XVII Legislatura

III Commissione

COMITATO PERMANENTE SUI DIRITTI UMANI

Resoconto stenografico



Seduta n. 12 di Martedì 17 maggio 2016

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Locatelli Pia Elda , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA TUTELA DEI DIRITTI DELLE MINORANZE PER IL MANTENIMENTO DELLA PACE E DELLA SICUREZZA A LIVELLO INTERNAZIONALE

Audizione del Commissario Generale della United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East (UNRWA), Peter Pierre Krähenbühl.
Locatelli Pia Elda , Presidente ... 3 ,
Krähenbühl Peter Pierre , commissario generale della ... 3 ,
Locatelli Pia Elda , Presidente ... 6 ,
Tidei Marietta (PD)  ... 6 ,
Zampa Sandra (PD)  ... 7 ,
Cassano Franco (PD)  ... 8 ,
Locatelli Pia Elda , Presidente ... 8 ,
Krähenbühl Peter Pierre , commissario generale della ... 8 ,
De Zulueta Tana , presidente del Comitato italiano per l'UNRWA (UNRWA Italia) ... 12 ,
Locatelli Pia Elda , Presidente ... 12

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà- Berlusconi Presidente: (FI-PdL);
Area Popolare (NCD-UDC): (AP);
Sinistra Italiana-Sinistra Ecologia Libertà: SI-SEL;
Scelta Civica per l'Italia: (SCpI);
Lega Nord e Autonomie - Lega dei Popoli - Noi con Salvini: (LNA);
Democrazia Solidale-Centro Democratico: (DeS-CD);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-Alleanza Liberalpopolare Autonomie ALA-MAIE-Movimento Associativo italiani all'Estero: Misto-ALA-MAIE;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI;
Misto-Alternativa Libera-Possibile: Misto-AL-P;
Misto-Conservatori e Riformisti: Misto-CR;
Misto-USEI-IDEA (Unione Sudamericana Emigrati Italiani): Misto-USEI-IDEA;
Misto-FARE! - Pri: Misto-FARE! - Pri.

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DELLA PRESIDENTE
PIA ELDA LOCATELLI

  La seduta comincia alle 14.05.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione in diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione del Commissario Generale della United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East (UNRWA), Peter Pierre Krähenbühl.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla tutela dei diritti delle minoranze per il mantenimento della pace e della sicurezza a livello internazionale, l'audizione del Commissario Generale della United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East (UNRWA), Peter Pierre Krähenbühl.
  Do il benvenuto a Peter Pierre Krähenbühl, accompagnato dall'onorevole Tana De Zulueta, presidente del Comitato UNRWA Italia e già vicepresidente di questa Commissione, e da Giorgia Alvino.
  Ricordo che l'UNRWA, organizzazione di cui il nostro ospite è stato nominato Commissario generale nel novembre 2013, quale successore di Filippo Grandi, è stata fondata per iniziativa dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con la risoluzione n. 302, dell'8 dicembre 1949, con lo scopo di provvedere al soccorso e all'assistenza dei rifugiati palestinesi vittime del conflitto arabo-israeliano del 1948, che a quei tempi mi pare fossero 700 mila.
  L'Agenzia, la cui attività è iniziata nel maggio 1950, ha visto, di anno in anno, prorogare il proprio mandato, in assenza di una soluzione alla drammatica situazione dei profughi palestinesi. L'ultima proroga pone il termine al 30 giugno 2017.
  Nel rinnovargli il benvenuto, do la parola al nostro ospite affinché svolga la sua relazione.

  PETER PIERRE KRÄHENBÜHL, commissario generale della United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East (UNRWA). Grazie per il vostro invito e per avermi dato occasione di presentarvi brevemente un aggiornamento sulla situazione dei rifugiati palestinesi in Medio Oriente e sulle attività della nostra organizzazione.
  Sono molto lieto di essere qui con voi. Desidero ringraziare sia il Governo sia il popolo italiano per il sostegno di lunga data che il vostro Paese offre alla nostra organizzazione.
  Ho avuto numerosi incontri ieri, al Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale. Il Governo ha rinnovato il proprio sostegno finanziario per quest'anno, come anche l'appoggio diplomatico e politico al nostro mandato, che, come Lei ha ricordato, è stato concesso dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1949.
  Abbiamo, quindi, un doppio sostegno dell'Italia alla nostra organizzazione, per cui vi ringraziamo, e speriamo di poter approfondire queste relazioni in un momento in cui l'Italia è in prima linea nella gestione di diversi problemi che riguardano il Mediterraneo, con tutte le conseguenze regionali dovute allo spostamento di popolazioni e con rifugiati che vengono non Pag. 4soltanto dal Medio Oriente, ma, in gran numero, da questa regione del mondo.
  È importante, quindi, avere uno scambio di informazioni e idee regolare tra l'Italia e l'UNRWA, anche per apprendere dall'esperienza passata. Sono, dunque, lieto di essere qui, con la presidente del comitato italiano di sostegno all'UNRWA, Tana De Zulueta.
  Passo ai punti che vorrei esporvi brevemente nella mia introduzione. Innanzitutto, vorrei fare una panoramica sulla situazione dei rifugiati palestinesi in Medio Oriente, illustrare alcune delle nostre principali realizzazioni e, infine, intervenire su uno dei punti che Lei ha evocato, ovvero la mancanza di soluzioni e di un orizzonte politico per il Medio Oriente, che è una delle questioni chiave per il problema di fronte al quale ci troviamo come organizzazione.
  Lei, presidente, ha parlato del nostro mandato, ricevuto nel 1949. L'UNRWA ha iniziato le sue attività di assistenza ai rifugiati dalla Palestina nel maggio del 1950, quindi 66 anni fa. All'epoca, assistevamo 700 mila persone costrette ad abbandonare i loro villaggi di origine, le loro case e il loro contesto sociale in Palestina, che era diventato lo Stato di Israele.
  Oggi abbiamo 5,2 milioni di persone, che si trovano a Gaza, in Cisgiordania, a Gerusalemme Est, in Siria, in Libano e in Giordania. L'UNRWA, quindi, lavora in queste zone. In pratica, 5,2 milioni persone sono l'equivalente della popolazione della Norvegia, di Singapore o dell'Irlanda e nei loro confronti abbiamo la responsabilità diretta di fornire dei servizi.
  La questione che mi pongo spesso, quando penso a una comunità di rifugiati che si trova in questa situazione ormai dal 1948-49, è quali sono stati i grandi capitoli della storia dell'umanità che si sono dipanati in questi anni. Pensiamo alla fine della Seconda guerra mondiale e alla successiva ricostruzione dell'Europa o alla guerra di Corea, o anche all'inizio della Guerra fredda e alla sua fine, con i movimenti di liberazione nazionale; alla decolonizzazione in Africa e in Asia o ai movimenti popolari del 1968 in Europa; ai fenomeni legati, per esempio, al genocidio in Cambogia e in Ruanda o, infine, alle diciassette Coppe del mondo di calcio e alle quindici Olimpiadi che si sono tenute in tutto il mondo. In questo lunghissimo periodo, i rifugiati palestinesi sono rimasti rifugiati. Dobbiamo mettere questo al centro della nostra riflessione. Stiamo parlando di esseri umani e di comunità colpite, che vivono, ormai da decenni, nell'attesa di una soluzione alla loro situazione.
  Si tratta di un aspetto molto importante. Nella mia vita – ormai sono 25 anni che lavoro in situazioni di conflitto armato e di crisi – non ho mai incontrato un rifugiato che volesse essere tale e che volesse essere lasciato lontano dal suo Paese di origine. Questo vale anche per i rifugiati palestinesi. Con i suoi 66 anni di attività, l'UNRWA si occupa di una comunità ed è riuscita a ottenere dei buoni risultati in alcuni settori, anche se manca una soluzione politica al problema dei rifugiati palestinesi.
  Per quanto riguarda la loro situazione, vorrei fare alcuni esempi. Oggi un rifugiato palestinese a Gaza – pensiamo soprattutto ai giovani dai 12 ai 20 anni – ha vissuto tre conflitti armati nella sua giovane vita e ha perso amici, familiari o vicini. Spesso, questi ragazzi sono stati allontanati dalla loro casa. I bambini frequentano le scuole dell'UNRWA, ma, dopo la scuola, hanno ben poche prospettive di trovare un lavoro, perché il tasso di disoccupazione giovanile a Gaza è altissimo, pari al 65 per cento, forse il più alto del mondo.
  Questa, però, non è una fatalità, perché la situazione potrebbe essere trasformata attraverso un cambiamento politico. I giovani palestinesi sono formati e istruiti come i loro genitori, che avevano delle imprese e delle piccole aziende che esportavano in Cisgiordania, in Israele o in Europa, ma oggi hanno perso il lavoro a causa di un embargo dovuto a una situazione politica ormai di stallo.
  Il 90 per cento dei bambini che sono nelle nostre scuole di Gaza – in totale circa 250 mila bambini – non ha mai lasciato la Striscia di Gaza, perché non c'è libertà di movimento in una situazione, appunto, di Pag. 5stallo. È chiaro, insomma, che ci sono poche speranze di progresso.
  Per quanto riguarda i ragazzi di Gerusalemme Est e della Cisgiordania c'è un'altra dinamica, segnata dallo sviluppo degli insediamenti israeliani, e le loro vite sono caratterizzate dall'assenza di libertà di movimento e dalla frammentazione del territorio. Tuttavia, come si è visto a ottobre dell'anno scorso, questi ragazzi si impegnano in manifestazioni per esprimere la loro frustrazione e il loro malcontento rispetto a questa situazione.
  Vorrei attirare la vostra attenzione sul fatto che questa è la generazione nata dopo la firma degli Accordi di Oslo. Sono quei giovani a cui da tanto tempo si dice che se avessero scelto un negoziato, quindi se fossero stati a favore di un processo politico, alla fine avrebbero avuto una ricompensa, ovvero l'esistenza di due Stati, Palestina e Israele, che potevano vivere pacificamente uno a fianco dell'altro.
  Ho tre figli adolescenti. Se ogni giorno dicessi loro una cosa, ma se nel corso della giornata vedessero tutt'altro, avrei dei grossi problemi con loro. È proprio questa è la situazione in cui si trovano i giovani dalla Palestina: il mondo intero e tutti i dirigenti palestinesi dicono loro che se accettassero i negoziati, avrebbero una vita diversa, ma questo finora non si è mai realizzato.
  Stiamo, quindi, perdendo una generazione, che non crede più nel processo politico, il che non è certo nell'interesse della stabilità regionale, né rassicura coloro che, in Europa, si preoccupano per i flussi di persone che abbandonano la loro regione perché non credono più in uno sviluppo politico positivo.
  C'è, poi, la situazione catastrofica in Siria, innanzitutto dal punto di vista umanitario. Dal 1948, in Siria c'erano 560 mila rifugiati palestinesi che vivevano in una situazione relativamente stabile e dignitosa, tenuto conto che si trattava di rifugiati, perché avevano accesso al lavoro, quindi erano autosufficienti e potevano mettere su delle piccole attività economiche; i bambini frequentavano le nostre scuole, ma non avevano bisogno dell'UNRWA per i loro bisogni quotidiani. Oggi è andato tutto in frantumi. Il 95 per cento di questa popolazione ha bisogno di aiuti alimentari e di farmaci per la sopravvivenza. Ci sono delle scuole che ancora funzionano in Siria, ma non esiste più il tessuto sociale ed economico che possa sostenere la vita di questi rifugiati palestinesi, che ora dipendono completamente dagli aiuti, mentre prima erano economicamente autosufficienti.
  Di questi rifugiati di Siria, 120 mila hanno lasciato il Paese per andare in Libano o in Giordania, ma altri, attraverso la Turchia, sono arrivati in Europa. Questo è un movimento che potrebbe accentuarsi nel futuro, se l'UNRWA non fosse più in grado di fornire i propri servizi per mancanza di finanziamenti o se la guerra continuerà ancora a lungo. Se a questo si aggiunge una situazione socio-economica molto difficile in Libano per i rifugiati palestinesi, potete comprendere che si tratta di una vera e propria crisi esistenziale. Al centro di tutto ciò, ormai da 65 anni a questa parte, l'UNRWA porta avanti un lavoro che personalmente ho scoperto due anni fa, quando ho sostituito Filippo Grandi nel ruolo di Commissario generale.
  Vorrei, quindi, spiegarvi brevemente cosa facciamo. Sono, infatti, cose che io stesso ho imparato ad apprezzare nel mio lavoro. Ho lavorato nel settore degli aiuti di emergenza alla Croce Rossa e quindi ho grande esperienza nella gestione delle situazioni di crisi e di conflitto. Ho constatato che l'UNRWA ha una grandissima capacità di risposta, come ha dimostrato nella guerra di Gaza del 2014. Oggi lo dimostra in Siria, con una grandissima dedizione e coraggio da parte dei miei colleghi per aiutare le popolazioni.
  Al di là del lavoro che svolgiamo nel campo della sanità, sempre sostenuto dall'Italia, tradizionalmente facciamo moltissimo per l'istruzione. Infatti, il sistema dell'istruzione dell'UNRWA conta 700 scuole, per 500 mila bambini e bambine, con 22 mila insegnanti, presidi e direttori, tutti palestinesi.
  La nostra è una vera e propria ricchezza istituzionale. Forniamo servizi quasi di Stato in un Medio Oriente tremendamente Pag. 6instabile. Quello che ho molto apprezzato scoprendo questo sistema è che non si guardano più le persone come dei beneficiari di aiuti, ovvero come delle vittime di conflitti, ma come attori del proprio destino, come persone che possono investire la propria personalità per avere un futuro migliore.
  Come ho detto ieri all'Istituto affari internazionali, qui a Roma, non c'è posto al mondo in cui non abbia incontrato un palestinese che mi abbia detto di aver studiato in una nostra scuola, a Gaza o in Libano, oppure che suo padre è stato un insegnante nelle scuole dell'UNRWA in Siria e così via. C'è un orgoglio da parte della comunità e c'è un grandissimo investimento nello sviluppo umano, che è tra i migliori del mondo. La Banca mondiale, che purtroppo non finanzia ancora l'UNRWA, ha pubblicato una relazione sul nostro lavoro nel campo dell'istruzione e ha detto che è tra i migliori del Medio Oriente. Vale la pena investire in questo, perché quando regala un euro a un'organizzazione, la gente si chiede quale sarà il frutto della sua donazione. Per l'UNRWA una donazione equivale all'insegnamento per i palestinesi, il che è un grande contributo alla dignità e alla stabilità del Medio Oriente.
  Vorrei anche fare un piccolo commento sulla situazione politica. Noi non abbiamo mandato per il versante politico, ma osserviamo, ogni giorno, il costo umano, che continua ad aumentare, a causa della mancanza di orizzonti politici. Condivido sinceramente con voi questa osservazione, che ripeto sempre nelle capitali europee e dell'America del nord, perché incontro sempre molto scetticismo riguardo alla possibilità di avere una soluzione politica al problema israelo-palestinese.
  Penso, però, che lo scetticismo sia un atteggiamento disfattista, che provoca i problemi che abbiamo in Medio Oriente. Né l'Europa, né il Medio Oriente possono permettersi di continuare ad avere un atteggiamento scettico riguardo alle soluzioni politiche. Bisogna impegnarsi nuovamente, proprio nel momento in cui la situazione è particolarmente difficile. La politica non è una cosa facile e non devo certo dirlo a voi.
  In Medio Oriente ci vuole grande coraggio. I flussi di rifugiati dal Medio Oriente sono dovuti a problemi politici irrisolti. La situazione non potrà migliorare né in Medio Oriente, né riguardo agli arrivi dei rifugiati in Europa, se non risolviamo il problema.
  Vorrei, quindi, chiedervi di continuare a sostenere l'UNRWA e le altre organizzazioni umanitarie, ma vorrei anche dire che non esiste alcun essere umano – né voi, né noi, né i palestinesi – che preferisca ricevere aiuti invece di una soluzione politica che restituisca dignità alla regione. Allora, bisogna reinventare una nuova cultura di gestione politica delle crisi. Altrimenti, avremo una generazione di giovani palestinesi, ma anche iracheni, siriani e israeliani che vedrà una chiusura delle prospettive di fronte a sé e non potrà più sperare in un futuro migliore.
  Sono naturalmente disponibile a rispondere alle vostre domande o ad approfondire alcuni aspetti. Grazie ancora per la vostra attenzione.

  PRESIDENTE. Grazie, Commissario, per questa interessante, anche se sintetica e compatta, relazione. Do ora la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  MARIETTA TIDEI. Ci tengo a ringraziare il Commissario, per l'illustrazione del lavoro che l'UNRWA svolge da tanti anni. Ho avuto modo, anche direttamente, di poterlo verificare, perché ho visitato diversi campi profughi palestinesi. Pochi giorni fa in Libano, a Beirut, ho visitato il campo Burj al-Brajni, dove, tra l'altro, ho visto proprio una scuola dell'UNRWA. Insomma, ho avuto modo di apprezzare lo straordinario lavoro, in termini non solo di insegnamento, ma soprattutto nel sostenere lo sviluppo umano di queste persone.
  Tuttavia, come diceva Lei, Commissario, spesso sembra uno sviluppo senza sbocco. Infatti, sebbene l'UNRWA ce la metta tutta a dare un livello di istruzione buono, adeguato e di qualità ai bambini e ai ragazzi Pag. 7palestinesi, è del tutto evidente che gran parte di loro vive una vita senza alcun tipo di prospettiva economica o di sviluppo, cosa che li ha probabilmente costretti ad andare fuori.
  Questo avviene per la Cisgiordania, per Gaza e per gli altri luoghi. Forse, effettivamente, in Siria stavano un po’ meglio, ma conosco la situazione dei profughi palestinesi in Libano, a cui vengono precluse delle professioni per cui si deve aver studiato. Certo, studiare serve sempre, ma se non si può dare concretezza e sviluppo a ciò che si è studiato, la demotivazione cresce.
  Ho trovato il popolo palestinese in Libano – ovviamente, quelli che ho incontrato – fortemente demotivato. Se una situazione perdura da molti anni e se nessuno riesce a darle un minimo di prospettiva di sviluppo e di sbocco, le organizzazioni umanitarie internazionali possono mettercela tutta, ma nessuno sarà attore del proprio destino, perché si sta comunque in una situazione terrificante.
  Mi trovo assolutamente d'accordo con Lei, Commissario, quando dice che è la politica che deve fare la sua parte. Dobbiamo assolutamente recuperare non l'ottimismo, ma la volontà di fare qualcosa. Dobbiamo recuperare un'azione che da molto tempo non vediamo più, perché gli Accordi di Oslo sono del tutto irrealizzati e i palestinesi probabilmente vivono peggio oggi di quanto vivessero tempo fa. Gran parte di quello che era contenuto in quegli Accordi è stato disatteso. Se penso, per esempio, a tutta la questione degli insediamenti in Cisgiordania, dobbiamo dire che, dagli Accordi di Oslo a oggi, sono triplicati.
  È chiaro che per un palestinese che vive in Cisgiordania, vedere questo stato deve essere terribile, perché non riesce a dare una prospettiva di vita, che credo sia il motore che anima ognuno di noi. Mi auguro, quindi, che l'Europa recuperi un po’ d'iniziativa.
  Abbiamo guardato con interesse alla proposta d'iniziativa francese sul riavvio dei negoziati di pace, ma di fatto, a oggi, non sappiamo nulla. Oggi non c'è nulla. Siamo in diversi qui che hanno sostenuto la causa palestinese. Oggi, però, c'è uno sconforto anche da parte di quei politici che vorrebbero dare una mano, ma non sanno come fare.
  Vorrei dunque farle una domanda, Commissario, su ciò che pensa sulle prospettive del processo di pace, per capire qualcosa in più anche rispetto ai fenomeni di radicalismo. Infatti, credo che, in quel mare di disperazione e senza prospettive in cui vive la gioventù palestinese, possano nascere e crescere fenomeni di radicalismo anche più forti rispetto a quelli che abbiamo visto fino a oggi.
  Di fatto, il conflitto israelo-palestinese è stato politico; non aveva nulla di religioso, e, comunque, non è un conflitto religioso. C'è, però, il rischio che possa trasformarsi in qualcosa di peggiore.

  SANDRA ZAMPA. Mi scuso perché parlo male in francese, perciò parlerò anch'io in italiano. Vorrei ringraziarLa molto per la Sua relazione, che è di grande interesse. Riprendo quanto ha appena descritto diffusamente la mia collega, compresa la condivisione del punto di vista politico.
  Lei ci descrive una situazione di stallo, che si è ulteriormente aggravata con il conflitto in Iraq e con il terrorismo e che si estende ad altri Paesi, allargandosi come una macchia d'olio, invece di restringersi e andare verso una soluzione. Mi interesserebbe, dunque, sapere qual è il Suo punto di vista rispetto a un tema. Da dove si potrebbe ripartire e quale protagonismo, sullo scenario internazionale, potrebbe tentare di individuare una strada?
  Del conflitto in Medio Oriente, che resta, di fatto, la madre di tutti i conflitti, parliamo ormai da un tempo immemorabile, avendo proposto soluzioni mai percorse, peraltro, seriamente. Ora, questo aggravarsi implica forti ricadute non solo sull'Europa, che è più vicina. Mi riferisco non solo al terrorismo, ma anche, ovviamente, alla quantità di profughi.
  Lei ha più volte sottolineato che si tratta di popoli giovani. Avere un destino bloccato comporta inevitabilmente il desiderio di fuga o il bisogno di andarsene. Insomma, dobbiamo attenderci che da lì non si possa che partire e andare via. Per chi resta, Pag. 8invece, c'è anche il rischio di una radicalizzazione molto forte, quindi di un aumento delle truppe del terrorismo.
  Allora, da dove si riparte e qual è, secondo il suo punto di vista, il protagonismo che potrebbe cominciare a costruire?

  FRANCO CASSANO. Condivido tutto quello che è stato detto dalle colleghe che mi hanno preceduto. La mia domanda è questa. Il quadro del Medio Oriente è profondamente cambiato negli ultimi anni, nel senso che le crisi si sono moltiplicate, quindi i profughi non sono soltanto quelli palestinesi, ma sono un esercito immenso che si muove. Questo è un problema da valutare. Aiuta la causa dei profughi palestinesi o li marginalizzata e li fa scomparire?
  La seconda domanda è questa. Nel quadro di un Medio Oriente nel quale la presenza degli Stati Uniti è in via di riduzione e in cui c'è il protagonismo forte e nuovo di alcune potenze regionali (penso all'Iran, alla Turchia o all'Egitto, oltre a Israele e all'Arabia Saudita), in questo scenario più mosso, aumentano le possibilità positive oppure crescono i rischi?
  Come ha detto, con molta chiarezza e lucidità, il problema è politico. Per evitare questa frustrazione terribile bisogna, allora, cambiare qualcosa. Come dobbiamo leggere, però, questo nuovo quadro? Possiamo sfruttare alcune opportunità oppure dobbiamo temere di più i rischi che sono contenuti in questa situazione?

  PRESIDENTE. Anch'io ho una domanda. Una delle preoccupazioni che abbiamo condiviso con alcune colleghe – in particolare con Marietta Tidei, ma anche con altre – è che il tema Palestina, rifugiati palestinesi e conflitto israelo-palestinese, sia caduto dall'agenda del momento. Non se ne parla molto. La ragione di questa audizione è, infatti, anche quella di far rientrare nell'agenda questo tema, come abbiamo fatto ieri, con un'altra iniziativa. È calato un silenzio su questo tema, che è stato sempre grandemente all'attenzione delle persone impegnate in politica estera, anche nel nostro Paese. Certo, c'è la difficile situazione della Siria e quella complessiva del Medio Oriente, ma credo che l'essere uscito dall'agenda dipenda anche dal fatto che si è persa la speranza. Infatti, il 75 per cento della popolazione che vive in Israele dice che la soluzione è: «due popoli, due Stati», ma l'82 per cento di questa popolazione non crede realizzabile questa soluzione in tempi accettabili.
  Allora, c'è una perdita di speranza. Mi chiedo se – peraltro, è un tema che abbiamo discusso ieri, in un convegno organizzato da due riviste, Il Ponte e mondoperaio e dalla Fondazione Modigliani – non si debba trovare un nuovo paradigma, altrimenti si usano sempre gli stessi metodi, sperando di arrivare a nuove soluzioni. Se percorriamo sempre le stesse strade, non possiamo aspettarci risultati diversi da quelli che, per adesso, sono assolutamente negativi. Non a caso, l'UNRWA funziona da 66 anni.
  Una delle proposte che è emersa ieri è se il nuovo paradigma non possa che essere regionale, coinvolgendo in particolare alcuni Paesi arabi protagonisti della regione, in modo che gli israeliani – lo dico molto banalmente; la proposta proveniva da un israeliano – diano ai palestinesi, ma ricevano complessivamente dagli arabi, per esempio in termini di sicurezza.
  Questo è un esempio, ma mi chiedo se l'UNRWA – che, di fatto, sta facendo un lavoro di riforma di sé stessa e della propria organizzazione iniziata nel 2007, che adesso è nel momento di medio termine (2010-2015), con un'implementazione che riguarda sì l'organizzazione, ma anche il dare speranza a questi rifugiati – ha una proposta per questa innovazione, ovvero per arrivare a una soluzione.
  Do la parola al nostro ospite, per la replica.

  PETER PIERRE KRÄHENBÜHL, commissario generale della United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East (UNRWA). Mi sono state fatte molte domande interessanti. Vi ringrazio, quindi, per la vostra disponibilità.
  La ringrazio, onorevole Tidei, anche per la sua visita nelle nostre strutture in Libano. Pag. 9 È particolarmente importante avere un'interazione diretta con il nostro personale, con gli studenti e con i palestinesi stessi. Lei ha detto che c'è un rischio di frustrazione particolarmente elevato in Libano, perché i palestinesi non possono avere accesso a ben quaranta settori di lavoro. È vietato per legge e questo determina una forma di esclusione economica molto dura e, dunque, un ambiente in cui la frustrazione socio-economica è particolarmente elevata.
  Lei ha anche detto, giustamente, che al centro della questione vi è proprio la volontà politica di agire, quindi mi ha chiesto delle prospettive del processo di pace e dei rischi di radicalizzazione.
  Per quanto riguarda il processo politico, dobbiamo essere onesti. Attualmente, se ci mettiamo al posto dei giovani palestinesi che sono in Palestina – in Cisgiordania, a Gerusalemme Est e a Gaza – per loro, i riferimenti alla soluzione dei due Stati non significano niente. Dobbiamo essere sinceri. La comunità internazionale può anche fare le t-shirt, i badge e i gadget sui due Stati, ma per loro non hanno nessuna importanza concreta.
  Oggi, il processo di pace in Medio Oriente è un tunnel lungo e vuoto, nel quale si scende senza sapere se, alla fine, ci sarà un'uscita o una luce e nemmeno se c'è qualcosa dentro. Possiamo continuare a parlarne, ma se non lo riempiamo di contenuti perderemo la gioventù palestinese rispetto al processo politico. Se tra 15 o 20 anni parleremo ancora di questo senza che nulla sia successo, avremo perso completamente la scommessa. Dobbiamo, quindi, mettere energia in qualcosa di nuovo, come ha detto, giustamente, la presidente, in un nuovo paradigma. Di questo parlerò dopo e non basta a continuare a ripetere, come avviene spesso, che «facciamo appello alle parti perché ritornino al tavolo dei negoziati». Ve lo dico molto sinceramente. Possiamo anche dire di essere a favore della pace universale, ma a cosa serve dirlo, se poi non facciamo nulla per realizzarla? Al momento, la comunità internazionale parla della soluzione dei due Stati, ma non cerca una vera soluzione concreta per realizzarla. La maggior parte dei giovani palestinesi è convinta che la soluzione dei due Stati sia migliore rispetto ad altre possibilità, ma poi non vede alcun risultato concreto, ha perso fiducia in questo processo. Lei ha detto giustamente che esiste un rischio e lo descriverò nei termini seguenti.
  Oggi non ci sono giovani palestinesi interessati all'estremismo o al radicalismo, perché, quello palestinese, è un progetto nazionalista. Per la comunità degli Stati, è un progetto comprensibile. Si può essere d'accordo o meno con le metodologie, ma si sa cosa vogliono i palestinesi: vogliono uno Stato, con delle frontiere in cui vivere. Questo è confrontabile con l'esperienza di qualsiasi altra nazione. Invece, i movimenti più radicali in Medio Oriente, che purtroppo ben conosciamo e che combattono in Siria o altrove, hanno dei progetti che non sono più nazionalisti nei loro contenuti, ma sono transfrontalieri e diversi. Se vuotiamo il bicchiere che ho in mano dal contenuto nazionalista, perché il processo di pace non lo realizza, inevitabilmente sarà riempito con un altro contenuto. Di questo sono certo, perché, come vi ho detto, lavoro nei conflitti armati da 25 anni e vi assicuro che qualunque conflitto armato, senza un processo politico, non diventa meno radicale. Se tra 25 anni non si avrà una soluzione, sarà tutto molto più complesso. La società israeliana e quella palestinese saranno più dure e tutto sarà più difficile; occorre quindi un nuovo impegno politico, se si vuole evitare la radicalizzazione. Questo è indubbio.
  Passo alle altre domande. Da dove si può ripartire e chi sono i protagonisti possibili? Esprimo il mio parere personale; non parlo come Commissario. Oggi in Europa assistiamo all'arrivo di molti migranti (non vengono tutti dal Medio Oriente, ma parlo soltanto di quelli). Per una parte dell'Europa, soprattutto quella a nord dell'Italia, che ha avuto delle reazioni forti a questi arrivi, potrebbe essere un'opportunità per avviare una nuova riflessione sul Medio Oriente. Quando una parte del problema si avvicina, ci rendiamo conto che non possiamo gestirlo soltanto a distanza o facendo l'appello alle parti perché ritornino Pag. 10 al tavolo dei negoziati. Quando diventa una sfida alla nostra sicurezza collettiva o un dramma umano su larga scala nel Mediterraneo, l'Europa è, e si sente, più coinvolta.
  Allora, si ripropone nuovamente la domanda di quali possano essere gli strumenti politici da utilizzare, non soltanto per mandare degli aiuti umanitari, che sono necessari, ma anche per investire in una nuova forma di gestione della crisi e per trovare delle soluzioni reali.
  Negli ultimi vent'anni abbiamo soltanto gestito la crisi; non abbiamo fatto altro che accompagnarla. Anche gli aiuti di emergenza fanno parte della gestione della crisi. Gli interventi puntuali aiutano nella gestione della crisi, ma noi dobbiamo risolvere la crisi, e non soltanto gestirla. Allora, è necessario cambiare il paradigma, anche per i protagonisti.
  Riguardo agli attori da coinvolgere, ci vuole una base ampia. Per esempio, per l'Accordo sul nucleare iraniano – so che il contenuto è stato molto discusso, ma parlo soltanto della forma dell'Accordo – c'erano degli attori, come la Russia e gli Stati Uniti e l'Unione europea, molto divisi sulla questione della Siria o dell'Ucraina, eppure sono riusciti a creare una sinergia, quando hanno ritenuto che ci fosse un problema di sicurezza regionale globale che andava risolto. Ebbene, questo è il modello da seguire. Dobbiamo, cioè, capire che, al di là delle polarità, nel Consiglio di Sicurezza o altrove, possiamo lavorare insieme per risolvere le crisi. Questo modello mi sembra molto interessante. C'è stata, infatti, la partecipazione molto attiva anche da parte dei Paesi della regione. È evidente che i Paesi del Medio Oriente e del Golfo devono essere direttamente coinvolti nella ricerca di una soluzione. Questo sarebbe più utile di semplici negoziati diretti tra le parti con un accompagnamento internazionale. Bisogna, quindi, riscoprire una diversa cultura dell'azione diplomatica, che potrebbe essere significativa, se veramente vogliamo avere una prospettiva di speranza.
  Si è poi parlato dei movimenti di popolazione, in particolare in Medio Oriente, per capire se aiutano o complicano la situazione dei rifugiati palestinesi. Questo si lega a quanto avete detto precedentemente. Oggi è più difficile attirare l'attenzione sulla questione palestinese. Certo, si può dire che per tanti anni c'è stata attenzione, ma comunque la situazione non si è risolta, quindi potrebbe anche essere positivo. In effetti, dobbiamo attirare nuovamente l'attenzione, ma in termini diversi, come ho detto. La questione palestinese, ovvero la questione israeliana, suscita posizioni contrapposte; è tutto o bianco o nero. Alcuni sono favorevoli a una delle parti e alcuni all'altra. In tal modo, la crisi è stata accompagnata, perché anche gli attori sono in questa logica bipolare, del bianco o nero. Dobbiamo, però, andare oltre questo tipo di logica, non perché dobbiamo rinunciare alle nostre convinzioni, ma perché dobbiamo parlare di sicurezza e dignità, anche per l'Europa e non soltanto per il Medio Oriente. Dobbiamo superare questo paradigma pro Israele o pro Palestina, per essere a favore di una pace regionale.
  Farò un esempio. In quasi tutti i discorsi pronunciati sulla situazione a Gaza, si fa sempre riferimento alle considerazioni, legittime, di sicurezza di Israele. Questo è incontestabile, ma nulla di quello che avviene a Gaza, per me, ha un significato in termini di sicurezza regionale. Oggi, il 65 per cento dei ragazzi non ha un lavoro; ci sono quartieri interi che sono stati distrutti nel 2008, nel 2009 e nel 2014. I giovani palestinesi non hanno mai incontrato, né visto, un israeliano nella loro vita perché non si incontrano più. Non c'è nessuna possibilità di libertà di movimento. Allora, spiegatemi in che modo questo possa contribuire alla sicurezza regionale di chiunque, degli israeliani e dei palestinesi. Qualcuno mi spieghi in che modo questo contribuisce alla sicurezza regionale.
  Per questo, bisogna cambiare il paradigma e cominciare a parlare di dignità umana e di diritti per tutti. Non faccio un discorso in favore di qualcuno. Occorre una soluzione che coinvolga tutti, e non soltanto una parte. Purtroppo, per troppo tempo la gestione di questo problema è Pag. 11stata polare e parziale, per cui adesso abbiamo bisogno di un nuovo paradigma.
  Mi avete chiesto se la presenza di nuovi attori e la minore presenza degli Stati Uniti diminuisca i rischi. Non sono in grado di pronunciarmi in una prospettiva storica, perché il Medio Oriente ha sempre conosciuto gravi crisi. A titolo personale, in base alla mia esperienza nella Croce Rossa e, ora, all'UNRWA, posso dire che negli ultimi vent'anni la comunità internazionale ha privilegiato delle forme di intervento o militari o umanitarie. Non sono la stessa cosa, ma questi sono stati gli interventi.
  Un intervento militare a volte è necessario, ma onestamente ci sono pochi segnali che gli interventi militari poi portino alla stabilità nel Paese in cui si interviene. Ci sono molti esempi per dimostrarlo. Sappiamo anche che le attività umanitarie non risolvono i problemi di fondo. Dunque, ritorniamo a quello che abbiamo detto prima. Bisogna reinventare un concetto politico, perché se ci limitiamo a mandare degli aiuti e a fare degli interventi militari non risolveremo mai il problema sostanziale.
  Se avessimo avuto questa discussione dopo settembre 2001 e qualcuno avesse detto che, un giorno, in Medio Oriente, dei gruppi armati di opposizione avrebbero controllato interi territori di un Paese, avremmo pensato che fosse fantascienza. Oggi, invece, questo avviene. Occorrono, perciò, nuove strategie che ritrovino il coraggio politico e occorre ampliare la base degli attori coinvolti.
  Cosa può fare l'UNRWA, al di là delle sue riforme, per ridare nuove speranze? Lo dirò in maniera molto semplice. La settimana scorsa ero in Siria. Ho visitato un quartiere vicino al campo di Yarmouk, che è stato particolarmente colpito. Prima vi vivevano 160 mila rifugiati palestinesi; adesso ci sono ancora alcune migliaia di persone che sopravvivono tra le macerie. Ho incontrato 120 studenti che erano usciti dal campo di Yarmouk perché dovevano presentarsi all'esame nazionale. L'anno scorso, peraltro, è stato proprio uno studente di Yarmouk a ottenere i migliori risultati. Allora, dei giovani che vivono in uno dei quartieri più devastati continuano, in forme più o meno improvvisate, a studiare, in assenza di elettricità, senza poter studiare la sera, se non a lume di candela, e riescono a presentarsi a un esame nazionale, ottenendo i migliori risultati. Questa è l'energia che viene dalla disperazione. Non c'è altra spiegazione. Uno di questi studenti mi ha detto che se l'istruzione scompare da Yarmouk, sarà Yarmouk stesso a scomparire. Ogni giorno creiamo nuove speranze, al di là della distruzione e delle rovine.
  In Siria, ho visitato una scuola che stiamo ricostruendo in un quartiere di Damasco, che è stata distrutta da un'autobomba, e che dovrebbe riaprire ad agosto.
  Vorrei parlarvi di un altro esempio. Porto sempre con me un quaderno, che ho trovato tra le rovine di una scuola dell'UNRWA distrutta a Gaza nel 2014. Apparteneva a una ragazzina di 13 anni, che aveva scritto delle poesie. Una di queste poesie, che uno dei miei colleghi mi ha tradotto, parla di speranza e dice: «la speranza è un amico che non ti tradisce mai, che a volte se ne va, ma torna sempre. La felicità è qualcosa che bisogna cercare non nel giardino del vicino, ma nel proprio». Quando ho trovato questo quaderno non sapevamo se questa ragazzina fosse sopravvissuta. Ho detto ai miei colleghi che dovevamo ricostruire quella scuola e chiederle, se fosse ancora viva, di leggere questa poesia all'inaugurazione. Per fortuna era sopravvissuta e mi ha poi regalato il quaderno dopo l'inaugurazione.
  Questa bambina non può lasciare la Striscia di Gaza, ma le ho promesso che avrei diffuso e mostrato a tutti il suo quaderno, per dire al mondo che i giovani palestinesi sono pieni di speranza. Questo è un capitale enorme, nonostante tutto, quindi abbiamo la responsabilità collettiva di trasformare la loro energia in qualcosa di concreto e di positivo.
  Considerato che mi trovo di fronte a dei parlamentari, vorrei dirvi che in ogni scuola dell'UNRWA c'è un «parlamento» degli studenti. Sarebbe bello avere un incontro tra i parlamentari e i ragazzi del «Parlamento dei ragazzi» dell'UNRWA, perché per loro, voi rappresentate la speranza Pag. 12 di poter partecipare alla vita futura del loro Paese. Lo fanno già, modestamente, nelle loro scuole.
  Per molti di loro, voi siete dei simboli, quindi vorrei moltiplicare gli incontri per spingere questi ragazzi a coinvolgersi nella vita della loro società, per mantenere accesa la speranza di una vita migliore in Medio Oriente. Grazie.

  TANA DE ZULUETA, presidente del Comitato italiano per l'UNRWA (UNRWA Italia). Vorrei ringraziare i membri della Commissione, per questo incontro. In Italia, esiste da tre anni un comitato di sostegno all'UNRWA. Potete trovarlo su Internet all'indirizzo: www.unrwaitalia.org. I membri di questo piccolo comitato sarebbero felici di assecondare qualsiasi richiesta di materiali tradotti per la diffusione, da parte vostra, di iniziative politiche in cui si fa riferimento al lavoro dell'UNRWA. Noi traduciamo i loro materiali, in modo che possiate usarli. Siamo sempre a vostra disposizione. Vi ringrazio ancora di questa occasione.

  PRESIDENTE. Siamo arrivati alla conclusione di questa interessantissima audizione. Ringraziamo il Commissario e la Responsabile di UNRWA Italia, con cui rimarremo sicuramente in contatto. Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 15.