento). Quando il livello dei tassi di interesse di mercato scende al punto da azzerarsi, il mark down, ossia la redditività sui depositi, tende anch'essa a diminuire fino ad annullarsi.
  Al momento, con il tasso sui depositi overnight presso la BCE in negativo, le banche si trovano a pagare per la liquidità che detengono presso la banca centrale ma non traslano questo onere ai depositanti. Al contrario, nel caso dei prestiti, con l'euribor negativo, il minor onere deve essere riconosciuto ai clienti (a meno che nel contratto non fosse specificato che non si sarebbe andati sotto lo zero come tasso base) e quindi comprime ulteriormente la redditività delle banche.
  La progressiva riduzione dei tassi e l'allentamento quantitativo possono non tradursi in un indebolimento strutturale delle banche se si verificano alcune condizioni.
  Nella prima fase di discesa dei tassi di interesse la redditività delle banche viene sostenuta da guadagni in conto capitale sul portafoglio titoli obbligazionari e dal flusso cedolare elevato sui titoli a medio termine rispetto al tasso applicato sui finanziamenti della Bce (carry trade). Una volta esaurito questo effetto, affinché il modello di business delle banche sia sostenibile, occorre che la politica monetaria sia efficace nel consentire sia un aumento dei volumi di prestito, tale da compensare l'effetto depressivo sui tassi applicati ai finanziamenti, sia un miglioramento della parte bassa del conto economico, derivante da Pag. 69un miglioramento nella situazione economica generale e nelle imprese affidate, che si traduca a propria volta in una consistente riduzione del costo del credito. Se il miglioramento nella parte bassa del conto economico non è abbastanza rapido, alle banche non rimane che ridurre in maniera molto significativa il costo del personale, tale riduzione dei costi del personale dovrebbe essere inoltre accompagnata da processi di concentrazione. Infatti, se si ha una minore redditività dal margine di interesse, quando i guadagni sui titoli scendono, come sta accadendo attualmente, occorre incidere in maniera decisa sui costi.
  Gli effetti della progressiva riduzione dei tassi e dell'allentamento quantitativo sono ben noti alle Autorità che in parallelo in questi anni hanno usato la loro moral suasion per stimolare le banche. L'attenzione che verrà dedicata ai modelli di business nel 2016 dall'Autorità di vigilanza unica riflette proprio il desiderio di sensibilizzare ulteriormente le banche sulla necessità di perseguire sia una riduzione nei costi operativi, affiancata da processi di concentrazione che consentano di raggiungere una dimensione tale da ottimizzare i costi e migliorare la redditività dell'intermediazione creditizia pur in presenza di un margine di interesse più basso, sia di orientare il modello di business verso maggiori ricavi da commissioni, grazie ad una maggiore focalizzazione su risparmio gestito e wealth management. I problemi di redditività delle banche italiane si risolvono solo in parte con una riduzione degli organici, del resto, grazie alla digitalizzazione, l'attività bancaria è diventata molto meno people intensive.
  Va ricordato però che secondo gli ultimi dati presentati da Sabine Lautenschläger, Vice Presidente del Consiglio di Vigilanza del Meccanismo di Vigilanza Unico (MVU) venerdì scorso all'incontro con Amministratori Delegati, Chief Risk Officer e Chief Financial Officer delle banche vigilate dal MVU, le banche italiane hanno già un'incidenza media dei ricavi commissionali fra le più alte tra le banche vigilate BCE, con una percentuale sul totale dei ricavi ben oltre la media di tutte le banche vigilate (36 per cento vs 28 per cento), simile alle banche francesi (33 per cento) e tedesche (30 per cento). Per le banche italiane, pertanto, non sembra nel complesso facile poter compensare il minor margine da interesse con maggiori ricavi da commissioni.
  Nell'ambito del ragionamento relativo alla stabilità del sistema occorre anche commentare l'andamento di mercato delle banche italiane quotate e il problema dell'incidenza delle sofferenze e delle altre partite anomale (i cosiddetti Non Performing Loans o NPL) sul portafoglio crediti che è considerevolmente aumentata (come previsto nella precedente audizione di inizio 2012).
  Le banche italiane sono trattate sul mercato a prezzi assai inferiori rispetto al loro valore di libro, il rapporto price/book è molto basso. Agli attuali prezzi di mercato, 100 euro di patrimonio netto a valore di libro vengono valorizzati in Borsa con una capitalizzazione di 10, 20, 30 o 40 euro, quindi, una frazione anche assai piccola. Questo dato può essere interpretato in due modi. Il primo è che il mercato ritiene che ci siano attivi che valgono meno di quanto sono iscritti a libro: ad esempio, sono conteggiate una serie di partite in sofferenza valutate 40 (valevano 100 in origine e sono state svalutate di 60), ma in realtà secondo il mercato valgono 20. L'altra interpretazione è che, poiché già si sa che, in prospettiva, l'emittente non avrà una redditività sufficiente Pag. 70a remunerare il suo attuale patrimonio, si vende fino al punto in cui la capitalizzazione riconosciuta dal mercato è quella che la banca sarà in grado di remunerare. Si tratta di un meccanismo analogo a quello con cui si muovono i prezzi di mercato delle obbligazioni. Immaginiamo delle obbligazioni emesse a 100 con una cedola fissa pari a 5, se poi i tassi di interesse richiesti dal mercato salgono al 10 per cento, quel titolo viene venduto fino a quando il prezzo di mercato scende al punto da far si che il tasso di rendimento implicito, derivante dalla cedola più il guadagno in conto capitale per chi dovesse acquistare al minor prezzo quotato dal mercato, sarà tale da riallineare il rendimento al nuovo tasso di mercato del 10 per cento. In altre parole, il price/book delle banche rispecchia aspettative di un'insufficiente redditività prospettica. Probabilmente queste due interpretazioni possono convivere, quindi sulle banche italiane c'è la preoccupazione che da un lato abbiano degli attivi iscritti a valori superiori rispetto al loro effettivo valore e, dall'altro, che in futuro non siano in grado di generare una redditività sufficiente.
  Al momento, il mercato attende anche il risultato dello stress test alla fine di questo mese. In realtà le tappe importanti saranno due: una intermedia, un po’ meno nota, che cade il 19 Luglio e riguarda la decisione della Corte di giustizia europea sul bail-in delle banche slovene, e poi il 29 Luglio i risultati dello stress test.
  Per quanto riguarda gli stress test, sarebbe opportuno che l'Italia lavorasse a una soluzione per il caso in cui qualche banca non fosse in grado di passare lo stress test. Quando gli Stati Uniti hanno fatto gli stress test avevano già preparato il programma Tarp (Troubled Asset Relief Program), in modo tale che, qualora una banca avesse fallito gli stress test, si sapeva già come intervenire per ricapitalizzarla. Anche in Italia sarebbe opportuno che vi fosse la possibilità di una garanzia statale per gli aumenti di capitale per quelle banche che ne avessero eventualmente bisogno ad esito degli stress test. Tale garanzia potrebbe rientrare nella previsione dell'articolo 32 della BRRD che sancisce che a fronte di circostanze eccezionali «gli Stati possono fornire sostegno finanziario mediante strumenti di stabilizzazione finanziaria aggiuntivi» al fine di «evitare effetti negativi significativi sulla stabilità finanziaria, in particolare attraverso la prevenzione del contagio». Tale garanzia, potrebbe almeno inizialmente sostituirsi all'intervento diretto da parte dello Stato (e forse non renderlo necessario) ed avere un orizzonte temporale quinquennale, probabilmente adeguato per risolvere in maniera graduale il problema dei Non Performing Loans.
  Inoltre, la vendita dei prestiti non performing libera i bilanci bancari da attivi che presentano dei problemi nell'immediato che tuttavia secondo gli acquirenti presentano una potenziale redditività prospettica interessante. Gli operatori di mercato disponibili a comprare gli attivi in sofferenza li comprerebbero a prezzi più bassi rispetto a quelli a cui li hanno a libro le banche italiane, perché ipotizzano di poter rientrare del loro investimento in un orizzonte temporale e fanno l'ipotesi di poter avere una remunerazione sul capitale proprio investito che è tra il 15 per cento e il 17 per cento. In altri termini ci sono acquirenti di prestiti in sofferenza, che non sono le banche, che sono disponibili a comprare a 20 un attivo, perché ritengono, in un orizzonte temporale di cinque anni, di avere comunque Pag. 71 un ritorno sul capitale del 17 per cento. Se, però, la banca ha attivi che possono avere una remunerazione di questo tipo, forse è meglio fare un aumento di capitale e mantenere sia quegli attivi buoni e sia gli attivi più rischiosi, come gli NPL, sui quali gli acquirenti dimostrano che ci potrà essere un ritorno dell'investimento. Se la banca vende a 20 attivi iscritti ad un valore di 40, realisticamente farà delle perdite e, a quel punto, avrà comunque bisogno dell'aumento di capitale, senza avere più quegli attivi potenzialmente redditizi, perché li ha già venduti.
  La scelta che andrebbe evitata è quella di vendere, e quindi liberare lo stato patrimoniale, ma a costo di un peggioramento del conto economico del futuro. Si vendono bene gli attivi che hanno una redditività futura, per questo qualcun altro li vuole comprare. Quindi si rischia di risolvere il problema dello stato patrimoniale di oggi al prezzo del conto economico di domani; così facendo, quindi, può sembrare di aver trovato una soluzione, ma si cura il sintomo e non la malattia. Se si ritiene che le banche italiane abbiano bisogno di più capitale proprio, quella è la cura e se agli attuali prezzi di mercato si teme che non sarà possibile collocare gli aumenti di capitale occorre cercare di immaginare un backstop, del tipo della già citata garanzia statale agli aumenti.
  Agli attuali prezzi di borsa fare un aumento di capitale significa, in molti casi, diluire gli azionisti esistenti, e questo può costituire un problema, nel senso che ci possono essere azionisti che non sono disponibili a perdere di peso. Tuttavia se la cura è l'aumento di capitale, forse la strada maestra è adottare quella soluzione, e non passare da altre vie.
  Per quanto riguarda la stabilità del sistema bancario, sarebbe quindi opportuno cercare una strada da combinare a quella della vendita di parte degli NPL, lavorando su una soluzione che consenta comunque di attuare aumenti di capitale garantiti dallo Stato. Si tratta di una formula che va elaborata e concordata a livello europeo; potrebbe essere l'utile strada mediana, perché fare gli stress test senza avere la possibilità di procedere ad una eventuale ricapitalizzazione – come detto da attuare con una garanzia da parte dello Stato – per quelle banche che ne avessero bisogno, potrebbe risultare destabilizzante anziché favorire la stabilità

  Conclusioni

  A conclusione, alcune considerazioni. Non si tratta di ricette, ma solo qualche umile suggerimento, in un contesto geopolitico in grande mutamento. Brexit ha cambiato lo scenario, generando un'incertezza che certamente continuerà fino a quando non sarà chiaro ai mercati come e in che tempi avverrà l'uscita della Gran Bretagna dall'UE. Altri eventi geopolitici si susseguiranno nei prossimi mesi e potrebbero ulteriormente modificare gli attuali assetti: le elezioni americane a novembre, il referendum italiano a dicembre, le elezioni olandesi a marzo 2017, poi quelle tedesche ed infine le presidenziali francesi.
  A livello domestico, un possibile intervento correttivo a basso costo riguarda il miglioramento della cultura finanziaria delle persone, dei giovani, degli imprenditori, dei risparmiatori. In quest'ottica ben venga la proposta di legge del Presidente Bernardo sull'educazione finanziaria («Disposizioni concernenti la comunicazione e la diffusione delle competenze Pag. 72 di base necessarie per la gestione del risparmio privato nonché istituzione di un'Agenzia nazionale per la loro promozione»).
  Inoltre, sarebbe opportuna una politica fiscale che favorisca il diffondersi della cultura dell’equity. Una misura simile al Seed Enterprise Investment Scheme britannica, pensata per gli investitori individuali sarebbe certamente utile in Italia, che è un Paese di risparmiatori e deve sviluppare maggiormente una cultura imprenditoriale, legata a imprese che lavorano con il capitale proprio. La soluzione per le imprese non sono, infatti, necessariamente le banche, ma anche il capitale proprio aumentato tramite l'autofinanziamento o fornito da un investitore esterno. Si potrebbe obiettare che gli incentivi fiscali possono rappresentare un sacrificio per lo Stato, tuttavia l'esperienza dimostra il contrario. Se le agevolazioni fiscali funzionano, e per mezzo di una maggiore patrimonializzazione delle imprese, si stimolano nuovi investimenti e una maggiore capacità competitiva, l'azienda cresce e vengono comunque raccolte dallo Stato più tasse, sia dall'impresa stessa, sia dai lavoratori che impiega. Adottando un'ottica temporale pluriennale, allo svantaggio, però, se il meccanismo funziona, darà frutti futuri superiori; è importante quindi passare da un orizzonte uniperiodale a uno pluriperiodale, avendo in mente che cosa può succedere in un orizzonte temporale di medio-lungo periodo.
  Infine, con riguardo alle misure da perseguire a livello domestico, sarebbe importante che l'Italia avesse già predisposto un backstop allorché, all'esito di tali test, qualche banca italiana avesse bisogno di una ricapitalizzazione. Più specificamente sarebbe da esplorare la possibilità per lo stato di garantire gli aumenti di capitale delle banche per un orizzonte temporale circoscritto, ad esempio di cinque anni (probabilmente sufficiente per risolvere in maniera graduale il problema dei non performing loans) in momenti di particolare turbolenza del mercato, o ad esito degli stress test.
  Relativamente agli interventi correttivi in ambito europeo e anche mondiale, guardando avanti vi sono una serie di sfide di natura regolamentare che vanno tenute in debita considerazione pianificando in maniera coordinata gli ambiti in cui l'Italia con i suoi esponenti può far sentire la sua voce, non tanto per difendere interessi di parte quanto per sottolineare quelli che potrebbero essere degli errori per il ritorno alla crescita per l'Europa.
  Questi sono:

   - SME supporting Factor, cioè un'attenuazione dei requisiti patrimoniali richiesti quando si fanno erogazioni alle piccole e medie imprese;

   - Riforma modello standard da parte del Comitato di Basilea, che sarebbe molto, forse troppo, penalizzante per le banche italiane;

   - In termini di inasprimento dei coefficienti patrimoniali il Comitato di Basilea sta anche considerando la rivisitazione del rischio operativo, che sarebbe particolarmente penalizzante per le grandi banche italiane;

   - L'introduzione di tetti ai titoli di stato oppure l'inserimento di un fattore di ponderazione di rischio su queste posizioni, come precondizione prima di passare a una garanzia europea sui depositi.

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   Si tratta di tematiche da presidiare, già oggetto di attenzione dell'ABI e del Parlamento europeo.
   Guardando avanti nelle prossime due settimane ci saranno due appuntamenti particolarmente importanti per le banche e per i mercati: il 19 luglio la pronuncia della Corte di Giustizia Europea sul bail-in delle banche slovene e il secondo il 29 luglio, a mercati chiusi, la divulgazione dei risultati degli stress test. Questi sono due banchi di prova immediati, tuttavia è importante mantenere un orizzonte temporale che vada oltre il breve termine e il contingente e puntare lo sguardo sul medio e lungo periodo. Questo vale per l'Unione europea, per la politica economica italiana, per le imprese e per i risparmiatori del nostro Paese.
   Da ultimo, lo sforzo congiunto che va fatto con il coinvolgimento di studiosi, practitioner e della politica è l'adozione di un orizzonte temporale più lungo. Il mercato incrocia domanda e offerta con un prezzo dandoci la sua percezione del valore in quell'istante, però bisogna evitare di impostare scelte e decisioni di politica economica guardando alle reazioni immediate o previste future dei mercati. Lo sottolineo in questo contesto ma, in modo analogo, cerco di attenermi alla prospettiva di medio termine quando sono chiamata in consiglio di amministrazione a valutare le strategie aziendali proposte dagli esecutivi, che devono dispiegare effetti positivi oltre l'orizzonte temporale di breve.
   La necessità di adottare uno sguardo lungo è un tema all'attenzione in tutti i Paesi. Nelle sue prime dichiarazioni prima dell'insediamento a Downing Street, Theresa May ha annunciato che sta valutando come modificare la governance delle imprese per fare in modo che ci siano rappresentanti dei lavoratori all'interno dei consigli di amministrazione. Ascoltare, da parte di un primo ministro conservatore, un'ipotesi del genere mi è sembrata espressione di una visione totalmente diversa rispetto al passato. Non tanto per lo strumento ipotizzato, quanto piuttosto la conferma dell'idea che occorra darsi un orizzonte quanto meno di medio termine, per costruire un futuro migliore.
   Credo che, al di là di tanti dettagli, l'impatto delle scelte di politica economica oltre l'immediato o il breve termine sia il tema sistemico sul quale ragionare e sul quale basare le decisioni.
   Io ho concluso. Li ringrazio molto della Loro attenzione.

   Marina Brogi

   Professore Ordinario di International Banking and Capital Markets

   Vicepreside Facoltà di Economia, Università di Roma La Sapienza

   Riferimenti

   Brogi M., Lagasio V. (2016) SME sources of funding: more capital or more debt to sustain growth? An empirical analysis, in (a cura di) Rossi S. Palgrave Macmillan Studies in Banking and Financial Institutions.

   Draghi (2015), Dichiarazione introduttiva, Francoforte sul Meno.

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   Mediobanca (2015), Dati cumulativi di società italiane, agosto.

   Seed enterprise investment scheme (2013), https://www.gov.uk/guidance/seed-enterprise-investment-scheme-background.

   Seed enterprise investment scheme, http://www.seis.co.uk/.

   Visco (2013), considerazioni finali.

   Visco (2016), considerazioni finali

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