XVII Legislatura

Commissioni Riunite (V e XII)

Resoconto stenografico



Seduta n. 1 di Lunedì 17 giugno 2013

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Boccia Francesco , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA SFIDA DELLA TUTELA DELLA SALUTE TRA NUOVE ESIGENZE DEL SISTEMA SANITARIO E OBIETTIVI DI FINANZA PUBBLICA

Audizione di rappresentanti di Istituzioni e Fondazioni di studio di settore: prof. Elio Borgonovi, presidente del CeRGAS-Bocconi, prof.ssa Sabina Nuti, responsabile del laboratorio Management e sanità della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, prof. Davide Croce, direttore del Centro di Ricerca in Economia e Management di Sanità e nel Sociale (CREMS) della LIUC Cattaneo, prof. Gualtiero Ricciardi, coordinatore del Rapporto Osservasalute dell'Osservatorio nazionale per la salute nelle regioni italiane.
Boccia Francesco , Presidente ... 3 
Borgonovi Elio , Presidente del CeRGAS-Bocconi ... 4 
Boccia Francesco , Presidente ... 7 
Nuti Sabina , Responsabile del laboratorio Management e sanità della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa ... 7 
Vargiu Pierpaolo , Presidente ... 11 
Croce Davide , Direttore del Centro di Ricerca in Economia e Management di Sanità e nel Sociale (CREMS) della LIUC Cattaneo ... 11 
Vargiu Pierpaolo , Presidente ... 15 
Ricciardi Gualtiero , Coordinatore del Rapporto Osservasalute dell'Osservatorio nazionale per la salute nelle regioni italiane ... 15 
Vargiu Pierpaolo , Presidente ... 17 
Baroni Massimo Enrico (M5S)  ... 17 
Vargiu Pierpaolo , Presidente ... 18 
Lenzi Donata (PD)  ... 18 
Palese Rocco (PdL)  ... 19 
Miotto Anna Margherita (PD)  ... 20 
Di Gioia Lello (Misto-PSI-PLI)  ... 21 
Vargiu Pierpaolo , Presidente ... 22 
Aiello Ferdinando (SEL)  ... 22 
Biondelli Franca (PD)  ... 22 
Vargiu Pierpaolo , Presidente ... 23 
Baroni Massimo Enrico (M5S)  ... 23 
Grassi Gero (PD)  ... 24 
Vargiu Pierpaolo , Presidente ... 25 
Borgonovi Elio , Presidente del CeRGAS-Bocconi ... 25 
Nuti Sabina , Responsabile del laboratorio Management e sanità della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa ... 29 
Croce Davide , Direttore del Centro di Ricerca in Economia e Management di Sanità e nel Sociale (CREMS) della LIUC Cattaneo ... 30 
Lenzi Donata (PD)  ... 32 
Croce Davide , Direttore del Centro di Ricerca in Economia e Management di Sanità e nel Sociale (CREMS) della LIUC Cattaneo ... 32 
Ricciardi Gualtiero , Coordinatore del Rapporto Osservasalute dell'Osservatorio nazionale per la salute nelle regioni italiane ... 32 
Lenzi Donata (PD)  ... 33 
Ricciardi Gualtiero , Coordinatore del Rapporto Osservasalute dell'Osservatorio nazionale per la salute nelle regioni italiane ... 33 
Baroni Massimo Enrico (M5S)  ... 34 
Ricciardi Gualtiero , Coordinatore del Rapporto Osservasalute dell'Osservatorio nazionale per la salute nelle regioni italiane ... 34 
Vargiu Pierpaolo , Presidente ... 36

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: PdL;
Scelta Civica per l'Italia: SCpI;
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Lega Nord e Autonomie: LNA;
Fratelli d'Italia: FdI;
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero: Misto-MAIE;
Misto-Centro Democratico: Misto-CD;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI.

Testo del resoconto stenografico
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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA V COMMISSIONE FRANCESCO BOCCIA

  La seduta comincia alle 15,40.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti di Istituzioni e Fondazioni di studio di settore: prof. Elio Borgonovi, presidente del CeRGAS-Bocconi, prof.ssa Sabina Nuti, responsabile del laboratorio Management e sanità della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, prof. Davide Croce, direttore del Centro di Ricerca in Economia e Management di Sanità e nel Sociale (CREMS) della LIUC Cattaneo, prof. Gualtiero Ricciardi, coordinatore del Rapporto Osservasalute dell'Osservatorio nazionale per la salute nelle regioni italiane.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla sfida della tutela della salute tra nuove esigenze del sistema sanitario e obiettivi di finanza pubblica, l'audizione di rappresentanti di Istituzioni e Fondazioni di studio di settore: prof. Elio Borgonovi, presidente del CeRGAS-Bocconi, prof.ssa Sabina Nuti, responsabile del laboratorio Management e sanità della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, prof. Davide Croce, direttore del Centro di Ricerca in Economia e Management di Sanità e nel Sociale (CREMS) della LIUC Cattaneo, prof. Gualtiero Ricciardi, coordinatore del Rapporto Osservasalute dell'Osservatorio nazionale per la salute nelle regioni italiane.
  Do il benvenuto, a nome mio e del presidente della Commissione affari sociali, Pierpaolo Vargiu, e dei componenti delle Commissioni, ai nostri ospiti.
  Avverto inoltre che erano stati altresì contattati, per la LUISS, il prof. Fontana, direttore del master in Management delle aziende sanitarie, la prof.ssa Donatella Morana, docente del corso di Diritto sanitario della Facoltà di scienze politiche; per il Sole 24 Ore Sanità, il giornalista Roberto Turno e per l'Istituto Bruno Leoni, il direttore generale Alberto Mingardi, i quali hanno comunicato di non essere nella disponibilità di partecipare nella data indicata.
  Si segnala inoltre che l'Istituto Bruno Leoni ha provveduto a inviare a tutti i componenti delle Commissioni una copia del testo «La spesa sanitaria italiana – Quel che si vede, quel che non si vede», che sarà distribuito nel corso della seduta odierna.
  È evidente che il ritmo dei nostri lavori sarà molto serrato, in quanto ci siamo dati tempi stretti. Ho anche ricevuto ulteriori richieste di audizioni da parte di colleghi e di soggetti terzi. Verificheremo in sede di Ufficio di presidenza delle Commissioni riunite se si apriranno spazi tali da consentire lo svolgimento di ulteriori audizioni, oltre a quelle previste nel programma dell'indagine. Se ci dovessero essere questi spazi, certamente consentiremo Pag. 4questa opportunità. Ovviamente, andremo avanti con il calendario dei lavori stabilito che prevede ritmi serrati.
  Per quanto riguarda i lavori odierni, faccio presente che interverranno prima i nostri ospiti e successivamente darò la parola ai deputati che volessero intervenire per formulare domande e osservazioni, alle quali chiederò ai nostri ospiti di replicare. Io e il presidente Vargiu ci alterneremo nella presidenza della seduta.
  Do la parola al professor Elio Borgonovi, presidente del CeRGAS-Università Bocconi.

  ELIO BORGONOVI, Presidente del CeRGAS-Bocconi. Grazie, signor presidente, e grazie a tutti voi. Credo che abbiamo più o meno un quarto d'ora di tempo, se capisco bene.
  Ho preparato una memoria, che poi vi lascerò, articolata in due grandi parti: la prima riassume brevemente i fattori che influenzano la dinamica della spesa e poi la dinamica dei bisogni; la seconda è più orientata su alcune proposte da sottoporre alla vostra attenzione. Mi concentrerò soprattutto sulla seconda parte.
  Nella prima parte richiamo il concetto di fattori in parte controllabili dalle politiche, soprattutto dalle politiche finanziarie, e di fattori non controllabili. Ci sono tantissimi studi che attestano che la spesa per la tutela della salute è correlata ai cicli economici, quindi nella fase di cicli economici positivi la spesa per tutela della salute aumenta più rapidamente del prodotto interno lordo, almeno in generale, in molti Paesi. Nei periodi di crisi come quello che purtroppo stiamo vivendo, si ha un contenimento della spesa che, come vedremo più avanti, rischia di determinare delle soluzioni che privilegiano la ricerca di equilibri di breve periodo, ma mettono in discussione la sostenibilità di medio e lungo periodo.
  Tra i fattori strutturali non controllabili – parliamo in generale, poi c’è sempre una certa variabilità – cito l'allungamento della vita, su cui avrete sentito o sentirete tante relazioni. In sintesi, dal 1970 ad oggi la durata di vita attesa è aumentata di circa 12,3 mesi per le donne e di 12,2 per gli uomini: oggi siamo arrivati a 84,5 e 79,6, se non ricordo male. Questo allungamento della vita determina uno spostamento dei bisogni di tutela della salute sempre più verso la cronicità.
  In secondo luogo, il progresso scientifico e tecnologico a sua volta risolve in modo sempre più rapido le situazioni delle fasi acute e si hanno anche strumenti per intervenire su patologie trasmissibili. Come effetto positivo per ognuno di noi aumenta la durata della vita, però aumentano anche le situazioni di cronicità.
  Il terzo elemento che vorrei sottolineare è che negli ultimissimi anni si è spostato in modo strutturale anche il rapporto di informazione e di asimmetria informativa tra medico e paziente. In passato il medico, e in generale l'operatore che tutelava la salute, era molto più influente nei confronti dei pazienti; oggi, con l'accesso a internet e in generale all'informazione ci troviamo di fronte a pazienti sempre più informati e sempre più consapevoli non solo dei propri diritti ma anche delle opportunità di tutela di salute esistenti.
  I pazienti sono sempre più esigenti, da un certo punto di vista, e dall'altro hanno comportamenti che determinano anche, a volte, una maggiore pressione nei confronti dei medici, soprattutto per quanto riguarda le richieste di interventi che possono portare a prescrizioni eccessive di accertamenti diagnostici e di farmaci. Soprattutto, in alcuni casi, questo sta creando anche nel nostro Paese, oltre che negli Stati Uniti, una pressione quando le normative riguardanti le responsabilità professionali non sono equilibrate, determinando pertanto delle situazioni in cui si ha la cosiddetta «medicina difensiva», che da alcuni viene stimata come responsabile di una spesa per la tutela della salute vicina o addirittura superiore all'1 per cento del prodotto interno lordo. Se questo è il quadro, le indicazioni che mi sono permesso di riportare nella memoria, ovviamente dovendo sintetizzare al massimo, vanno su questa linea.Pag. 5
  Alcune riflessioni sul piano istituzionale: credo che si debba andare verso un riequilibrio dell'influenza che nelle politiche di tutela della salute ha assunto negli ultimi anni il Ministero dell'economia e delle finanze rispetto al peso e all'influenza del Ministero della salute.
  Dico questo in base a un principio generale di tipo organizzativo, secondo il quale quando ci sono due organi o due entità che hanno responsabilità diverse, i sistemi funzionano bene se entrambi sono forti. Se si ha l'appiattimento sulle posizioni o sulle esigenze di uno dei due attori, i sistemi finiscono con l'appiattirsi su politiche che guardano molto più all'equilibrio finanziario di breve periodo nel caso specifico, con effetti negativi sulla sostenibilità di medio e lungo periodo.
  Questa considerazione non vuol suonare come critica a nessuna situazione del passato, però ci sono molte evidenze, per esempio riguardanti la situazione delle regioni sottoposte a piano di rientro, secondo cui si riscontra un indebolimento di attenzione sugli effetti per quanto riguarda la qualità dei servizi e per quanto riguarda la capacità di rispondere alle esigenze di queste regioni.
  La seconda considerazione è correlata alla prima. Credo che si dovrebbero aprire due tavoli che siano tra loro distinti ma che parlino in modo stretto tra di loro: un tavolo che sia focalizzato sulle esigenze di breve periodo, quindi che stia molto attento alle esigenze di rispettare gli accordi o ciò che si è sottoscritto in sede comunitaria per quanto riguarda l'equilibrio dei conti pubblici; e un tavolo che riprenda un discorso coordinato e globale di strategia per il sistema di tutela della salute.
  Questa è un'esperienza che si ha anche nelle aziende: se nelle aziende si guarda troppo al budget annuale si perde di vista la capacità di definire situazioni o strategie competitive, che sono quelle che poi salvano le imprese; ugualmente, se si guarda troppo alle esigenze o alle urgenze, in termini tecnici si dice che si rischia di scacciare le rilevanze, i temi rilevanti. D'altra parte, se si pensa solo alle strategie di lungo periodo senza avere consapevolezza dei vincoli stretti entro cui ci si deve muovere nel breve periodo, si fanno delle belle strategie e dei bei piani che restano poi sulla carta. I due tavoli ovviamente dovrebbero lavorare in stretta correlazione, però mi sembra che sia importante evidenziare questa distinzione.
  Il terzo passaggio è che credo non sia più derogabile la ridefinizione dei livelli essenziali di assistenza rivisti alla luce dell'attuale situazione. Credo che forse i colleghi che interverranno successivamente diranno qualcosa al riguardo.
  Penso – questa è la quarta osservazione – che dopo una sequenza di normative, linee guida, interventi particolari e per molti aspetti contraddittori e schizofrenici, dopo quelle che vengono considerate le due riforme (quella di cui ai decreti legislativi nn. 502 del 1992 e 517 del 1993, dopo la legge n. 833 del 1978 ovviamente, e quella recata dal decreto n. 229 del 1999), sia necessario ripensare al modello di sistema di tutela della salute su queste linee: primo, è possibile ripensare a un modello che sia molto più centrato sulla cronicità e molto meno sul trattamento delle fasi acute; secondo, è possibile pensare a modelli assistenziali basati sulla continuità delle cure, rapporti ospedali-territorio, processi diagnostico-terapeutici, assistenziali eccetera; terzo, è necessario pensare a un sistema che, proprio per mantenere l'universalità e l'equità, faccia ricorso a un meccanismo di offerta che sia basato sulla distinzione tra definizione delle regole e delle politiche ed erogatori di servizi nei quali tirare in campo diversi soggetti, dal «pubblico pubblico», come si dice in gergo, al «privato privato», passando attraverso forme intermedie. Penso a forme miste di gestione pubblico-privato: il privato sociale, le imprese sociali dell'attuale normativa o di quella che si sta ridefinendo, interventi di imprese che vanno sotto il nome di responsabilità sociale d'impresa, quelle che vengono chiamate anche welfare aziendale, insomma forme di questo tipo. Per avere un sistema sostenibile bisogna mettere in campo tutte Pag. 6le forze, quindi bisogna superare modelli ideali, che a volte diventano un po’ ideologici e che penalizzano tutti.
  Da questo punto di vista, bisogna pensare a un sistema di finanziamento che sia basato – con un mix che si modifica nel tempo, in rapporto anche a una prospettiva futura in cui auspicabilmente si uscirà dall'attuale situazione – su un finanziamento tramite tassazione, fiscalità generale, fiscalità delle regioni, ricorso a forme di solidarietà di tipo mutualistico o comunque di solidarietà tramite la regolazione (non regolamentazione), cioè definire delle regole per i fondi integrativi. So che è un tema delicato, un nervo scoperto, però deve essere affrontato per evitare che queste forme si insedino – e già ci sono, molto rilevanti – in modo surrettizio e non coordinato nel nuovo sistema.
  Bisogna rivedere bene i rapporti Stato-regioni per trovare un nuovo equilibrio tra esigenze di indirizzo unitario e rispetto delle autonomie delle singole regioni, perché bisogna avere delle autonomie che diano spazio alle differenze strutturali e fisiologiche del sistema, ma che riescano a combattere forme di differenza patologiche che sono legate a sprechi, inefficienze, corruzione e altri fattori.
  Inoltre, bisogna rivedere il sistema per ridare forza e capacità innovativa alle aziende sanitarie, perché oggi il sistema delle aziende è troppo incrostato da lacci e lacciuoli, da vincoli che irrigidiscono le gestione. Oggi chi governa le aziende sanitarie – potrà essere cambiato il modello, questo si può anche vedere – deve avere la possibilità di muoversi, nel rispetto di obiettivi fissati dalla regione e dallo Stato; se non si può muovere, l'effetto è che alle inefficienze del sistema si aggiungono le inefficienze dovute a rigidità.
  Bisogna altresì introdurre sistemi per la valutazione di impatto delle politiche. Oggi l'Italia è nota per essere il Paese che continua a produrre norme, politiche, che poi cambia, senza avere la capacità di monitorare gli effetti di norme e di politiche precedenti, per poterle riaggiustare di poco se sono positive oppure cambiarle se producono effetti diversi da quelli desiderati. Penso, ad esempio, all'introduzione di forme di health technology assessment, che significa valutare non solo le tecnologie ma le metodiche di assistenza.
  Infine – mi scuso per la rapidità dell'esposizione, ma troverete tutto nelle note – credo che ci siano tre indicazioni finali da dare. La prima indicazione è che non c’è nessun sistema che può recuperare condizioni di sostenibilità che consenta di uscire dalla depressione non solo finanziaria ed economica, ma anche sociale e di motivazione, se non si rilancia un progetto di sfida per la tutela della salute.
  Questo progetto passa anche attraverso un concetto molto semplice: è vero che la spesa per la salute fa parte del numeratore nel rapporto spesa pubblica – prodotto interno lordo, però ormai ci sono tanti studi che dicono che la spesa per la tutela della salute, se ben qualificata, può diventare un motore di un'economia moderna che non può più essere un'economia trainata dalle guerre – speriamo che finiscano il più presto possibile o che si riducano – dalle industrie pesanti, dalle costruzioni, da consumi che utilizzano risorse non rinnovabili, perché lì c’è un limite fisico. Il futuro dell'economia sarà basato su tipi di consumi legati alla persona, alla qualità della vita che, se impostate bene, possono avere degli effetti in termini di aumento del denominatore, quindi il problema che ormai ci angustia tutti, ossia come rilanciare la crescita. Pensiamo alle tecnologie legate alla tutela della salute.
  La seconda indicazione è che occorre responsabilizzare tutti i soggetti del sistema con opportune forme di performance management e c’è un capitolo legato a come si possono valutare le performance, partendo dai cittadini, che devono abituarsi a non pensare che tutto è garantito dallo Stato, ma devono responsabilizzarsi sui consumi, per passare ai medici, alle aziende sanitarie e via dicendo.
  Infine, credo che occorra un rilancio sulla possibilità di inserire nel sistema conoscenze, competenze e capacità nuove, richieste da un nuovo modello di assistenza, un nuovo modello di tutela della salute legato a un progetto di sviluppo Pag. 7economico. Penso che tagliare i fondi sulla formazione, che tra l'altro sono abbastanza limitati, sia essenzialmente un autogol, qualcosa che, per ridurre forse poche decine di milioni di euro, produce un effetto negativo molto superiore, perché un dirigente impreparato causa sprechi, al di là di fatti illeciti, che valgono centinaia e a volte milioni di euro di spesa.
  Mi fermo qui e vi ringrazio dell'attenzione.

  PRESIDENTE. Ringrazio il professor Borgonovi.
  Do la parola alla professoressa Nuti, responsabile del laboratorio di Management e sanità della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa.

  SABINA NUTI, Responsabile del laboratorio Management e sanità della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa. Chiederei se è possibile vedere alcune slide.
  Vi ringrazio molto per quest'invito. Mi scuso per non avere fatto in tempo a preparare la memoria, essendo rientrata ieri dall'estero, quindi ho portato qualche slide, e sarà sicuramente mio compito fornirvi anche un elaborato scritto del mio contributo.
  A differenza del professor Borgonovi, cercherò di condividere con voi, fra i vari elementi che possiamo discutere insieme su questo tema, tre considerazioni iniziali che penso siano fondamentali per capire che cosa è possibile fare nel nostro contesto nazionale.
  Innanzitutto vorrei soffermarmi sul fatto che quando parliamo della condizione del nostro sistema dobbiamo collocarlo in una situazione, a livello internazionale, simile in tutti i Paesi che hanno un sistema sanitario a copertura universale e non solo.
  Noi ci troviamo in un contesto, soprattutto per i Paesi occidentali, dove la spesa sanitaria è strutturalmente in calo, ma dove – come diceva il professor Borgonovi – vi è una popolazione sempre più anziana, con problemi di complessità, comorbilità e carico assistenziale in crescita, e con un cittadino sempre più desideroso di partecipare e di avere un ruolo determinante nel sistema. Quindi, vi sono tre elementi da considerare: la nuova curva della ricchezza, che è cambiata in tutti i Paesi sviluppati, il nuovo profilo epidemiologico e le nuove aspettative sociali.
  La slide che vi presento mostra, con la curva in alto, qual è la capacità di produzione di beni manifatturieri dei Paesi sviluppati – e nei Paesi sviluppati metto dentro tutto l'Occidente, Canada, Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti inclusi – mentre nella parte inferiore mostra i Paesi in via di sviluppo. Sono dati del Fondo monetario internazionale. Come si vede, siamo ormai arrivati al sorpasso. Se noi proseguiamo quella traiettoria e portiamo i dati al 2012, vediamo che i Paesi in via di sviluppo producono più beni manifatturieri e più ricchezza di tutti i Paesi industrializzati insieme.
  Inoltre, con la slide successiva vediamo che, anche in termini di capacità di risparmio, i Paesi in via di sviluppo risparmiano molto di più dei Paesi industrializzati. Questo significa che producono di più e risparmiano di più, e credo che questo sia sufficiente per capire la situazione non solo dell'Italia, ma di tutti i Paesi industrializzati nel contesto internazionale.
  Vorrei anche sottolineare – e penso condividiate con me – che questo tipo di processo è partito parecchi anni fa (non è una cosa di quest'anno, né di due anni fa) e probabilmente occorrerà moltissimo tempo per uscire da questa situazione.
  Il secondo punto riguarda i cambiamenti epidemiologici. Il professor Borgonovi – e non mi ripeto – ha parlato di crescita della cronicità, della multicronicità e quindi di un aumento enorme della complessità nell'ambito del sistema sanitario.
  Quanto alle nuove aspettative sociali, su questo punto non possiamo far finta di non sapere esattamente che internet, smartphone e tutte le nuove tecnologie hanno modificato profondamente il ruolo e la partecipazione che il cittadino vuole avere in tutti i servizi che lo riguardano. Un'indagine fatta in Toscana l'anno passato ci mostra che ormai sistematicamente Pag. 8il 25 per cento della popolazione utilizza internet per avere più informazioni, prima di recarsi dal medico, per sapere di più circa le sue patologie. Quindi, una crescita esponenziale e un utilizzo ormai sistematico del mezzo internet.
  Questi sono tre elementi che dobbiamo tener presenti quando ci chiediamo se possiamo fare di più, se effettivamente siamo in grado, con le risorse che abbiamo, di creare più valore aggiunto e più salute per i nostri cittadini, e se possiamo garantire maggiore equità, considerato che uno degli effetti che, come sappiamo bene, la crisi economica determina è quello di creare sempre più disuguaglianze. Il punto non è solo garantire più valore aggiunto, ma garantire anche che nessuno rimanga indietro.
  L'Italia, in realtà, spende meno della Germania e della Francia. Quando pensiamo al nostro Paese ci vengono sempre in mente i lati negativi, ma così non è: se guardiamo il confronto con i dati OECD (Organization for Economic Co-operation and Development) vediamo che in realtà la spesa sanitaria in percentuale sul PIL è più bassa degli altri Paesi con cui normalmente ci confrontiamo (Francia, Germania e Inghilterra). Non solo, ma l'Italia spende anche meglio ad esempio della Germania, che è il punto di riferimento che spesso si utilizza quando si ragiona sul livello dei nostri servizi.
  Questi non sono dati del Sant'Anna, ma sono dati dell'OECD che ci dicono che in realtà in Italia abbiamo una mortalità evitabile con interventi sanitari – quindi non una mortalità evitabile per il sole, il buon vitto e così via – assai migliore rispetto alla Germania e a molti altri Paesi europei dell'OECD.
  Inoltre, se utilizziamo una tecnica statistica un po’ sofisticata (DEA) e verifichiamo qual è la distanza che il nostro Paese ha rispetto al best performer, considerando quanto spende, qual è l'aspettativa di vita e quali sono le condizioni socio-economiche dei nostri cittadini, vediamo che i possibili risparmi dell'Italia rispetto all'attuale livello di spesa sono assai più bassi rispetto alla Germania. Nella slide l'Italia è rappresentata dal rettangolino bianco, quella più scura è la media dei Paesi dell'OECD, la quarta da sinistra è la Danimarca, poi Svezia, Stati Uniti, Olanda, quindi è una situazione assolutamente interessante e positiva.
  Se la situazione è questa, è chiaro che grandi spazi di manovra non ci sono. Cosa possiamo comunque pensare di fare ? Sono possibili tre grandi manovre.
  In primo luogo, risparmiare: quando si parla di risparmi non vuol dire efficienza; risparmiare vuol dire spendere di meno per l'utilizzo degli stessi fattori produttivi. I due concetti non vanno confusi.
  La seconda possibilità è tagliare, ridurre il livello di servizio in termini di volume e di mix, erogare di meno.
  La terza possibilità è ragionare in termini di riallocazione delle risorse, quindi lavorare su qualità, variabilità ed efficienza. Questo tipo di strategia non taglia i costi, che nella maggior parte dei casi in sanità sono costi fissi, ma ci permette di usare meglio ciò che abbiamo per ottenere di più. Qui siamo sugli interventi che riguardano la gestione della variabilità e la gestione delle priorità: per che cosa spendiamo in prima battuta e che cosa consideriamo meno rilevante per la salute dei nostri cittadini.
  Vediamo qualche esempio per avere un'idea di quali sono le entità di questi interventi. I dati che vi presento vengono fuori da una serie di progetti che nel corso degli anni il MeS ha portato avanti a livello nazionale con il network di otto regioni e con la regione Toscana, che è stata la nostra regione pilota iniziale.
  In primo luogo, questo è un lavoro fatto nel 2007, ma in realtà ci ha permesso, soprattutto nella regione Toscana – adesso è stata presa come punto di riferimento anche da altre regioni – di continuare a lavorare in termini di confronto sistematico tra la best practice. Questo non vuol dire tagliare indiscriminatamente, ma capire come le best practice riescono a consumare meno, senza tagliare il livello di servizio dei cittadini, e spendere di meno.Pag. 9
  Nel 2007 un lavoro di confronto sistematico ha permesso di riallocare il 7 per cento del bilancio regionale in alcuni casi con interventi immediati, come ad esempio per la spesa farmaceutica, in altri casi con interventi di riallocazione delle risorse di medio e lungo periodo.
  Sappiamo che accentramento dei processi di acquisto e benchmarking sistematico sui costi, ad esempio di una serie di fattori produttivi, possono portare dei vantaggi e sappiamo che il Ministero già ci sta lavorando da tempo.
  Una seconda possibilità è agire su qualità e appropriatezza. Le evidenze scientifiche ci dicono che per lavorare, soprattutto nell'ambito ospedaliero, con minori risorse bisogna puntare alla qualità, perché solo la qualità ci permette di ridurre le risorse che stiamo utilizzando.
  Procedo velocemente poiché abbiamo poco tempo, ma mi riservo di indicarvi alcuni riferimenti nella memoria. Vi riporto i dati che abbiamo elaborato per il Ministero, nell'ambito di un lavoro che abbiamo svolto – c’è un testo che lascio a disposizione della Commissione – su una serie di indicatori per gli anni 2007, 2008 e 2009. L'evidenza ci dimostra, anche per il nostro contesto nazionale, che gli indicatori di qualità, di appropriatezza chirurgica e di governo della domanda sono tra loro significativamente correlati. I dati della spesa pro capite ospedaliera e del livello di performance, con alcuni indicatori chiave di qualità e di appropriatezza degli ospedali, mostrano chiaramente che chi spende di meno ha migliori risultati in termini di performance per i cittadini. Questo è anche intuitivo: significa avere meno ricoveri, degenze più brevi perché si hanno meno complicanze e così via. Lo stesso discorso vale per i dati che elaboriamo, dal 2007 a oggi, con la regione Toscana.
  Un altro punto su cui dobbiamo chiaramente agire per poter riallocare adeguatamente le risorse è la riduzione della variabilità, a tutti i livelli: badate, non solo nord e sud, ma anche all'interno delle regioni. Una frase significativa di uno dei più grossi studiosi della variabilità ci dice che se tutta la variabilità fosse nociva sarebbe facile, perché a quel punto basterebbe in qualche modo imporre un'omogeneità di trattamenti; in realtà, c’è una variabilità positiva, che è quella che risponde ai bisogni specifici dei pazienti, che sono differenti, e una variabilità negativa che è sempre indice di abuso o di over-use o sotto-uso di risorse per un utilizzo indiscriminato di alcune prestazioni.
  Nella slide vedete quanto scritto dal King's Fund, in un documento uscito nell'anno passato in cui si riportano tutte le possibili cause di variabilità. Vorrei sottolinearvi che nel 2005 la Clinical Evidence aveva classificato gli interventi fatti in sanità in diverse tipologie: interventi che sono sicuramente positivi per il cittadino, per il paziente; interventi che dovrebbero essere positivi (non abbiamo certezze, ma dovrebbero esserlo); alcuni interventi che in realtà hanno un trade off fra benefici e danni; altri interventi che è difficile che possano essere positivi per il paziente; infine, interventi sicuramente dannosi.
  Su tutta l'analisi della bibliografia delle evidenze scientifiche disponibili fatte dalla Clinical Evidence nel 2005 le percentuali erano queste: solo il 15 per cento dei trattamenti erogati è sicuramente positivo, mentre vedete una percentuale molto alta di interventi su cui ancora non sono chiare le evidenze scientifiche su che cosa è veramente utile ai pazienti. Voi direte che siamo andati avanti con la ricerca scientifica: ma questa è la nuova release del 2011 e vediamo che, in realtà, quelli che sono ancora incerti, con un unknown effectiveness, sono addirittura diventati il 51 per cento.
  Quando parliamo di variabilità abbiamo due diverse strategie. Se abbiamo evidenze scientifiche, lavorare sulla variabilità è abbastanza semplice: dobbiamo chiedere alle regioni e alle ASL di ridurre la variabilità, perché vuol dire disuguaglianza; vuol dire che se uno è ricoverato in una città, in un ospedale, può avere un trattamento molto diverso rispetto a quello che ricaverebbe in un ospedale situato a dieci chilometri di distanza o in un'altra regione d'Italia. Qui con i sistemi Pag. 10di governance, come diceva il professor Borgonovi, penso che possiamo ottenere dei grandi risultati. Oppure servizi che, a parità di esito, possono considerare l'utilizzo di setting assistenziali più economici, meno onerosi. Per esempio, tutto ciò che si può fare in regime ambulatoriale non deve essere fatto in ospedale. In questo caso, meccanismi di governance regionali, condivisi con il livello ministeriale, possono avere una grande efficacia.
  Vi ricordo, però, che ci sono altre tipologie di servizi dove la variabilità è un punto interrogativo, dove continuiamo a erogare servizi con grandi differenze nel territorio nazionale e dove non sappiamo se stiamo facendo un uso inappropriato delle risorse. Per darvi un'idea di quanto pesa, visto che parliamo di regolamento e di riduzione di posti letto, vorrei farvi vedere qual è lo stato della chirurgia elettiva in Italia, secondo dati elaborati in collaborazione con Age.Na.S.
  Globalmente – chiaramente le regioni hanno percentuali diverse – il 36 per cento di ciò che viene erogato in ospedale sono ricoveri chirurgici; di questo 36 per cento, il 67 per cento sono elettivi, cioè è il paziente che entra con le sue gambe in ospedale per un intervento chirurgico programmato (insomma, non entra dal pronto soccorso, per spiegarci). Il 50 per cento di questi interventi chirurgici è costituito da un elenco di cui vi cito alcune voci: al terzo posto ci sono, ad esempio, le colecistectomie; con più di 20 mila interventi l'anno, troviamo ancora le tonsillectomie.
  Guardate la variabilità in Italia: per quanto riguarda gli interventi alle tonsille – che tra l'altro da cinquant'anni si dice essere particolarmente inutili – ne facciamo cento per 100 mila abitanti in Piemonte e cinquecento nella Valle d'Aosta, confinante con il Piemonte. Dico questo per dare un'idea di qual è il problema. Quanti posti letto vengono utilizzati in Liguria, in Emilia-Romagna, in Friuli, per questa tipologia di prestazione rispetto al Piemonte e alla Calabria ?
  Questo è un dato che riguarda la variabilità di questa prestazione in regione, quindi come vedete non abbiamo superato il problema pensando solo alla variabilità tra le regioni, ma abbiamo un problema anche dentro le regioni. Guardando il dato relativo alle colecistectomie, vediamo che a Bolzano se ne fanno 75 circa per 100 mila abitanti e nella confinante Provincia autonoma di Trento se ne fanno più del doppio. Dunque, quante sono le colecistectomie di cui ha bisogno il cittadino ?
  Vedete ora la distribuzione del tasso di ospedalizzazione standardizzato per interventi di colecistectomia: la variabilità determina che c’è un utilizzo di posti letto per la chirurgia assai diverso tra le regioni. Ci dobbiamo porre questo problema e chiedere al sistema di ragionare, altrimenti rischieremmo di tagliare in tutti i posti nello stesso modo, mentre in alcune realtà abbiamo bisogno di tagliare di più e in altre di meno, e comunque di coinvolgere assolutamente i professionisti nello spiegare e nel discutere questo tipo di dati.
  Per garantire la sostenibilità del sistema sanitario nazionale e creare valore per il cittadino, dobbiamo agire su tutte le leve; non ci basta lavorare solo sui risparmi, né solo sulla gestione della qualità, ma direi che tutte le leve – qualità, appropriatezza, gestione della variabilità evitabile – sono strade da percorrere.
  Vorrei sottolineare alla Commissione tre elementi, riportati nell'ultima slide. Primo, una valutazione multidimensionale, che tocchi tutti gli aspetti della performance, trasparente. Abbiamo ancora pochissime regioni che pubblicano i loro dati e li rendono confrontabili con quelli degli altri. Ringraziamo Age.Na.S., che pubblica i dati relativamente agli esiti, ma è ancora troppo poco; dobbiamo avere anche i dati di appropriatezza, di efficienza, di qualità di processo. E chiaramente un confronto dentro e fuori le regioni.
  Il secondo punto è l'integrazione con tutti i meccanismi di governance: incentivi, accreditamento e gestione della qualità.
  Infine, si deve permettere al sistema di lavorare con maggiore flessibilità. È inutile dire che abbiamo bisogno di più risorse sul territorio rispetto all'ospedale, quando poi in molti casi non si riesce nemmeno a spostare un infermiere da un reparto a un Pag. 11altro. Quindi, occorrono flessibilità e margini di manovra per permettere la riallocazione delle risorse quando è necessario per creare più valore aggiunto al cittadino.

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA XII COMMISSIONE PIERPAOLO VARGIU

  PRESIDENTE. Ringrazio la professoressa Sabina Nuti.
  Do quindi la parola al professor Davide Croce, direttore del Centro di Ricerca in Economia e Management di Sanità e nel Sociale (CREMS) della LIUC Cattaneo.

  DAVIDE CROCE, Direttore del Centro di Ricerca in Economia e Management di Sanità e nel Sociale (CREMS) della LIUC Cattaneo. Signor presidente, signori commissari, buongiorno.
  Porterò avanti il ragionamento seguito dai colleghi che mi hanno preceduto, ovviamente con un punto di vista leggermente diverso, che tuttavia credo sia utile. Personalmente mi sono attenuto alle questioni che emergono dal documento relativo all'indagine conoscitiva che le Commissioni hanno deliberato.
  Innanzitutto è emersa l'esigenza di effettuare una comparazione, sugli andamenti tendenziali della spesa sanitaria pubblica e privata, tra i maggiori Paesi europei. Farò alcune considerazioni iniziali, da cui derivano una serie di conseguenze.
  In primo luogo, come hanno già detto i colleghi, l'aumento delle aspettative degli individui e delle comunità è una delle tendenze di fondo che riscontriamo nei servizi sanitari nazionali. In secondo luogo, va ricordata l'incidenza delle nuove tecnologie sanitarie a disposizione (ovviamente intendo farmaci, vaccini, programmi di intervento eccetera). Il terzo elemento è la globalizzazione realizzata tramite internet: in Italia il 51,7 per cento della popolazione usa questo strumento, come abbiamo visto.
  Tra le conseguenze, cito l'invecchiamento della popolazione; sopravviviamo alle cronicità, a quelle che un tempo erano anche esiti (pensate all'HIV, alle patologie cardiovascolari, oncologiche e a tutto quello che è avvenuto negli ultimi cinquant'anni). Al secondo punto vi è il finanziamento del sistema a isorisorse ma a costi e prestazioni crescenti, poiché questa è una richiesta continua da parte di una popolazione che invecchia.
  Se guardiamo i numeri, come avevate richiesto, per quanto riguarda la spesa sanitaria totale, come percentuale rispetto al PIL (fonte WHO – World Health Organization, Organizzazione mondiale della sanità), tutti i Paesi riportati in questa diapositiva, cioè i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) e una serie di altri Paesi nell'ambito del mondo «industrializzato» registrano una crescita della spesa sanitaria totale rispetto al PIL.
  La spesa sanitaria totale è suddivisa in due grandi componenti: la pubblica e la privata. Nell'ambito della spesa sanitaria pubblica, il nostro sistema dal 2000 al 2011 è cresciuto di cinque punti percentuali. Un po’ più problematica per noi è l’out-of-pocket, che è chiamata dall'Istat «spesa delle famiglie». Per quanto riguarda il nostro Paese, tale spesa si mantiene attorno a un quinto del totale: siamo passati negli anni dal 22,6 al 19,9. Come si può notare, abbiamo invece una spesa per l'assicurazione assolutamente ridicola nei confronti degli altri.
  Il terzo elemento è quello della spesa sanitaria pro capite rispetto al PIL. Come abbiamo visto anche dai grafici illustrati dai colleghi, in Italia è inferiore rispetto alla maggior parte dei Paesi. È un sistema tendenzialmente più efficiente degli altri – difficile a dirsi per chi conosce il sistema, ma diciamo che gli altri sono peggiori di noi – sicuramente dichiarato dall'OMS, nel 2000, secondo servizio sanitario al mondo dopo la Francia. In ogni caso, è senza dubbio il numero uno in termini di efficienza. Do questa valutazione considerando i risultati in termini complessivi del sistema e le risorse che stiamo inserendo: i dati confermano questo. Tra l'altro osservate quella che è la spesa sanitaria assicurata, che va dal 3 al 2,8 per cento, Pag. 12nei confronti degli altri Paesi, perché sostanzialmente, nelle due componenti, individuale e collettiva (fondi, società di mutuo soccorso e casse aziendali), evidentemente, conoscendo la storia di quanto è successo qualche anno fa, il sistema è abbastanza pronto a spostarsi.
  In questa diapositiva, si vede il Paese numero uno al mondo come spesa sanitaria complessiva, ossia gli Stati Uniti, con la linea che cresce vertiginosamente. Il numero due il numero tre al mondo sono Norvegia e Svizzera; segue il gruppo dei Paesi industrializzati, tra cui l'Italia, che è tendenzialmente tra i più bassi, da questo punto di vista, anche leggermente sotto la Spagna. Questa è la spesa pro capite in dollari americani, ossia quanto spendiamo per tutti i cittadini in dollari americani a parità di potere d'acquisto. Non parliamo, quindi, di puro cambio. Con 50 dollari in Cina si comprano molti più beni e servizi che con 50 dollari in Italia. Questo modello di transizione della World Bank aiuta a limitare questa logica. I BRICS, come vedete, sono e si mantengono, invece, ben al di sotto, ossia dedicano alla sanità molto meno.
  Tra le caratterizzazioni del servizio sanitario italiano c’è, dunque, una bassa spesa privata assicurata, che ho già definito ridicola. L'italiano, concettualmente, concepisce il servizio sanitario come pubblico e richiede un'assistenza pubblica. Inoltre, abbiamo un'alta spesa out-of-pocket considerata su un sistema universalistico e i 525 euro pro capite, 32 miliardi di euro di spesa nel complesso nel 2011, visti dall'Organizzazione mondiale della sanità, sono decisamente elevati. In Italia, siamo abituati a pagare molto per questo. Pensate al dentista, ai ticket, alle spese private che si sostengono quando si accede alla sanità senza mediazione del servizio sanitario nazionale.
  Ancora, il servizio sanitario nazionale è cresciuto di importanza negli ultimi vent'anni, la spesa pubblica è aumentata come percentuale rispetto alla spesa totale e questo è un altro dato da tenere in evidenza.
  Infine, la spesa complessiva è più bassa nell'ambito dei Paesi industrializzati sia europei sia non europei, (come avete visto, rispetto ad Australia, Giappone e ad altri Paesi europei).
  Va anche fatta una precisazione. Il rapporto Giarda del 2012 ha mostrato che nel nostro Paese la spesa per consumi collettivi dal 1990 al 2009 è aumentata del 4,7 per cento in sanità. Nel paniere abbiamo, cioè, aumentato la quota destinata alla sanità – d'altra parte, lo si è rilevato anche nei dati complessivi internazionali – mentre abbiamo fatto ridurre quella per l'istruzione. Credo si tratti di una considerazione da tener presente a livello di Paese.
  Cosa possiamo attenderci nel prossimo futuro ? Prima di tutto, dobbiamo fare i conti con la struttura della popolazione italiana a questo momento. Siamo, come molti altri Paesi europei, figli del baby boom del dopoguerra, la maggior parte della popolazione italiana è nata a partire dal 1945 e fino agli anni Sessanta, dopodiché il tasso di natalità si è sostanzialmente dimezzato.
  Queste curve, che sono la raffigurazione delle previsioni Istat nei confronti della nostra popolazione, evidenziano che lo spostamento di questa massa di persone, che hanno dei problemi nei confronti della pensione – immaginate la numerosità di chi si sta avvicinando a quell'età – in realtà per noi è più grave in relazione alla spesa per età.
  Associo a questa considerazione un secondo concetto. Nella spesa per età dei cittadini in tutto il mondo si evidenzia che, oltre alla classe d'età 50-54 anni, la curva cresce molto rapidamente. A ben rifletterci, questo dato è presente nella conoscenza di tutti.
  Il punto, quindi, è che una popolazione tendenzialmente anziana cronica come la nostra, che sta invecchiando come società, evidentemente sta andando incontro a un problema di richiesta di prestazioni. Ad esempio il grafico dei consumi di prestazioni pubbliche realizzate all'interno del servizio sanitario lombardo mostra una curva che cresce al crescere dell'età, soprattutto Pag. 13se si considerano le residenze sanitarie assistenziali – RSA. La curva relativa alla sola sanità è più bassa. Se alla sanità si aggiungono le spese per RSA intesa come quota pubblica, quindi non l'alberghiera, quella che la regione paga alle strutture, si vede che la spesa continua a crescere in maniera indefinita. Il problema grosso che dovremo affrontare nei prossimi anni, dunque, è esattamente quello dell'invecchiamento dalla popolazione. Bisognerà pensarci soprattutto dovendo tener conto anche delle differenze di genere, e, quindi, di necessità.
  Il concetto finale è quello dello spostamento dell'asse di cura. In questo momento, non si può continuare a pensare all'ospedale come luogo deputato per la cura delle persone, laddove questo deve diventare e sta diventando sempre più tecnologico, con una popolazione anziana cronica, che quindi ha bisogno di un'assistenza nelle vicinanze della propria casa, se non presso il domicilio. Evidentemente, è il modello di servizio che va ridisegnato.
  Avete visto verso quali curve di consumo si sta avviando la popolazione anziana cronica: il modello ospedalocentrico, e quindi una logica di costruzione organizzativa basata su un servizio molto costoso, non può funzionare in questa forma ed è questa la considerazione finale personale rispetto alla prima questione posta. L'Italia spende meno degli altri, ha una bassa quota di assicurazioni, ha una alta quota di out-of-pocket rispetto ai sistemi universalistici. È chiaro che l’out-of-pocket su altri sistemi può essere più elevato, ma il nostro è un sistema universalistico, come quello della Gran Bretagna, che è evidentemente quello più importante.
  Il secondo quesito che emerge dal predetto documento relativo all'indagine conoscitiva riguarda la riduzione del finanziamento avvenuta con la spending review. Questo è l'elenco dei parametri economici tra spesa, finanziamento e disavanzo negli ultimi anni. La prima considerazione personale parte dall'invito a osservare i disavanzi che negli anni hanno portato per alcune ragioni al commissariamento.
  Come sono fatte queste spese complessive del sistema sanitario italiano ? La prima voce è quella del personale, che nel 2011 era circa il 32 per cento del totale, in diminuzione. Ciò è dovuto alle varie manovre che si sono succedute negli anni e, sostanzialmente, alla mancata sostituzione del personale in quiescenza. La seconda voce è quella concernente i beni e servizi. Tra il 2008 e il 2011 è in crescita, dal 29,4 fino al 30,4 per cento. Questa è una tendenza che abbiamo osservato da molti anni. Per beni e servizi è tornato il concetto di tecnologie sanitarie. Pensiamo all'HIV, al cardiovascolare, all'oncologico, a tutto quanto è successo. Evidentemente, la crescita di costi di beni e servizi è stata importante. Poi ci sono tutte le altre voci.
  La spending review si colloca all'interno di tutti gli interventi normativi che si sono succeduti e che hanno riguardato sia la riduzione del finanziamento sia il taglio della spesa. Questi, concettualmente, lavorando su due ambiti, hanno in realtà tentato correttamente, nell'ambito delle attività del commissario Bondi, di lavorare rispetto alla riduzione della spesa di acquisti di beni e servizi. Va, però, fatta un po’ di chiarezza su questo aspetto.
  Noi abbiamo tre categorie: la spesa comune, ossia fotocopiatrici, penne, carta e detersivi, identica per tutte le pubbliche amministrazioni; una quota di spesa comune specifica relativa, per esempio, alla manutenzione degli edifici ospedalieri o ambulanze, che sono sì autoveicoli, ma un po’ particolari; infine, una spesa specifica destinata a farmaci, presìdi, beni economali, siringhe e così via. Grosso modo, vari autori concordano sul fatto che la prima parte valga tra il 15 e il 25 per cento, la seconda attorno al 25 per cento, l'ultima, la specifica, attorno al 50 per cento. In realtà, grazie ad alcune indagini sulle regioni, abbiamo trovato dati leggermente diversi, ma questo può essere anche determinato dalle poste che sono state inserite all'interno dei bilanci.
  È chiaro che per la spesa specifica, quindi per i farmaci, più ci si allontana dall'utilizzatore, più si rischia di fare danni, con esclusione dei farmaci, che Pag. 14sono comunque dei beni molto chiaramente classificati. Per tutto il resto, ribadisco che più ci si allontana, più si rischia di acquistare in maniera impropria.
  Il senso di questa diapositiva, dunque, è che è logico che la spesa comune sia nazionale e regionale; la comune specifica, regionale, ma anche con aggregazione di aziende; infine, a mano a mano che ci si avvicina alla specifica, si ha bisogno di avvicinarsi a chi utilizza realmente il prodotto o il servizio.
  Forse, questa logica andrebbe portata avanti per una primissima parte che, giustamente, la collega intervenuta precedentemente definiva a breve termine. Le aggregazioni aziendali – in questo caso, mi riferisco alla Toscana, non alla regione da cui provengo – nel caso degli ESTAV (Ente per i Servizi Tecnico Amministrativi di Area Vasta) ha effettivamente raggiunto un livello di efficienza amministrativa più elevata rispetto alle altre regioni. Questo è sicuramente da riconoscere.
  È, ad esempio, nella memoria che, grosso modo, gli acquisti di beni in economia in questo momento nelle principali regioni del nord sono attorno al 40 per cento. Evidentemente, questi sono fatti in una maniera meno precisa rispetto all'acquisizione di beni e servizi che dovrebbe fare la pubblica amministrazione attraverso dei bandi. Questo avviene perché negli anni la quantità di spesa che avete visto ormai giunta al 30 per cento, in realtà, non è stata seguita da un adeguamento organizzativo all'interno delle aziende. Siamo, quindi, nell'ansia di acquisizione di beni perché ce n’è bisogno, per esempio, in sala operatoria, ma non siamo in grado di bandire delle gare e allora acquistiamo in economia.
  La parte strutturale è circa del 10 per cento degli ESTAV. Esistono dei beni da acquistare in economia. Non conviene che la protesi particolare dell'anno sia acquisita attraverso un bando perché costa di più. Soprattutto, in una ricerca FIASO (Federazione Italiana Aziende Sanitarie e Ospedaliere) appena conclusa, si vede come gli ultimi concetti del codice dei contratti – mi riferisco all'accordo quadro e al sistema dinamico di acquisizione – sono utilizzati ancora pochissimo in Italia, per cui esiste un'area di recupero di efficienza dal punto di vista dell'acquisizione di beni e servizi.
  L'ultima diapositiva (fonte FIASO), mostra l'evoluzione, quali saranno le tensioni del sistema. Se continueremo a diminuire il finanziamento a parità di organizzazione, arriveremo al taglio dei servizi, come è evidente. Abbiamo diminuito il finanziamento e migliorato qualche inefficienza, ma se, a parità di organizzazione, continua a diminuire il finanziamento, si stanno tagliando i servizi. È su questo che vorrei richiamare la vostra attenzione.
  È necessario ripensare l'organizzazione. Con la spending review, il Ministero della salute dice che è ridotto di un «x» il finanziamento, suddiviso tra le regioni, lo comunica a ciascuna regione, queste lo comunicano alle aziende: il direttore amministrativo va a vedere cosa può tagliare e questo è un po’ il percorso che, purtroppo, negli anni si è strutturato nel nostro Paese senza un vero ripensamento di quelli che sono i servizi necessari.
  Quanto ai costi standard, stiamo parlando, in realtà, di finanziamento standard, e quindi di recuperare, riequilibrare la logica dei bisogni all'interno. Direi che funziona, salvo il fatto che insisto sull'organizzazione, che rappresenta il vero problema.
  Quanto ai ticket, anche in questo caso c’è bisogno di una consapevolezza: il rischio è di finire in un percorso iniquo per il cittadino. Stiamo, infatti, facendo pagare a chi ha bisogno e su questo è necessario riflettere perché il ticket ragionato come modello di limitazione di consapevolezza del costo è perfetto, ma quando si finisce su una logica continua, diventa più pesante.
  Vi riporto semplicemente dei numeri di una ricerca di qualche anno fa – i riferimenti sono in basso – su due aziende territoriali e ospedaliere. A fronte di totale di ricavi da ticket per 9.638.000 euro, i ticket ci erano costati 2.942.000 euro nel ciclo di raccolta e nel ciclo di esenzione. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che Pag. 15ormai il 75 per cento dei pazienti lombardi sono cronici, e quindi vanno in esenzione con tutto quello che richiede l'ASL per il ciclo di identificazione del corretto utilizzo di questo strumento.
  Facciamo, quindi, pagare, ma dopo dobbiamo mettere in piedi un sistema di raccolta dei fondi e un sistema di esenzione. Di fatto, circa il 30 per cento se ne va in termini di spesa per raccogliere questi fondi. I casi, allora, sono due: se sono troppo bassi, non conviene neanche metterli per ragioni tecniche; se diventano troppo alti, bisogna trovare un meccanismo probabilmente diverso, legato al reddito. Diversamente, non ne usciamo.
  Quanto al Fondo per le politiche sociali, la quota indistinta della legge 328 del 2000 ormai rappresenta un valore estremamente basso per i comuni, per cui nei fatti li mettiamo quasi più in difficoltà per rendicontare e tenere sotto controllo questa quota che devono in qualche modo giustificare.
  Se, invece, parliamo dei fondi della Conferenza Stato-regioni sulle quote vincolate, ad esempio per gli asili-nido, gli 8.000 comuni italiani presentano spesso uno scarso utilizzo. Se, infatti, sono troppo piccoli, per esempio, l'asilo nido non ce l'hanno, e quindi non utilizzano completamente questi fondi.
  Un ulteriore problema è che continuano, ovviamente dal mio punto di vista, i problemi di coordinamento e integrazione tra ASL e comuni, che di fatto continuano a lavorare in maniera poco coordinata. Dal punto di vista normativo, vi si potrebbe mettere mano.
  Vi ringrazio per l'attenzione.

  PRESIDENTE. Ringrazio il professor Croce.
  Cedo la parola al professor Gualtiero Ricciardi, coordinatore del Rapporto Osservasalute dell'Osservatorio nazionale per la salute nelle regioni italiane.

  GUALTIERO RICCIARDI, Coordinatore del Rapporto Osservasalute dell'Osservatorio nazionale per la salute nelle regioni italiane. Grazie, Presidente, per l'invito. L'Osservatorio è nato all'indomani della modifica costituzionale per valutare gli effetti delle politiche nazionali, ma soprattutto regionali, sulla salute degli italiani. È il decimo anno che produciamo questo rapporto, che ci consente qualche riflessione su quello che la devoluzione ha significato per la salute degli italiani per il presente e per le sfide future.
  Cercherò di fornire delle informazioni soprattutto dal punto di vista epidemiologico perché l'Osservatorio, pur essendo caratterizzato da circa trecento ricercatori che lavorano un po’ in tutte le università e i centri di ricerca italiani, nasce proprio con l'interesse di far sì che la salute degli italiani non sia compromessa da un frazionamento eccessivo delle politiche.
  In effetti, quello che abbiamo visto è stato esattamente questo. Il professor Borgonovi ha citato i guadagni in termini di aspettativa di vita, che si riferiscono però alla media nazionale. Nel corso di questi 10 anni, si è verificato un capovolgimento nell'aspettativa di vita, indicatore molto facile da calcolare, cioè quello che una persona nata in un determinato territorio può sperare di vivere: la differenza che oggi si registra tra una persona nata in Campania o in Sicilia, le regioni con la minore aspettativa di vita, e quelle che nascono in Trentino-Alto Adige o nelle Marche, quelle con la maggiore aspettativa di vita, è di quasi 4 anni.
  Se pensate che, come diceva il professor Borgonovi, la vita degli italiani è cresciuta di un mese, un mese e mezzo all'anno, ciò significa che nel secondo dopoguerra questi cittadini – non era così nel scorso secolo – hanno perso tutti i guadagni di aspettativa di vita maturati, appunto, dal secondo dopoguerra in poi.
  È difficile ascrivere questo esclusivamente alla devoluzione, ma in realtà si è verificato, nelle regioni che hanno pagato questo prezzo maggiore, un effetto perverso tra un aumento dei fattori di rischio nelle regioni del sud – abbiamo calcolato che l'80 per cento delle malattie degli italiani sono dovute a quattro fattori di rischio sulla base di dati OMS, cioè fumo, scarsa attività fisica, eccessiva alimentazione Pag. 16ed eccessivo consumo di alcol – combinato a una diminuzione drastica dei servizi.
  Di fatto, in molte regioni italiane, come è stato detto, non ci sono più accessi ai servizi e la prevenzione primaria e secondaria è cessata. Si verifica anche un'enorme anomalia di genere, cioè di differenza tra gli uomini e le donne: le donne, e soprattutto le donne del sud, hanno pagato il prezzo più alto.
  L'esempio della prevenzione del cancro della mammella ci fa registrare che in Lombardia, a fronte di un tasso di incidenza, cioè di nuovi casi di tumore della mammella, doppio rispetto alle regioni del sud, le regioni del sud hanno una mortalità uguale. Questo significa che la mancanza – in certi casi 10 a 1 – di programmi di prevenzione secondaria, che hanno portato in molte regioni al pareggio di bilancio o, come in Calabria, all'attivo di bilancio, ha significato ritiro di servizi cruciali e, quindi, aumento della mortalità soprattutto per le donne.
  Infine, vi è una differenza enorme all'interno delle stesse regioni, anche in Italia. Nelle grandi aree metropolitane, ad esempio, stiamo cominciando a rilevare quell'effetto metropolitana ben documentato nelle grandi aree metropolitane straniere. Ogni fermata della metropolitana che da Roma nord va verso Roma sud significa un'aspettativa di vita in meno di circa un mese, un mese e mezzo. Ciò è correlato al livello economico-sociale delle persone che vivono in queste aree, che molto spesso non riescono più ad accedere ai servizi e, come documentato anche in questo rapporto, molto spesso rinunciano alle cure.
  Il professor Croce parlava della sfida demografica come di un fattore cruciale per il nostro Paese, ma forse la questione si coglie meglio alla luce di alcuni dati presenti nel rapporto. Nel 2000, l'Italia è stato il primo Paese al mondo ad avvertire il cosiddetto rapporto di dipendenza tra giovani e vecchi; è stato il primo Paese a presentare una quota di ultrasessantacinquenni superiore rispetto a quella della popolazione di età compresa tra 0 e 18 anni. Pensate che gli Stati Uniti raggiungeranno questo dato nel 2050.
  Ciò significa che questa enorme massa di vecchi, soprattutto grandi vecchi, soprattutto donne, che vivono soli in ambienti in qualche modo problematici, impattano e, da alcuni dati calcolati, si rileva che in questo momento circa il 20 per cento della popolazione, quando viene ospedalizzata inappropriatamente, anche per questo produce un carico sulla spesa sanitaria nazionale stimabile intorno al 50-60 per cento. I trend che ci porteranno, nell'arco di vent'anni, ad avere una persona su due in queste condizioni, fanno capire quanto questa sfida sia cruciale e, quindi, da affrontare tempestivamente.
  Il presente – l'ho già detto – è caratterizzato da quegli effetti dei tagli lineari, soprattutto sulle regioni in piano di rientro, in cui il patto per la salute 2010-2012 è stato sostanzialmente monitorato esclusivamente con indicatori di carattere economico-finanziario. Il parametro di riferimento era costituito dal numero di interventi per frattura di femore entro le 48 ore, indicatore estremamente importante della mortalità degli anziani.
  In altre parole, quando un vecchio o un grande vecchio è ricoverato in ospedale per rottura del femore, se operato dopo le 48 ore, presenta un rischio esponenziale. Orbene, in alcune regioni italiane i tagli del servizio o la limitazione di questo ha fatto sì che soltanto uno su dieci di questi casi fosse operato entro questi termini, ciò  che ha significato un enorme aumento della mortalità.
  Per quanto riguarda le sfide future, concludo dicendo che il nostro Osservatorio si è posto anche in un'analisi comparata con i principali servizi e sistemi sanitari degli altri Paesi del mondo. Abbiamo notato e stiamo notando una vulnerabilità fortissima del nostro sistema che già stanno pagando servizi sanitari nazionali universalistici, finanziati con la tassazione generale, gestiti dallo Stato e gratuiti, o per lo meno con una piccola copartecipazione dei cittadini al momento dell'uso.Pag. 17
  Mi riferisco alla chiusura dei servizi sanitari nazionali greco, spagnolo, portoghese, irlandese e alla fortissima limitazione, prevalentemente per motivi ideologici, del servizio sanitario nazionale inglese, che dal 1 aprile 2013 è stato profondamente riformato incrementando una forte competizione pubblico-privato.
  Il denominatore comune di questi servizi, a eccezione di quello inglese, è l'eccessiva frammentazione dei momenti decisionali. Tutti avevano in comune una regionalizzazione, una devoluzione, contrariamente agli unici servizi sanitari nazionali che resistono, che sono quelli dei Paesi scandinavi, piccoli, ma che sostanzialmente hanno tutelato questo dogma, ossia l'unificazione e la rapidità della reazione e, soprattutto, la trasparenza, l’accountability, e un'ottima governance dei servizi sanitari.
  Personalmente, suggerirei quanto l'OMS sta consigliando a tutti i Paesi dell'area europea, di fatto già recepito sia dall'Irlanda sia dalla Svizzera, ossia una smart governance della sanità che non sia soltanto appannaggio di una parte specifica del Governo, ma sia in tutte le politiche governative. Sostanzialmente, l'OMS incoraggia tutto il Governo a diventare un Ministero della salute.
  Quando si parla, infatti, di politiche agricole, economiche, industriali, educazionali, si parla di salute, di quegli effetti che in qualche modo oggi i comportamenti hanno sulla salute. Non può il Ministero della salute, soprattutto se visto come un Ministero di spesa e soprattutto in epoca di crisi finanziaria, fronteggiare da solo le richieste che vengono dalle tesorerie di tagli. Questa sfida è già stata accettata dall'Irlanda, che ha elaborato il programma Healthy Ireland, fatto proprio dal Presidente del Consiglio e da tutto il Governo, che dal 2013 al 2025 porterà su questa strada.
  Il suggerimento che viene da questi dati, che in qualche modo devono allarmarci, è che l'insostenibilità non è ineluttabile, ma dobbiamo profondamente cambiare, innanzitutto, i rapporti tra centro e regioni e, in secondo luogo, il modo di intendere la salute non come voce di costo, ma come voce di investimento fondamentale per il nostro Paese.

  PRESIDENTE. Ringrazio il professor Ricciardi.
  Mi sembra che i nostri ospiti abbiamo posto sul tappeto, anche da angolazioni abbastanza differenti, tematiche che sicuramente hanno stimolato l'interesse dei colleghi delle due Commissioni. Credo che la cosa migliore sia, a questo punto, iniziare con le richieste di chiarimento e le domande che eventualmente i colleghi volessero porre. I nostri ospiti risponderanno a quelle domande che riterranno maggiormente pertinenti alla riflessione che questa sera ci è stata proposta.
  Do la parola ai colleghi che intendono intervenire.

  MASSIMO ENRICO BARONI. Presidente, seguirò un ordine cronologico inverso. Sono stato colpito dalle parole del professor Ricciardi nel momento in cui ha auspicato una governance maggiormente centralizzata. Non so se sia a conoscenza del fatto che molti dei programmi delle maggiori forze politiche presenti in questa sede vanno nella stessa direzione che il professore auspica. Il problema è che ci vanno per motivi diversi e per motivazioni profondamente diverse.
  Mi pare di aver capito, tra le righe, che lei, professor Ricciardi, auspichi un modello in cui inserire quello assicurativo come una delle possibili risorse positive a cui al momento non si attinge, mi corregga se sbaglio. Nel momento in cui lei fa delle «clusterizzazioni» a livello epidemiologico, mi pare di aver capito che abbia parlato di smart governance e di alcuni modelli che comunque riportano ad una centralizzazione, criticando l'eccessiva devoluzione e regionalizzazione. È entrato, quindi, comunque nel merito della possibilità di riuscire a risolvere alcuni problemi.
  In relazione a questa smart governance, dal momento che lei auspica un modello top-down, non è possibile invece invertire e cercare di verificare se sia possibile un Pag. 18modello bottom-up ? Mi pare che questo tipo di politica sia stata disattesa in Italia nonostante la legge n. 328 del 2000, l'unica citata dal professor Croce. Nel momento in cui dovessimo auspicare un modello bottom-up, quindi una sanità di iniziativa, qualsiasi essa sia, chronic care model, nucleo di cura primaria delle case della salute o il modello CReG lombardo, che tra le righe mi sembra sia suggerito da diversi professori, lei giudica possibile che possa essere un modello di risparmio anche quello bottom-up o che lo sia solo la centralizzazione per poter auspicare maggiori risorse da parte del privato ? Pongo, in ogni caso, questa domanda a tutti.

  PRESIDENTE. Credo che il collega Baroni in realtà abbia ripreso, come lui stesso ha sottolineato, temi presenti in modo esplicito o implicito nelle relazioni di tutti e quattro i nostri ospiti: Pertanto ciascuno dei nostri ospiti avrà qualche sottolineatura, qualche risposta specifica da fornire.

  DONATA LENZI. Presidente, ringrazio i nostri ospiti perché è stato, pur nella sintesi, molto utile introdurre bene il nostro lavoro dei prossimi mesi.
  Mi sembra di avere individuato, ma chiedo conferma, nei vostri interventi un problema demografico, sollevato da tutti, che, per chi deve preoccuparsi di erogare servizi sanitari, è particolarmente rilevante e riguarda, però, la politica in generale. Infatti, a mio parere, il problema demografico interessa anche il tema delle politiche più favorevoli alla maternità, delle politiche che permettano l'inserimento lavorativo dei giovani e altre ancora. Siamo già in uno stadio molto avanzato per poter correggere il trend, ma alcune misure possono essere prese anche per intervenire alla radice.
  Il sistema sanitario si misura, però, con la situazione reale e quella relativa alla struttura demografica del nostro Paese ha profonde conseguenze. Mi sembra d'aver colto che, più che un problema di importo complessivo delle risorse – che pare, a paragone con gli altri Paesi, adeguato –, esista un problema di come, secondo alcuni di voi, è costruito il sistema e, quindi, quale sia l'entità delle risorse pubbliche e quanto potrebbe essere destinato a un'eventuale – chiamiamola così – seconda gamba mutualità/assicurazioni.
  Esiste, tuttavia, un problema di risposta di lungo periodo, che implica un cambiamento profondo della struttura dell'offerta. Cambiare l'offerta dei servizi sanitari è, probabilmente, dal punto di vista politico, molto più difficile, molto più faticoso che approvare le riforme costituzionali ed elettorali, che pure già rappresentano un bell'impegno. Se continueremo con i tagli e con i piani di rientro in questo modo, senza intervenire a modificare l'offerta di servizi, finiremo con il tagliare e chiudere i servizi impedendone l'accesso.
  Un ulteriore passaggio è dato dal fatto che quella attuale è una governance che vede, a livello nazionale, un peso molto prevalente del Ministero dell'economia e delle finanze, mentre il ruolo del ministro della salute, nostro interfaccia, è più debole. Parlo da componente della Commissione affari sociali e questo per noi rappresenta anche un elemento di debolezza del Parlamento nei confronti della potestà organizzativa del sistema sanitario.
  Dall'altra parte, c’è il conflitto con i sistemi regionali e una spaccatura pressappoco nord-sud per cui chi ha sistemi sanitari che reggono tende a voler lasciare la governance così com’è; chi ha sistemi sanitari in grosse difficoltà e ha subìto piani di rientro che non hanno garantito i servizi chiede, a questo punto, di riportare le decisioni a livello nazionale.
  Probabilmente – lo dico a me stessa e lo chiedo a voi – il ragionamento andrebbe condotto su quali decisioni vadano portate a livello nazionale. Mi sembra, se non ricordo male da una delle slide del professor Croce, che ci sia una serie di decisioni, anche nel campo delle scelte sugli acquisti, che non è detto risulti più efficiente se posta a un livello più elevato, mentre stiamo andando dappertutto sulla logica delle centrali d'acquisto.Pag. 19
  Questa non è una risposta di poco conto perché non esiste solo un impianto costituzionale, ma anche un disegno già in atto che ci porta – penso alla Commissione bicamerale sul federalismo e a tutto il lavoro che c’è dietro – a un modello che va sempre più verso costi e servizi standard con l'illusione di governare il sistema a livello regionale. Può darsi, però, che anche su questo si debba riflettere.
  Pertanto, ritenete che in realtà vada meglio precisato «chi decide cosa» rispetto all'efficienza del servizio e che debba essere modificata l'offerta ?

  ROCCO PALESE. Presidente, penso che l'esposizione da parte dei relatori sia stata fortemente utile. Eravamo fortemente convinti di questo e personalmente li ringrazio molto anche perché viene sfatato in maniera decisa e inequivocabile, come opinione pubblica e come dato giornalistico, che il finanziamento del servizio sanitario nazionale italiano sia tra quelli più sottostimati rispetto agli altri Paesi, mentre è esattamente il contrario. Io ne ero convinto e mi fa veramente piacere perché così cominciamo a mettere i puntini sulle «i».
  La premessa è la considerazione di come si sia disgregato il sistema in maniera dirompente. Abbiamo ventuno sistemi sanitari diversi. Le diseguaglianze si ravvisano a partire dalla disposizione di cui all'articolo 1, comma 34, della legge n. 662 del 1996, che iniziò a modificare i criteri di riparto di finanziamento: regioni con lo stesso numero di abitanti avevano all'epoca un dislivello di finanziamento di 900 miliardi di vecchie lire all'anno. Poi c’è tutto il resto, ossia la modifica del Titolo V e in più alcune disposizioni dirompenti dovute alla partecipazione dell'Italia all'Unione europea.
  Con riguardo alla prevalenza del Ministero dell'economia e delle finanze e della parte finanziaria, bisogna leggere la legge finanziaria del 2000, in cui il ministro Giarda e il Presidente Amato hanno eliminato il vincolo di destinazione del fondo sanitario nazionale, che diventa bilancio autonomo delle regioni. È chiaro che la prevalenza finanziaria è determinata da questa piccola modifica.
  Non credo che si possa tornare indietro, quindi è inutile che dissertiamo sulla prevalenza del Ministero dell'economia e delle finanze. Si tratta di scelte consolidate dal punto di vista politico, adottate da chi ne aveva responsabilità ed era maggioranza all'epoca, e in linea con gli indirizzi presi successivamente in Europa. Non poteva essere diversamente.
  Si è fatto riferimento anche al ticket. Al riguardo, il decreto legislativo n. 229 del 1999 sancisce normativamente che il sistema universalistico si sostenga in maniera inequivocabile con le risorse pubbliche e con la compartecipazione dei cittadini. Facendo tesoro di tutte le considerazioni espresse in questa sede, gli autorevolissimi esponenti ritengono che, dal punto di vista politico e della titolarità del Parlamento, possa essere un bene o un male introdurre in quindici mesi undici norme nazionali dirompenti sul sistema ?
  In altre parole, il sistema può avere veramente una governance seria e uniforme per tutto il Paese in un contesto in cui esistono diversi centri decisionali ? Vi è il Parlamento, che rivendica la sua autonomia e legifera, le regioni e, all'interno di queste, i direttori generali, la Corte costituzionale, i TAR, il Consiglio di Stato, la Cassazione e chi più ne ha più ne metta. Tutto ciò dà quasi l'idea, a chi si è occupato della materia, dell'ingovernabilità.
  Quanto incide la circostanza di una serie enorme di variabili con la bomba a orologeria, che anche chi mi ha preceduto ha evidenziato, dei rapporti tra Governo e regioni, tra livello centrale e livello periferico, e soprattutto all'interno delle stesse regioni ? È un problema, infatti, anche l'enorme difficoltà di stabilire le regole uniformi all'interno delle regioni per i patti e poi il confronto con il Governo.
  Credo che, oltre all'approccio scientifico della questione da voi esposto, possiate fornirci una piccola integrazione per dire se, soprattutto nel medio e lungo termine, possa essere necessaria un'unica revisione profonda, anche in riferimento Pag. 20alle esperienze in corso. Mi riferisco ai numerosi tentativi di razionalizzazione della spesa, soprattutto nelle regioni del sud ma non solo, e ai piani di rientro per deficit eccessivo.
  In quel caso, sono d'accordo con chi ha sostenuto che sia sufficiente la parte contabile, il risultato contabile. Con riguardo invece alla parte assistenziale, tutta l'organizzazione rimane così e non c’è un nuovo modello organizzativo funzionale calibrato né esiste, in nessuna parte di queste mille leggi, obbligo di questo. Pertanto, la sussistenza di una sola parte contabile determina evidentemente la preoccupazione enorme per lo squilibrio del livello del tasso di assistenza. Non è un caso che aumenti la mobilità passiva nelle regioni con piano di rientro. Si determina, di fatto, una distorsione.
  Vorrei quindi sapere se, nel medio e lungo periodo, i relatori ritengono di cambiare anche modello di governance dell'attuale direzione generale. In altri termini, esiste o no il fallimento dell'aziendalizzazione a venti anni ? Se è così, qual è il suggerimento per avere non il controllo contabile, alla fine già garantito dalle tasse cittadine, ma un piano che, dal punto di vista organizzativo e funzionale, possa essere adottato per garantire il rispetto alla tutela della salute ?
  Occorre, a livello periferico, che sia garantita una situazione nettamente prevalente della parte assistenziale e non, invece, della parte gestionale clientelare che c’è dappertutto, indipendentemente dai colori politici a cui sono affidati i governi delle regioni.

  ANNA MARGHERITA MIOTTO. Presidente, pongo quattro quesiti. Innanzitutto – mi rivolgo al professor Borgonovi –, lei ha ipotizzato, tra le varie iniziative da adottare per rendere sostenibile il sistema, anche una nuova regolazione di fondi integrativi affinché non si insedino in modo surrettizio.
  In verità, oggi si potrebbe sostenere l'esistenza di una sorta di fiscalità di vantaggio per i fondi integrativi. Ciascuno di noi costa al sistema sanitario nazionale 1.800 euro, ma se accediamo a un contratto assicurativo per la sanità integrativa, possiamo detrarre dalle tasse fino a 3.600 euro e, come è noto, la sanità integrativa non assicura le stesse prestazioni garantite dal sistema sanitario. Esiste già, quindi, una sorta di grande attenzione nei confronti dei sistemi dei fondi integrativi.
  Al riguardo, non ritiene che dobbiamo farci carico, in questa fase, di contenere nel suo complesso la spesa sanitaria, pubblica o privata che sia ? Infatti, ogni risorsa così impiegata – in questo caso si tratta di lavoratori dipendenti appartenenti a categorie che contrattano con i datori di lavoro una sorta di sanità integrativa – è sottratta ad altre finalità. Poiché è difficile individuare nel mondo un sistema che costi meno di 1.800 euro pro capite, a parità di prestazioni erogate, credo che varrebbe la pena preoccuparci dell'efficientamento dell'attuale sistema. Si tratta di un'operazione che, oltretutto, conviene.
  In secondo luogo, anche se, purtroppo, non abbiamo avuto la possibilità di analizzare le differenze tra i sistemi regionali, non ritiene, professore, che le differenze esistenti in verità corrispondano alle linee di frattura che generano comportamenti opportunistici nella gestione ?
  Lei ha parlato di nuova governance, ma i sistemi che funzionano meglio e che reggono anche economicamente sono quelli che si basano, per esempio, sull'integrazione socio-sanitaria, mentre i sistemi sanitari regionali nei quali c’è questa distinzione netta tra erogatore e committente sono quelli che, se non accompagnati da discrete risorse per controllare la spesa, rischiano di generare comportamenti opportunistici che, alla fine, si trasferiscono sull'intero sistema con un aggravio di spesa. Potrei citare esempi anche a livello infraregionale: spendono di più le aziende ospedaliere pagate sulla base dei Diagnosis Related Group (DRG) rispetto alle aziende sanitarie in diretta gestione della regione.
  Professoressa Nuti, per le differenze che giustamente ha indicato con alcuni esempi e che determinano una risposta non appropriata alla domanda di salute, Pag. 21sarebbe interessante capire se esse corrispondano a realtà in cui l'errore nella programmazione o la mancata programmazione ha comportato quel fenomeno di eccesso di offerta che induce a domanda, che è noto e che talvolta porta all'esagerazione degli interventi in cardiochirurgia. Abbiamo, infatti, la più grande offerta di emodinamiche o di cardiologia interventistica del mondo in una regione.
  Professor Croce, interessantissimo è stato il ragionamento sulle aggregazioni. Ha ipotizzato, però, a un certo punto che, poiché la gestione amministrativa dei ticket è molto rilevante, potremmo addirittura pensare di eliminarla. Tuttavia, a mio avviso il ticket deve continuare a essere modérateur. In altre parole, se c’è, non fa esplodere la spesa. Forse, nel bilancio, tra ciò che si riscuote e la sua gestione sarà pari, ma se non ci fosse, ci sarebbe un aumento di spesa, quindi serve un giusto punto di equilibrio. Concordo, in ogni caso, nel sostenere che, se diventasse una modalità per finanziare il sistema, tradirebbe lo scopo per cui è stato introdotto e si configurerebbe come una tassa sull'ammalato.
  Il professor Ricciardi ci ha detto che nel mondo stanno cambiando e stanno centralizzando, ma io guardo con preoccupazione a questo fenomeno perché credo molto, invece, nei sistemi regionali. Penso che in Italia, ad esempio, manchino i confronti tra le regioni. Solo recentemente, appunto, si sa cosa succede nei sistemi regionali attraverso la pubblicazione di AgeNaS sugli esiti, ma bisognerebbe incrementare quest'opportunità di confronto.
  Io non sono leghista, anche se sono veneta, ma del gruppo del Partito Democratico e giudico un'opportunità la possibilità di confrontare – come sottolineato dalla professoressa Nuti, se non sbaglio – le buone pratiche di gestioni oculate nelle aziende sanitarie da estendere a tutto il Paese.
  È, infatti, possibile e perfino la spending review, fatta con l'accetta – perché, alla fine, la riduzione dei contratti del 5 per cento generalizzata, così come è stata fatta, in verità è ingiusta –, ha messo in moto almeno la possibilità di confrontare i singoli contratti con ciò che l'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici aveva predisposto.
  Si potrà discutere tutto questo – anzi, le regioni devono discuterlo – ma, una volta individuati i prezzi di riferimento, non capisco perché non ci si debba adeguare in tutta Italia, fatte ovviamente le opportune eccezioni per le ragioni territoriali, considerato che è diverso gestire un servizio del pronto soccorso a Venezia, ad Agordo o a Frosinone.

  LELLO DI GIOIA. Presidente, voglio ringraziare i nostri ospiti per le relazioni che ci hanno presentato, ma vorrei partire da una considerazione sul motivo per cui abbiamo ritenuto di condurre quest'indagine conoscitiva sulla spesa sanitaria, ossia per conoscere l'impatto che la spesa sanitaria può avere sulla spesa pubblica, e quindi, ovviamente, per capire quali possano essere, nel ragionamento più generale, in modo particolare sulla sanità, i risparmi e come muoversi nel prossimo futuro.
  Oggi abbiamo ascoltato delle considerazioni di razionalizzazione del sistema. Mi riferisco soprattutto alle considerazioni svolte dal professor Ricciardi, in particolar modo nella parte finale del suo intervento, quando sosteneva che è necessario ormai che si definisca una razionalizzazione, e quindi un intervento maggiore sul territorio, per fare in modo che anche la spesa pubblica sia razionalizzata.
  Di questo ovviamente siamo fortemente convinti, come siamo convinti che nel prossimo futuro vi sarà un incremento del numero di anziani e, di conseguenza, una spesa sanitaria che comunque tenderà ad aumentare nel momento in cui non ci sarà una razionalizzazione sul territorio. Siamo, allo stesso modo, convinti anche che sia necessario cambiare un sistema organizzativo, come sottolineava con molta determinazione l'onorevole Palese, il quale chiedeva se oggi ci siano le condizioni per un giudizio definitivo su quella che è stata la riforma di venti anni fa.Pag. 22
  Tuttavia, voglio porre un problema con grande determinazione e gradirei una risposta da parte di tutti voi: vi è ancora oggi la possibilità, con la situazione economica presente nel Paese, di avere un sistema sanitario nazionale universale o si deve, invece, ragionare in modo diverso ?
  Credo, infatti, che questo sia il problema, al di là delle questioni che riguardano più squisitamente le assicurazioni, perché, guardando le slide del professor Croce, mi pare che abbiamo un'incidenza estremamente negativa. Nell'ultimo periodo, infatti, è diminuita anche la possibilità di poter ricorrere al cosiddetto sistema assicurativo.
  Anche in questo caso, ovviamente, vi è la necessità di fare alcune considerazioni, in modo particolare su come deve essere gestito il sistema assicurativo in Italia, ossia stabilire se si tratta di fondi chiusi o aperti. In altre parole, a mio avviso, vi è un ragionamento molto più ampio da affrontare e approfondire in termini estremamente puntuali.
  In una situazione drammatica, come quella che stiamo vivendo da un punto di vista economico nel nostro Paese, a me sembra che sia necessario ragionare con grande determinazione per stabilire se oggi esistano ancorano le condizioni per un sistema sanitario nazionale universale o se, invece, per esempio – la mia è una provocazione –, non sia necessario riattivare il cosiddetto sistema sanitario indiretto.
  La provocazione serve a capire quali possano essere le considerazioni sul modo in cui arrivare a una razionalizzazione della spesa, a un sistema sanitario efficiente e nel quale chi ha oggettivamente di più possa contribuire maggiormente alle difficoltà oggettive, economiche e finanziarie, che questo sistema oggi determina.

  PRESIDENTE. Ringrazio il collega Di Gioia, che ha posto, anche in un modo direi culturalmente provocatorio, la propria domanda e che, quindi, sarà da stimolo per le risposte da parte dei relatori.

  FERDINANDO AIELLO. Presidente, ho solo una domanda per il professor Ricciardi, il quale afferma che il rapporto Osservasalute del 2012 ha segnalato che le regioni del Mezzogiorno ricevono meno risorse economiche, quindi dispongono di un numero inferiore di posti letto per assistenza sociosanitaria e ciò contrasta con i bisogni potenziali della popolazione.
  Infatti nel Mezzogiorno non c’è la garanzia dei LEA. Al riguardo, vorrei sapere quanto costa, in termini di migrazione sanitaria, la regione del Mezzogiorno e a favore di chi viene effettuata questa spesa. In altre parole, qual è il costo di questa mancanza di trasferimento di risorse, di questa mancanza di posti letto, di questa mancanza dei LEA ?

  FRANCA BIONDELLI. Presidente, ringrazio naturalmente i nostri ospiti. Tutti hanno sottolineato la grande criticità dovuta al fatto di avere una popolazione sempre più costituita da anziani. La mia opinione è che sulla carta abbiamo tutto, ma non siamo pronti ancora sui territori. Non esiste un coordinamento vero e proprio tra ASL e comuni e nemmeno ancora un'intesa tra Stato e regioni che possa funzionare.
  Diceva la professoressa Nuti che non abbiamo risposte da alcune regioni sull'efficacia, e ciò è vero. Quando abbiamo svolto un'indagine conoscitiva con il professor Marino, ci siamo trovati a non avere assolutamente dati sui parti con taglio cesareo nel momento in cui molte criticità erano emerse perché in alcune regioni c'era il 50 per cento dei parti con taglio cesareo, in altre il 17 per cento e, come Paese, eravamo un po’ il fanalino di coda e siamo ancora in un periodo molto critico.
  Manca, dunque, ancora la governance del territorio e i tagli lineari non possono essere fatti, ad esempio, su dodici posti letto tagliandone in maniera indistinta tre di chirurgia, tre di medicina, tre di fisiatria. Non può essere così. Volendo insistere sul post-acuzie e magari riorganizzare l'acuzie – ad esempio, la colecisti oggi, soprattutto se praticata in laparoscopia, Pag. 23prevede un giorno di degenza in ospedale, al massimo due –, se tagliamo tutti i posti in fisiatria, come è avvenuto nella mia regione, riverseremo la maggior parte degli anziani nel privato o nella fisioterapista domiciliare. Non parliamo di persone abbienti, ma anche di anziani non abbienti.
  Manca ancora veramente tutto questo percorso, ossia il percorso della governance e del coordinamento nel territorio. Quindi, con riguardo ai tagli lineari possiamo dire di trovarci in una fase sperimentale perché con questo spirito è stato fatto il taglio dei posti letto, cioè in una fase sperimentale sono stati tagliati i posti letto in attesa delle risposte provenienti dal territorio: il territorio non ha risposto e i posti letto sono stati tagliati.
  Credo che manchi ancora sul territorio questa capacità di parlare con le regioni. Se dobbiamo prendere atto che abbiamo più anziani, dobbiamo anche cambiare il modo di vedere le cose. Diversamente, ci ritroveremo poi con venti modelli di sanità: alcune regioni che non rispondono per niente, e l'abbiamo visto, altre che tagliano in un determinato modo e poi non si ritrovano e regioni, invece, eccellenti.
  Infine, sul ticket sono d'accordo con quanto affermato dal professore: se è basso, non ha alcuna efficacia; se non è legato a un reddito, credo addirittura che possa essere incostituzionale.

  PRESIDENTE. Grazie, onorevole Biondelli. Do ora la parola al collega Baroni, il quale ha chiesto di poter fare una precisazione all'intervento svolto precedentemente.

  MASSIMO ENRICO BARONI. Presidente, in quanto non siamo dei politici di professione, pensavo che gli interventi fossero molto più brevi. Vorrei quindi aggiungere un'osservazione per sapere la ragione per cui non è stato evidenziato, da parte del collega Ricciardi, il fatto che le malattie croniche e neurodegenerative a livello epidemiologico in Italia – secondo i dati ISTAT 2012 – rappresentano il 4 per cento.
  Dal momento che lui stesso ha sollevato la questione della prevenzione secondaria e del mancato apporto di risorse per diagnostica in prevenzione secondaria, vorrei sapere per quale ragione non si sottolinea il fatto che il 4 per cento di questo cluster di cronicità neurodegenerative – che comprende, tra l'altro, anche l'artrite, che comporta una bassa invalidità ma è difficilmente gestibile, se non attraverso un modello, appunto, domiciliare – si porta via l'80 per cento delle risorse spese in prevenzione secondaria. Stiamo parlando di circa 30-35 miliardi di euro – in questa sede ho sentito addirittura dati più alti da parte di alcuni vostri colleghi –, quando poi vi sono quindici regioni su venti, quindi tre quarti delle regioni, che non hanno modelli di governance.
  Il problema non è che bisogna potenziare o rivedere, ma proprio la totale disattesa, da parte delle classi politiche regionali, della presa in carico dell'attuazione del fatto che questi si devono dare dei modelli di governance. Quindi, queste prevenzioni, queste progettualità di spesa non vengono fatte non dico a livello quadriennale, triennale, ma nemmeno a livello annuale. Anche solo una piccola spesa potrebbe essere ripartita in maniera diversa per l'anno successivo, e invece questo non accade. In assenza di modelli di governance, siamo costretti solo a pagare le fatture. Quando ci arrivano le fatture, non possiamo fare altro che pagarle.
  Quanto diceva prima la collega del Partito Democratico, dunque, è un understatement. Stiamo parlando di una potente classe politica fortemente collusa con una classe che prende le decisioni a livello medico dirigenziale e che fa in modo che questi piani di governance non vengano emessi né attuati. Mi risulta, infatti, che in Italia le regioni con una governance sanitaria e socio-sanitaria – che sono, in particolare, quattro: le Marche, l'Emilia-Romagna, la Toscana e la Lombardia –, avendo una visione e avendo preventivato delle spese, caso strano hanno i conti in ordine e non è neanche una questione di pubblico e privato.Pag. 24
  È proprio una questione di chi ruba facendo finta di non rubare e come si ruba meglio non progettando perché all'ultimo momento si taglia e cuce il vestito addosso all'emergenza di pagare le fatture o di dovere prevedere le fatture dell'anno prossimo.
  Esiste, allora, un problema etico che va assolutamente preso in carico da chi clusterizza i dati a livello epidemiologico. C’è un problema etico di chi fa previsioni o si ammanta di scientificità previsionale. Se non ci rendiamo conto del fatto che questi buchi sono voluti per poter perpetuare uno status quo di spesa, è ovvio che non avremo l'onestà intellettuale per poterci confrontare.

  GERO GRASSI. Presidente, neanche io sono un professionista della politica, ma credo che vada fatta con professionalità. A tal proposito, credo di dover sottolineare che il nostro servizio sanitario nazionale è uno dei migliori nel mondo. Ci saranno disfunzioni, ruberie, inefficienze, però cerchiamo di dare atto che il nostro è uno dei migliori nel mondo non soltanto per la qualità dei servizi che offre, ma anche per il rapporto tra i servizi e la spesa.
  Sono preoccupato di una visione economicistica dalla sanità perché credo che la sanità sia un ambito in cui la spesa rappresenti un investimento, come dimostro con tre dati: il 20 settembre 1870, Porta Pia, l'età media degli italiani era di 34 anni; il 2 giugno 1946, referendum Costituente, l'età media degli italiani non superava i 40 anni; oggi siamo ad una età media di 80 anni. Lo Spirito Santo ci avrà dato una mano, ma probabilmente siamo stati bravi con il servizio sanitario nazionale a elevare la quantità e la qualità della vita degli italiani.
  Pongo una questione rapidamente e non pretendo che mi rispondiate tutti e quattro. Una delle anomalie più grandi del servizio sanitario nazionale italiano – si tratta di un problema che cade pesantemente sulla sostenibilità – è oggi la drammaticità di venti sanità diverse. Vorrei capire come facciamo a parlare della sostenibilità del servizio sanitario nazionale se facciamo riferimento alla sanità calabrese. Analogamente, se facessimo riferimento a quella lombarda, che riprendo come esempio – non sto svalutando né sopravvalutando le due sanità –, così come affermavano i miei colleghi, ci sono delle anomalie in eccedenza.
  Quindi, quale servizio dobbiamo sostenere ? Va ricordato, infatti, che in questo campo la media non funziona. Il cittadino campano, ad esempio, è quello che si ammala meno di tumore, ma che muore più di tumore. Non funziona, non può funzionare. In certe zone d'Italia, i LEA sono una fictio iuris, non esistono.
  Concludo dicendo che a me sembra che, nelle eccellenti relazioni che ho apprezzato, manchi la drammaticità di una divaricazione economica persistente e molto più incidente di quanto possiamo pensare nelle diverse regioni d'Italia.
  Al collega Aiello dico di fare attenzione sul tema del Mezzogiorno. Il problema, infatti, non è lo scontro Mezzogiorno-Settentrione in termini economici. La Basilicata, pur essendo una regione del Mezzogiorno, sia per il patto di stabilità sia per la spesa storica, è una delle prime regioni d'Italia. Il problema, dunque, non è nord-sud, ma ancora una volta – sono convinto che questo problema rimanga – l'effettiva contribuzione pro capite dei cittadini italiani in base agli attuali criteri che penalizzano alcune regioni italiane. In particolare sono penalizzanti nei confronti di quelle regioni in cui vi è una minore popolazione anziana.
  Tutto questo non pesa poco sulla sostenibilità del servizio sanitario nazionale. Oltretutto, i dati anagrafici ci dicono che, spingendo sempre più in là, grazie a Dio, il limite di vita degli italiani, oggi abbiamo il problema di sopperire alla richiesta dei malati cronici, che aumentano sempre di più.
  Allora, credo che, ai fini della sostenibilità, vada fatto un ulteriore passo avanti sulla deospedalizzazione, che incide in maniera pesantissima sull’input economico, e vada perseguita maggiormente una Pag. 25sanità non dico domiciliare, ma zonale, di quartiere, di città. Diversamente, non ne usciremo.

  PRESIDENTE. Agli interventi dei colleghi vorrei aggiungere una domanda personale che rivolgerei ai nostri quattro ospiti, già posta peraltro con tante sfaccettature dai colleghi che sono intervenuti. Vorrei ricollegarla all'elemento fondamentale per cui la Commissione affari sociali e la Commissione bilancio hanno deciso di lavorare insieme. Abbiamo pensato che aspetti di carattere economico o economicistico, come qualcuno li ha definiti, e aspetti di tutela delle esigenze di salute, quindi un angolo di visuale differente, dovessero compendiarsi sia attraverso le audizioni che stiamo svolgendo sia attraverso un lavoro comune che le due Commissioni proveranno a realizzare perché possa essere di utilità anche all'azione del Governo su questi argomenti.
  Ai nostri ospiti, che rappresentano il meglio di chi studia le dinamiche dei sistemi sanitari, e di quello italiano in modo particolare, vorrei porre questa riflessione. L'Italia ha una spesa che, sostanzialmente, abbiamo visto essere abbastanza bassa rispetto al prodotto interno lordo, almeno una spesa pubblica, che però è alta in rapporto alla spesa pubblica complessiva e cresce mentre altri settori della spesa pubblica decrescono. Il nostro è un sistema finanziato sostanzialmente attraverso la fiscalità generale e che ha una caratteristica, a cui siamo tutti molto legati, ossia quella dell'universalità e dell'equità.
  Tuttavia, in questo sistema così configurato sappiamo che esiste un out-of-pocket, cioè una spesa a carico delle famiglie, che tende a crescere e che oggi si attesta probabilmente intorno a 2-2,4 punti di PIL – è difficile censirla in maniera precisa –. Questa spesa tende a crescere insieme a uno degli elementi fondamentali che voi tutti, compresi i colleghi che sono intervenuti, avete posto come tema fondamentale della sostenibilità del sistema, ossia quello delle cronicità.
  Vorrei rivolgere, quindi, una domanda semplice: se non mettiamo mano al sistema, nel senso che lasciamo inalterata la forma del finanziamento del sistema – immaginiamo, così come la maggior parte degli economisti sanitari pensa, che la quota a carico dello Stato non possa essere dilatata di molto rispetto all'attuale percentuale di PIL –, se non interveniamo sull'ospedalocentrismo del sistema né sui ventuno sistemi sanitari differenti che in questo momento dovrebbero esserci nel Paese, insomma, se non interveniamo su tutto questo, qual è secondo voi la conseguenza ? E, se dovessimo realizzare alcuni cambiamenti, qual è il suggerimento che dareste al fine di stabilire su dove andare a intervenire ?
  Do quindi la parola agli auditi per la replica.

  ELIO BORGONOVI, Presidente del CeRGAS-Bocconi. Vi ringrazio per le domande e partirei da quest'ultima.
  Se non metteremo mano al sistema, la conseguenza prevedibile è che si avrà una selezione surrettizia delle risposte ai bisogni di salute, che peraltro già c’è nei singoli sistemi sanitari regionali. In questo modo, in alcune aree del Paese, non necessariamente solo e tutte le regioni del sud, ma anche in alcune parti dove si gestisce peggio e dove c’è meno governance si avranno dei livelli essenziali effettivi molto minori di quelli dichiarati per legge e molto migliori di quelli definiti nei documenti ufficiali, si avrà altresì una spesa out of pocket crescente, che soprattutto creerà crescenti divaricazioni sociali.
  La conseguenza quindi è questa, per cui ci chiediamo dove si possa intervenire. Nella nota che avrete modo di leggere con attenzione evidenzio l'esigenza di ripensare il sistema di tutela della salute partendo da tre concetti.
  In primo luogo, oggi dobbiamo pensare a qualcosa che sia più orientato alla cronicità, alle persone anziane in un contesto sociale metropolitano, alle famiglie piccole, e poi ritornerò sulle nozioni di universalità ed equità; in secondo luogo, occorre considerare che oggi esistono modelli Pag. 26assistenziali già sperimentati che possono essere diffusi, come ricordava prima la collega Nuti riferendosi alle buone pratiche o best practises. Si tratta, ad esempio, di riuscire ad attivare un ruolo del Ministero della salute e delle regioni che aiuti a diffondere ciò che di positivo si fa già in termini di processi diagnostico-terapeutici ed assistenziali, continuità delle cure, organizzazione a rete, organizzazione per intensità delle cure.
  Ci sono modelli non astratti che in contesti economici, sociali e territoriali diversi devono e possono essere coniugati in modo adeguato.
  In terzo luogo, oggi è meglio pensare a un finanziamento distribuito su diverse gambe piuttosto che procedere con il «fai da te».
  Sono assolutamente convinto che per quanto riguarda il tema dei fondi integrativi oggi, con certe caratteristiche, sarebbe difficile dire se sia positivo avere la fiscalità di vantaggio, ma una cosa è certa: non avendolo affrontato quando era stato posto nel decreto legislativo n. 229 del 1999 con una discussione molto accademica e astratta su fondi «doc» e «non doc», oggi si ha una fioritura di fondi integrativi, mutui aziendali low cost ed abbonamenti low cost che in alcuni casi funzionano bene, in alcuni casi aiutano, in altri casi non aiutano.
  Non credo alla soluzione dei tecnici dal momento che, pur essendomi occupato di aziendalizzazione, e su questo poi replicherò ad una domanda specifica, non credo che problemi afferenti a sistemi complessi possano essere risolti da tecnici o tecnocrati, professori universitari, ricercatori: se i problemi sono complessi e hanno dimensioni economiche, manageriali, sociologiche, psicologiche, di rapporti professionali, possono essere affrontati solo mettendo insieme diverse prospettive.
  Proprio in quest'ottica – e in tal modo credo di aver risposto anche ad uno dei problemi sollevati – ritengo che il sistema universale, dati alla mano, sia ancora uno dei sistemi che tiene più bassa la spesa totale per la tutela della salute perché bene o male – finora più bene che male – ha consentito un certo coordinamento e ha evitato i rischi della frammentazione. Secondo l'ultimo dato di venerdì di una collega americana, la spesa totale per la sanità statunitense è pari al 17,9 per cento del PIL, di cui il 45 per cento circa consistente in fondi pubblici (Medicaid, Medicare, Veterans Health Administration). Il 45 per cento del 17,9 per cento è comunque superiore alla spesa pubblica italiana sul PIL che, seppur con quei problemi di spesa privata difficile da valutare, è comunque inferiore ai sistemi di tutela della salute indiretta, come in Francia, Germania ed altri Paesi.
  Ma – ed è questa la seconda domanda – possiamo sostenere che tutto vada bene ? No, è possibile migliorare. Io non mi chiedo mai se siamo tra i migliori o tra i peggiori, se spendiamo poco o molto: sono convinto che spendiamo poco ma sono sicuro che, in base anche ai dati che i colleghi hanno citato (io non ne ho citati molti ma ricordo che dal 2000 è disponibile in chiaro il «Rapporto Oasi», che riporta tutte le spese ripartite tra regioni), le differenze tra le regioni sono aumentate e questa è una palla al piede che, qualora non risolta, rischia di affossarci tutti, non solo le regioni del sud.
  Nel corso di un'audizione del 1985-86, quando era direttore della programmazione Sergio Paderni, che teorizzava il riequilibrio finanziario, sostenni la tesi che riequilibri finanziari in termini di spesa aggiuntiva allora e riequilibri finanziari in termini di piani di rientro oggi, quindi con vincoli di spesa, non accompagnati da un supporto in termini di diffusione di capacità di gestione delle aziende, di capacità di fare politiche regionali chiare, esplicite e trasparenti, e di capacità di governo delle regioni sono politiche destinate a peggiorare la situazione per tutti.
  I soldi aggiuntivi degli anni Ottanta e Novanta, ma anche quelli del Duemila, hanno preso vie non certo orientate alla tutela della salute, e questo lo so. So tuttavia anche che politiche del tipo ticket e compartecipazione alla spesa che siano guidate da logiche di fare cassa nel breve periodo creano distorsioni nel sistema e Pag. 27oltretutto producono risultati inferiori a quelli previsti e comunicati a Bruxelles, tenuto conto che secondo gli ultimi dati nel 2012 si pensava di ricavare 850 milioni di euro mentre se ne sono ricavati poco più di 500.
  La compartecipazione va quindi utilizzata come strumento di governo della domanda – il ticket modérateur - anche in rapporto al fatto che non è possibile prevedere forme di ticket superiori al costo delle prestazioni, come succede in alcune regioni che non hanno un sistema di contabilità dei costi o non hanno adeguato le tariffe alla dinamica della regolazione sul ticket.
  Sicuramente le politiche integrate fanno risparmiare in termini complessivi – e risparmiare non vuol dire spendere meno ma spendere meglio e conseguire benefici – consentono una compatibilità di medio-lungo periodo. Sono pertanto auspicabili tutte le politiche di integrazione tra comuni ed ASL e tra ospedali e territorio, coinvolgendo nella gestione dei servizi la rilevante risorsa, tanto diffusa nel nostro Paese, del privato sociale e della solidarietà, intesa non come buon cuore di assistere quelli che sprecano ma come aiuto a migliorare tutti, in modo che, se qualcuno è più bravo, abbia la responsabilità di aiutare chi appare meno bravo.
  Sicuramente, quindi, l'integrazione a livello territoriale aiuta, tuttavia l'integrazione è la cosa più difficile da gestire sul piano operativo perché mettere d'accordo medici con infermieri, con operatori sociali, con infermieri che dall'ospedale devono e possono andare nel territorio significa incontrare difficoltà per superare gli ostacoli legati ai contratti di lavoro, alla convenzione con i medici di medicina generale e con i pediatri di libera scelta, significa altresì difficoltà nel gestire i rapporti tra comuni e ASL tenuto anche conto che magari ci sono maggioranze diverse, significa difficoltà manageriali. Il manager infatti è colui che sa anche ascoltare il territorio, non solo quello dei modellini o degli strumenti che tira fuori al momento opportuno.
  In quest'ottica, a mio avviso, l'aziendalizzazione non è fallita e non è stata certo la causa della situazione di difficoltà del nostro sistema. Abbiamo piuttosto cercato di dimostrare che le cause sono strutturali: se negli ultimi venti anni la popolazione è diventata più longeva e il progresso scientifico e tecnologico consente di assistere persone che venti anni fa non potevano essere assistite: queste sono difficoltà oggettive e «aziendalizzazione» non ha mai voluto dire partire dai bilanci, come prima o poi volta dirò a qualche collega che attacca i cattivi aziendalisti.
  Aziendalizzazione significa gestire situazioni complesse tenendo conto che l'equilibrio deve essere trovato a livello locale all'interno di entità quali certi presìdi ospedalieri, certi presìdi ambulatoriali al di fuori dell'ospedale, certi servizi sul territorio o le case della salute, e significa farlo gestendo 5 mila, 6 mila o 10 mila dipendenti dal momento che l'azienda sanitaria locale è spesso la più grande organizzazione sul territorio delle regioni stesse, perché poi imprese industriali o commerciali che in Italia abbiano più di 5-7 mila dipendenti saranno cento o duecento.
  Se non vogliamo chiamarle aziende chiamiamole «organizzazioni complesse multiprofessionali» che devono gestire tipi di servizi tra loro completamente diversi ed eterogenei, nella logica di un'impresa multibusiness.
  Credo di aver risposto così a una serie di domande. Vi è poi tutto un altro filone di quesiti che nasce, peraltro, dalla prima domanda, che era legata ai concetti di top-down e bottom-up. Personalmente, in quarant'anni di esperienza mi sono formato la seguente idea: in un sistema complesso, in quanto l'Italia è molto più complessa di molti Paesi del nord Europa, con una cultura molto diversa formatasi e stratificatasi secondo storie differenti (su tale punto non metto in discussione le parole di Walter Ricciardi, con cui mi trovo d'accordo), dall'alto in basso si possono dare princìpi generali, criteri che non siano troppo di dettaglio (non i tre o i cinque posti letto), linee guida, politiche, Pag. 28ma poi la vera innovazione e la vera capacità del sistema di rispondere parte dal basso.
  È infatti dal basso – ossia dal contatto con i pazienti, con le comunità locali, con la famiglia più o meno allargata (in certe zone ci sono ancora famiglie allargate, in altre zone non ve ne sono più, in certe zone c’è più privato sociale, in altre zone non c’è per niente) – e solo a livello locale attraverso il contributo di persone motivate, incentivate e valutate sulle performance che non sono solo quelle relative agli aspetti di bilancio, che si genera la possibilità del sistema di rispondere.
  Non è evidentemente compito nostro bensì del Parlamento intervenire sugli assetti istituzionali, però credo che oggi sia possibile andare verso un sistema di federalismo e di decentramento governato che sia efficiente, trasparente e solidale.
  In ordine all'ipotesi che qualcuno possa non adottare sistemi di governance perché dietro ci sarebbero i partiti, i gruppi sociali, le lobbies, credo che le inefficienze del sistema di tutela della salute come quelle di altri settori pubblici e privati – mi riferisco anche a quelli privati perché poi li paghiamo comunque tutti noi – e la corruzione siano responsabilità della politica, sebbene io non ho mai cavalcato l'antipolitica e mi sento responsabile tanto come cittadino quanto quando insegno e quando dico cose diverse da quelle che faccio.
  Esiste una retorica per cui i problemi gravi del sistema sono sempre colpa di qualcun altro. Questo è un problema gravissimo del nostro Paese, e peraltro la corruzione e la black economy costituiscono un problema mondiale che in altri Paesi, anche avanzati, rischia di essere almeno pari al nostro se non maggiore, però a me non interessa che all'estero sia più o meno grave: so che è un problema grave per il mio Paese e lo affronto con le mie competenze, evidenziando come si possano comunque ostacolare queste situazioni attraverso l'adozione di un sistema di politiche che, come diceva il professor Croce, siano monitorate e valutate in relazione al loro impatto.
  Se infatti non viene effettuata alcuna valutazione delle politiche al momento della loro adozione o ancor meno nella fase della loro applicazione, allora succede che ognuno potrà poi dire tutto e il contrario di tutto. Dobbiamo anzitutto compiere una rilevazione dei dati e delle situazioni oggettive e solo su tali basi fare commenti: i fatti devono essere sacri, i commenti e le valutazioni politiche sono liberi.
  Ritornando a un tema sollevato dall'onorevole Rocco Palese, la risposta per me è molto semplice: undici provvedimenti in due o tre anni sono una follia. Se si vogliono fare dei provvedimenti, bisogna avere il coraggio di dire: cancelliamo i dieci provvedimenti precedenti e facciamone uno organico.
  Credo che oggi non ci sia bisogno di una quarta riforma: probabilmente c’è bisogno di intervenire pesantemente sulla semplificazione del sistema, dando attuazione a tutte le norme che non sono state applicate ed eliminando tutte le norme che sono in contrasto tra di loro per consentire al sistema di muoversi.
  Torno infine sull'aziendalizzazione. Se pensate che i sistemi industriali siano competitivi semplicemente perché si fanno le politiche, probabilmente siete più convinti di me che ci sbagliamo. I sistemi industriali sono compatibili se le diverse imprese hanno dei lavoratori motivati, dei lavoratori competenti che svolgono le diverse funzioni, da colui che svolge il compito esecutivo al mega dirigente, per i quali il divario di remunerazione tra chi prende meno e chi prende di più non può essere di uno a mille, come stanno riconoscendo anche i fautori dei bonus nei luoghi centrali in cui i bonus sono diffusi.
  Se ho un direttore di unità organizzativa semplice o complessa che è un medico, devo dare al medico delle competenze per gestire i processi organizzativi perché un conto è fare il chirurgo, un conto è fare il direttore di un'unità organizzativa complessa di chirurgia. Se poi non lo fa lui, deleghi qualcun altro.
  Il direttore di dipartimento deve essere un medico che deve dedicare una parte Pag. 29significativa del suo tempo a problemi organizzativi di gestione del personale, di soluzione dei conflitti, di analisi della domanda, di contatti con il suo direttore generale. Questo è un programma che a livello di ministero, con un gruppo di colleghi qui presenti, ci siamo permessi di suggerire e che consiste nel realizzare un'iniziativa di alta formazione per dirigenti in grado di gestire situazioni complesse.
  Speriamo che la proposta vada avanti perché ciò significa immettere nel sistema inizialmente trenta persone con questa elevata competenza, in seguito altre trenta o sessanta, o magari scoprire le professionalità che già esistono, perché noi teorizziamo sempre che non ci siano ma conosco gente molto più brava a dirigere di quanto non sia io a insegnare management.
  Mi fermo qui, pur sapendo di aver tralasciato alcuni temi ma sperando di aver comunque trattato quelli fondamentali.

  SABINA NUTI, Responsabile del laboratorio Management e sanità della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa. Aggiungo ben poco perché molte delle considerazioni che avrei voluto fare sono state anticipate dal professor Borgonovi, magari semplicemente un commento su due questioni che mi sembrano importanti.
  Sul rapporto tra lo Stato e le regioni, per quanto riguarda l'idea che la centralizzazione possa risolvere una serie di problematiche vorrei ricordare che le regioni in piano di rientro devono comunque avere il supporto del ministero e che i risultati dei piani di rientro in termini di capacità di garantire i livelli di servizio ed i LEA sono sotto gli occhi di tutti.
  Non so, quindi, se la centralizzazione possa veramente risolvere i problemi. A mio avviso, ciò che piuttosto è mancato è che regioni e ministero non sono riusciti a lavorare insieme per permettere alle regioni in piano di rientro di cambiare non tanto la loro struttura dei costi ma le determinanti dei costi. I piani di rientro sono stati meccanismi di autorizzazione alla spesa che non hanno inciso su ciò che ha determinato l'incapacità di rimanere in equilibrio e di garantire livelli adeguati di servizio.
  Vi cito un esempio: il famoso Patto per la salute, il quale comprendeva una serie di indicatori individuati da regioni e ministero senza che però venissero altresì individuati gli standard di riferimento. È quindi inutile affermare l'esigenza di ridurre i ricoveri medici inappropriati senza indicare quale sia il livello sotto il quale una regione funziona o non funziona, perché ciò significa prendersi in giro, far finta di individuare degli obiettivi e degli indicatori e poi non avere la forza di andare fino in fondo.
  Ritengo che le regioni in piano di rientro avrebbero beneficiato molto di più di una coesione tra centro e periferia nel fissare le condizioni al di sotto delle quali il servizio andava considerato inaccettabile piuttosto che abbandonare le regioni a un controllo di tipo contabile e non di sostanza dei servizi erogati. Credo dunque che la regionalizzazione possa portare più benefici che problematiche, tutto sta però nei meccanismi di governance di cui tanto abbiamo trattato oggi.
  Vorrei rispondere anche alle frequenti riflessioni sulla problematica del governo dell'offerta. Come è stato infatti segnalato, è l'offerta che in molti casi determina la domanda, perché più si ha concentrazione di offerta, più si ha concentrazione di chirurghi, cardiologi o specialisti di una determinata tipologia di prestazioni più prestazioni di quel tipo si avranno.
  Vi sottolineo quindi la necessità di avere una serie di indicatori che permettano alle regioni e allo Stato di verificare i livelli essenziali di assistenza per popolazione. Questo vuol dire non solo prestazioni per popolazione non per erogatore, quindi per residente, ma anche i professionisti per residente perché, se riuscissimo ad avere questo tipo di informazione (in alcune regioni già si fa), valuteremmo come certi livelli di inappropriatezza derivino da concentrazione di offerte. Dobbiamo Pag. 30pertanto avere il coraggio di spostare l'offerta dove ne abbiamo più bisogno e quindi riallocare.
  Se non abbiamo questi dati a confronto, è difficile valutare se abbiamo risorse sufficienti. Vi faccio un esempio: se entrate in qualsiasi struttura del nostro Paese, vi verrà detto che mancano gli infermieri, i medici, il personale, ma provate a fare un benchmarking per residente del personale sanitario a disposizione, che sia diretto o indiretto, con la cooperativa o meno, e vedrete che ci sono grandi differenze, ci sono aree che lavorano con molto più personale di altre.
  C’è quindi un problema di riallocazione delle risorse, di conoscenza trasparente di dove stiamo mettendo le risorse che abbiamo a disposizione. In questo senso (e riprendo uno degli interventi) è fondamentale il benchmarking trasparente. Anche altri colleghi fanno questo lavoro e noi stiamo seguendo otto Regioni che mettono sul web tutti i loro dati e si confrontano. Questo è il percorso da seguire, magari individuando una serie di meccanismi premianti per le regioni che sono effettivamente trasparenti e che permettono al cittadino di capire quali risultati si ottengano e quali risorse si utilizzino.
  Un ragionamento sulla problematica anziani e sulla problematica dell'equità intergenerazionale. È stato fatto un commento sull'esigenza di individuare manovre che favoriscano la maternità e i servizi, ma vorrei sottolineare che qui c’è un grosso problema: stiamo concentrando anno dopo anno la nostra spesa sul target della popolazione più anziana e soprattutto in modo inappropriato sugli ultimi mesi di vita della nostra popolazione, con una serie di interventi spesso inadeguati. Pensate alle persone con più di 85 anni affette da patologia cronica che muoiono in terapia intensiva quando sappiamo che proprio non serve. Dobbiamo avere la forza di riportare la nostra spesa molto di più sulla popolazione giovane, perché altrimenti rischiamo di rincorrere una spesa per gli anziani e di lasciare scoperti i giovani che in futuro potranno con il loro lavoro garantire una maggiore equità a tutti.
  Vorrei infine ricordare che il riequilibrio tra ospedale e territorio si ottiene superando una cultura superspecialistica. In questo processo di cambio culturale dobbiamo coinvolgere le università, che continuano a sfornare medici superspecialisti che cercano di andare a lavorare in primo luogo negli ospedali. Se non risolviamo questo problema, continueremo ad avere specialisti che ritengono la scelta di lavorare nel territorio una scelta di serie B. Questo è un problema culturale rilevante che dovremo risolvere.

  DAVIDE CROCE, Direttore del Centro di Ricerca in Economia e Management di Sanità e nel Sociale (CREMS) della LIUC Cattaneo. Ho raccolto anch'io le idee rispetto alle tante domande che sono state poste.
  Parto dall'ultima del presidente: se lasciamo così il servizio nazionale, questo sicuramente diventa iniquo, ciascuno trova la sua strada, tenta di trovare le risposte ai suoi bisogni, e il servizio degenera sicuramente nelle prestazioni. Ho già detto prima che a parità di livello, visto che il finanziamento sta calando, e che ogni anno avremo sempre 3.000 pazienti in terapia per HIV, aumenteranno i malati di diabete e i cardiopatici, andremo sicuramente incontro al disastro, perché non possiamo fermare tutte queste situazioni.
  Il sistema universalistico è sicuramente il più efficiente e il meno costoso, come mostrano alcuni dati internazionali: chi adotta il sistema universalistico tende a spendere meno con risultati superiori, quindi è sicuramente un elemento da difendere.
  Non funzionano le medie in sanità, è giusto, ed è mancato un modello di controllo. Abbiamo stabilito nel nostro sistema che l'Age.Na.S. insieme alla Conferenza Stato-regioni dovesse essere il ponte tra il servizio nazionale e i servizi regionali, ma non sta svolgendo (non attribuisco la colpa a Moirano o ad altri) un ruolo di controllo e di uniformità anche per Pag. 31consentire il confronto dei dati. Questo è un elemento molto banale. Ricordo che in altre strutture si assiste a molte altre situazioni. Nei giorni scorsi, ad esempio, abbiamo vinto la gara della Commissione europea per altri quattro anni per Evaluation and impact assessment, quindi noi siamo dentro uno dei consorzi che valutano le azioni della Commissione europea come terzo agente e con valutazioni pubbliche. Questo è uno degli elementi classici nella pubblica amministrazione, che però manca totalmente in Italia: nessuno si valuta, si assumono decisioni di cui però non si valutano i risultati nel tempo. In altri sistemi come quello inglese esiste il National Audit Office, un sistema indipendente che formula giudizi e valutazioni rispetto alle prestazioni del sistema.
  Noi, quindi, ci ritroviamo con 21 servizi sanitari differenti, ognuno fa quello che vuole, nessuno controlla nessuno, e non sappiamo neanche quanto costiamo: questo è il disastro, ci manca l'ultima parte del sistema manageriale.
  Ricordo che il costo è una conseguenza, ma l'organizzazione dei servizi è la causa. Continuiamo a ragionare al contrario: parliamo di finanziamento di costi ma in realtà il costo è solo la registrazione finale di quello che hai fatto. Insieme al controllo manca un modello di governance e di programmazione, in quanto la programmazione è l'elemento standard.
  In sanità si controlla l'offerta, mentre la domanda è infinita. Tutti i nostri servizi infatti controllano l'offerta; qualsiasi persona è in grado di individuare un problema di tipo sanitario, quindi di fatto è un problema di programmazione complessiva.
  Ho accennato al sistema assicurativo semplicemente perché in Italia è pronto, i contratti collettivi nazionali di lavoro lo prevedono già (i lavoratori del settore del commercio pagano 10 euro al mese per la sanità integrativa), quindi semplicemente vi facevo notare che è molto basso, ma, come ricordava il professor Borgonovi, dopo il decreto n. 229 del 1999 e il dibattito sul «doc» e «non doc», l'abbiamo preparato. Non sono convinto che questa sia la risposta corretta, perché costa e perché le assicurazioni per controllare le loro prestazioni hanno due modelli, il tetto di spesa oltre il quale paga l'assicurato, oppure una compartecipazione alla spesa che non è un ticket ma può arrivare al 50-60 per cento, per cui l'assicurato fa solo quello di cui ha veramente bisogno. È quindi molto semplice per loro controllare il costo.
  Non la ritengo una soluzione però ve ne ho accennato per coerenza con il sistema, come pure dei ticket, laddove ho solo posto il problema che per esempio nella farmaceutica ormai non moderano assolutamente nulla, perché hanno un valore così basso (1, 2 o 5 euro) che alla fine non fermano alcuna domanda. La mia provocazione riguardava alcuni degli aspetti, in quanto altrove sono totalmente iniqui perché, come qualcuno di voi ha evidenziato, fanno pagare completamente la spesa o purtroppo, cosa non prevista dalla normativa, anche oltre, e queste sono le storture del sistema. Il ticket va ripensato in una logica che sia assolutamente legata ai redditi, altrimenti rischiamo di farlo diventare iniquo e di far pagare chi ha bisogno.
  È un sistema assolutamente disgregato, però conserviamolo, aggiungendo i sistemi di controllo che sono totalmente mancati in questi anni di esperienza del Servizio sanitario nazionale, con un modello di programmazione e governance con delle imposizioni dal centro sulle direzioni, affidando poi la scelta dell'organizzazione alle regioni ma con un sistema di controllo e di sanzione, perché senza questi qualsiasi modello di costruzione di nuovo servizio non potrà mai funzionare.
  Top-down o bottom-up: il top-down fornisce logiche più efficientistiche, il bottom-up è più efficace perché è vicino alle richieste del paziente. Non possiamo dire che uno sia meglio dell'altro; probabilmente abbiamo bisogno di un mix di entrambi per riuscire a organizzarli.
  Vorrei esprimere infine alcune considerazioni complessive personali.

Pag. 32

  DONATA LENZI. (fuori microfono). Azienda sì o azienda no ?

  DAVIDE CROCE, Direttore del Centro di Ricerca in Economia e Management di Sanità e nel Sociale (CREMS) della LIUC Cattaneo. Azienda sì o no è una provocazione. Dal mio punto di vista sì, se la facciamo, ma oggi non l'abbiamo fatta; facciamo finta, abbiamo un manager che, come ha evidenziato il professor Borgonovi, controlla migliaia di dipendenti da solo: cosa volete che faccia ?
  Lo abbiamo inoltre allevato in un modello di crescita del finanziamento del sistema, cosa che è avvenuta in Italia negli ultimi trenta anni; ma oggi non abbiamo gli uomini semplicemente perché nessuno è in grado di fare cost control and cost cutting, cioè di assumere decisioni su quello che serve o non serve continuare a fare.
  Abbiamo migliaia di questi esempi e basta girare negli ospedali per rendersene conto: effettivamente manca la classe dirigente non perché manchino gli uomini – qualche soggetto valido c’è – ma perché mettere in un sistema di governance una sola persona e pensare che governi 6 mila dipendenti come avviene, ad esempio, nell'azienda di Brescia, che è la più grande, rappresenta evidentemente una stortura del sistema. Non siamo quindi abituati a scendere, da questo punto di vista, e ci mancano gli uomini.
  Con riferimento al sistema out-of-pocket, nello Stato dell'Alberta, in Canada, ad esempio si pagano le ambulanze, i sistemi di compartecipazione sono completamente diversi ma esistono delle assicurazioni che nel momento in cui ne hai bisogno intervengono e te la pagano.
  La tematica dell'ultimo anno di vita, richiamata in precedenza dalla collega Nuti, rappresenta effettivamente un problema che anche dal punto di vista etico non è facile affrontare, però vi segnalo il dato economico: la media fra Lombardia, Toscana e Lazio del costo dell'ultimo anno di vita del paziente ammonta a circa 10 mila euro, perché in questo frangente temporale si concentra tutta una serie di attività. Dal punto di vista etico ciò appare condivisibile – penso, ad esempio, a quando simile situazione potrà toccare al sottoscritto – però bisogna al tempo stesso chiedersi se come società potremo ancora permettercelo.
  Nessuno ha invece sollevato il tema della prevenzione. A tale riguardo, noi stiamo giocando con il fuoco: se non investiamo nella prevenzione attraverso una adeguata formazione dei nostri nuovi cittadini, li ritroveremo obesi, con problemi di alcol, ma non entro adesso nel merito dei determinanti sociali di salute. Su questo aspetto dovremo quindi intervenire nel lungo periodo.
  In ordine, infine, alla legge n. 328 del 2000 e a tutto ciò che riguarda il socio-assistenziale, il socio-sanitario e il sanitario ritengo che tali questioni andrebbero indubbiamente riviste secondo una lettura diversa. Ricordo che il sistema della Danimarca, che è il più evoluto da questo punto di vista, lascia alle regioni il finanziamento degli ospedali ma affida ai comuni il finanziamento del socio-sanitario e del socio-assistenziale perché, probabilmente, vicino al paziente è possibile individuare la risposta migliore. Non che il sistema danese sia il più efficiente al mondo ma è sicuramente molto efficace perché, ad esempio, obbliga i comuni a recarsi ogni sei mesi a casa del cittadino ultrasettantenne per valutarne le condizioni e poter eventualmente intervenire.

  GUALTIERO RICCIARDI, Coordinatore del Rapporto Osservasalute dell'Osservatorio nazionale per la salute nelle regioni italiane. Desidero ringraziarvi moltissimo dell'attenzione, delle osservazioni e delle domande e chiarire per quale ragione ho dato, forse, l'impressione di premere sul discorso del centralismo.
  Anch'io ritengo che naturalmente la soluzione non possa essere soltanto di natura centralistica, però vi assicuro che, passando circa il 50 per cento del mio tempo all'estero – sono presidente della Società europea di salute pubblica e, in questa veste, consulente dell'OMS e della Commissione europea – negli ultimi anni Pag. 33ho constatato le conseguenze reali sul fatto che i servizi sanitari nazionali decentrati non hanno tempo per reagire a quello che sta succedendo.
  Il nostro governo centrale, cioè il Ministero della salute, alla luce delle leggi che si sono susseguite – dapprima i decreti legislativi n. 502 del 1992 e n. 517 del 1993, quindi il decreto legislativo n. 229 del 1999 – ha solo tre compiti: la programmazione sanitaria nazionale, la determinazione dei livelli essenziali di assistenza e, di concerto con il Ministero dell'economia e delle finanze, la determinazione della quota capitaria.
  Secondo quanto avete descritto voi, invece, non riesce però a svolgere alcuno dei suddetti tre compiti, considerato che i livelli essenziali di assistenza mancano da dieci anni e di fatto la determinazione della quota capitaria viene effettuata dal Ministero dell'economia e delle finanze, il quale stabilisce quante risorse stanziare per la salute.
  Nel migliore dei mondi possibili, facendo soltanto queste tre cose si riesce a governare regioni virtuose che si sono date una governance, ma non si tratta di fare le congratulazioni a quelle 4 o 5 regioni che nel corso di questi anni, anche per una cifra ragguardevole di cittadini, circa 20 milioni, hanno garantito una sanità buona e in certi casi ottima a prezzi contenuti, bensì di salvaguardare quei 40 milioni di cittadini che abitano in regioni che non sono ancora protagoniste.
  Vengo alle proposte operative. Le ricerche condotte dall'OMS dimostrano che a livello centrale, come peraltro emerso da tutti i suggerimenti, si dovrebbe effettuare il risk pooling perché è molto differente finanziare i servizi sanitari per un venticinquenne in buona salute che svolge attività fisica o per una donna ultraottantenne – e ce ne sono tante nel nostro Paese – affetta da sei malattie e che prende quindici farmaci al giorno: occorre cioè profilare il rischio, e quindi il finanziamento, in funzione di questo criterio.
  Non lo può fare una regione di 250 mila abitanti come la Valle d'Aosta, né non lo può fare addirittura una grande regione come la Lombardia, con 9,5 milioni di abitanti e una percentuale importante del nostro prodotto interno lordo: i servizi sanitari nazionali che sopravvivono sono quelli che lo fanno a livello centrale e poi lo pongono a disposizione anche di una ramificazione estremamente periferica – in Svezia, ad esempio, si tratta delle contee, equivalenti dei nostri comuni – tuttavia questo lavoro spetta al centro perché la periferia non è in grado di farlo.
  Il secondo elemento è rappresentato dall'accesso alle tecnologie. Soprattutto le industrie producono innovazione perché sperano così di realizzare profitti ed esistono, fortunatamente per loro, Paesi che crescono in termini di prodotto interno lordo e comprano tanta tecnologia. Questa tecnologia da noi non arriva più perché il filtro che abbiamo ideato al livello delle regioni è finalizzato a contenere i costi; di conseguenza, i costi vengono senz'altro contenuti ma allo stesso tempo non vengono più offerte adeguate prestazioni ai cittadini.
  Cito un esempio che vale per tutti: c’è un farmaco, un nuovo anticorpo monoclonale per la prevenzione delle fratture osteoporotiche nella donna, che è diffuso in 26 Paesi europei e verrà commercializzato anche nella Croazia, che dal 1 luglio entrerà come ventottesimo Paese nell'Unione europea. Questo farmaco però non viene dato in Italia perché l'Agenzia italiana del farmaco, organo preposto ad autorizzarne l'accesso, tiene in considerazione anche l'esigenza da parte delle regioni di contenere i costi, se solo immaginate questo farmaco che tipo di spesa potrebbe richiedere.

  DONATA LENZI. (fuori microfono). Ma è l'AIFA, non sono le regioni !

  GUALTIERO RICCIARDI, Coordinatore del Rapporto Osservasalute dell'Osservatorio nazionale per la salute nelle regioni italiane. Certamente è l'AIFA che fa questo tipo di valutazione ma, come voi sapete, nella governance dell'AIFA sono Pag. 34presenti sia lo Stato che le regioni. Succede quindi che da noi questa innovazione non arriva.
  Gli italiani corrono così il rischio di non vedere la valutazione delle tecnologie sanitarie – farmaci, vaccini, nuove attrezzature – che stanno esplodendo in tutto il mondo, perché tutti i Paesi, anche quelli emergenti come Cina, Taiwan e Brasile, si sono dati un'agenzia centralizzata che all'arrivo di questi nuovi farmaci valuta se valga o meno la pena di introdurli o se piuttosto l'industria intenda perseguire profitti in maniera inadeguata.
  La terza questione attiene alla prevenzione. Noi siamo il Paese che investe di meno al mondo in prevenzione, lo 0,7 per cento secondo i dati OCSE, al pari cioè di Cipro. Quando infatti arriva il momento della spesa regionale è chiaro che il politico o il direttore generale – che hanno sostanzialmente soltanto gli oneri della prevenzione perché i risultati della stessa li vedranno i loro successori a venti anni di distanza e nessuno li ringrazierà, perché evidentemente saranno persone che non si sono ammalate – non investiranno mai nella prevenzione a meno che una leadership centrale glielo imponga.
  Da noi teoricamente dovrebbe essere speso il 5 per cento del Fondo sanitario nazionale ma nessuna Regione lo fa perché poi nei momenti di crisi finanziaria quei soldi vengono presi e investiti ad esempio per un ospedale o per altra diversa situazione.
  Il quarto elemento è costituito dall'integrazione tra il sociale e il sanitario che, come è stato evidenziato, rappresenta un aspetto cruciale.
  Concludo citando un caso emblematico dell'intera situazione e non soltanto della condizione dei soggetti non autosufficienti. Noi abbiamo risolto in questo modo l'evento demografico e quindi la mancata autosufficienza dei nostri anziani: per una popolazione di 60 milioni di abitanti con le caratteristiche demografiche che vi ho descritto ci vorrebbero circa tre milioni di operatori socio-sanitari, ovvero tre milioni non di medici ma di operatori, che si interessino di diversi aspetti, da quelli più semplici, come fare la spesa e far muovere l'anziano, a quelli più complessi, come l'assistenza sociale, mentre in Italia abbiamo solo 680 mila dipendenti del Servizio sanitario nazionale.
  A quei 3 milioni non arriviamo neanche sommando 1.650.000 badanti, le quali rappresentano la soluzione da parte delle famiglie alla non autosufficienza.

  MASSIMO ENRICO BARONI. Ha calcolato anche le cooperative ?

  GUALTIERO RICCIARDI, Coordinatore del Rapporto Osservasalute dell'Osservatorio nazionale per la salute nelle regioni italiane. Si ho calcolato tutto: questa è la stima. Vi dico cosa fa la Germania per farvi capire il dimensionamento e perché un modello assicurativo sociale abbia maggiori capacità di risposta in tempi stretti. La Germania ha 81 milioni di abitanti e 4.890.000 di occupati in sanità che danno risposte ai cittadini; il concetto di badante è sconosciuto in Germania.
  La ricchezza netta delle famiglie tedesche è sostanzialmente un quarto di quella delle famiglie italiane, ma questa ricchezza si sta perdendo proprio perché si dà questo tipo di risposte. Moltiplicate per tutte le patologie che potremo avere – quelle neurodegenerative, quelle cardio-cerebro-vascolari, le invalidità, la povertà – e capirete bene che alla situazione del nostro sistema sanitario non si può porre rimedio.
  Da ciò scaturisce la veemenza nell'invitare non a capovolgere completamente i rapporti tra Stato e regioni, perché questo presumibilmente avrebbe bisogno di una modifica costituzionale, ma ad avviare questo discorso, perché altrimenti vi assicuro che si vedrà quello che ho visto io: in Grecia i cittadini greci che non hanno la possibilità di pagare accedono alle cure e ai farmaci esclusivamente in virtù delle cliniche finanziate dai donatori internazionali per far fronte all'immigrazione clandestina. Sono stato nel centro di Atene e vi posso assicurare che l'ateniese medio ormai non accede più ai servizi.Pag. 35
  In Spagna, dove partecipo come consulente del Governo andaluso attraverso il Comitato scientifico della Scuola andalusa di sanità pubblica, una sanità funzionante in una regione eccezionale si è però vista tagliare interamente il trasferimento dal centro alle regioni divenendo completamente priva di capacità di risposta, perché il 1 aprile dello scorso anno la crisi finanziaria ha di fatto abbassato i livelli e quindi non ha dato la possibilità di reagire neanche alle regioni più virtuose, come Andalusia e Catalogna.
  Non voglio passare per centralista ma cerchiamo di operare una ridistribuzione in maniera tale che i cittadini non vengano abbandonati a loro stessi.
  Concludo replicando alla professoressa Nuti, con la quale sono d'accordo, sebbene abbia presente la visione propria di una regione virtuosa come la Toscana. Per una strana vicissitudine sono stato incaricato prima dal Ministro Fazio, poi dal Ministro Balduzzi e da ultimo, fino a quando non sarà eventualmente revocato, dal Ministro Lorenzin, del compito di rappresentare il Ministero della salute nella cosiddetta struttura tecnica di monitoraggio per il Patto per la salute 2010-2012, in cui il Ministero dell'economia e delle finanze, il Ministero della salute e le regioni si confrontano per la realizzazione del Patto.
  È stata una scelta un po’ audace – prima del Ministro Fazio e poi del Ministro Balduzzi – quella di scegliere un accademico ma la motivazione era quella di far valere le ragioni che vi ho esposto oggi, cioè quelle della salute nel confronto con le regioni. Vi posso assicurare che non c’è stata alcuna possibilità perché di fatto tra i poteri dello Stato, ossia quelli di determinazione dei livelli essenziali di assistenza e di programmazione sanitaria nazionale, e le prerogative costituzionali delle regioni non c’è dialogo e, anche nel migliore dei casi, non c’è possibilità di incontrarsi.
  La situazione del nostro Servizio sanitario nazionale è paragonabile a quella di un aereo che sta precipitando, in cui c’è qualcuno che taglia i motori – in pratica, fa dei tagli lineari – mentre lo Stato e le regioni discutono su quale sia l'atterraggio meno rischioso. Questa evoluzione è la causa dei nostri problemi.
  Concludo, onorevole Miotto, dicendo che il ticket modérateur nasce in un modello assicurativo sociale, nasce in Francia, e tenta di scoraggiare i cittadini dal cosiddetto «rischio morale». Quando infatti il soggetto è assicurato tende a sfruttare al massimo le prestazioni per cui è assicurato, anche se in Francia i cittadini pagano e poi vengono rimborsati, mentre delineandogli la prospettiva di dover pagare qualcosa che non verrà rimborsato si attenua il ricorso all'assistenza impropria.
  I miei amici inglesi dicono che nei servizi sanitari nazionali il ticket non ci deve essere, lo definiscono uno zombie, mentre ci deve essere la chiarezza del finanziamento attraverso la tassazione e poi l'accesso dei cittadini alle prestazioni, perché altrimenti il ticket non è più modérateur ma diventa lo strumento più spietato di selezione dei cittadini, quello che impedisce ai cittadini poveri di accedere ai servizi.
  In merito alla domanda dell'onorevole Aiello a proposito della migrazione, vi sottolineo un aspetto che cambierà la vita degli italiani dal 25 ottobre 2013 ma di cui ancora poco si discute. La direttiva 2011/24/UE liberalizza la circolazione dei cittadini in tutti i Paesi dell'Unione europea anche per quanto riguarda l'aspetto sanitario. I Paesi vicini si stanno organizzando attraverso le modalità che voi avete prima ricordato, ossia mediante governance, trasparenza su Internet, promozione all'accesso dei cittadini.
  In questo momento ci sono regioni, in media quelle meridionali, in cui il 20 per cento dei cittadini va a curarsi in altre regioni ma una nostra indagine ha evidenziato che il 71 per cento di questi è intenzionato a muoversi nel momento in cui avrà la possibilità di farlo. I tentativi patetici di alcune regioni di impedire loro di farlo in nome della necessità di avere Pag. 36l'autorizzazione si infrangeranno contro i ricorsi che i cittadini faranno alla luce della suddetta direttiva comunitaria.
  Per questo sostengo che non abbiamo tempo e che dobbiamo metterci tutti intorno a un tavolo, animati dallo stesso proposito di garantire questo ai nostri cittadini.

  PRESIDENTE. Ringrazio, anche a nome del Presidente Boccia e della Commissione bilancio, i nostri ospiti, che sono stati estremamente esaurienti, e ringrazio anche i commissari che sono rimasti fino ad ora, appassionati dalla competenza delle risposte che abbiamo avuto.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 18,45.