XVII Legislatura

III Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 6 di Mercoledì 22 luglio 2015

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 2 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE PRIORITÀ STRATEGICHE REGIONALI E DI SICUREZZA DELLA POLITICA ESTERA DELL'ITALIA, ANCHE IN VISTA DELLA NUOVA STRATEGIA DI SICUREZZA DELL'UNIONE EUROPEA

Audizione del generale Luciano Piacentini, consulente scientifico della Fondazione ICSA (Intelligence Culture and Strategic Analysis), e della professoressa Francesca Galli, docente presso la Facoltà di giurisprudenza dell'Università di Maastricht.
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 2 
Piacentini Luciano , consulente scientifico della Fondazione ICSA ( ... 3 
Galli Francesca , docente presso la Facoltà di giurisprudenza dell'Università di Maastricht ... 4 
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 9 
Manciulli Andrea (PD)  ... 9 
Locatelli Pia Elda (Misto-PSI-PLI)  ... 10 
Quartapelle Procopio Lia (PD)  ... 10 
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 10 
Piacentini Luciano , consulente scientifico della Fondazione ICSA ( ... 11 
Manciulli Andrea (PD)  ... 11 
Piacentini Luciano , consulente scientifico della Fondazione ICSA ( ... 12 
Manciulli Andrea (PD)  ... 12 
Piacentini Luciano , consulente scientifico della Fondazione ICSA ( ... 12 
Manciulli Andrea (PD)  ... 12 
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 12 
Galli Francesca , docente presso la Facoltà di giurisprudenza dell'Università di Maastricht ... 12 
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 13 
Piacentini Luciano , consulente scientifico della Fondazione ICSA ( ... 13 
Galli Francesca , docente presso la Facoltà di giurisprudenza dell'Università di Maastricht ... 13 
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 15

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: (FI-PdL);
Area Popolare (NCD-UDC): (AP);
Scelta Civica per l'Italia: (SCpI);
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Lega Nord e Autonomie - Lega dei Popoli - Noi con Salvini: LNA;
Per l'Italia-Centro Democratico: (PI-CD);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero-Alleanza per l'Italia: Misto-MAIE-ApI;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI;
Misto-Alternativa Libera: Misto-AL.

Testo del resoconto stenografico
Pag. 2

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE FABRIZIO CICCHITTO

  La seduta comincia alle 14.05.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche tramite la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione del generale Luciano Piacentini, consulente scientifico della Fondazione ICSA (Intelligence Culture and Strategic Analysis), e della professoressa Francesca Galli, docente presso la Facoltà di giurisprudenza dell'Università di Maastricht.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle priorità strategiche regionali e di sicurezza della politica estera dell'Italia, anche in vista della nuova strategia di sicurezza dell'Unione europea, del generale Luciano Piacentini, consulente scientifico della Fondazione ICSA (Intelligence Culture and Strategic Analysis), e della professoressa Francesca Galli, docente presso la Facoltà di giurisprudenza dell'Università di Maastricht.
  Ringrazio gli auditi per la loro disponibilità. Questa audizione è la prima specifica sul tema dei foreign fighter, un fenomeno che presenta elementi di assoluta imprevedibilità e testimonia, sia in persone che appartengono alle seconde e terze generazioni di immigrati sia in persone che appartengono al mondo europeo tradizionale, un'attrazione per questo tipo di islamismo.
  A mio avviso, c’è un singolare fenomeno culturale sul terreno dell'eversione, della violenza e del terrorismo: lo dico specialmente con riferimento a quella parte limitata di europei che diventano foreign fighter. Negli anni Sessanta e Settanta, come il generale Piacentini sa meglio di me, la dimensione terroristica aveva come retroterra culturale o il marxismo-leninismo o l'estrema destra; oggi invece non registriamo fenomeni di questo tipo né sul terreno dell'estrema sinistra ideologica né sul terreno dell'estrema destra. Il meccanismo attrattivo è invece esercitato dall'islamismo o da un pezzo di esso.
  È un dato di novità devastante, per di più legato a messaggi di singolare efferatezza e violenza che nell'opinione media provocano raccapriccio, ma nel target a cui sono indirizzati provocano evidentemente consenso. Per quello che riguarda la tematica dei foreign fighter del mondo occidentale ci troviamo dunque di fronte a una situazione paradossale.
  C’è, poi, un'altra tematica che riguarda gli spostamenti nell'ambito del mondo arabo, i cui meccanismi e le cui categorie vanno analizzati. È certamente significativo che un Paese nel quale è in corso un'esperienza democratica, sia pure faticosa, come la Tunisia, esporti in Siria e in Iraq da 3 mila a 5 mila giovani combattenti; mettendo anche in evidenza che in Tunisia c’è un mondo politico articolato, con una presenza islamica forte, che si contrappone in modo totale al terrorismo e una quota di popolazione che invece produce questo fenomeno, con una spaccatura tra la Tunisia della costa e la Pag. 3Tunisia dell'interno e delle zone montagnose, che esprime povertà, islamismo fanatico e foreign fighter.
  Due giorni fa ci sono stati due arresti, eseguiti a Brescia dalla Polizia di Stato di Milano, ed è evidente che il fenomeno in Italia è fortunatamente meno rilevante di quello che è emerso in altri Paesi, come la Francia e l'Inghilterra. Tuttavia, in modo evidente, nessuno ha un'assicurazione sulla vita. Come Commissione vogliamo quindi cominciare ad analizzare il fenomeno insieme agli esperti che abbiamo invitato. È una tradizione ormai della Commissione compiere questo lavoro accanto a quello tradizionale di «mettere il timbro» sui trattati piccoli, grandi e medi che ci vengono passati dalla solerte burocrazia ministeriale.
  Detto questo, do la parola ai nostri ospiti affinché svolgano la loro relazione.

  LUCIANO PIACENTINI, consulente scientifico della Fondazione ICSA (Intelligence Culture and Strategic Analysis). Buonasera a tutti voi.
  Il fenomeno dei foreign fighter è relativamente recente e si è acuito, in particolar modo, in questi ultimi tempi, con l'avvento del cosiddetto Stato islamico. In termini numerici si calcola che in Europa – sono numeri da prendere con le pinze perché non possono essere certi – ci siano tra i 3.000 e i 5.000 foreign fighter, mentre a livello globale sarebbero intorno a 20 mila o 30 mila.
  Tra i Paesi di partenza sono incluse l'Australia e la Cina. Nell'estremo ovest della Cina, infatti, c’è una regione che si chiama Xingyang, una regione enorme che confina con il Pakistan e per un tratto con l'Afghanistan, la cui popolazione è di etnia uigura: è l'unica parte della Cina a essere stata islamizzata, intorno all'VIII secolo. Lì ci sono dei fondamentalisti che danno problemi alla Cina stessa, e da lì provengono i foreign fighter cinesi che sono stati trovati in Siria.
  Il profilo del foreign fighter non è solo quello di un individuo che appartiene alla terza e quarta generazione, proviene dalle banlieue francesi e fa una vita non consona alle proprie aspettative. Molti sono europei non arabi, nati in Europa, che vogliono cambiare vita e che, non identificandosi con ciò che fanno, diventano foreign fighter. La prima cosa che fanno è abbracciare la fede islamica, e questo avviene normalmente tramite predicatori erranti che girano nei vari Paesi. Approfondiscono questa nuova esistenza tramite internet e da internet ricevono le prime informazioni e la prima formazione per diventare combattenti.
  Nel nostro caso si tratta per buona parte di europei a tutti gli effetti, con alla base il credo islamico. Frequentano non solamente le moschee, ma anche palestre o altri posti dove incontrano qualche predicatore errante che li attira dalla sua parte e li avvia a questa nuova avventura. Un altro luogo dove si fanno molti seguaci sono le prigioni, dove alcuni detenuti islamici fanno opera di convincimento e di «adescamento», se mi si passa il termine.
  In seguito, queste persone ricevono tramite internet i primi rudimenti sulle armi, sugli esplosivi e così via. Dopo di che vanno a combattere nei vari teatri come il cosiddetto Stato islamico, la Siria o altrove. Dopo un periodo trascorso a combattere, ritornano in patria. Una volta rientrati, il grosso pericolo è che vengano visti come punti di riferimento e altri giovani provino a seguire le loro stesse orme e diventare anch'essi foreign fighter.
  Daesh sta diventando un emblema, ma questo succedeva anche prima. È successo in Siria, in Afghanistan, che è una regione che conosco bene, e in Iraq. Il problema è come identificarli una volta che ritornano o, meglio, come identificarli prima che lascino il Paese dove risiedono per recarsi presso il teatro di guerra.
  Per quanto attiene all'Italia, stando a quanto viene detto dalle fonti ufficiali, i foreign fighter sono circa una cinquantina. Il primo è stato un giovane di diciannove anni che andò in Siria qualche anno fa: si chiamava Del Nevo, era genovese e rimase ucciso in quella terra. È stato uno tra i primi a partire. Come ripeto, ve ne sono circa una cinquantina.Pag. 4
  Le forze di polizia riescono a seguire e a controllare in maniera preventiva questi soggetti. Per noi è una sicurezza. A questo riguardo, desidero ricordare che le nostre forze di polizia hanno una marcia in più rispetto alle altre, per due ordini di motivi.
  In primo luogo, come accennava prima il presidente Cicchitto, hanno dovuto affrontare il terrorismo interno di destra e di sinistra. È stata una palestra che altri Paesi non hanno avuto e i cui risultati si vedono ora, da come si muovono. Il modus operandi è esclusivamente italiano. L'esempio degli ultimi due arresti di Brescia o la bellissima operazione compiuta qualche mese fa tra Olbia e Alghero, dopo più di cinque anni di indagini che hanno permesso di risalire fino ai Balcani, dimostrano la grande capacità dei nostri di prevenire determinate azioni.
  L'altro elemento che ci contraddistingue rispetto agli altri Paesi europei è un organismo che si chiama CASA. CASA vuol dire Comitato Analisi Strategica Antiterrorismo. È un organismo nato nel 2003, subito dopo la strage di Nassiriya, ed è stato inventato dal prefetto Carlo De Stefano, allora capo dell'UCIGOS. Si tratta di un tavolo simbolico attorno al quale siedono i rappresentanti delle forze di polizia – Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di finanza, Polizia penitenziaria – e i servizi di sicurezza. Si riunisce con una certa frequenza o quando c’è necessità e lì avviene lo scambio di informazioni tra i vari corpi, informazioni che vengono poi passate ai reparti operativi. Lo scambio di informazioni è fondamentale, e tra le informazioni scambiate ci sono anche quelle relative ai foreign fighter.
  Vorrei aggiungere che la Polizia postale ha grande capacità di eseguire indagini tramite internet e che anche i ROS sono diventati molto bravi a individuare su internet personaggi che, come i foreign fighter o i lupi solitari, si avvicinano al mondo islamico per motivi religiosi o per diventare combattenti, riuscendo a prevenire determinate attività.

  FRANCESCA GALLI, docente presso la Facoltà di giurisprudenza dell'Università di Maastricht. Buongiorno a tutti e grazie per l'invito, di cui sono molto contenta. Spero che il mio contributo possa essere utile.
  Il tema che desidero affrontare oggi è quale possa essere la risposta giuridica al fenomeno dei foreign fighter, soprattutto nel tentativo di trovare un equilibrio tra esigenza di repressione ed esigenza di prevenzione.
  La presentazione farà prima di tutto un breve accenno alla minaccia dei foreign fighter, aspetto del quale il generale Piacentini ha già ampiamente discusso. Si concentrerà poi sulla risposta a livello internazionale e sull'ampio spettro di politiche che sono state sviluppate in alcuni Stati sia dal punto di vista delle disposizioni penali sia dal punto di vista delle misure amministrative e delle cosiddette misure di soft law, per terminare con un accenno al ruolo e all'eventuale valore aggiunto dell'Unione europea in materia.
  Per quanto riguarda la minaccia, l'unica cosa che voglio aggiungere è che il problema – particolarmente rilevante che si pone – e che distingue la portata del fenomeno dei foreign fighter di oggi da quella dello stesso fenomeno, per esempio, degli anni Ottanta nel contesto della guerra tra Afghanistan e Russia o nel contesto delle guerre in Cecenia e in Bosnia Erzegovina – è la dimensione numerica. Questa dimensione è particolarmente importante per Stati in cui la proporzione tra foreign fighter e popolazione in quanto tale è estremamente ampia. Parliamo, ad esempio, del Belgio, dove, a fronte di una popolazione di 10 milioni di persone, sembra che nel 2014 siano partiti addirittura 300 foreign fighter.
  Il timore principale non è legato tanto alla partenza, quanto al fatto che questi individui, una volta compiute le loro esperienze di jihad e combattimento in un Paese che oggi è soprattutto la Siria, tornano avendo una rete di contatti e una prospettiva ideologica particolarmente radicale e potrebbero compiere attentati nei Paesi d'origine o in Paesi terzi.
  Non è soltanto un'ipotesi, ma abbiamo dei casi specifici. Pensiamo all'attacco al museo ebraico di Bruxelles nel maggio Pag. 52014, compiuto da Mehdi Nemmouche, che apparteneva a un sottobosco jihadista francese ed era appena tornato dalla Siria, o all'attacco a Charlie Hebdo a Parigi nel gennaio di quest'anno, compiuto da due individui che erano appena ritornati da un'esperienza di jihad nello Yemen.
  Per quanto riguarda la risposta a livello internazionale, nel tentativo di reagire in modo congiunto al fenomeno dei foreign fighter il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato, all'unanimità, la risoluzione n. 2178, nel settembre 2014. Questa risoluzione è giuridicamente vincolante per tutti gli Stati delle Nazioni Unite, che sono quindi tenuti a prevenire il reclutamento, l'organizzazione, il trasporto e l'equipaggiamento di individui che si rechino in altri Stati allo scopo di pianificare, preparare o attuare atti terroristici oppure di fornire e ricevere addestramento terroristico e finanziamenti per tali attività. A tale scopo, tutti gli Stati dovranno varare apposite legislazioni, intensificare i controlli alle frontiere, perseguire e condannare i terroristi, accrescendo la cooperazione internazionale anche attraverso accordi di tipo bilaterale e lo scambio di informazioni per identificare i sospetti terroristi.
  L'aspetto innovativo della risoluzione, su cui desidero mettere l'accento, è l'enfasi posta sulle politiche di contrasto all'estremismo violento e sulla necessità di trovare una risposta al terrorismo, e in particolare al fenomeno dei foreign fighter, più equilibrata, che non preveda soltanto un approccio repressivo, ma anche quello preventivo, in collaborazione con le comunità locali e con gli attori della società civile, nel senso più ampio.
  Facendo fronte agli obblighi della risoluzione, le misure che sono state elaborate a livello nazionale – in realtà anche prima dell'adozione della risoluzione stessa – coprono, a oggi, uno spettro abbastanza ampio, che va dall'aspetto repressivo delle disposizioni penali all'aspetto opposto, quello preventivo, delle misure di soft law o di deradicalizzazione. Tra i due estremi troviamo le misure di natura amministrativa preventive o punitive.
  Per quanto riguarda le disposizioni penali finalizzate alla repressione, è utile, in primo luogo, rilevare come il numero di indagini e di procedimenti penali in relazione ai foreign fighter sia in crescita, ma rimanga estremamente limitato: parliamo di sei casi e solamente nove condanne. Da un lato, questo è positivo perché rivela come sia possibile perseguire, tramite la giustizia penale, questi individui. Dall'altro, dimostra che esistono ancora moltissimi ostacoli a livello giuridico e difficoltà di tipo pratico.
  Un primo problema si pone, infatti, rispetto ai limiti della giurisdizione e all'impossibilità di applicare il diritto penale nazionale a reati che vengono commessi all'estero da parte di individui che non sono cittadini del Paese – nel qual caso applicheremmo il principio di giurisdizione attiva –, ma solo residenti. A fronte dei limiti della giurisdizione, alcuni Stati hanno preso in considerazione la possibilità di dare applicazione extraterritoriale a certe categorie di reato, incluso il terrorismo.
  Un secondo problema è relativo alla portata delle disposizioni giuridiche esistenti. Infatti, in linea con la decisione quadro dell'Unione europea del 2008, il quadro giuridico della maggior parte degli Stati europei permette di perseguire alcune delle attività e dei comportamenti dei potenziali foreign fighter e degli individui che sono dediti ad attività di reclutamento. Ad esempio, abbiamo la partecipazione a gruppo terrorista, la provocazione pubblica, l'addestramento e il reclutamento a fini terroristici.
  Anche se le disposizioni giuridiche esistenti permettono di smantellare, per esempio, le reti di reclutamento, queste stesse disposizioni giuridiche risultano insufficienti a perseguire i singoli foreign fighter, che sono «auto-motivati» e viaggiano da soli. Il fatto di viaggiare verso una zona di guerra non rappresenta un crimine in quanto tale, a meno che non ci siano elementi di tipo specifico che provino il tentativo di commettere un reato.
  Molti Stati stanno quindi tentando di fare fronte a questo limite giuridico in Pag. 6modo da espandere la portata delle disposizioni esistenti e arrivare a coprire le varie attività preparatorie, criminalizzando anche il viaggio verso le zone di guerra. In questo può essere interessante la legislazione francese del 2012, che permette di perseguire cittadini francesi che tornino in Francia al fine di compiere attentati di carattere terroristico dopo aver commesso atti di terrorismo altrove o dopo essersi addestrati in campi all'estero.
  Il terzo problema, che si pone a livello penale, è l'estrema difficoltà di raccogliere elementi di prova, ammissibili al dibattimento, sulle attività che vengono compiute in una zona di conflitto. È particolarmente difficile compiere indagini nelle zone di conflitto e manca qualsiasi tipo di cooperazione con le autorità locali in territori come la Siria. La mancanza di prove può portare a scegliere di mettere sotto sorveglianza gli individui che tornano. Tuttavia è particolarmente difficile scegliere chi sorvegliare: a fronte delle risorse limitate a disposizione, l'esercizio è particolarmente complesso.
  L'utilizzo di internet e dei social media rende il monitoraggio delle comunicazioni e la raccolta di elementi necessari a provare il supporto o la partecipazione ad attività terroristiche ancora più complessi. I limiti esistenti in materia di conservazione dei dati e le difficoltà di cooperazione transfrontaliera, volta a favorire lo scambio di dati e la collaborazione anche tra pubblico e privato, costituiscono un problema aggiuntivo.
  Per quanto riguarda le misure amministrative di carattere punitivo o preventivo, in Danimarca, in Francia, in Germania e in Olanda vi è una serie di misure assimilabili a quelle che sono state introdotte nel nostro Paese recentemente, e che permettono di confiscare ai cittadini i documenti di viaggio nel caso in cui ci sia il sospetto di un interesse o di un coinvolgimento in attività jihadiste; di revocare a cittadini stranieri il permesso di soggiorno, o l'ordine di non abbandonare il territorio; di congelare i beni oppure di cancellare il pagamento di benefici sociali. In Olanda e in Inghilterra vi è, inoltre, la possibilità di revocare la nazionalità ove la condotta sia seriamente pregiudizievole agli interessi dello Stato. È particolarmente interessante il fatto che in Inghilterra questo non costituisca un problema nemmeno nel momento in cui la persona risultasse divenire apolide.
  La terza categoria di misure sviluppate a livello nazionale su cui vorrei mettere l'accento sono le misure cosiddette soft o volte alla deradicalizzazione. Mentre, come abbiamo visto, alcuni Stati favoriscono l'aspetto repressivo – è il caso della Francia o della Spagna –, altri hanno optato per un modello cosiddetto inclusivo – è il caso della Danimarca –, basato su misure di soft law. Il rischio che viene percepito è che le misure prettamente repressive possano condurre a un ulteriore sentimento di esclusione da parte di gruppi che sono già marginalizzati, e a un'ulteriore polarizzazione della società. Le misure cosiddette soft si fondano anche sull'assunto che, dove ci sia un'assistenza specifica, alcuni individui radicalizzati possono deradicalizzarsi e reintegrarsi nella società. Queste misure e programmi sono volti a prevenire la radicalizzazione o a reintegrare chi è già radicalizzato. Possiamo pensare a schemi di mentoring, di training vocazionale, di supporto psicologico per fare fronte allo stress post-traumatico o anche a campagne di auto-consapevolezza e tentativi di rafforzare le relazioni con le comunità etniche e le famiglie.
  Questi programmi di disimpegno o di riabilitazione vengono considerati, da alcuni Paesi, come una valida alternativa all'azione penale o come una condizione, ad esempio, per il rilascio dalla detenzione preventiva. Un esempio interessante in tema di misure soft è quello della Danimarca, che ha una strategia di contro-radicalizzazione di lunga tradizione e ha implementato il cosiddetto «modello Aarhus»: i foreign fighter che desiderano ritornare in Danimarca vengono rimpatriati, vengono loro offerti un lavoro e cure mediche, evitando che siano rinchiusi direttamente in carcere, che, come sottolineava il generale Piacentini, è un luogo Pag. 7fertile per un'ulteriore radicalizzazione, il che non aiuta a risolvere il problema.
  Un altro elemento interessante delle misure cosiddette soft o di deradicalizzazione è lo sviluppo di campagne di informazione, di narrativa alternativa o della cosiddetta contro-narrativa. Queste campagne necessitano di una partnership tra pubblico e privato e permettono la distribuzione di video attraverso diversi mezzi di comunicazione.
  Le campagne di informazione, ad esempio, possono mettere l'accento sul coinvolgimento dei Paesi dell'Unione europea nelle zone di conflitto, sugli obiettivi di politica estera rispetto a elementi sensibili, sui valori occidentali e sulla loro complementarietà rispetto ai valori dell'Islam, descrivendo in maniera più positiva il coinvolgimento dei potenziali foreign fighter e più in generale dei cittadini o residenti musulmani nelle nostre comunità. La narrativa alternativa vuole invece identificare un modo non violento per trovare una risposta a specifiche recriminazioni.
  Mentre queste campagne di informazione e la narrativa alternativa sono indirizzate a individui che si trovano in una prima fase di radicalizzazione, esistono altre campagne di contro-narrativa che vogliono contrastare i messaggi di tipo estremista già diffusi, ridimensionare i miti esistenti e rispondere a fatti travisati. La campagna vuole enfatizzare il fatto che i messaggi, che vengono trasmessi a chi si unisce ai gruppi terroristi, sono fuorvianti e che lo stile di vita di un terrorista è degradante e distrugge le famiglie e il contesto sociale. L'obiettivo è eliminare l'aura positiva e di eroismo che esiste intorno a questi gesti.
  Per quanto riguarda il ruolo dell'Unione europea, gli Stati membri sono di fronte a una sfida complessa, che ha portato allo sviluppo di uno spettro molto ampio di politiche in reazione. La sfida è quella di implementare una risposta appropriata alla minaccia dei combattenti stranieri che partecipano ai conflitti all'estero e ai combattenti di ritorno nel Paese di origine.
  La risoluzione n. 2178 dell'ONU, che menzionavo all'inizio, enfatizza la necessità di trovare una risposta globale, che affronti anche i fattori che conducono al manifestarsi dell'estremismo radicale e violento. All'interno della risoluzione quello che rimane però problematico e desta una certa preoccupazione è la discrezionalità che viene lasciata agli Stati, in particolare per quanto riguarda la definizione di terrorismo e di foreign fighter, senza che vi sia alcuna indicazione di tipo geografico o limite temporale. Ciò è problematico perché pone grossi rischi in tema di rispetto dei diritti umani e delle libertà civili. La risoluzione ONU non offre esempi di quelli che potrebbero essere gli strumenti da adottare e il rischio è che alcuni Stati possano introdurre misure sproporzionate e talvolta addirittura controproducenti.
  Il ruolo dell'Unione in questo contesto è vitale nel fornire un'interpretazione e un'implementazione della risoluzione ONU che includa sia misure repressive sia misure preventive, nell'ambito di un monitoraggio ferreo del rispetto dei diritti umani.
  Vi do tre spunti su quanto sta facendo l'Unione. In primo luogo sono stati compiuti notevoli sforzi per migliorare e massimizzare lo scambio di informazioni relative ai combattenti stranieri, in particolare attraverso Europol, Eurojust e il sistema di informazione Schengen. Si valuta inoltre come consentire che ci siano controlli sistematici dei cittadini alle frontiere esterne dell'Unione.
  In materia di politiche anti-radicalizzazione è particolarmente significativo il lavoro compiuto dalla rete costituita dalla Commissione europea nel 2011. Si chiama Radicalization Awareness Network (RAN) e riunisce sia attori di law enforcement sia rappresentanti della società civile suddivisi in diversi gruppi tematici; lo scopo è quello di condividere esperienze e buone prassi.
  Il terzo aspetto particolarmente importante dell'intervento dell'Unione europea è la risposta a livello penale. Un certo numero di motivi depongono oggi a favore Pag. 8dell'aggiornamento della decisione quadro del 2008, in modo da garantire che la penalizzazione dei reati commessi dai combattenti stranieri sia armonizzata sull'intero continente.
  Questo rappresenterebbe un importante punto di riferimento per le agenzie dell'Unione, faciliterebbe la cooperazione transfrontaliera e lancerebbe un forte messaggio politico, che potrebbe diventare fonte di ispirazione per Paesi terzi. Il problema è che una penalizzazione diseguale e priva di norme minime comuni all'interno dell'Unione rischia di creare lacune sul piano dell'azione penale, cosa non auspicabile in questo contesto.
  Per ricollegarci al tema della vostra indagine conoscitiva, è giusto sottolineare come la strategia dell'Unione europea in materia di antiterrorismo e di combattenti stranieri faccia parte di una più ampia politica estera e di sicurezza dell'Unione.
  In questo contesto credo sia particolarmente importante – e l'Italia ha, a mio avviso, un ruolo significativo – migliorare la collaborazione con i Paesi terzi, perché questo permetterebbe di individuare le reti di reclutamento e rafforzare la sicurezza alle frontiere dei Paesi intorno alla Siria, di dialogare con i principali partner regionali, in primo luogo i Paesi arabi del Mediterraneo, e di garantire un migliore scambio di informazioni in materia di sicurezza. L'obiettivo è accrescere la capacità nella regione di rispondere agli attacchi terroristici e sostenere l'attuazione della risoluzione-quadro anche nei Paesi del Mediterraneo.
  In conclusione, credo che, alla luce della necessità di trovare un equilibrio tra prevenzione e repressione, l'Italia abbia solo parzialmente recepito nel proprio ordinamento la risoluzione n. 2178 dell'ONU. Infatti, il decreto-legge n. 7 del 2015 ha perfettamente allineato il nostro Paese in materia di politiche repressive. Non credo sia possibile andare oltre in termini, ad esempio, di anticipazione della tutela penale e di ulteriori reati che colpiscono le attività preparatorie restando nei limiti del rispetto dei diritti fondamentali costituzionalmente garantiti.
  Tuttavia rimane necessario, a mio avviso, investire maggiormente nello sviluppo di politiche creative di risposta all'estremismo violento. In questo contesto ho letto con piacere la mozione Dambruoso ed altri n. 1-00771, presentata il 31 marzo 2015, che impegna il Governo a valutare l'opportunità di introdurre anche nel nostro Paese una strategia nazionale di contro-radicalizzazione, il che denota la forte sensibilità del Parlamento italiano su questa materia.
  Tali iniziative credo debbano focalizzarsi su tre elementi chiave. Il primo è contrastare la narrativa dei gruppi estremisti e fornire una narrativa contraria o alternativa attraverso le campagne di informazione o di contro-narrativa di cui si parlava prima, facendo un utilizzo oculato dei social media grazie a una partnership pubblico-privato.
  Bisogna, inoltre, supportare le comunità e le organizzazioni della società civile attraverso training, accesso a expertise specifiche, risorse che siano di impulso alle attività amministrative e di programmazione affinché queste comunità possano operare in maniera più efficace nel contrasto all'estremismo e al suo impatto negativo.
  Da ultimo, credo sia necessario garantire un supporto psicologico e sociale per gli individui identificati come a rischio di partire e per coloro che ritornano, tentano e hanno la volontà di reintegrarsi nella società.
  La citata risoluzione ONU non identifica la natura specifica né gli obiettivi di queste politiche di contrasto dell'estremismo perché non esiste una tipologia specifica di estremismo violento e non esiste un percorso lineare tra l'essere simpatizzante e supportare le attività di un gruppo terroristico. Ogni intervento dovrà essere sviluppato in funzione del contesto specifico e del rischio che si vuole affrontare. Il ruolo di ogni Stato e di ogni comunità locale diventa cruciale in questo sforzo di creatività, che deve fondarsi su uno studio dettagliato dei rischi, dei bisogni e delle opportunità.Pag. 9
  Credo che possiamo fare molto come Parlamento, come comunità scientifica e come società civile.

  PRESIDENTE. Ringrazio i nostri ospiti e do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti e formulare osservazioni.

  ANDREA MANCIULLI. Vorrei dire qualcosa a integrazione di quanto ho sentito e vorrei commentare la parte dell'intervento relativo alla deradicalizzazione.
  Io dirigo, per l'Assemblea della NATO, il rapporto sul terrorismo di matrice jihadista. Mi occupo di queste cose molto da vicino. A mio avviso, un tratto che è opportuno mettere in luce sul fenomeno dei foreign fighter è il mutamento diacronico del fenomeno. È un fenomeno innanzitutto che, come è stato detto dal generale Piacentini, affonda le radici in diverse occasioni storiche, la più macroscopica delle quali è l'epoca dell'Afghanistan.
  Bisogna mettere in luce, come hanno fatto molto bene studiosi anche italiani, tra cui Claudio Neri, ciò che emerge dall'analisi che ho potuto fare sulla base dei dati di intelligence di tutti i Paesi NATO, ossia un vero e proprio mutamento di tipologia. I foreign fighter in Afghanistan avevano un'età media intorno ai trent'anni, erano fortemente islamizzati e avevano frequentato scuole coraniche e centri islamici molto attivi. Erano islamisti radicali appartenenti a una fascia di età matura. Inoltre in Afghanistan si sono contati oltre 10 mila combattenti in un arco temporale di 15 anni. Il fenomeno a cui stiamo assistendo in questo momento riguarda invece una fascia di età molto più bassa, tra i 16 e i 25 anni, la cui alfabetizzazione islamica è minima, salvo casi specifici. Più che di convinzione, si può parlare di «moda islamizzante», cosa che rende il fenomeno più virale che in anni passati. A mio avviso, è un aspetto molto importante perché, soprattutto sul segmento europeo, questa tendenza esiste ed è la stessa in tutti i Paesi della NATO. Possiamo cominciare a considerarlo come un dato di certezza.
  Altra cosa che volevo rimarcare è che Daesh è stato un acceleratore impressionante del jihadismo, dal momento che da un orizzonte puramente teorico si è passati ad avere una meta, un luogo in cui andare. È un fenomeno attrattivo senza precedenti, tanto da aver prodotto la prima contrapposizione nel mondo jihadista. Al Qaeda, infatti, sta rispondendo alla radicalizzazione del cosiddetto Stato islamico.
  Oltre ai combattenti stranieri ci sono anche i «costruttori» stranieri del Daesh, un fenomeno a sé stante che bisogna cominciare a misurare. Si tratta di persone che non partono per combattere, ma per costruire uno Stato. Io sono stato relatore, insieme all'onorevole Dambruoso, del sul disegno di legge di conversione del decreto-legge antiterrorismo e il fenomeno testé ricordato rende quel decreto già un po’ invecchiato perché, per esempio, tale provvedimento ci aiuta, come è successo in questi giorni, a catturare persone che prima non avremmo potuto arrestare, ma esula dal suo campo di applicazione una parte di figure che non si spostano per combattere, ma per costruire una minaccia contro di noi. Sono figure ancora non normate, e credo che in breve tempo dovremo farlo, perché se un ingegnere parte per progettare impianti di costruzione di armi o di ordigni non è un combattente, ma pur sempre una minaccia. È un campo che va esplorato al più presto.
  Per quanto riguarda la deradicalizzazione sono molto d'accordo con quanto è stato detto. Ci sono alcuni Paesi, come la Francia, che erano in ritardo ma che stanno recuperando, e io collaboro molto col prefetto Pierre N'Gahane, che è stato incaricato dal Presidente della Repubblica Hollande di seguire il progetto di deradicalizzazione.
  Credo giusto, come è stato detto, assumere al più presto un'iniziativa parlamentare. Ci stiamo ragionando insieme al senatore Dambruoso e alla Commissione giustizia perché, stante il nostro ordinamento, questi argomenti passano da lì, ma Pag. 10sarebbe opportuno arrivare presto a uno strumento normativo che regoli questi processi di deradicalizzazione.
  In Italia c’è una minore casistica, ma credo che andrà a crescere perché purtroppo la viralità degli attuali foreign fighter determina una crescita esponenziale del problema, anche partendo da cifre molto modeste come quelle italiane.

  PIA ELDA LOCATELLI. Ringrazio il generale Piacentini e la dottoressa Galli, ma prima ancora ringrazio il presidente Cicchitto perché con queste audizioni impariamo un po’ di politica estera. Troppo spesso la nostra attività si limita alle ratifiche, mentre si aspira a fare più attenzione alla politica estera. Ringrazio il presidente e ringrazio i due relatori, perché mi hanno consentito di mettere ordine nella quantità di informazioni che leggiamo e che facciamo fatica a sistemare in un quadro. In questo l'incontro mi è stato davvero utile, anche se, per quanto mi riguarda dobbiamo tutti meditare ancora di più.
  Mi ha molto interessato l'analogia tra il nostro terrorismo degli anni Settanta e Ottanta e quello di adesso. Non avevo mai pensato che le carceri fossero luogo di proselitismo, e soprattutto non sapevo che stesse succedendo adesso con il terrorismo islamico. Conoscevo il passato, ma non sapevo che questo fenomeno si stesse ripetendo.
  Altra cosa interessante sono le misure di soft law che ha presentato la dottoressa Galli. Mi pare di cogliere tra queste sue informazioni e indicazioni una sorta di doppia preoccupazione. L'Unione europea acquisisce il contenuto della risoluzione n. 2178, ma si preoccupa di fare in modo che il contesto sia quello del rispetto dei diritti umani. Questo suo accentuare tale preoccupazione dell'Unione europea significa che essa non è diffusa in altre regioni del mondo ?
  La seconda domanda riguarda le caratteristiche di questi foreign fighter o foreign builder. Anche a me paiono persone meno radicate nelle loro convinzioni rispetto ai terroristi italiani degli anni Settanta e Ottanta e ai terroristi dell'Afghanistan, per capirci; eppure li avevo già dati per persi. L'idea di fare una politica che la dottoressa Galli ha definito di deradicalizzazione non l'avevo considerata, perché pensavo che persone che decidono di andare a combattere fossero molto convinte e non facilmente recuperabili. Nella mia testa accentuavo, quindi, le misure repressive rispetto a quelle preventive.
  Potete raccontarci se c’è una sorta di labilità nelle convinzioni sui cui sia possibile agire per compiere quest'azione di recupero e di prevenzione ? È un aspetto che a me è sicuramente sfuggito. Siccome siamo tutti preoccupati e anche un po’ spaventati, forse escludiamo a priori questo lavoro di prevenzione ed è sbagliato farlo.

  LIA QUARTAPELLE PROCOPIO. Grazie per il quadro che ci avete fatto perché ci aiuta a collegare il diritto interno al diritto internazionale. Credo che la cosa più interessante per noi sia soprattutto il tema delle misure soft. In particolare, c’è una differenziazione sia temporale sia geografica in Europa; la Gran Bretagna, un Paese che ha investito molto nel cosiddetto engagement con le comunità per attuare azioni di questo tipo, ha molto cambiato la propria opinione su come si fa, con chi si fa e su quanta durezza serva perché esso sia comprensibile.
  Pongo una domanda perché credo che nel ragionamento che è stato fatto manchi un elemento cruciale, ossia il modo di relazionarsi con le comunità esistenti. Anche dalle comunità esistenti in Italia arrivano segnali della volontà di avere un rapporto diverso. Ci sono modelli che vanno dal modello americano, dove sono stati costituiti organismi di confronto e discussione tra gli stessi apparati di sicurezza e le comunità musulmane, a modelli «duri» che discriminano tra le diverse comunità. È un terreno estremamente scivoloso: come si fa ? Avete consigli di policy sull'argomento ?

  PRESIDENTE. Do ora la parola ai nostri ospiti per la replica.

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  LUCIANO PIACENTINI, consulente scientifico della Fondazione ICSA (Intelligence Culture and Strategic Analysis). Forse la risposta alle domande sulla deradicalizzazione non è mia, ma mi baserò sull'esperienza.
  Chi ha iniziato a farla recentemente è la Danimarca. Da quello che so, i risultati non sono così rilevanti. L'onorevole Locatelli si chiedeva come fa una persona che si sia convinta a passare a un'altra religione e a un altro modus operandi a ritornare com'era prima: c’è una convinzione alla base e questo è l'ostacolo da superare. C’è soprattutto, secondo me, un aspetto fondamentale e con questo rispondo alla domanda su come ci si relazioni con loro. Il problema è questo. Per potersi relazionare occorre conoscerli: occorre conoscere la loro storia, la loro politica, la loro religione, le loro tradizioni, i loro usi e costumi, i loro comportamenti. L'Islam non è una religione o una politica che ha le caratteristiche di un monolite: ci sono mille rivoli e le persone seguono alcune un rivolo, altre un altro rivolo, e così via.
  Emerge di qui un comportamento diverso. Faccio un esempio molto semplice: noi conosciamo sunniti e sciiti, ma dentro il sunnismo e lo sciismo c’è tutto un mondo. C’è un altro fenomeno rappresentato dalla componente mistica sufi, che è un'altra cosa ancora e si relaziona con le altre componenti. Senza una conoscenza approfondita è molto difficile relazionarsi.
  Questo è il primo aspetto. Il secondo aspetto – mi «allargo» un po’ per rispondere alle varie domande, cerco di dare dei flash – riguarda coloro che non vanno all'estero a combattere, ma a costruire il cosiddetto Stato islamico. Qui c’è il problema dell'interrelazione: occorre l’intelligence e mi riferisco a una componente humint. Servono dati di fatto ed esperienze specifiche sul terreno che ci aiutino a capire perché quell'italiano, nel nostro caso, parta per un certo luogo per fare certe cose. Ciò è possibile solo sul campo. Non esiste un modello di comportamento: i comportamenti sono diversi da persona a persona e i rapporti tra un italiano e un musulmano sono diversi da quelli tra uno statunitense e un musulmano e così via. È una questione di empatia. Ci sono etnie, clan e gruppi completamente diversi tra loro. Parlo sempre sulla base dell'esperienza.
  Lo scambio di informazioni è un altro aspetto. Le informazioni normalmente si scambiano tra servizi, ma solamente quando tra servizi ci sono interessi nazionali coincidenti; quando non ci sono, le informazioni non si scambiano. Questa è la realtà. Cito il caso della Francia: i due assalitori di Charlie Hebdo, l'ultimo di Lione e, ancora prima, l'attentatore Merah sono tre esempi sulla stessa linea.
  Merah era, come gli altri tre, un infiltrato dei servizi francesi; parlo molto apertamente. I servizi francesi lo hanno gestito e, poiché l’intelligence risponde a quello Stato e a quella Costituzione, la Francia ha deciso di creare un apparato di personale di questo tipo affinché in Europa avesse una propria rete di soggetti che andavano e venivano per i vari teatri rendendola partecipe di quanto stava accadendo. Merah era uno di questi. Veniva da una famiglia di estremisti. Era stato prima in Iraq, poi tra Afghanistan e Pakistan, dove ha fatto vacanze di natura addestrativa; è ritornato, ma la sua posizione è cambiata o perché non c’è stato un adeguato controllo psicologico da parte dei servizi francesi o perché è mancato il controllo nudo e crudo. Così Merah ha preso un'altra strada. La stessa cosa hanno fatto grosso modo gli altri tre. Quando si dice che i servizi di sicurezza a un certo punto perdono il controllo di qualcuno, il discorso non è più chiaro.
  I francesi, che erano avanti a noi anni luce sotto questo aspetto, non hanno scambiato con gli altri servizi mezza informazione. Non lo dico perché sono contro i servizi francesi: ognuno fa la propria politica. Le informazioni non si scambiano così facilmente e le proprie si guadagnano sul campo.

  ANDREA MANCIULLI. Per onestà, Merah non era un infiltrato dei servizi francesi, ma una persona perfettamente a Pag. 12conoscenza dei fatti, che veniva usato come informatore. È cosa diversa tecnicamente.

  LUCIANO PIACENTINI, consulente scientifico della Fondazione ICSA (Intelligence Culture and Strategic Analysis). Era un terrorista di matrice jihadista a libro paga dei servizi francesi, che riferiva loro quanto succedeva. Parlando di infiltrato, mi sono espresso male.

  ANDREA MANCIULLI. Per quel che ne so io, era lasciato libero perché portava informazioni. Non era così organico. Per gli altri la questione è più seria. Sono stati sotto un regime di osservazione molto attenta per lungo tempo, fino a che sono stati declassificati e in questa declassificazione la magistratura francese ha avuto un ruolo non secondario. Il livello di minaccia è stato considerato diminuito, ma si è trattato di un errore. Lo dico anche per esaltare le nostre capacità.

  LUCIANO PIACENTINI, consulente scientifico della Fondazione ICSA (Intelligence Culture and Strategic Analysis). Questa è la versione francese.

  ANDREA MANCIULLI. No, c’è stato un ruolo piuttosto negativo della magistratura sulla vicenda degli ultimi due attentati in Francia.

  PRESIDENTE. Se metà di ciò di cui state parlando fosse avvenuto in Italia, le polemiche politiche sarebbero state fortissime. Vedo che in Francia, invece, rispetto alle vicende gravissime di cui entrambi state discutendo, nessuno, nella maggioranza o nelle opposizioni, ha sollevato questioni di alcun tipo.

  FRANCESCA GALLI, docente presso la Facoltà di giurisprudenza dell'Università di Maastricht. Provo a rispondere agli spunti. Per quel che riguarda il cambiamento del fenomeno di cui parlava l'onorevole Manciulli all'inizio, io credo che la diversità che riscontriamo oggi sia un'opportunità.
  Il fatto che questi individui abbiano un'alfabetizzazione molto bassa è un'ottima cosa. Si sa, per esempio, che molti partono per combattere la jihad – ce lo raccontano i media – portandosi dietro il libricino in inglese intitolato Islam for Dummies, cioè l'Islam per gli «scemi»: possiamo dire l'Islam in pillole. Non necessariamente hanno un background solido, come quello che aveva chi partiva negli anni Ottanta e aveva frequentato scuole coraniche, e altro. È importante per noi perché, in questo contesto, le politiche di deradicalizzazione possono avere un effetto e un'efficacia molto maggiore, se utilizzate in un certo modo. Penso che questo primo aspetto sia particolarmente importante. Problematico invece penso sia il fatto che si tratta di giovanissimi, perché la possibilità di essere manipolati quando si è giovani e immaturi sul piano dello sviluppo della capacità critica è superiore.
  L'altra differenza che da un lato è una criticità e dall'altro un'opportunità è il ruolo giocato da internet. Mentre negli anni Ottanta la radicalizzazione avveniva sostanzialmente off line, il fatto che adesso avvenga on line ci permette innanzitutto un monitoraggio più facile: se prima era necessario infiltrarsi all'interno del contesto molto chiuso di una comunità islamica, con tutte le difficoltà del caso, ora si può effettuare un monitoraggio dell'attività on line. L'equilibrio tra repressione e prevenzione è per noi più gestibile.
  Non so se essere del tutto d'accordo sul fatto che il decreto-legge antiterrorismo sia già invecchiato. Tra le fattispecie che sono definite all'interno di tale provvedimento credo che anche le attività di supporto, quale può essere quella dell'ingegnere, possano rientrare. Non necessariamente il provvedimento si focalizza sui combattenti in quanto tali, ma credo che ci siano margini di discussione. Ogni intervento legislativo necessita di un tempo nel quale l'interpretazione e l'utilizzo dei nuovi strumenti ci permettano di capire se le norme funzionano o se sia necessario Pag. 13un ulteriore intervento. Non penso però di dovervi insegnare nulla, visto che questa è la casa dei provvedimenti legislativi.
  Ritengo anche che, prima di intervenire ulteriormente, sia necessario vedere quali siano gli aspetti positivi e negativi delle misure adottate in altri Paesi. L'onorevole Manciulli citava la Francia, che sta adattando piano piano la propria normativa, pur avendo già un solidissimo percorso e un solidissimo insieme di disposizioni penali da utilizzare.
  Tornando al parallelismo tra la minaccia attuale e la minaccia del terrorismo interno degli anni Sessanta e Settanta, credo che se ne possano trarre numerosi insegnamenti. Si può fare un collegamento interessante con la possibilità di reintegrare. Il pentitismo e la dissociazione dal terrorismo degli anni Settanta e Ottanta, condivisibili o meno, per il modo con cui sono stati applicati, auspicabili o meno che fossero, possono essere interessanti per capire come reinserire nella società persone che hanno compiuto un errore.

  PRESIDENTE. Chiedo scusa per l'interruzione. Si tratta di fenomeni totalmente diversi: quello era un fenomeno ideologico, culturale e politico che riguardava la realtà delle singole nazioni e fondamentalmente dell'Italia, che ne è stata la patria; qui abbiamo una fenomenologia, soggetti e culture differenti. Il pentitismo allora si verificò in alcuni casi per opportunismo e in altri casi a seguito di una revisione ideologica. Qui le cose mi sembrano molto più difficili e complesse.
  Le categorie sono completamente diverse. Su questo terreno il generale può dare lezioni sia a me che a lei, ma la mia impressione è che le dimensioni siano diverse.

  LUCIANO PIACENTINI, consulente scientifico della Fondazione ICSA (Intelligence Culture and Strategic Analysis). Sono d'accordo con il presidente. Il terrorismo degli anni Settanta e Ottanta – quello del caso Moro per capirci – e il terrorismo attuale di matrice jihadista sono diversi per più motivi.
  Il primo è l'ideologia. Nel terrorismo jihadista l'ideologia è la religione, che viene usata perché non hanno altro. È però una religione che non c'entra niente con il Corano, che viene completamente travisato.
  Fanno cose che il Corano non dice, cominciando dalla auto-proclamazione del califfato, califfato che è stato «proibito» da Atatürk nel 1924. Il califfato è risorto altre volte in Afghanistan e così via, ma sempre per auto-proclamazione perché non ci sono autorità in grado di istituirlo. È un altro aspetto ancora. Gli jihadisti, inoltre, praticano lo sgozzamento e non la decapitazione: la decapitazione è in qualche modo prevista dal Corano, ma lo sgozzamento no. Interpretano il Corano in un modo tutto loro.
  I nostri terroristi erano per buona parte italiani: era un terrorismo specifico delle Brigate Rosse, con tutto ciò che ne conseguiva. Sono due cose completamente diverse. Come dicevo prima, le forze di polizia hanno impiegato degli anni per capire come si muovevano. Le Brigate Rosse diramavano, come i più maturi ricorderanno, comunicati che sembravano incomprensibili, ma che poi diventavano chiarissimi perché comunicavano esattamente quello che avrebbero fatto dopo. Col tempo le nostre forze di polizia hanno imparato a contrastare il loro modus operandi e a superarlo. Questa è tutta un'altra cosa. Il territorio, la religione, i comportamenti, gli obiettivi: è tutto diverso. Non puntano a una singola nazione, ma a più Stati. Le differenze sono molteplici. Abbiamo a che fare con persone che non sono della nostra stessa nazionalità e religione.

  FRANCESCA GALLI, docente presso la Facoltà di giurisprudenza dell'Università di Maastricht. Mi rendo conto che il parallelo è ardito, ma è anche volutamente provocatorio. Sono cosciente del fatto che ci siano diversità di ideologia, di obiettivi, di religione, e altro: quello che volevo manifestare è che noi italiani abbiamo sviluppato negli anni Settanta una certa esperienza, come ha sottolineato, a livello Pag. 14operativo, il generale parlando delle forze di polizia.
  Credo che un altro aspetto particolarmente importante a «livello» italiano sia anche la legislazione che esisteva in quegli anni e che, non a caso, è stata ripresa nelle leggi antimafia, per il suo carattere innovativo. Anche gli aspetti relativi al pentitismo, o meglio alla dissociazione, possono avere un valore aggiunto in questo contesto. Non a caso, nella nostra legislazione, con il decreto-legge n. 144 del 2005 esistono alcune possibilità, come quella di dare un permesso di soggiorno temporaneo o permanente a individui che decidano di collaborare con le autorità. Io mi riferivo, in primo luogo, a questo.
  In relazione a quanto chiedeva l'onorevole Locatelli, è particolarmente importante un intervento dell'Unione nel verificare che ci sia pieno rispetto dei diritti umani perché, a livello internazionale, si è avuta una difficoltà enorme, ancora irrisolta, a trovare una definizione di terrorismo. Non c’è accordo e la risposta è stata che, benché se ne discuta ormai da anni, non esiste una convenzione globale sulla lotta al terrorismo, ma tante convenzioni ad hoc in relazione ad attività specifiche, che vanno, per esempio, dal piazzare bombe a fini terroristici al finanziamento del terrorismo. Solo nelle ultime convenzioni si utilizza la parola terrorismo, mentre in passato venivano penalizzate attività specifiche, menzionando soltanto l'intento.
  Nel contesto internazionale non si trova un accordo sul terrorismo perché, come recita il classico ritornello, chi è terrorista per l'uno lotta per la libertà per l'altro. Ora si parla tanto di foreign fighter, ma prima si parlava di freedom fighter. Chi si trova in un contesto, ad esempio, dittatoriale viene percepito dal suo regime come terrorista, ma potrebbe essere un rivoluzionario che vuole portare la democrazia all'interno del proprio Paese.
  Il fatto che la risoluzione ONU non definisca né la categoria di foreign fighter né il concetto di terrorismo in quanto tale è comprensibile in questo contesto più ampio, ma è pericoloso perché la risoluzione può essere interpretata in modo da portare avanti misure che vanno al di là delle necessità.
  Non penso soltanto al contesto internazionale, dove alcune dittature potrebbero interpretare in modo draconiano a proprio vantaggio i requisiti della risoluzione dell'ONU. All'interno della stessa Unione europea ci sono opinioni divergenti: pur esistendo, grazie alla decisione quadro del 2002, una definizione di terrorismo, le misure da adottare e la tipologia di reati da considerare sono ancora oggetto di opinioni variegate.
  Ovviamente l'Unione introduce misure minime. Se pensiamo al rapporto tra i reati di terrorismo e la libertà di espressione, tradizionalmente, nella maggior parte degli Stati, si distingue tra provocazione diretta – dire a qualcuno di uccidere qualcun altro – e provocazione indiretta, per cui si pronuncia un discorso che rientra nella libertà di espressione e non necessariamente è volto a compiere un determinato atto. Poiché anche all'interno del contesto europeo ci sono interpretazioni differenti, l'Unione europea può garantire attenzione ai diritti umani, anche in nome della Carta europea dei diritti dell'uomo.
  Per quanto riguarda le politiche di deradicalizzazione e il fatto che le persone siano più o meno convinte e quindi più o meno recuperabili, benché io non sia particolarmente competente, perché non sono né un'analista né una sociologa, credo però necessario fare un'accurata analisi del rischio. Non solo chi parte, ma anche chi torna può rientrare in una categoria di rischio basso, medio o alto.
  Intervenire su chi sta in una categoria di rischio alto è particolarmente complesso, ma possiamo invece intervenire in modo più semplice su chi appartiene a categorie di rischio basso. La stessa esperienza della jihad per questi soggetti può essere scioccante e creare stress post-traumatico: si tratta di persone che potrebbero essere accompagnate e ricondotte all'interno della società.
  Al primo posto metto, quindi, l'analisi del rischio. Per quanto riguarda le politiche Pag. 15di deradicalizzazione di cui chiedeva l'onorevole Quartapelle e le misure soft adottabili, credo che siamo avvantaggiati dal fatto che il fenomeno qui da noi è ancora giovane. Abbiamo il vantaggio di poter studiare ciò che è stato fatto in altri Paesi.
  Il primo lavoro da svolgere è quindi studiare cosa abbia funzionato e cosa non abbia funzionato in altri Paesi in termini di politiche di deradicalizzazione e quali realtà siano state coinvolte. Io ritengo che il primo terreno su cui intervenire siano le carceri e il secondo le scuole. Ci sono scuole in cui lo spettro degli studenti è molto vario e si possono applicare specifiche politiche di inclusione, integrazione e riflessione sull'Islam che aiutino a evitare la radicalizzazione.
  Il rapporto con le comunità di cui parlava l'onorevole Quartapelle è fondamentale, ma non ci sono solo le comunità. Io penso sia importantissimo il ruolo delle famiglie e degli amici con cui crescono i giovani. Ho letto con piacere quanto è stato fatto in altri Paesi a favore del ruolo delle donne e delle madri, che si trovano ad affrontare queste situazioni e che spesso non sanno nemmeno a chi rivolgersi per far fronte alla radicalizzazione di un figlio. Si può provare a prendere contatto con questi contesti e capire come agire e intervenire, instaurando relazioni di fiducia. Il problema è che in passato si è instaurato un dialogo con le comunità religiose con il fine ultimo, assolutamente lecito, di raccogliere informazioni. Nel momento in cui però un gruppo percepisce di fungere da informatore non soltanto è riluttante a svolgere tale ruolo, ma viene anche isolato dalla comunità di appartenenza, diventa inutile e pericoloso. È un altro elemento su cui riflettere.
  Detto questo, credo che all'interno della comunità le famiglie abbiano un ruolo preponderante, e ve ne sono esempi in Inghilterra. Altri strumenti interessanti al fine di attuare politiche di deradicalizzazione possono essere i giovani leader, leader religiosi in grado di spiegare che i messaggi dell'Islam, come diceva prima il generale, vengono travisati.
  Ci sono però anche gli ex jihadisti: chi torna e affronta un percorso di deradicalizzazione e di reinserimento e integrazione nella nostra società può rappresentare una voce credibile. Ci sono esempi, in altri Paesi, di persone che nelle zone di conflitto si aspettavano di trovare una determinata realtà e invece hanno trovato solo guerra e distruzione e sono state strumentalizzate a vantaggio di un'agenda politica che non era quella del califfato, ma di un singolo leader. Tutto questo crea una disillusione molto forte, che può essere utile per spiegare ad altri cosa evitare e che cosa non aspettarsi da quel contesto.
  Per quanto riguarda le attività di deradicalizzazione, è importante prima di tutto lavorare on line, perché l'utilizzo di internet a fini terroristici è uno strumento importantissimo, ma anche off line, non trascurando l'aspetto del contatto umano e identificando luoghi specifici di potenziale radicalizzazione.
  Allo stesso tempo, è cruciale – e per questo menzionavo diversi esempi – che vengano coinvolti attori diversi dalle sole autorità di polizia o dai soli funzionari ministeriali, che possono essere efficaci soltanto per certi aspetti. Piuttosto dovrebbero essere coinvolte persone che siano soprattutto di ispirazione per i giovani che stanno attraversando un percorso di radicalizzazione.

  PRESIDENTE. Ringrazio tutti gli intervenuti e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 15.30.