XVII Legislatura

III Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 2 di Giovedì 12 dicembre 2013

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA PROIEZIONE DELL'ITALIA E DELL'EUROPA NEI NUOVI SCENARI GEOPOLITICI. PRIORITÀ STRATEGICHE E DI SICUREZZA

Audizione del Presidente del Centro studi internazionali (Ce.S.I.), Andrea Margelletti.
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 3 
Margelletti Andrea , Presidente del Centro studi internazionali (Ce.S.I.) ... 3 
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 3 
Margelletti Andrea , Presidente del Centro studi internazionali (Ce.S.I.) ... 3 
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 9 
Margelletti Andrea , Presidente del Centro studi internazionali (Ce.S.I.) ... 9 
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 9 
Manciulli Andrea (PD)  ... 9 
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 10 
Margelletti Andrea , Presidente del Centro studi internazionali (Ce.S.I.) ... 10 
Cicchitto Fabrizio , Presidente ... 11

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: FI-PdL;
Scelta Civica per l'Italia: SCpI;
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Nuovo Centro-destra: NCD;
Lega Nord e Autonomie: LNA;
Per l'Italia (PI);
Fratelli d'Italia: FdI;
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero-Alleanza per l'Italia: Misto-MAIE-ApI;
Misto-Centro Democratico: Misto-CD;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI.

Testo del resoconto stenografico
Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE FABRIZIO CICCHITTO

  La seduta comincia alle 14.10.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione del Presidente del Centro studi internazionali (Ce.S.I.), Andrea Margelletti.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del presidente del Centro studi internazionali (Ce.S.I.), Andrea Margelletti, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla proiezione dell'Italia e dell'Europa nei nuovi scenari geopolitici.
  Ringrazio della sua presenza il professor Margelletti, che è accompagnato dal dottor Gabriele Iacovino e lo invito a svolgere il suo intervento.

  ANDREA MARGELLETTI, Presidente del Centro studi internazionali (Ce.S.I.). Grazie, signor presidente. Buon pomeriggio, onorevoli deputati; buon pomeriggio, cittadini del Movimento 5 Stelle.

  PRESIDENTE. Mi perdoni, ma i componenti del Movimento 5 Stelle non sono distinti dagli altri deputati.

  ANDREA MARGELLETTI, Presidente del Centro studi internazionali (Ce.S.I.). Farò una cosa un po’ in controtendenza rispetto ai canoni – il presidente Cicchitto, per sua sfortuna, mi conosce molto bene – dell'ortodossia delle relazioni internazionali. Oggi non vi parlerò di Europa, e non lo farò per la semplice ragione che la pervasività della politica estera europea – ammesso e non concesso che ve ne sia una – nelle vicende nazionali è così forte da riuscire con difficoltà a dire quanto ci sia di sovranità in alcuni contesti e quanto ci sia, invece, di compartecipazione delle nazioni dell'Unione europea. Lo dico da europeista convinto.
  Con il passare degli anni, possiamo dire che la politica estera europea è diventata di fatto una parte della politica estera di una nazione stessa. Oggi quindi, se siete d'accordo, vorrei focalizzarmi sulle criticità che riguardano il nostro Paese e, soprattutto, sugli scenari di politica internazionale e di relazioni internazionali che il nostro Paese si avvia ad affrontare.
  Riserverò una parte importante del tempo a mia disposizione a eventuali domande, e spero che ve ne saranno, anche perché sono la parte più interessante e divertente dell'incontro.
  Chi si occupa di relazioni internazionali sa che la geografia, nella geopolitica, non può essere disgiunta dalle tematiche. Il nostro è un Paese fortemente inserito nel Mediterraneo e gli scenari che dovremo affrontare, come Italia, come Paese dell'Unione europea, come Paese appartenente all'Alleanza atlantica e come Paese che vuole partecipare a coalizioni internazionali sotto l'egida delle Nazioni Unite, sono fortemente legati al peso delle criticità che possono interessare il nostro Paese.
  Noi ci troviamo di fronte a una situazione gravissima nel bacino del Mediterraneo, dettata fondamentalmente da due Pag. 4fattori. Il primo, assolutamente non risolvibile, è quello dei tempi della sincronia delle politiche internazionali da parte dei Paesi occidentali: noi ci muoviamo in tempi di legislatura (altri Paesi in termini di amministrazione) e il nostro respiro strategico è dettato da quattro anni più quattro, o cinque anni, a seconda del Paese. Altre nazioni ragionano in termini di generazioni. Forse l'unica cosa saggia detta dal Mullah Omar è stata: «voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo», per dare una definizione di come sia profondamente diverso l'approccio che si ha in determinate aree del mondo.
  I fenomeni che sono stati chiamati «primavere arabe» – che io continuo a chiamare una sorta di «risveglio arabo» – sono difficilmente affrontabili secondo gli strumenti della diplomazia del passato.
  Noi viviamo in un mondo multipolare che si avvicina sempre di più, in realtà, a essere un mondo gestito da rapporti bilaterali, ma in un ambito più ampio; soprattutto siamo nati – almeno molti di noi – in un ambito dove il rapporto era con una realtà statuale. Ci rapportavamo quindi con chi magari la pensava in maniera profondamente diversa da noi, ma di fatto comunque aveva dei meccanismi simili ai nostri. Quello che abbiamo visto negli ultimi quindici anni è invece l'insorgere di realtà politiche non statuali. Ci troviamo davanti a movimenti, realtà tribali e di microcosmo che però, nel loro puro contesto, rappresentano una punta di diamante, una parte importante della politica di quell'area.
  Parlo di aree perché in molte parti del mondo il concetto di nazione è andato di fatto via via sfaldandosi, e non perché è andato in crisi il concetto di Stato o nazione, ma perché è andata in crisi la leadership di quel Paese. In buona parte dei Paesi del Nord Africa, in buona parte dei Paesi dell'Africa sub-sahariana, i Governi in carica avevano perso ciò che rappresenta la base per tenere unito un Paese, cioè l'autorevolezza di un Governo. Nel momento in cui è stato dimostrato che «il re diventava nudo», è andato in crisi l'intero sistema.
  Io continuo a sostenere, sulla base dell'esperienza del Centro studi internazionali – noi abbiamo la caratteristica di andare nei Paesi e le cose di cui discuto oggi non sono soltanto frutto di una visione mediata da un computer, ma un'esperienza diretta mia e dei miei collaboratori nelle varie aree, come la Camera sa bene avendo una lunga e fruttuosa collaborazione con l'Ufficio studi – che per risolvere i problemi dell'instabilità e, soprattutto, per poter affrontare i problemi non quando arrivano da noi ma dove si presentano – tenendo conto che tutte le soluzioni sono strumenti e parte di uno strumento più ampio, compreso quello militare – l'arma migliore è quella dello stato sociale.
  Andando in crisi lo stato sociale, sono diventati attori di riferimento quelli che fornivano lo stato sociale alla popolazione. Un esempio tra i più palesi, al riguardo, è il rapporto in Egitto tra la fratellanza musulmana e la struttura militare. Quest'ultima, come certamente sapete, è l'ossatura economica dell'Egitto: buona parte dell'economia egiziana è in mano ai militari, suddivisi addirittura per tipologia, nel senso che ogni forza armata si occupa di una parte precisa dell'economia.
  Nel corso degli anni la gente si è impoverita e ha cercato supporto da chi glielo poteva fornire. Si tratta di un'antica procedura che è stata seguita da altre realtà, come Hezbollah nel Libano e Hamas negli ambiti palestinesi.
  Sempre in base alla mia esperienza, posso dire che negli ultimi venti anni non ho visto un aumento forte e sensibile del numero degli islamisti – che è una cosa diversa rispetto al mondo islamico – ma ho visto l'esplosione enorme della forza di influenza di questi movimenti, che hanno coperto un vuoto e delle necessità che si manifestavano nella popolazione.
  Basti pensare che il movimento palestinese trae origini, nel profondo, da realtà cristiane, marxiste e leniniste, è quindi un mondo fondamentalmente laico. L'avvicinamento nei confronti di Hamas e di altre realtà, come adesso quelle salafite, non è dato da un cambiamento dell'anima dei Pag. 5palestinesi, ma dalla perdita del supporto di chi invece avrebbe dovuto aiutarli. Di conseguenza si rivolgono a chi ritengono e sperano possa dare loro maggiore supporto.
  Focalizzerò la mia esposizione su alcune aree del mondo che ritengo siano le più importanti per il nostro Paese (naturalmente è una visione personale): il Nord Africa, l'Africa sub-sahariana, la Siria, l'Afghanistan e, naturalmente, l'Iran. Vorrei iniziare brevemente da quest'ultimo e dalla nuova politica iraniana.
  È un dato di fatto che l'Iran è da sempre il Paese più occidentale dell'intero Medioriente e dell'Asia centrale. Noi paghiamo una politica miope che nel 1956, dopo Mossadeq, che voleva una maggiore sharing delle risorse nei confronti della popolazione, ha voluto rimettere lo Scià di Persia al governo dell'Iran; questo ha portato a un incancrenimento della situazione interna al Paese e, di fatto, nel 1979, all'arrivo di Khomeini. Il lungo periodo khomeinista è considerato ancora adesso da buona parte della società iraniana un periodo necessario ma buio.
  Il recente cambio di governo con Rohani credo che sia per tutti noi una grande opportunità, in particolare per il nostro Paese che ha sempre avuto con l'Iran relazioni eccellenti da non perdere.
  Il programma nucleare iraniano è iniziato con lo Scià di Persia, è quindi un programma di lunga datazione; le armi nucleari sono considerate un feticcio. Tenete conto che sono le uniche armi al mondo che sono state utilizzate quando non si aveva ancora idea delle conseguenze politiche dell'uso delle stesse; sono però l'unico tipo di armi che consente, per fare un esempio, a un Paese povero come l'India – le armi sono diventate parte dell'arsenale militare indiano nel 1972 e l'India del 1972 era profondamente diversa da quella attuale – di balzare di colpo nel 1972 a status di superpotenza regionale. Le armi nucleari sono, quindi, l'unico strumento che permette a una nazione, che ha mille altri problemi, di sedersi al tavolo dei grandi con una sorta di scorciatoia, se mi passate il termine.
  Il vero problema è che fino adesso noi abbiamo fallito su un punto determinante, spiegare cioè agli iraniani o far accettare loro come mai gli indiani, i nordcoreani, i pakistani, gli israeliani possano avere un'arma atomica e loro no.
  Negli incontri che ho avuto nelle scorse ore con esponenti del Governo iraniano è emerso un desiderio molto forte di scrivere nei confronti dell'Occidente una pagina nuova che possa consentire due fondamentali passi in avanti. Il primo è una normalizzazione della situazione in Libano. Il Libano è un Paese fondamentale per la stabilità del Medioriente, per la semplice ragione che in Libano sono presenti tutte le confessioni religiose, ed è un Paese che vive da sempre in una fragilissima instabilità o, secondo altri punti di vista, in un'instabilità estremamente fragile.
  In secondo luogo, gli iraniani sono disposti a venire incontro a controlli profondi e a un ritorno dell'Iran all'interno del consorzio, per così dire, dei Paesi perlomeno non distanti dall'Occidente, a patto che gli accordi possano portare a una «soluzione win-win» (cioè vincono tutti e due). Diversamente il rischio è che, se si cerca l'umiliazione dell'avversario – ma questo vale in tutti i campi – in Iran la politica di Rohani possa fallire e possano nuovamente prendere forza i movimenti estremisti che in Iran sono presenti, sono forti e hanno un'agenda politica ben diversa da quella dell'attuale Governo.
  Credo, quindi, che ci troviamo di fronte a un'apertura importante da parte iraniana, non solo perché è stata fatta, ma perché non parte dalla politica delle sanzioni, che certamente sono state durissime e avvertite dagli iraniani, bensì dal fatto che Rohani persegue questa politica da sempre, anche quando era il negoziatore degli accordi sul nucleare; stiamo parlando, quindi, di una persona che ha una sua stabilità di politica e, soprattutto, un fil rouge che segue da alcuni anni. Il problema dell'Iran è inserito in una lotta, ormai secolare, per stabilire quale sia la vera superpotenza regionale dell'area: da Pag. 6una parte c’è l'Iran sciita e dall'altra parte ci sono l'Arabia Saudita e il Qatar sunniti.
  A questo punto vale la pena definire quale sia la politica estera saudita e del Qatar. È una politica estera estremamente ambivalente: da una parte sono nostri alleati e quindi, grazie a loro, svolgiamo attività commerciali importanti, in quanto rappresentano per noi veri mercati di riferimento, assolutamente fondamentali soprattutto per le economie europee, che hanno i loro problemi; dall'altra parte, fanno una politica di lunghissimo termine.
  La crisi del sistema egiziano è stata vista dall'Arabia Saudita e dal Qatar come una grande opportunità. Un vecchio adagio arabo dice «succede prima in Egitto e poi nel resto del Medioriente», perché l'Egitto ha sempre rappresentato, per la sua storia culturale e per la sua alta burocrazia, il Paese di riferimento nell'intero Medioriente. La crisi egiziana ha rappresentato per l'Arabia Saudita e per il Qatar un'opportunità, seguita contestualmente anche in altri Paesi, come Tunisia, Libia e Siria: la capacità di supportare nel lunghissimo termine – non hanno un'urgenza immediata di capitalizzazione elettorale della loro azione politica – il loro intendimento politico, ossia la creazione di un ambito wahabita estremamente forte e coeso che guardi all'Arabia Saudita come a una potenza di riferimento.
  Nelle scorse ore, come certamente sapete, è avvenuto in Siria un fatto estremamente importante che riguarda il Free Syrian Army, l'organizzazione dalla quale era nata, come una costola dissidente dell'esercito, l'opposizione ad Assad. Chiedo scusa se userò il concetto di Islam «laico» – non esiste nell'Islam stesso, ma esistono «Islam» e «islamista» – ma mi serve per dire che si trattava di persone che avevano un approccio, nei confronti del rapporto con lo Stato, differente dai gruppi più estremisti. Ebbene, poche ore fa, il quartier generale del Free Syrian Army è caduto e il suo leader, Idris, è scappato in Qatar. Non è caduto sulla base delle spallate militari del regime di Damasco, ma sulla base degli attacchi della forza militare dei gruppi estremisti.
  In questo momento, di fatto, l'intero corpo dell'opposizione al regime di Assad in Siria è costituito da due realtà: da una parte vi sono i gruppi salafiti, che sono il Fronte islamico unito, una sorta di ombrello di piccoli gruppi; dall'altra parte vi sono il Fronte al-Nusra e dello Stato islamico dell'Iraq, cioè i gruppi qaedisti.
  Il Fronte islamico unito è supportato economicamente dall'Arabia Saudita e dal Qatar, mentre il Fronte al-Nusra e lo Stato islamico dell'Iraq sono invece gruppi qaedisti. Il Fronte al-Nusra è composto essenzialmente da siriani, mentre gli altri sono iracheni con la partecipazione entusiasta di occidentali, americani ed europei, e di ceceni. I finanziamenti dei gruppi qaedisti provengono dal racket che loro operano nel territorio o, in generale, attraverso qualche donor, ma sono meno strutturati rispetto ai movimenti salafiti che invece hanno come termine di riferimento i sauditi e il Qatar.
  Nella tarda mattinata di oggi, appena poche ore fa, sulla base di quanto avvenuto, gli americani, i francesi e i britannici hanno deciso di sospendere ogni aiuto perché si sono resi conto che in questo momento non c’è altra forza che combatta contro Assad che non sia una forza radicale.
  Non guarderei a questo, però, come a un problema; nel mio mestiere non ci sono i problemi, ma soltanto opportunità buone e meno buone. Credo che questo sia un momento importante per noi occidentali e per noi europei per pensare a due cose: in primo luogo, a quanto noi siamo interessati alla stabilizzazione di quest'area, che è nel Mediterraneo e quindi a noi italiani interessa direttamente, e inoltre alla ridefinizione di quelli che possono essere i pesi e i contrappesi nel Medioriente.
  Per fare questo è assolutamente necessario – e lo dico con il dolore che può esprimere un genovese – mettere mano al portafoglio. Basti pensare che gli Stati Uniti hanno tolto ai militari, sulla base di quanto avvenuto in Egitto, 1,5 miliardi di dollari di aiuto che i sauditi hanno sostituito con 12 miliardi di dollari. Diventa Pag. 7anche difficile fare lobbying, fare pressione, quando i termini di riferimento sono questi.
  Occorre rilevare, dall'altra parte, come sia stata estremamente pericolosa l'uscita degli Stati Uniti dal Mediterraneo. Considerate soltanto che della Sesta flotta americana – la flotta più importante che gli americani avevano nella NATO – all'inizio dell'operazione «Odyssey Dawn» in Libia gli americani avevano di fronte alle coste libiche una sola nave. L'orientamento strategico americano, infatti, è oramai dedicato ad altre aree del mondo, in particolare all'area del Pacifico e dell'Oceano Indiano.
  L'interesse americano era che il vuoto che si fosse venuto a creare avrebbe dovuto essere colmato da un riempimento europeo che, di fatto, non può essere realizzato per diverse ragioni. In primo luogo, non esistono le forze armate europee e quindi non esiste una capacità europea di esplicitare un'attività di deterrenza univoca. In secondo luogo, le Forze armate europee, semplicemente, non si possono fare finché non vi sarà una politica estera europea. Le forze armate sono infatti uno strumento della politica estera e finché avremo realtà multinazionali dove ciascuno, anche all'ultimo momento, può chiamarsi fuori, potete immaginare come questo non sia realizzabile.
  Vi invito a considerare, sulla base della coerenza europea, come dalla fine del Patto di Varsavia, cioè dal 1989 a oggi, delle operazioni che hanno visto impegnati i Paesi europei fuori dall'Europa – non mi riferisco quindi ai Balcani ma a «Desert Storm», dall'Iraq del 1990 in poi – non c’è mai stata una sola operazione in cui tutti gli europei si siano trovati d'accordo. Ogni volta che gli europei sono andati a operare fuori area, hanno operato all'interno di «ombrelli» da creare al momento.
  In alcuni casi, come per esempio l'operazione della NATO in Afghanistan, alcune nazioni europee hanno partecipato in una determinata maniera, altre nazioni europee sono andate via prima. Lo cito per dire quanto sia difficile mantenere una coesione da questo punto di vista. Naturalmente, se un Paese decide di andare via se ne vanno anche le rispettive Forze armate. Come possiamo, dunque, immaginare di pianificare o di creare le Forze armate europee se non c’è una volontà europea di avere una politica estera comune e continua ?
  Conoscete meglio di me i trend europei al riguardo. In particolare il Regno Unito – pietra angolare della difesa e della sicurezza europea – nella sua documentazione di riflessione strategica prodotta negli anni scorsi ha ufficialmente dichiarato che ogni operazione verrà fatta insieme agli Stati Uniti. La Gran Bretagna, quindi, si sposta sempre più a diventare un'importante presenza americana in Europa e non solo un Paese europeo che vuole partecipare alla costruzione della sicurezza europea.
  La situazione dell'Unione europea come capacità di esplicitare risorse in missioni di stabilizzazione è dunque questa. Continuo a parlare di missioni di «stabilizzazione» e non di «pace», perché se fossero missioni di pace manderemmo probabilmente i boy scout e non gente con i fucili. Mi rendo conto, tuttavia, che l'espressione «missioni di pace» è più facilmente comprensibile per il largo pubblico.
  Sono stato un forte critico – e sono lieto che non si sia ingenerata una crisi più accelerata – di quello che rischiava di essere l'intervento occidentale in Siria. La Siria rischiava di divenire una seconda Libia. La Libia in questo momento è un Paese dove il potere centrale ha una disperata necessità di essere in grado di gestire sul terreno un minimo di risorse. Bande di milizie libiche tengono di fatto in ostaggio lo Stato, perché l'operazione in Libia è stata fatta sotto il profilo militare e non invece all'interno di una strategia assolutamente politica che doveva immaginare un Paese diverso e dare supporto alle fragilissime realtà locali per poter avere, dopo, un minimo di autorevolezza.
  Sarò molto chiaro con gli onorevoli deputati del Movimento 5 Stelle nell'affermare che la strada, a mio avviso, non è quella di non partecipare alle missioni di stabilità; significherebbe soltanto mettere Pag. 8la testa sotto la sabbia e lasciar passare i problemi. Vorrei dire inoltre che, secondo me, è folle – e sotto alcuni punti di vista rischia di diventare anche ipocrita – immaginare di focalizzarsi sui problemi di casa nostra, avendo gravi problemi di vario genere, soprattutto economico e sociale, e poi in una seconda fase affrontare i problemi delle relazioni internazionali.
  Nessuno sa più di voi quanto significhi ormai vivere in un mondo totalmente interconnesso: se perdiamo campo per cinque minuti siamo terrorizzati. Il mondo vive oggi attraverso la teoria che un battito di ali in Cina può provocare uno sconvolgimento nel Mediterraneo, quindi la vera soluzione è cercare di mediare le proprie risorse, ma essere sempre più partecipi alle attività internazionali, cercando naturalmente di porre dei punti. Va bene partire, essere presenti, ma occorre conoscere il punto finale, non quando finirà la missione ma lo scopo che ci vuole vedere partecipi.
  Fra poche ore tornerò per l'ennesima volta in Afghanistan, un Paese nel quale mi reco con grande frequenza. Tra pochi mesi, ad aprile, in Afghanistan si volgeranno le elezioni. L'Afghanistan è stata un'operazione di grande successo, lo dico sinceramente. Pensate soltanto che ci sono migliaia di persone che hanno accesso allo studio e alla possibilità di curarsi anziché morire all'interno di un villaggio. Ci sono migliaia di persone che circolano all'interno dell'Afghanistan facendo commerci leciti, e ciò comporta anche circolazione di idee, di cultura e via dicendo.
  Immaginare che nell'arco di dieci anni, con politiche occidentali che cambiano frequentemente, di fronte a un Paese che non ha il concetto di pace – voi sapete cos’è la pace, la pace per tutti noi è l'assenza della conflittualità, ma chi nasce e per trenta anni vive in guerra non ha l'idea di pace e pensa che quella sia la normalità – si possa passare dallo stato di controllo tribale della microrealtà ai signori della legge di Philadelphia, «We the people», mi sembra estremamente difficile. Ci vuole anche un po’ di realpolitik da parte di tutti noi.
  Se mi si chiede se in Afghanistan continuano a esserci dei problemi, rispondo assolutamente di sì, anche perché all'Afghanistan manca il mare. Il mare è lo sbocco attraverso il quale un Paese può essere indipendente. Un Paese che è circondato da altre nazioni ovviamente dipende dai voleri, dalle necessità e dalle influenze delle altre nazioni (a eccezione della Svizzera, ma quello è un caso del tutto particolare).
  All'interno dell'Afghanistan si giocano partite molto ampie: le partite dell'Uzbekistan, del Tajikistan, dell'Iran e anche, fondamentalmente, del Pakistan, almeno finché non si arriverà a una politica di normalizzazione dei rapporti tra India e Pakistan. Anche in questo caso, io e i miei collaboratori siamo stati ospiti per un'intera giornata del servizio segreto pachistano a Rawalpindi, il famoso ISI (Inter-Services Intelligence), e in uno scambio di punti di vista con gli analisti di questo servizio di intelligence è emerso che per loro il problema è: India, India, India.
  Non parlerò dell'India perché, conoscendo la vicenda che riguarda i nostri due fucilieri di Marina, non ho molte parole.
  Sicuramente il problema India-Pakistan è una delle chiavi di volta per risolvere il problema afgano. L'assenza di una politica statunitense coerente (purtroppo gli Stati Uniti non l'hanno avuta negli ultimi anni, e anche questo è un dato di fatto) certamente rappresenta un problema.
  Vorrei dire che sono stato molto lieto che il nostro Paese abbia fatto, in tempi recenti, una cosa secondo me straordinaria: mi riferisco all'operazione «Mare Nostrum». Molti immaginano che l'operazione «Mare Nostrum» sia frutto di una scelta dell'attuale Governo. Tecnicamente lo è, ma in realtà essa è figlia del fatto che siamo italiani. Magari qualcuno di voi non ricorda, ma vi è una sorta di fil rouge che lega le nostre azioni.
  Nel 1975 eravamo nel pieno della guerra fredda, nell'epoca totale e assoluta della cosiddetta «dottrina Breznev», e le Forze armate italiane, con le Forze armate della NATO, dovevano quotidianamente Pag. 9fronteggiare possibili rischi provenienti dal Patto di Varsavia. La nostra Marina militare, ad esempio, in quel caso non era in attesa di svolgere attività operativa, ma era costantemente impegnata nell'ombreggiare e nel seguire la V Eskadra sovietica che era di stanza nel Mar Nero, quindi attività pregnante per l'Alleanza atlantica.
  Ebbene, nel 1975, di fronte a un dramma umanitario come quello dei boat people vietnamiti, il nostro Paese – parlo di un'epoca assai precedente a quella del dibattito su bipolarismo perfetto o imperfetto – ha deciso di inviare la flotta nel Mar Cinese Meridionale, che allora non era certamente quello di adesso, un'area cioè dove si giocano degli interessi ai quali naturalmente anche il nostro Paese è partecipe, sia per le vicende legate agli idrocarburi, sia perché l'Asia è il futuro delle soluzioni ma anche di alcuni problemi. Credo che questo sia stato un fatto molto positivo, perché una nazione non si può permettere di lasciar morire quotidianamente centinaia di persone.
  Ci sono cose che certamente potremmo fare meglio. Sempre da genovese rilevo, ad esempio, come ci sia una eccessiva dispersione di risorse anche nel cercar di fare del bene e che quindi di fatto ci sia la necessità di implementare il cosiddetto DISM (Dispositivo integrato di sorveglianza marittima), che dovrebbe vedere maggiori partecipazione e coordinamento da parte della Marina militare e dei tanti che vanno per mare. Di fatto, i campanili non sono soltanto per terra, sono anche in mezzo al mare. È un problema di gestione delle risorse e speriamo che al più presto questa circostanza possa risolversi.

  PRESIDENTE. Devo frenare questo lungo viaggio nel mondo perché i nostri orari sono rigidi.

  ANDREA MARGELLETTI, Presidente del Centro studi internazionali (Ce.S.I.). Concludo rapidamente. Corriamo il rischio di trovarci, in Africa sub-sahariana, davanti a quello che già di fatto è presente in Yemen e in alcune aree del Mali, cioè l'arma più pericolosa che sta utilizzando Al-Qaeda: i sindaci. L'evoluzione di Al-Qaeda sta portando alla gestione del territorio, proprio perché, come vi dicevo all'inizio, stanno utilizzando lo stato sociale come strumento.
  Dobbiamo iniziare a pensare che la pressione dell'immigrazione clandestina, il traffico di armi e di droga sono gestiti da queste realtà che lo fanno come metodo di pressione politica e come metodo militare. È per questo che dobbiamo guardare al Nord Africa e all'Africa sub-sahariana come la frontiera dei nostri problemi.
  Non dobbiamo più pensare alle frontiere nazionali come limite dei nostri interessi, ma dobbiamo pensare che quegli interessi devono essere difesi, secondo me, dove si manifestano le criticità.

  PRESIDENTE. Do ora la parola agli onorevoli colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  ANDREA MANCIULLI. La ringrazio per quanto ci ha riferito, lo condivido in larga parte. Vorrei concentrarmi su due questioni.
  Condivido l'analisi sull'evoluzione soprattutto della pressione salafita in alcuni Paesi. Ho partecipato a una missione parlamentare in Egitto, durante la quale abbiamo incontrato esponenti del partito al-Nusra; anche il loro aspetto dimostrava quanto ci fosse una stretta dipendenza soprattutto con l'Arabia Saudita. Lo stesso fenomeno è in atto in Tunisia.
  Ormai è chiaro che c’è un meccanismo nel quale si sviluppa un welfare di base che finanzia il movimento; non si capisce bene qual è il livello di contiguità fra il movimento di base e spesso le organizzazioni terroristiche. È evidente che questo è il tema che, secondo me, si pone dopo la riuscita militare della missione in Afghanistan, che di fatto ha rotto quel sistema che faceva dell'Afghanistan il perno centrale di un Al-Qaeda piramidale, trasformando sostanzialmente Al-Qaeda in un fenomeno più disperso sul territorio, ma non meno pericoloso.
  Da questo punto di vista, penso che la priorità assoluta per noi sia la questione Pag. 10libica, perché è evidente che le bande armate libiche e il loro rapporto con i movimenti dei predoni nel deserto, ormai difficilmente distinguibili – guardando i rapimenti che ci sono stati, spesso sono rapimenti fatti dai predoni e l'ostaggio viene passato o venduto alle bande armate, quindi c’è un fenomeno di contiguità – fanno di quella parte del deserto il nuovo possibile hub di una minaccia verso l'Europa.
  Al riguardo, poiché quella zona è veramente alle nostre porte, l'Europa, se vuole che questa minaccia non si sviluppi, deve porsi il problema del disarmo di quelle bande. La strategia, che è stata ribadita anche la scorsa settimana dalla National Defence University, di puntare tutto sulle nuove forze armate libiche e sulla stabilità del Governo libico a mio avviso non è efficace. È evidente che bisogna pensare a come l'Europa si occupa di quel problema specifico, perché a mio avviso è il più imminente.
  In secondo luogo, noi ci avviamo verso il Consiglio europeo sulla sicurezza, che finirà per essere una cosa abbastanza ordinaria. Penso che abbiamo mancato un'occasione perché alla fine sono due i fattori principali che non rendono la difesa europea nemmeno nella possibilità di avere un barlume di indipendenza: il tema della sorveglianza satellitare aerea, riguardo alla quale né in Libia, né in Mali, pure intervenendo come Stati europei, c’è stata una nostra indipendenza, poiché senza l'aiuto americano non si sarebbe intervenuti; il tema del rifornimento in volo, che non rende la difesa europea capace di intervenire.
  L'Italia dovrebbe battersi, a mio avviso, se vuole essere efficace, per una difesa europea. Per la vicenda degli F35, ad esempio, come anche per altre vicende, si finisce sempre con l'invocare la difesa europea che, in realtà, non esiste. Invece di continuare a dire banalità, che è un modo per buttare la palla in calcio d'angolo, bisognerebbe che partisse una spinta e credo che noi dovremmo approvare nelle prossime settimane un documento di indirizzo affinché queste due cose siano al centro delle decisioni che l'Europa produce. Sono infatti i due elementi che possono costituire un primo embrione di ruolo. Del resto, gli americani non hanno soltanto deciso di ritrarsi, ma hanno già cominciato a farlo e ci chiedono esattamente questo per avviare una strategia intelligente.
  Da questo punto di vista, credo che il ruolo dell'Italia potrebbe essere meno filosofico e più fattivo. Spero di essere stato chiaro.

  PRESIDENTE. Do la parola al presidente Margelletti per la replica.

  ANDREA MARGELLETTI, Presidente del Centro studi internazionali (Ce.S.I.). Riguardo al primo punto, la presenza salafita è una presenza importante e l'Italia vuole giocare un ruolo in Libia, e non soltanto. Se ci sono due aree che, secondo me, sono fondamentali per l'Italia sono la Libia e il Corno d'Africa e la Somalia, laddove il movimento qaedista di Al-Shabaab di fatto sta già gemmandosi in Uganda e in Ruanda, fino a toccare quella che viene considerata una sorta di «dorsale verde» che dall'Africa occidentale arriva all'Africa orientale.
  Queste sono le due aree fondamentalmente importanti per noi. Peraltro, la Libia non ha neanche bisogno di soldi, ma ha bisogno di un forte supporto politico, in assenza del quale le istituzioni libiche sono assolutamente in preda alle bande dei miliziani, compresi quelli di Misurata che qualche settimana fa, come ricorderete, si sono resi responsabili di terribili crimini sparando sui civili.
  I finanziamenti si trovano. Noi abbiamo un atteggiamento che forse è in parte frutto dei nostri ricordi degli anni ’70: per noi il terrorista è, tranchant, un uomo che ha una visione esclusivamente politica e basta. In realtà, in questa area del mondo l'interesse commerciale è assolutamente connesso all'attività di questi gruppi.
  In Iraq – ci sono stato più di quaranta volte durante la presenza italiana, ma più che a Nassiriya ero a Baghdad, nel Nord Pag. 11dell'Iraq, a parlare con le realtà locali – i soldi dei rapimenti servivano ai gruppi non per comprare le armi, perché le armi si trovano, ma per creare supporto attraverso lo Stato sociale. I soldi servono per far sentire meglio la popolazione, quindi immediatamente acquisire autorevolezza.
  La grande battaglia italiana in Libia non è una battaglia esclusivamente di intelligence, che facciamo anche bene, peraltro, ma è una battaglia di presenza politica. Tutti sapete quanto, per tradizione, la politica italiana viaggi poco o, perlomeno, viaggi molto in posti dove tradizionalmente siamo sempre andati. La Libia però rappresenta un problema: il Sud della Libia di fatto non c’è più; i gruppi qaedisti, salafiti e jihadisti si sono spostati dal Mali a seguito dell'operazione francese e sono entrati nel Sud della Libia che ormai non è più gestito, ammesso e non concesso che sia gestito bene il Sud dell'Algeria, ma si tratta di un'altra partita.
  Se voi, come politica, sarete in grado e avrete la volontà di investire in termini politici sulle istituzioni locali, non chiedendo la luna, ma dando loro quei cinquanta-sessanta anni di tempo che sono necessari per iniziare a guardarsi intorno – non possiamo chiedere loro di diventare come noi nell'arco di quindici giorni, perché è semplicemente impossibile, e se lo dicono è solo una bugia – sarà sicuramente un fatto positivo.
  Per quanto riguarda la difesa europea, lei parla bene di satelliti, di rifornimenti in volo e, aggiungerei, di trasporto, altrimenti non si va da nessuna parte. Mi trovo ovviamente d'accordo con lei, onorevole Manciulli. Una vecchia battuta che faccio sempre quando mi capita di avere, come oggi, il privilegio di parlare, recita che il ristorante lo sceglie chi paga il conto. Noi vogliamo che gli americani siano più forti perché, di fatto, noi abbiamo scelto di spendere di meno. Se spendiamo di meno, però, avremo anche meno risultati.
  Una politica estera europea, non certamente unica – non vedo ancora gli Stati Uniti d'Europa di fronte a me – ma che sia in grado di definire con una cabina di regia almeno le aree di competenza, può permettere a una nazione di focalizzarsi su una serie di investimenti piuttosto che essere tutti a comprare tutto, ma a comprare poco. Vi ringrazio.

  PRESIDENTE. Ringrazio il professor Margelletti e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 15.