XVII Legislatura

I Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 6 di Mercoledì 2 dicembre 2015

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA GESTIONE ASSOCIATA DELLE FUNZIONI E DEI SERVIZI COMUNALI

Audizione di rappresentanti della Conferenza delle regioni.
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 3 
Reschigna Aldo , Coordinatore vicario della Commissione affari costituzionali e generali della Conferenza delle regioni e delle province autonome ... 3 
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 5 
Fabbri Marilena (PD)  ... 5 
Gasparini Daniela Matilde Maria (PD)  ... 6 
Cecconi Andrea (M5S)  ... 6 
Mucci Mara (Misto)  ... 6 
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 6 
Reschigna Aldo , Coordinatore vicario della Commissione affari costituzionali e generali della Conferenza delle regioni e delle province autonome ... 6 
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 8 

Audizione del sottosegretario di Stato agli affari regionali, Gianclaudio Bressa:
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 8 
Bressa Gianclaudio (PD) , Sottosegretario di Stato agli affari regionali ... 8 
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 13 
Cecconi Andrea (M5S)  ... 13 
Piccione Teresa (PD)  ... 14 
Gasparini Daniela Matilde Maria (PD)  ... 15 
Fabbri Marilena (PD)  ... 16 
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 16 
Bressa Gianclaudio (PD) , Sottosegretario di Stato agli affari regionali ... 17 
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 19

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: (FI-PdL);
Area Popolare (NCD-UDC): (AP);
Sinistra Italiana-Sinistra Ecologia Libertà: SI-SEL;
Scelta Civica per l'Italia: (SCpI);
Lega Nord e Autonomie - Lega dei Popoli - Noi con Salvini: (LNA);
Per l'Italia-Centro Democratico: (PI-CD);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-Alleanza Liberalpopolare Autonomie ALA-MAIE-Movimento Associativo italiani all'Estero: Misto-ALA-MAIE;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI;
Misto-Alternativa Libera-Possibile: Misto-AL-P;
Misto-Conservatori e Riformisti: Misto-CR;
Misto-USEI (Unione Sudamericana Emigrati Italiani): Misto-USEI.

Testo del resoconto stenografico
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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE ANDREA MAZZIOTTI DI CELSO

  La seduta comincia alle 14.10.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata attraverso la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti della Conferenza delle regioni.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla gestione associata delle funzioni e dei servizi comunali, di rappresentanti della Conferenza delle regioni.
  Sono presenti il dottor Aldo Reschigna, Coordinatore vicario della Commissione affari costituzionali e generali della Conferenza delle regioni e delle province autonome; la dottoressa Sonia Palmeri, assessore al lavoro e alle risorse umane della regione Campania; il dottor Antonio Sorrentino, il dottor Paolo Alessandrini, la dottoressa Alessia Grillo, il dottor Stefano Mirabelli e il dottor Giuseppe Schifini.
  Do la parola al dottor Reschigna per lo svolgimento della relazione.

  ALDO RESCHIGNA, Coordinatore vicario della Commissione affari costituzionali e generali della Conferenza delle regioni e delle province autonome. Cerco di sintetizzare il documento della Conferenza delle regioni e delle province autonome che lasceremo agli atti della Commissione, assieme a un report relativo all'indagine conoscitiva che abbiamo condotto in tutte le regioni – ne mancano due e ci riserviamo di integrare – relativamente allo stato di attuazione delle gestioni associate.
  In sintesi, le considerazioni che la Conferenza delle regioni intende porre come proprio contributo ai lavori della Commissione sono queste. Il primo elemento che vogliamo mettere in evidenza è che stiamo assistendo a un'applicazione fortemente disomogenea, sia sul territorio nazionale sia all'interno di ciascuna regione, delle tematiche contenute nella legge Delrio relativamente alla gestione associata delle funzioni fondamentali.
  In questa lettura di forte disomogeneità riassumiamo elementi positivi ed elementi di forte criticità. Gli elementi positivi sono certamente rappresentati dal fatto che in molte regioni i comuni, sostenuti e incentivati non solamente dalla normativa statale ma anche dalle normative regionali, stanno compiendo uno sforzo teso ad assumere processi di fusione, che comprendono anche l'uso dell'ultimo strumento che la legge Delrio ha introdotto e cioè la fusione per incorporazione. Lo consideriamo un fatto positivo perché per molti anni questo tema ha rappresentato un tabù per le amministrazioni comunali.
  Il secondo elemento è che siamo in presenza di forme associative che sono state costituite, stanno operando e cercano di mettere al centro delle proprie attività lo sforzo della riorganizzazione di funzioni in una dimensione intercomunale piuttosto che comunale.
  Il terzo elemento, che invece è di forte criticità, è il fatto che in troppi casi – è un Pag. 4dato che riguarda probabilmente la generalità delle regioni – si tratta di un mero adempimento formale rispetto alla legge. Molte forme associative, infatti, siano esse unioni di comuni siano esse basate su convenzioni, rappresentano un mero obbligo in adempimento a una norma di legge, ma non contengono elementi di riorganizzazione delle funzioni della dimensione comunale.
  Questo si accompagna a un'altra criticità, che viene in parte rappresentata nel report che lasceremo agli atti della Commissione, e cioè l'estrema fragilità e vulnerabilità delle forme associative che si sono costituite. È sufficiente un cambio di amministrazione per rimettere in discussione la scelta di moltissimi comuni di aderire a un'unione piuttosto che a una convenzione.
  In sintesi, il dato più evidente che leggiamo nelle legislazioni regionali assunte per applicare la legge Delrio in materia di riorganizzazione della legislazione regionale sulle province entro la fine dell'anno è che quasi tutte le leggi regionali, proprio per questa fragilità e forte disomogeneità, hanno affrontato il riordino delle funzioni decentrate alle province unicamente in un rapporto tra regioni e province.
  Benché previsto dalla stessa legge Delrio, non c’è stato né sarebbe stato possibile attuare un principio di sussidiarietà verticale tale da delegare alcune funzioni amministrative, in precedenza attribuite alle province, anche al sistema dei poteri locali nella forma della gestione associata. Questo non è stato possibile nella maggior parte delle regioni italiane a causa della grande fragilità, vulnerabilità e disomogeneità che il sistema oggi evidenzia.
  Le questioni che poniamo all'attenzione della Commissione nell'ambito di questa audizione sono, in primo luogo, l'esigenza, emersa nel lavoro che tutte le regioni portano avanti con il sistema degli enti locali, di trovare soluzioni diverse. Parlare di funzioni fondamentali pone il problema di raccordare i comuni, il sistema delle gestioni associate e la normativa complessiva relativamente, ad esempio, all'ordinamento contabile introdotto dal decreto legislativo n. 118 del 2011, dove non parliamo di funzioni ma di servizi, programmi e missioni. Può sembrare banale, ma è un elemento di forte complicazione nel rapporto fra i bilanci dei comuni e i bilanci delle forme associative, che hanno parametri di riferimento completamente diversi.
  In secondo luogo, un ruolo più forte delle regioni, in rapporto con gli enti locali, nella determinazione degli ambiti territoriali agevolerebbe moltissimo il processo di costruzione di sistemi di poteri locali meno frammentati, meno disomogenei e quindi più forti e capaci. Portiamo come esempio il fatto che, quando le regioni, all'interno della propria legislazione, affrontano temi rilevanti, come la gestione delle politiche sociali, la gestione dei rifiuti, la gestione del ciclo idrico integrale, e lo fanno definendo nella propria programmazione ambiti territoriali ottimali, questi ambiti territoriali ottimali reggono alla prova del tempo e producono fattori positivi o sul piano del contenimento dei costi, perseguendo obiettivi di efficienza ed efficacia, o sul piano del diritto all'esigibilità del servizio per una pluralità di persone, indipendentemente dalla loro appartenenza alle aree urbane o alle aree a dispersione territoriale e demografica.
  Un ruolo più forte affidato alle regioni, anche nel solco delle riflessioni in corso sulla riforma del Titolo V della Costituzione, è auspicato dalle regioni ed è considerato dalle regioni un fattore positivo, che metterebbe il legislatore regionale, nel rapporto con il sistema dei poteri locali, in condizione di evitare le criticità che abbiamo cercato di rappresentare.
  In terzo luogo, il sistema ha bisogno di certezze. Continuare a utilizzare le proroghe e a differire i tempi di entrata in vigore dell'obbligo della gestione associata delle funzioni fondamentali crea una diffusa cultura di non adempimento alle previsioni della legislazione nazionale.
  In quarto luogo, la disomogeneità è dovuta anche alla separazione tra i comuni Pag. 5fino a 3.000 abitanti in montagna e fino a 5.000 abitanti in pianura, che sono obbligati, e i comuni di media composizione demografica. Questa separazione crea «buchi» territoriali e impedisce di porre al centro dello sforzo di costruzione delle gestioni associate tra i comuni le relazioni economiche, il sistema dei servizi e la rete dell'infrastrutturazione all'interno di ambiti territoriali.
  Questa separazione così netta tra comuni obbligati e comuni non obbligati impedisce di fatto la costruzione di ambiti territoriali ottimali omogenei. L'omogeneità non è data dalla sommatoria di confini amministrativi. È data dal tentativo di porre al centro dello sforzo di costruzione di un'organizzazione dei poteri locali più efficiente e più moderna le relazioni e non solamente le soglie demografiche.
  Sotto questo aspetto, un più ampio intervento legislativo da parte delle regioni potrebbe consentire di introdurre elementi di flessibilità all'interno del sistema. Il nostro auspicio non è estendere l'obbligatorietà, ma ottenere strumenti che consentano la costruzione, nella dimensione locale, di processi che abbiano questa capacità e questa forza.
  Vi sottoponiamo un'ultima riflessione. Anche prima dell'entrata in vigore della legge Delrio, mediante alcuni interventi sono state eliminate dall'ordinamento – sopravvive solamente una norma di natura straordinaria che riguarda i consorzi di servizi sociali – tradizionali e funzionanti forme di gestione associata fra i comuni come quella del consorzio. L'individuazione della dualità unione di comuni/convenzione ha determinato una rigidità.
  Mentre nella dimensione consortile, all'interno di un ambito territoriale ottimale adeguato, al centro del quale si poneva il sistema delle relazioni e non la scala demografica, entravano comuni piccoli, comuni medi e comuni più importanti, creando effettive sinergie in termini di contenimento dei costi o di estensione dei diritti sul piano dei servizi alla complessità della popolazione, questo dualismo rappresentato da unioni di comuni e convenzioni ha creato una rigidità che non aiuta il processo costitutivo.
  L'ultima riflessione che vorrei proporre riguarda il tema delle convenzioni. La convenzione non solo è uno strumento difficile da valutare, soprattutto rispetto agli effettivi risparmi ed efficienze che raggiunge, ma è anche uno strumento che rischia di essere utilizzato dai comuni, in particolare da quelli che non accettano la sfida della gestione associata nell'unione di comuni, più per un obbligo formale – torno alla considerazione iniziale – che per un obbligo sostanziale. Riteniamo che questo non sia un fatto positivo.
  Queste sono in sintesi le riflessioni e le proposte della Conferenza delle regioni. Tra queste ribadisco un'esigenza molto forte. Laddove c’è stato un intervento del legislatore regionale teso all'individuazione di ambiti territoriali ottimali – ho fatto riferimento al ciclo idrico integrale, ai rifiuti, ai consorzi dei servizi sociali –, si sono raggiunti risultati importanti o sotto il profilo dell'efficienza o sotto il profilo dell'estensione del diritto all'esigibilità dei servizi.
  Senza un ruolo più forte delle regioni temiamo che il sistema dei poteri locali si assesti più sul piano di una risposta formale che sul piano di una risposta sostanziale.

  PRESIDENTE. Ringrazio i nostri ospiti e do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  MARILENA FABBRI. Faccio una domanda provocatoria ai rappresentanti della Conferenza delle regioni. Le osservazioni che sono state svolte rispetto ai punti di forza e di criticità personalmente le condivido e sono ricorrenti nelle audizioni che abbiamo fatto fino ad ora.
  Mi sorprende sinceramente il fatto che le regioni rivendichino maggiori poteri legislativi. Non tanto la legge Delrio, ma la legge Monti, quella che ha dato il via all'obbligo delle unioni dei comuni sotto i 5.000 abitanti, prevedeva vincoli a carico Pag. 6della legislazione regionale. Era compito delle regioni definire gli ambiti ottimali di formazione delle unioni dei comuni, tant’è che alcune regioni questo lavoro lo hanno fatto e non si sono limitate a organizzare le unioni tra i comuni soggetti all'obbligo, ma addirittura hanno imposto un riordino istituzionale all'intero territorio regionale, a prescindere dalle dimensioni demografiche. Hanno fatto quello che oggi chiedete e che anche i comuni rivendicano.
  Anche ANCI è venuta qui a dirci che il criterio demografico è limitativo e non tiene conto dei confini con comuni grandi, che impediscono ai piccoli di unirsi per mancanza di continuità territoriale. ANCI ritiene che sarebbe opportuno ragionare in termini di ambiti ottimali omogenei, tenendo in piedi diversi criteri, tra cui anche quelli di tradizione e di gestione associata in altri ambiti.
  Mi fa specie che chiedano questo le regioni. La regione ha la potestà legislativa concorrente e aveva un obbligo previsto dalla legge Monti. Mi chiedo, quindi, perché non abbia esercitato questa potestà. Se siamo in questa condizione di disomogeneità e l'obbligo è interpretato in modo formale anziché come opportunità sostanziale per rafforzare la capacità di governo dei territori, è a causa dell'inerzia delle regioni o, in alcuni casi, di un'interpretazione formale dell'obbligo e dei compiti regionali attuata dalle regioni stesse.

  DANIELA MATILDE MARIA GASPARINI. Ho una domanda da porre. Visto che si sta ragionando di gestione associata e di semplificazione del sistema degli enti locali dentro uno scenario di cambiamento costituzionale e visto che uno dei temi importanti per la futura organizzazione dello Stato è il superamento delle province in direzione delle aree vaste, mi domandavo se come Conferenza abbiate avviato una discussione.
  L'ANCI è venuta a proporci un meccanismo per la definizione delle unioni dei comuni diverso, che esautora le regioni, ma la riforma costituzionale in atto dice che il Parlamento dovrà indicare alcune iniziative, che le regioni sostanzialmente avvieranno. Vorrei sapere se state ragionando e se questo percorso potrebbe dare risposta alle questioni che lei molto puntualmente ha indicato e che condivido.

  ANDREA CECCONI. La mia, più che una domanda, è una richiesta di chiarimento. Faccio una piccola premessa. Quando ero fuori dal Parlamento non riuscivo assolutamente a capire e adesso che sono qui faccio ancora più fatica a comprendere perché qualcuno fa una legge e nessuno la applica, la rispetta o la fa rispettare. Si scrivono tanti fogli di carta, ma non si riesce a risolvere la situazione. È un problema italiano, lo sappiamo, ma non è una giustificazione al fatto che si facciano le proroghe.
  Detto questo, come diceva la collega Gasparini, l'ANCI si è presentata in Commissione con un progetto abbastanza delineato e una richiesta molto specifica, condivisibile o meno, ma sulla quale si può discutere. Invece io non riesco a comprendere che cosa le regioni stiano chiedendo in questo momento, se non il fatto che vogliono l'autonomia per gestire gli ambiti in maniera più ampia.
  Se poteste circoscrivere quello che chiedete, avremmo un'idea più chiara.

  MARA MUCCI. Lei ha parlato di obbligo in capo ai comuni sotto il profilo demografico, ma auspica strumenti diversi che consentano processi di aggregazione degli ambiti comunali.
  Vorrei sapere se avete qualche idea in merito.

  PRESIDENTE. Do la parola ai nostri ospiti per la replica.

  ALDO RESCHIGNA, Coordinatore vicario della Commissione affari costituzionali e generali della Conferenza delle regioni e delle province autonome. Parto dalle questioni più semplici per poi arrivare alle questioni più complesse.Pag. 7
  Per quanto riguarda area vasta e ruolo delle regioni, il panorama che emerge dalle leggi regionali attuative della legge Delrio è un po’ disomogeneo. Ci sono regioni che hanno affrontato il riordino delle funzioni amministrative tra regione e province già ponendosi la questione della collocazione del soggetto di area vasta a valle della riforma del Titolo V della Costituzione.
  Piemonte ed Emilia-Romagna sono le due regioni che conosco. Io sono vicepresidente della regione Piemonte e all'interno della legge regionale di riordino si è immaginato quale fosse il soggetto di area vasta e quali i confini degli ambiti territoriali adeguati, confini che non coincideranno con gli attuali confini amministrativi delle province, a valle della riforma del Titolo V della Costituzione. Ci sono regioni che invece hanno ritenuto di dividere il percorso in due fasi, ponendosi nell'immediato il problema del riordino delle funzioni amministrative e successivamente affrontando il tema dell'area vasta.
  Tutte le regioni sono però consapevoli che, a valle della riforma del Titolo V della Costituzione, il soggetto di area vasta non potrà essere rappresentato dalla riproposizione degli attuali confini amministrativi delle province. Credo che tutte stiano lavorando in questa prospettiva e in questa logica.
  È vero che la legge del Governo Monti poneva obblighi di intervento, ribaditi dalla legge Delrio, in capo alla regione. Tuttavia, voglio evidenziare un fatto tra i tanti. Laddove un comune non sceglie di aderire a un'unione di comuni o a una convenzione per la gestione associata delle funzioni fondamentali, la regione non può intervenire. Questo è presente dappertutto nel sistema dei poteri locali ed è un fattore di disomogeneità sotto il profilo territoriale. La scelta è demandata a un intervento che non è quello della regione.
  Condivido il fatto che molte legislazioni regionali hanno affrontato il tema dell'applicazione della legge Delrio unicamente in termini di abbassamento della soglia demografica dei comuni obbligati alla gestione associata, ma questo è legato a una particolarità. Il sistema, infatti, è molto diverso da regione a regione.
  Io sono vicepresidente del Piemonte, una regione che ha 1.206 comuni. Dopo la Lombardia, è la regione d'Italia con il maggior numero di comuni. Avere 1.206 comuni, il 90 per cento dei quali è sotto i 5.000 abitanti, pone il problema di un trattamento diverso delle realtà territoriali. In montagna, dove prevalgono ancora comuni di 100, 200, 150 abitanti o a volte anche sotto i cento abitanti, è già uno sforzo importante raggiungere le soglie demografiche minime stabilite dalla legislazione nazionale e dalla legislazione regionale. In pianura il ragionamento è diverso.
  La rivendicazione delle regioni non è alibi rispetto a quello che abbiamo fatto o non abbiamo fatto nel passato. In questa riflessione critica c’è il tema, che affrontiamo volentieri, della rivisitazione delle legislazioni regionali in questa materia, ma c’è sostanzialmente una questione. Può un intervento legislativo nazionale affrontare le diversità dei sistemi territoriali ? Noi crediamo di no e riteniamo che gli strumenti in capo alle regioni, sulla base sia della legge del Governo Monti sia della legge Delrio, siano limitati.
  Abbiamo cercato e stiamo cercando tuttora, nell'ambito delle rispettive regioni, di favorire e di premiare, anche con strumenti incentivanti, le gestioni associate effettive, che non corrispondono a un obbligo formale ma a un obbligo sostanziale. Analoga riflessione critica andrebbe fatta anche dalle associazioni dei comuni, che non hanno svolto un grande ruolo nella costruzione di un substrato culturale tra gli amministratori locali su questa materia e su questo ambito. Hanno lasciato alla volontarietà delle singole amministrazioni una decisione che invece era di importanza strategica.
  Non sono qui per riproporre un conflitto che non ci interessa, non è positivo e soprattutto prefigura un futuro di contrapposizione tra i comuni e le regioni. Io credo che dobbiamo attuare le riforme e che ciascuno debba tenere un atteggiamento Pag. 8di leale collaborazione tra istituzioni per chiudere questa grande cesura tra la volontà del legislatore e l'effettiva applicazione di questa volontà nel reale.
  Sono qui a dire e ribadire, per conto delle regioni, che laddove il legislatore nazionale fornisse al legislatore regionale strumenti effettivi – ho fatto riferimento ai consorzi dei servizi sociali, alle autorità d'ambito sui rifiuti e alle autorità d'ambito sul ciclo idrico integrale – saremmo in grado di mettere in atto pratiche positive, anche nel rapporto con i comuni.
  Questo è ciò che vogliono e rivendicano le regioni. C’è un'altra riflessione che proponiamo. L'ho proposta nel mio intervento e la proponiamo nel documento che lasciamo agli atti della Commissione. Ampliare il numero degli strumenti, affiancando a unioni dei comuni e convenzioni il consorzio tra i comuni, lo strumento che consente, senza alcuna perdita di autonomia per i comuni medio-grandi, di mettere insieme piccole dimensioni demografiche, medie dimensioni demografiche e grandi dimensioni demografiche in nome dell'appartenenza di tutte queste realtà a un ambito territoriale dove prevalgono e sono forti le relazioni tra comunità più che tra amministrazioni, dal nostro punto di vista potrebbe aiutare a superare alcune rigidità e difficoltà che certamente sono state evidenti nel passato.
  Questo è il senso di ciò che vogliamo esprimere e ribadire.

  PRESIDENTE. Ringrazio gli intervenuti e dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione del Sottosegretario di Stato agli affari regionali, Gianclaudio Bressa.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla gestione associata delle funzioni e dei servizi comunali, del Sottosegretario di Stato agli affari regionali, Gianclaudio Bressa.
  Do subito la parola al Sottosegretario per lo svolgimento della relazione.

  GIANCLAUDIO BRESSA, Sottosegretario di Stato agli affari regionali. Grazie, presidente. Credo che l'iniziativa, assunta dalla Commissione affari costituzionali della Camera, di fare un'indagine conoscitiva su un tema così cruciale per l'architettura istituzionale del Paese sia estremamente positiva. Credo anche che le audizioni che sono state svolte fino ad ora possano essere di grande utilità per affrontare questo tema con un altro intendimento politico e con un approccio politicamente e culturalmente diverso da quello che, nel corso di questi ultimi anni, oramai decenni, la legislazione ha riservato al tema.
  Parto da un'affermazione tendente a chiarire che cosa io personalmente intenda per autonomia. Parto dal presupposto che autonomia è differenziazione. C’è un'espressione, usata dal professor Roberto Bin, che mi pare estremamente significativa per definire questa visione dell'autonomia: «la diversità sta all'autonomia come l'identità personale sta alla libertà individuale». Differenziazione, allora, non è solo una dimensione importante, ma è decisiva per garantire l'autonomia.
  Parto da alcuni dati aggregati. In Italia abbiamo 46 comuni sopra i 100.000 abitanti e 50 comuni sotto i 93.000 abitanti. Il 70 per cento dei comuni è sotto i 5.000 abitanti. Sopra i 15.000 abitanti ci sono 741 comuni. Vi do un dato di aggregazione territoriale: il Piemonte ha 1.206 comuni; la Lombardia ne ha 1.503; il Veneto ne ha 579. In tre regioni si concentra il 42 per cento dei comuni italiani.
  Questi dati stanno a dimostrare una profonda differenziazione, ma in questo caso la differenziazione si traduce in vera autonomia ? La risposta credo sia evidentemente no. In questo caso la differenziazione è sopraffatta dalla frammentazione. Cercherò di fornire una chiave di lettura del fenomeno per arrivare a proposte politico-istituzionali.
  Comincio con una valutazione, molto semplificata, di diritto comparato. Cosa si è fatto in Europa ? In estrema sintesi, due sono i modelli che sono stati adottati: il Pag. 9modello delle fusioni e il modello delle collaborazioni, esercitate attraverso varie forme.
  In Germania in trent'anni siamo passati da oltre 30.000 comuni a 12.196. Sono state fusioni obbligate, ma accompagnate da un grande lavoro preparatorio di formazione, di incentivazione e di crescita culturale del fenomeno che si andava discutendo e formando.
  In Svezia, dopo una discussione ultra decennale, si è passati da 2.532 comuni a 290. Qui si è adottato il principio della soglia minima dei 5.000 abitanti.
  In Belgio, anche qui dopo una discussione trentennale, si è passati da 2.739 a 589 comuni e si è usato un meccanismo misto, nel senso che si è passati prima a una dimensione di unioni intercomunali e poi a fusioni vere e proprie, finché, a metà degli anni Settanta, il ministro Joseph Michel ha deciso che le elezioni di quell'anno dovevano essere le elezioni della nuova dimensione dei comuni. Quello è stato il punto di frattura che ha portato all'attuale numero dei comuni belgi.
  In Francia, l'aspetto diverso e più interessante è che esistono 36.767 comuni. Con meno di 5.000 abitanti sono il 95 per cento. Con meno di 2.000 sono l'87 per cento. Dopo il fallimento della cosiddetta «legge Marcelin» del 1971, che prevedeva una riduzione obbligatoria per via legislativa dei comuni, la Francia ha intrapreso una strada che aveva radici molto antiche, ma che è stata razionalizzata e portata a sistema con la legge Chevènement del luglio 1999.
  Questa legge dell'allora Ministro per gli affari interni sceglie il principio dell'inter-comunalità. Ci sono cinque modalità di associazione intercomunale, fondate sulla libera volontà dei comuni, e possono essere orientate sia alla gestione dei servizi sia alla realizzazione di progetti comuni. Questi EPCI (enti pubblici di cooperazione intercomunale) esistono anche con la possibilità di avere una fiscalità propria. Chevènement introduce questo principio importante e decisivo.
  Si organizzano secondo tre modelli: le comunità urbane, quelle che superano i 500.000 abitanti; le comunità dei comuni, cioè comuni che si ritrovano in uno spazio unico con una continuità territoriale; e le comunità di agglomerazione, che riguardano i comuni medio-grandi. Queste ultime sono, infatti, comunità urbane che si aggregano attorno a un comune di almeno 15.000 abitanti e che devono avere, nella loro nuova dimensione, più di 50.000 abitanti.
  La legge Chevènement, a differenza della legge Marcelin, si è trasformata in un successo. Nel 2012 il 96,2 per cento dei 36.700 comuni francesi partecipa agli EPCI. Nel 2015, vi sono 2.600 istituzioni intercomunali su 36.700 comuni.
  Vengo ad alcune brevi conclusioni. Qualunque modello noi vogliamo prendere – anche se parlare di modello è improprio – e a qualunque esperienza vogliamo riferirci, si tratta di processi lunghi. Sono processi che sono stati accompagnati da studi, da formazione, da incentivi e sono strumenti flessibili. Come è facile capire anche da questa mia brevissima sintesi, non esiste un modello unico, ma soprattutto, quando parliamo di unioni, fusioni o collaborazione intercomunale, non ci può essere un pensiero unico.
  Il limite delle scelte operate dai vari Governi succedutisi in questi ultimi 25 anni il più delle volte è stato caratterizzato proprio da un approccio illuministico, orientato, soprattutto in questi ultimi anni, al pensiero unico del risparmio. L'obiettivo di un riordino istituzionale dei comuni deve essere ispirato ad altri principi: al principio di adeguatezza, al principio di proporzionalità, al principio di sussidiarietà, per assicurare efficacia ed efficienza nella prestazione. Alla fine, necessario ma ultimo di questa gerarchia di risultati, viene il risparmio.
  Un risparmio senza efficacia e senza efficienza non è un risparmio, ma diventa un costo sociale. Tutto questo deve essere fatto con strumenti flessibili, incentivanti e capaci di gestire un processo di trasformazione e non di ordinare, nel senso di imporre normativamente, un cambiamento, per cui la collaborazione intercomunale, anche in vista della fusione, più Pag. 10che un principio obbligatorio deve essere un processo desiderabile e attrattivo. Occorre investire in cultura amministrativa e in formazione. Inoltre, occorre incentivare la concretezza e la realizzabilità di questo processo.
  Noi nel panorama normativo italiano abbiamo avuto, però, nel 2014 una svolta rappresentata dalla legge n. 56, dalla legge Delrio. Non si tratta – me l'avrete già sentito dire anche in altre occasioni – di una svolta epocale, ma di una svolta che consente il cambiamento.
  Le leggi pongono le condizioni del cambiamento, ma non rappresentano il cambiamento di per se stesso, quindi noi dobbiamo essere capaci di cogliere il cambio di passo che la legge n. 56 ha significato e significa anche per quanto riguarda i temi affrontati dalla vostra indagine conoscitiva.
  Come è stato detto in dottrina, in un commentario molto apprezzato del professor Pizzetti sulla legge n. 56, con questa legge si è voluto porre mano non solo alla riorganizzazione degli enti territoriali di secondo livello, ma anche al ridisegno delle forme associative e aggregative dei comuni, con la finalità dichiarata di favorirne ulteriormente l'accorpamento o almeno l'esercizio in forma associata delle funzioni.
  In sostanza, anche se il comma 4 dell'articolo 1 della legge n. 56 del 2014 parla di unioni come enti locali, ripetendo il primo comma dell'articolo 32 del TUEL, tutta la disciplina contenuta nel comma 4 e quella da essa richiamata deve essere considerata come attinente a una profonda riforma del sistema degli enti territoriali.
  La Corte costituzionale ha colto esattamente questo profilo, nel respingere la pretesa delle quattro regioni che avevano impugnato la legge n. 56, dicendo che il potere legislativo in materia di unioni spettasse a esse in quanto ricadente nella cosiddetta «competenza residuale» del quarto comma dell'articolo 117.
  La Corte ha affermato con grande chiarezza, al punto 6.2.1 della sentenza n. 50 del 2015, che «tali unioni, risolvendosi in forme istituzionali di associazione tra comuni per l'esercizio congiunto di funzioni o servizi di loro competenza e non costituendo, perciò, al di là dell'impropria definizione (sub comma 4 dell'articolo 1), un ente territoriale ulteriore e diverso rispetto all'ente comune, rientrano nell'area di competenza statuale (sub articolo 117, secondo comma, lettera p), e non sono, di conseguenza, attratte nella competenza residuale di cui al quarto comma dell'articolo 117».
  In merito, la Corte ha tagliato la testa al toro, e infatti afferma, senza margini di dubbio, che la competenza, in materia di unioni, spetta al legislatore nazionale e non a quello regionale. Inoltre, la Corte fa anche dei riferimenti al fatto che queste disposizioni si agganciano anche ai princìpi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica e rafforza questo tipo di prese di posizione.
  In sostanza, dopo la sentenza n. 50 della Corte dell'anno scorso non può esservi dubbio alcuno che la normativa della legge n. 56 determina una grande riforma anche in materia di unioni, affermando la competenza statale in materia.
  Il medesimo riconoscimento da parte della Corte costituzionale deve essere richiamato riguardo alle fusioni e alle incorporazioni di comuni. La Corte, nel punto 6.2.2, assume una posizione altrettanto chiara. Afferma, infatti, la Corte: «la disposizione (sub comma 130) relativa alla fusione di comuni di competenza regionale non ha per oggetto l'istituzione di un nuovo ente territoriale (che sarebbe senza dubbio di competenza regionale) bensì l'incorporazione di un comune esistente in un altro comune esistente, cioè una vicenda, per un verso aggregativa e per l'altro estintiva, relativa comunque all'ente territoriale comune e, come tale, quindi ricompresa nella competenza statale in materia di ordinamento degli enti locali, di cui all'articolo 117 secondo comma, lettera p), della Costituzione».
  Poi, aggiunge ancora la Corte: «infatti l'estinzione di un comune e la sua incorporazione in un altro comune incidono sia Pag. 11sull'ordinamento del primo che del secondo, oltre che sulle funzioni fondamentali e sulla legislazione applicabile».
  Il quadro complessivo che emerge dalla legge n. 56 del 2014 e dalla sentenza n. 50 del 2015 della Corte costituzionale non sembra lasciare alcun dubbio: malgrado il complesso e non semplice né lineare apparato normativo precedente alla legge n. 56 del 2014, oggi la competenza a provvedere in materia di misure da adottare, sia sul piano ordinamentale sia su quello normativo e finanziario, riguardo alle unioni, alle fusioni e alle incorporazioni, sia tutto di competenza statale, con il solo limite della competenza regionale in materia di referendum consultivi, di cui all'articolo 133 della Costituzione.
  Ritengo che questo sia un chiarimento estremamente importante da cui muovere nel riconsiderare tutta l'esperienza sinora fatta e nel definire nuove misure o linee strategiche.
  A questo punto vorrei tentare di ricomporre il quadro sulla base della novità che la legge n. 56 del 2014 ha introdotto.
  Oltre ovviamente all'iniziativa dei comuni che viene per prima, ci sono tre protagonisti: lo Stato, la regione, la città metropolitana o l'ente di area vasta. Lo Stato deve definire il quadro generale di riferimento entro cui muoversi e gli strumenti per garantire il processo di collaborazione, di aggregazione, di unione e di fusione. Inoltre, lo Stato deve definire il procedimento e stabilire con chiarezza gli incentivi.
  Faccio un esempio per spiegarmi meglio. Nel decreto-legge n. 78 del 2015, quello comunemente definito «decreto enti locali», all'articolo 4, comma 4-ter, è stata operata la seguente modifica alla legge Delrio. Si è stabilito, in particolare, che: «ai fini di quanto previsto dal comma 89 dell'articolo 1 della legge Delrio, ove le regioni prevedano, con propria legge, ambiti territoriali comprensivi di due o più enti di area vasta per l'esercizio ottimale in forma associata tra loro di funzioni conferite alle province, gli enti interessati possono, tramite accordi e d'intesa con la regione, definire le modalità di detto esercizio anche tramite organi comuni».
  Questo significa che si individuano le regioni come attori nella definizione di ambiti territoriali di area vasta, diversi dagli attuali, attribuendo loro un importante potere di organizzazione dei territori. In pratica, viene attribuito alle regioni esattamente il compito che una regione deve fare.
  Io, qualche istante fa, ho sentito solo la parte finale – che presumo fosse di una risposta del vicepresidente del Piemonte – e, in merito, vorrei dire che dobbiamo stare attenti a una questione che è frutto dell'esperienza di questi anni. È vero che le regioni hanno quasi tutte, non tutte, legiferato in materia di unioni e di fusioni, però è anche vero che nella stragrande maggioranza dei casi si trattava di leggi che non consentivano praticamente che questo avvenisse.
  L'importanza della legge n. 56 del 2014 e della sentenza n. 50 della Corte costituzionale sta a significare che noi mettiamo su un piano di parità – non di uniformità, ma di parità – tutti i comuni di tutte le regioni italiane e non li abbandoniamo alla capacità politica o all'iniziativa legislativa di una singola regione.
  Questo è importantissimo e significa non togliere un potere alla regione, ma, anzi, consentire alle regioni di fare al meglio quello che le regioni dovrebbero fare. Le regioni mantengono la competenza legislativa per adattare alle proprie esigenze territoriali, culturali ed economico-sociali il processo di collaborazione, di unione e di fusione, ma possono fare di più e meglio; non sono la condizione per fare.
  La condizione per fare viene stabilita con una legge nazionale, poi le singole regioni, che hanno giustamente la conoscenza e la competenza per intervenire in ragione del proprio essere come territorio – quindi per ragioni culturali, economiche, sociali e amministrative – possono adattare queste norme alla loro dimensione territoriale, ma possono fare un'azione additiva. Non sono il tappo che Pag. 12molto spesso, anzi troppo spesso, ha impedito a questi processi di realizzarsi.
  Si affaccia, in questo quadro che vi sto illustrando, un nuovo importante attore, cioè la città metropolitana e l'area vasta, agendo sulle competenze dei commi 85 e 88 della legge Delrio per l'area vasta e del comma 44 della medesima legge per le città metropolitane e meglio indirizzando queste funzioni ai fini del processo di collaborazione, di unione e di fusione.
  Come vede, presidente, io ho degli appunti manoscritti, ma domani le farò avere la copia della relazione intellegibile per tutti e anche degli allegati che vi sto leggendo. Ora, riassumendo, nella relazione vi presento due possibili modifiche alla legge n. 56 del 2014 che potrebbero essere un motore inaspettatamente fortissimo per trainare il processo di collaborazione intercomunale. Basterebbero poche modifiche.
  Al comma 2 e al comma 3 dell'articolo 1, visto che dovrebbero valere le stesse cose per la città metropolitana e per l'area vasta, si dice che «le città metropolitane e le province possono individuare all'interno del proprio territorio aree omogenee ai fini del migliore esercizio delle funzioni loro spettanti e di quelle dei comuni e delle loro unioni in esse ricomprese».
  Questo è un potere che già hanno le tre province montane e in parte la città metropolitana e che, invece, io credo debba essere esteso in maniera compiuta a tutte le città metropolitane e a tutte le aree vaste. Dico questo perché se noi attribuiamo loro questa facoltà, cioè quella di definire gli ambiti ottimali per garantire il migliore esercizio delle funzioni loro spettanti e di quelle dei comuni e delle loro unioni in esse ricomprese, con un'altra piccola modifica possiamo affidare ai consigli provinciali o metropolitani l'approvazione e l'aggiornamento annuale di un piano triennale, finalizzato alla individuazione delle unioni e delle fusioni considerate utili alla razionalizzazione dello svolgimento dei compiti propri dei comuni del rispettivo territorio.
  Tutto ciò significa che basta questo atto condiviso dall'assemblea dei sindaci, cioè dai sindaci di quel territorio, per avviare il processo di unione o di fusione. Tant’è vero che la regione deve essere sentita, ma ha tre mesi di tempo per rispondere, trascorsi i quali si dà per acquisito questo piano.
  Tale piano diventa lo strumento per far partire da subito tutte le procedure di unione o di fusione, lasciando poi la decisione finale e definitiva al referendum che, però, non deve essere indetto con una legge regionale apposita perché, nel momento in cui è approvato questo piano triennale, tutti coloro i quali vogliono procedere a una fusione sono già abilitati a farlo, per cui devono stabilire solo la data in cui questo referendum verrà fatto.
  Accanto a questo, anche per consentirne nel migliore dei modi la realizzazione, è possibile prevedere – qui ne vengono accennate solo alcune – delle forme di incentivo, cioè, laddove tu hai processi in atto di unione o di fusione, hai una sorta di prelazione, di diritto di priorità, e quote di riserva per tutti i finanziamenti europei, cofinanziamenti, incentivi, sostegni e finanziamenti a fondo perduto per questi comuni che si sono avviati in una di queste due forme.
  In tal caso, la funzione della nuova provincia, quindi dell'area vasta e della città metropolitana, rispetto al processo di unione e di fusione dei comuni sarebbe davvero quella di diventare, così come l'ha definita il presidente dell'UPI, Achille Variati, «la casa dei comuni» dove tutti i sindaci insieme sono chiamati a definire gli ambiti territoriali che possono favorire i processi di collaborazione, di unione e di fusione.
  Sono chiamati a farlo con un coinvolgimento della regione più rapido e più immediato, quindi meno barocco dell'attuale, e un nuovo protagonismo dei sindaci nell'ente di area vasta per progettare il proprio futuro di collaborazione intercomunale che non è un semplice coordinamento, ma la realizzazione di strumenti e procedimenti e di riorganizzazione di funzioni e di servizi in ambiti ottimali da loro stessi definiti.Pag. 13
  Ci troviamo di fronte a un processo che parte dal basso, in un quadro normativo regionale e statale che è certo. Inoltre, siamo lontani dall'illuminismo cieco di alcuni provvedimenti e ci stiamo avviando verso un processo di responsabilizzazione istituzionale fortemente innovativo e partecipato.
  Credo di avervi consegnato degli spunti di riflessione per un nuovo inizio della collaborazione intercomunale delle unioni e delle fusioni.
  Io credo che non abbiamo molto tempo e soprattutto non possiamo e non dobbiamo sprecare tempo in coazioni a ripetere le stesse inutili cose in nome dell'identità di ogni singolo comune che va riconosciuta, ma che non può risolversi in una finzione: esistere senza essere.
  Calvino ne Le città invisibili, nella descrizione di Ersilia in particolare, ci fa capire come un luogo di relazioni possa diventare il luogo dell'abbandono.
  C’è una ragione di fondo culturale, prima ancora che politica, che ci deve indurre a mettere fine a questo circolo vizioso che da trent'anni ci imprigiona in processi che si ripetono con ottusa inutilità. In gioco c’è il diritto di cittadinanza – e il diritto di eguaglianza – che non può essere limitato dal fatto che vivi in un piccolo o in un grande comune. Io credo che gli strumenti per garantire questo diritto e per ripartire ci siano, ma dobbiamo avere la capacità e l'intelligenza di usarli subito, anche soprattutto rompendo gli schemi che fino adesso ci hanno in qualche modo costretto in una ragnatela che ci ha imprigionato.

  PRESIDENTE. Grazie sottosegretario Bressa. Do ora la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  ANDREA CECCONI. La relazione del sottosegretario è impeccabile e difficile da poter contestare. Sono tutte cose condivisibili e su molte ci si può trovare anche d'accordo.
  Durante questa indagine conoscitiva che ormai dovrebbe essere finita e arrivata alle battute finali, abbiamo sentito tanti attori che ci hanno riferito tante cose diverse, ma anche molto divergenti l'una dall'altra, come se tra loro – abbiamo sentito associazioni, ma anche enti territoriali di tutte le dimensioni e le regioni – non ci fosse già un'unità di intenti in quello verso cui si vuole andare.
  Nel 2014 noi abbiamo fatto la legge Delrio che, per quel che mi riguarda, in merito alle unioni non era una legge giusta. Tuttavia, condivisibile o meno, quella era. Ora, se non ci fossero state delle proroghe o se ci fosse stato al limite un potere sostitutivo nel momento in cui le regioni e i comuni non ottemperavano, ci saremmo ritrovati oggi, a distanza di un anno e mezzo o di due anni, invece che a discutere su cosa fare di diverso, a poter fare un bilancio e valutare se quella legge, in merito a incentivi, a procedure, all'ampiezza demografica dei comuni costretti a fare le unioni eccetera, era stata la scelta giusta che poteva essere modificata o ricalibrata o era la scelta sbagliata e si doveva andare in un'altra direzione.
  Ci troviamo oggi nella condizione in cui quel percorso non è stato fatto e diciamo che è sbagliato, cioè che non è il percorso giusto, ma la verità è che non abbiamo davanti un raffronto per poter dire che è sbagliato e che dobbiamo andare in un'altra direzione più giusta. Noi stiamo facendo un discorso, che troverà compimento l'anno prossimo, che ci porterà a potere decidere di cambiare strada, ma non sappiamo se la nuova strada è quella giusta perché non sappiamo se quella che abbiamo percorso fino adesso era sbagliata, non avendo dati tangibili per dire dov’è che abbiamo sbagliato.
  Come ho detto anche prima nell'audizione dei rappresentanti della Conferenza Stato-regioni, io non capisco la motivazione per cui in questo Paese si fa una legge e nessuno la rispetta o nessuno la fa applicare, pur ritenendo quella legge sbagliata.
  Lei ha fatto una proposta di modifica e rappresenta il Governo, quindi immagino che quella sarà anche molto probabilmente la nuova base su cui partire per Pag. 14fare un ragionamento successivo all'interno del Parlamento. Certo, anche se poi la discussione sarà parlamentare e ci si potrà ragionare, credo che sia frutto di quello che ci ha riferito e di un ragionamento interno, perlomeno alla sua maggioranza o al Governo, quindi la prendo come una base di partenza che può essere anche, francamente, giusta.
  Tuttavia, rimane sempre il problema se sia giusto – vorrei una risposta da lei che rappresenta il Governo – mantenere l'obbligatorietà o meno di quello che si sta facendo perché, nonostante la legge Delrio prevedesse degli obblighi, abbiamo visto come è andata a finire. Io non credo che, se la direzione è quella di voler aggregare per ottimizzare e se non c’è un minimo di obbligo o se non si prevede che ci sia poi un livello sostitutivo in cui ci sia un'imposizione, si andrà lontano. Lo dico perché lei ha fatto anche cenno a tutta la questione degli incentivi che devono essere dati per le unioni o le fusioni, fatte in area vasta o come meglio si crede.
  Io credo che per quanto riguarda le unioni, anche quelle più storiche, quindi non quelle ultime della legge Delrio, molte di queste siano state fatte molto male e con degli statuti ridicoli. Inoltre, le unioni non hanno avuto il giusto supporto da parte del Ministero dell'interno o dal Ministero dell'economia e delle finanze, nel momento in cui si dovevano andare a formare, anche nella scelta delle funzioni e nella scelta dello statuto. Poi, molte di queste sono state fatte soltanto per accaparrarsi i soldi, ossia gli incentivi che il Governo dava per le fusioni o le unioni.
  Come diceva lei, il risparmio e i soldi sono forse l'ultima cosa che si dovrebbe guardare, quando si fa questo percorso, perché prima dovrebbe venire il bene dei cittadini, l'ottimizzazione del servizio e l'unione sociale e culturale, dopodiché i soldi, il risparmio, l'efficienza e tutto quello che vogliamo.
  Io credo che, invece, il percorso sia stato fatto al contrario, quindi dare gli incentivi senza che nessuno controllasse quello che si stava facendo, è stato un errore del passato e vorrei che non fosse anche l'errore del futuro. In questo percorso che noi vogliamo fare di corsa, ma che di corsa secondo me non riusciremo a fare, se il Governo non ci mette il naso e non verifica quello che si sta facendo, ma dice: «se fai la fusione, ti do quei soldi e, se fai quell'unione, ti do i soldi per dieci anni» senza verificare se l'unione effettivamente sta lavorando e funzionando, io credo che sia il solito foglio di carta che non ci porta effettivamente a un'unione compiuta del servizio in efficienza, Inoltre, fino adesso abbiamo avuto statuti e unioni che magari all'interno hanno 20 funzioni e 15 funzioni assegnate, poi, se vai a vedere, dal punto di vista reale ce ne sono due, tre o cinque e le altre non sono neanche mai partite, eppure i soldi per farle partire li hanno ricevuti.
  Credo che, a prescindere dalla scelta che può essere giusta o sbagliata, bella o brutta, ci sia un problema a monte, per cui, se noi non ci mettiamo in testa che questa cosa va seguita attentamente, non credo che ci sia legge che possa tenere il confronto poi con gli 8.000 comuni che abbiamo e le 20 regioni che abbiamo.

  TERESA PICCIONE. Intervengo per rivolgere parole di grande apprezzamento alla relazione del sottosegretario, sia per la chiarezza espositiva, ma soprattutto per la capacità dimostrata di collegare i provvedimenti, da prendere o comunque già effettuati con la legge n. 56 del 2014, a dei punti cardine come princìpi, criteri e obiettivi.
  Ho apprezzato in modo particolare l'idea che a guidare questo processo di riorganizzazione dello Stato e delle funzioni amministrative non possa essere invocato solamente l'obiettivo del risparmio, ma che, pur essendo questo un obiettivo importante da perseguire, debba essere accompagnato, se non anticipato, da obiettivi altrettanto rilevanti, come quello della sussidiarietà e, direi, anche della solidarietà.
  Questo consegnerebbe le nostre nuove forme, non solo a una maggiore efficacia dell'intervento del Governo e a una maggiore efficienza, ma restituirebbe a una Pag. 15dimensione allargata dei piccoli comuni anche quello che il piccolo comune ha, ossia un luogo forte di relazione. Io credo che, facendo partire il processo dal basso e abbandonando quello che il sottosegretario definisce «illuminismo cieco» di percorsi assolutamente rigidi, se cerchiamo soltanto di dare forma a quello che le esigenze nuove portano sotto i nostri occhi, tutto questo sarà una scelta profondamente oculata che va insieme all'accompagnamento e all'ordinamento che compete allo Stato. Io su questo insisto molto e ritengo sia un bene avere richiamato la sentenza n. 50 della Corte costituzionale ma va tenuto insieme con la specificità delle realtà territoriali.
  Chiedo scusa se mi allontanerò e non potrò ascoltare le risposte, ma devo recarmi in una importante riunione della giunta per le elezioni.

  DANIELA MATILDE MARIA GASPARINI. Anch'io ringrazio il sottosegretario per la sua relazione che ha inquadrato benissimo il punto in cui siamo arrivati oggi. Inoltre, dalle sue parole mi pare che abbia sposato la proposta che l'ANCI ci ha presentato in questa Commissione durante l'audizione in cui non chiedeva il rinvio del termine del 31 dicembre 2015. O meglio, a parole non chiedeva il rinvio, ma nella sostanza chiedeva uno spostamento ancora una volta del termine del 31 dicembre, proponendoci questa opportunità che io condivido – lo sottolineo – di andare a definire degli ambiti omogenei con valenza territoriale.
  Poi, è un tema che è venuto fuori anche nelle audizioni delle regioni, cioè quello di andare al superamento di un obbligo numerico per provare a ragionare tenendo conto delle relazioni fra i territori.
  Detto questo, vorrei precisare che avviare questa nuova organizzazione in questa fase richiede anche una presa d'atto di quello che è avvenuto fino a oggi perché anche tutte le audizioni hanno rilevato la difficoltà che sia lo Stato centrale che le regioni hanno evidenziato della incapacità di accompagnare dei processi.
  Si tratta di processi di lettura dei territori in nuove organizzazioni territoriali e di superamento culturale che è stato qui più volte evidenziato perché essere nella nuova generazione dei sindaci, per l'inesperienza o per i limiti o le opportunità che la legge dell'elezione diretta del sindaco comunque di fatto ha messo in capo sindaci, ha comportato che di fatto il territorio è mio, il campanile è mio, il ruolo è mio. Ora, laddove oggi non c’è l'obbligo dei 5.000 o 3.000 abitanti, quando si parla dei territori, io credo che si tratterebbe di capire, come aveva proposto l'ANCI, quali funzioni obbligatorie, accompagnate e sostenute, però, a questo punto vengono messe in campo, altrimenti io non capisco – questa è la domanda – se dentro queste aree omogenee, se si fanno, di fatto ci dovrà essere anche un'omogeneità di gestione delle funzioni da parte dei soggetti.
  Considero importanti questa riflessione e questa proposta anche perché le città metropolitane ce l'hanno quasi come obbligo. Io conosco, come voi sapete, quella di Milano che ha già istituito le aree omogenee. In realtà, senza una legge che solleciti/obblighi – le due cose possono stare anche insieme – una gestione associata di alcuni servizi è un esercizio, se vogliamo, istituzionale e politico, ma non ha un reale superamento dei confini territoriali. Inoltre, da questo punto di vista, specialmente nelle città metropolitane, considero importante permettere nel tempo di avere parità di diritti e parità d'accesso dei servizi in aree che, pur essendo dentro un contesto molto urbanizzato, le assicuro, anche se lei lo sa perfettamente, sono molto diverse.
  Rispetto a quanto sancito dalla Corte costituzionale e rispetto alla proposta che lei sostiene e che dovrà essere discussa, credo, forse già nella proposta di legge di stabilità in parte, le chiedo sostanzialmente come si attrezza anche lo Stato per accompagnare questo processo. Di fatto, se le regioni fossero ancora una volta inadempienti, che cosa succede ? E come garantire che un nuovo riordino, o comunque un riordino migliore, possa poi di Pag. 16fatto vedere una condizione diversa nelle differenze, ma uguale nei diritti in tutto il territorio nazionale ?

  MARILENA FABBRI. Ringrazio il sottosegretario Bressa perché credo che nell'incontro di oggi sia venuto fuori anche l'elemento che sta alla base di questa riorganizzazione: non prevalentemente il tema del risparmio economico, ma un'opportunità di riorganizzazione complessiva del sistema istituzionale alla luce delle varie modifiche che stanno venendo in campo e la sottolineatura del fatto che i comuni, attraverso le diverse forme organizzative, diventano l'elemento fondante. Si ribadisce che essi sono l'elemento fondante e costitutivo del nostro sistema.
  Io ho alcune perplessità sul fatto che si passi a un sistema prevalentemente volontario e, quindi, sul portare esclusivamente sui comuni, sulle città metropolitane e sulle province gli ambiti di questa riorganizzazione. Insomma, se fino a poco tempo fa non c'era una cultura politica, istituzionale, finalizzata a valorizzare e a mettere in comune le funzioni e i servizi per una gestione più ottimale, non mi fido del fatto che questo possa avvenire in un cambio di normativa senza una regia forte da parte dello Stato.
  Condivido, infatti, quello che si diceva prima nell'analisi comparata degli altri Paesi, cioè la necessità di un accompagnamento, di un processo culturale che ovviamente parte da un punto e va accompagnato nel tempo, perché produce effetti nel lungo periodo. Questo presuppone, però, a mio avviso, che si mettano in campo, oltre a quelli che abbiamo già attuato, una serie di incentivi che non siano necessariamente solo economici, ma anche normativi, come abbiamo fatto in questi anni in tutte le leggi di stabilità che abbiamo approvato, adottando un atteggiamento di maggior favore da un punto di vista normativo verso i comuni fusi o gestiti in forma di unione, rispetto ai comuni che fanno la scelta di rimanere da soli.
  Mi chiedo, però, se di fronte ad alcune modifiche normative, quelle che ci venivano proposte anche nell'immediato, non sarebbe necessario, insieme a quelle, mettere in campo un riordino complessivo dell'intera materia, che definisca meglio i diversi ruoli fra Stato, regioni e comuni, in un sistema di volontarietà, ma anche di adeguata definizione di quelli che sono gli obiettivi di un sistema istituzionale più moderno e capace di dare risposte ai nuovi bisogni. Parlo di una modalità che metta in campo in maniera più chiara il sistema di incentivi o di penalizzazioni rispetto a chi fa una scelta anziché un'altra. Quindi, chi decide di stare da solo può anche farlo, ma magari vengono meno una serie di vantaggi in quanto può fare a meno di una serie di trasferimenti da parte dello Stato.
  Pertanto, mi chiedo se non sia arrivato il momento di una fase di riforma e di riordino della materia in modo più organico, che prenda atto dei processi provenienti dal basso, ma anche di consapevolezze politiche più mature a livello nazionale che quindi ricompongano una normativa più omogenea, più semplice, ma anche più mirata rispetto ai punti di forza e di criticità che sono stati evidenziati in questa indagine conoscitiva e, immagino, anche da tutte le interlocuzioni che il Governo ha avuto direttamente con i vari livelli istituzionali.

  PRESIDENTE. Aggiungo solo una cosa a quello che ha detto l'onorevole Fabbri. Guardando gli anni recenti e gli interventi fatti su questi aspetti, sulle unioni dei comuni, sulle fusioni e – pensando a un tema a me caro – tutte le norme che sono state fatte sulle partecipate pubbliche, che sono state quasi sistematicamente disattese, sorge un sospetto: è vero che spesso si è detto che gli interventi non rispondevano alla realtà o alla possibilità che bisognava accompagnare, incentivare eccetera, ma è anche vero che queste norme impositive sono state quasi sempre non attuate da chi doveva poi imporre le sanzioni e, conseguentemente, a metà dell'anno, già si sapeva che sarebbe arrivata la proroga.Pag. 17
  È chiaro che se io ho la percezione – come è successo sulla norma della legge di stabilità dell'anno scorso parlando di partecipate, ma è successo un fenomeno simile sulle unioni dei comuni – che non appena esce la norma si dice che la stessa è indicativa, ordinatoria, e non ci sono conseguenze, è evidente che ci si confronta anche coi peggiori atteggiamenti di una parte delle amministrazioni locali (non parlo di quelle virtuose) che lasciano correre pensando che non succeda niente. È indubbio che questo in molti casi succede o per il campanile o per esigenze di mantenere strutture anche occupazionali o quello che sia. Il tema diventa questo: va benissimo accompagnare, però l'esperienza che noi abbiamo avuto è stata in realtà che noi non abbiamo vissuto un meccanismo di imposizioni, perché queste, alla fine, venivano sistematicamente non attuate e le sanzioni previste non applicate.
  Non abbiamo già vissuto in questo tipo di sistema, da un punto di vista sostanziale, poiché nelle norme era scritta una cosa, ma dopo due o tre mesi dall'emanazione si sapeva già che alla fine dell'anno nel «milleproroghe» o nella legge di stabilità si rinviava tutto. Almeno questa è la mia esperienza di questi due anni di Parlamento.
  Do la parola al sottosegretario per la replica.

  GIANCLAUDIO BRESSA, Sottosegretario di Stato agli affari regionali. Tutte le domande sono estremamente chiare e puntuali. Più che rispondere singolarmente, vorrei cercare di far capire anche il senso della proposta precedente.
  Personalmente ho il terrore delle riforme palingenetiche, perché significa nessuna riforma; ho il terrore delle scorciatoie (le soglie fisse, le imposizioni, le sanzioni), perché l'Italia non ha solo 8.000 comuni, ma ha anche una disomogeneità territoriale, ambientale, geografica, storica e culturale che non consente di affrontare in maniera uniforme un problema così complesso.
  Se voi prendete il Piemonte e la Puglia, sono due realtà strutturalmente diverse dal punto di vista del numero, della qualità e del tipo di comuni. È inimmaginabile che io, come legislatore nazionale, possa avere una misura che va bene per la realtà della Puglia e per quella del Piemonte.
  Le realtà di pianura sono radicalmente diverse dalle realtà di montagna. Se io stabilisco una soglia che in pianura potrebbe essere il minimo vitale – al di là della quale precipiti nell'irrazionalità – in montagna una soglia anche bassa di 3.000 abitanti può comportare l'aggregazione di comuni che sono in tre valli diverse, con la necessità di fare decine di chilometri di strade di montagna per restare nel nuovo ambito comunale.
  Noi dobbiamo tenere conto di queste cose. Io sono costretto a tenerne conto perché, a differenza di molti di voi, sono qui da qualche anno di più, quindi ho visto un po’ tutte le varie forme di approccio e sono convinto che la strada migliore da intraprendere sia quella di mettersi alla prova con alcuni interventi mirati che consentano sul campo di cominciare e di partire.
  Quello che è accaduto per le città metropolitane, che – vorrei non lo dimenticassimo – sono state istituite nel 1990 e solo adesso, nel 2015, stiamo dando attuazione a quel disegno, non vorrei che accadesse anche per i processi di aggregazione, unione e fusione dei comuni. Peraltro, la prova dei fatti, i dati a cui faceva riferimento l'onorevole Cecconi, non sono tanto i dati di che cosa non ha prodotto la legge Delrio su questo tema. La legge Delrio su questo tema si è introdotta in un meccanismo che era già stato indirizzato e con un dubbio, non piccolo, di legittimità costituzionale a poter intervenire sulla materia, perché era opinione comune prevalente, anche se la dottrina non si è mai espressa in maniera così netta, che questa fosse una competenza regionale.
  La Corte costituzionale ha fatto chiarezza rispetto a questo e consente al Parlamento di operare con maggiore libertà di quanto non potesse fare prima. Pag. 18Ma il dato con il quale dobbiamo confrontarci è che costringere a misurarsi sulle funzioni obbligatorie da gestire in comune e sui tempi non ha funzionato. Avete sentito la Corte dei conti, il Ministero dell'interno, che vi porterà i numeri – cosa che non ho voluto fare io perché non sta a me farlo – di quante sono state le fusioni, quante sono state le unioni, quanti sono stati gli scioglimenti di unione.
  Ci siamo mossi con una logica che non teneva conto di quella che era la realtà e la dinamica delle istituzioni locali. Le istituzioni locali sono corpi vivi; non si agisce su un corpo vivo con la scimitarra, perché si rischia di tagliargli la testa. Il corpo vivo deve rendersi conto che se è un comune di 182 abitanti non può immaginare di essere competitivo per la garanzia dei servizi che deve rendere ai suoi cittadini, se rimane un comune di 182 abitanti.
  Io vi ho fatto una proposta minimale che non è la proposta del Governo in quanto tale: è una proposta che viene fatta al Parlamento e sulla quale credo valga la pena di discutere. Perché ho immaginato di partire dalla novità della legge Delrio, che è la possibilità di avere le aree vaste intese come – uso questo termine per brevità – casa dei comuni, in cui tutti i comuni si confrontano tra di loro su come organizzare le aree omogenee e le funzioni che devono esserci all'interno di esse ? Non è detto che in tutte le aree omogenee ci debbano essere necessariamente tutte le stesse funzioni.
  Il vicepresidente Reschigna ha fatto una battuta molto interessante, recuperando una dimensione che si è in qualche modo smarrita, quella dei consorzi, che non deve diventare il punto di partenza, ma uno strumento residuale per poter fare alcune cose. Allora se si parte, per esempio, dallo schema di norma che vi ho detto e si investono di questo i consigli e le assemblee dei sindaci delle aree vaste, delle città metropolitane, si comincia a ragionare nel vivo, sindaco per sindaco, su che cosa è più opportuno e meglio fare per garantire il ruolo di quel comune nell'ambito del proprio territorio.
  Dopodiché, se si parte da qui, io credo che quello che ha detto l'onorevole Fabbri abbia un senso forte, cioè se intanto ci diamo un ordine, un traguardo o un orizzonte, dopo dobbiamo avere il tempo – lo ripeto, non è un tempo infinito, dovrebbe essere un tempo sufficientemente lungo, ma non troppo – per sistematizzare il meccanismo, perché noi oltretutto abbiamo una sovrapposizione e una stratificazione di norme che è micidiale, per cui anche la sola semplificazione di queste norme sarebbe un'operazione meritoria.
  Ma io vorrei andare oltre. Se noi sappiamo che il problema della collaborazione intercomunale è qualche cosa che istituzionalmente investe la responsabilità delle città metropolitane, degli enti e delle aree vaste, cioè dei sindaci, i quali cominciano a organizzare e a pensare che cos’è un'area omogenea tra di loro, il Parlamento, anche a seguito della sentenza n. 50, ha il tempo per definire le cose che voi avete detto oggi e che sono tutte molto importanti.
  Gli incentivi senza controllo rischiano di essere una furbata insopportabile e il fatto di definire quali sono le funzioni è altrettanto importante, però quello che conta è che ci sia uno strumento che abbia la flessibilità e la capacità di adattarsi all'evoluzione del Paese, cosa che le leggi che noi abbiamo prodotto fino a oggi hanno dimostrato di non essere capaci di fare, perché sono la ripetizione all'infinito della legge Marcelin: o perché si sapeva che c'era la proroga oppure perché erano state pensate male; infatti, quando nel 2011 si cominciò a dire di associare le funzioni in quanto in tal modo si garantiva un risparmio, si fece un discorso culturalmente sbagliato, perché il risparmio è la fine di un processo di architettura istituzionale che vede tutte le cose che vi ho detto prima e che non sto a ripetere.
  Credo che noi, come Governo, abbiamo la responsabilità di fare una proposta e il Parlamento quella di discuterla, ma di cominciare davvero, finita l'indagine conoscitiva, a mettere mano a un riordino Pag. 19complessivo, senza però che il resto del Paese, in attesa che il Parlamento faccia il riordino, si paralizzi.
  Io dico di mettere in moto un meccanismo che responsabilizzi dal basso i comuni, le aree vaste e le città metropolitane; accompagniamo questo processo con tutte le forme che possiamo – e qui ci saranno dei fondi incentivanti anche dal punto di vista dell'accompagnamento formativo di questi processi – con gli incentivi che potranno essere d'aiuto e il Parlamento si prenda il tempo sufficiente e necessario, ma non troppo lungo, per riordinare sistematicamente la materia.
  Le due cose, però, vanno fatte insieme perché se immaginiamo che una da sola possa essere una risposta credo che commetteremo ancora una volta un errore che abbiamo troppe volte commesso.

  PRESIDENTE. Ringrazio il sottosegretario Bressa e dichiaro chiusa l'audizione.

  La seduta termina alle 15.40.