XVII Legislatura

I Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 1 di Giovedì 19 giugno 2014

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Agostini Roberta , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DELL'ESAME, AI SENSI DELL'ARTICOLO 143, COMMA 1, DEL REGOLAMENTO, DI TUTTI GLI ASPETTI RELATIVI AL FENOMENO DELLA DECRETAZIONE D'URGENZA

Audizione di esperti.
Agostini Roberta , Presidente ... 3 
Celotto Alfonso , Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università di Roma Tre ... 3 
Azzariti Gaetano , Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università «La Sapienza» di Roma ... 5 
Caravita di Toritto Beniamino , Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università «La Sapienza» di Roma ... 8 
D'Andrea Antonio , Professore ordinario di diritto pubblico presso l'Università di Brescia ... 10 
De Fiores Claudio , Professore straordinario di diritto costituzionale presso la II Università di Napoli ... 12 
Guzzetta Giovanni , Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università Tor Vergata di Roma ... 14 
Marini Francesco Saverio , Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università Tor Vergata di Roma ... 16 
Salerno Giulio , Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Macerata ... 18 
Scaccia Gino , Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Teramo ... 20 
Volpi Mauro , Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università di Perugia ... 22 
Agostini Roberta , Presidente ... 24 
Lauricella Giuseppe (PD)  ... 25 
Lattuca Enzo (PD)  ... 25 
Sisto Francesco Paolo , Presidente ... 26 
Cozzolino Emanuele (M5S)  ... 26 
Sisto Francesco Paolo , Presidente ... 27 
Guzzetta Giovanni , Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università Tor Vergata di Roma ... 27 
Azzariti Gaetano , Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università «La Sapienza» di Roma ... 27 
Caravita di Toritto Beniamino , Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università «La Sapienza» di Roma ... 28 
Volpi Mauro , Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università di Perugia ... 28 
Sisto Francesco Paolo , Presidente ... 29 
Lauricella Giuseppe (PD)  ... 29 
Sisto Francesco Paolo , Presidente ... 29

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: FI-PdL;
Scelta Civica per l'Italia: SCpI;
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Nuovo Centro-destra: NCD;
Lega Nord e Autonomie: LNA;
Per l'Italia (PI);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero-Alleanza per l'Italia: Misto-MAIE-ApI;
Misto-Centro Democratico: Misto-CD;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI.

Testo del resoconto stenografico
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PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE ROBERTA AGOSTINI

  La seduta comincia alle 11.45.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche mediante la trasmissione diretta sulla web-TV della Camera dei deputati.

Audizione di esperti.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, in relazione all'indagine conoscitiva nell'ambito dell'esame, ai sensi dell'articolo 143, comma 1, del Regolamento, di tutti gli aspetti relativi al fenomeno della decretazione d'urgenza, l'audizione di esperti.
  Nel corso dell'audizione interverranno i professori Gaetano Azzariti, ordinario di diritto costituzionale presso l'Università «La Sapienza» di Roma, Beniamino Caravita Di Toritto, ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università «La Sapienza» di Roma, Alfonso Celotto, ordinario di diritto costituzionale presso l'Università di Roma Tre, Antonio D'Andrea, ordinario di diritto pubblico presso l'Università di Brescia, Claudio De Fiores, straordinario di diritto costituzionale presso la II Università di Napoli, Giovanni Guzzetta, ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università Tor Vergata di Roma, Francesco Saverio Marini, ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università Tor Vergata di Roma, Giulio Salerno, ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Macerata, Gino Scaccia, ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Teramo, e Mauro Volpi, ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli Studi di Perugia.
  Ringrazio i professori per la loro presenza e per la loro disponibilità e chiedo loro la cortesia di contenere i propri interventi entro un tempo non superiore ai dieci minuti.
  Do subito loro la parola iniziando dal professor Celotto, che ha chiesto di poter parlare per primo.

  ALFONSO CELOTTO, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università di Roma Tre. Ringrazio la presidenza, ringrazio la Commissione per l'invito e ringrazio i colleghi per la disponibilità a farmi parlare per primo. Purtroppo, a causa di precedenti impegni, non mi sarà possibile restare per l'intera seduta. Invierò una memoria scritta e, quindi, sarò molto breve.
  Volevo partire da un'analisi storica del decreto legge. Noi non dobbiamo solo pensare all'ultima sentenza della Corte Costituzionale di due mesi fa per capire i problemi del decreto legge, ma dobbiamo risalire quanto meno allo Statuto Albertino e, quindi, all'idea di divisione dei poteri che abbiamo alla base del nostro ordinamento.
  Dobbiamo ricordare che l'articolo 6 dello Statuto Albertino vietava i decreti legge, perché recitava che il Re «fa i decreti e regolamenti necessarii per l'esecuzione delle leggi, senza sospenderne l'osservanza, o dispensarne». Era un articolo praticamente copiato dalla Costituzione francese del 1830, che aveva l'identica formula, anche se c'era un «giammai» in più nella Costituzione francese. Ci tornerà utile questo avverbio.Pag. 4
  Da subito, quindi, fin dal 1849, cominciarono a emergere decreti fatti dal Governo che sospendevano leggi. Erano i primi decreti per stato d'assedio. Poi emersero i decreti di catenaccio fiscale.
  C’è una vecchia e tradizionale questione per cercare di capire quale sia il primo decreto legge emanato in Italia. Dal punto di vista formale, il nome «decreto legge» emerge nel 1912, perché è la prima volta che noi troviamo «regio decreto legge» proprio nel nomen iuris. Di fatto, però, guardando alla sostanza degli atti, secondo me è importante osservare che ci sono decreti che hanno la clausola di conversione con la quale, quindi, il Governo ammetteva che esorbitassero dai suoi poteri. Doveva, dunque, farseli convertire dal Parlamento. Il primo decreto che ha con certezza la clausola di conversione è del 1853, il n. 1603, peraltro regolarmente convertito in legge.
  Ho fatto queste citazioni storiche per capire quanto sia risalente e profondo il fenomeno del decreto legge e come la dottrina l'abbia sì condannato, ma anche giustificato. Questa è una questione molto interessante.
  Faccio una sola citazione. Ugo Galeotti, nel 1890, scrive un articolo in cui commenta i 66 decreti legge emanati dal Governo in via d'urgenza dal 1848 al 1890. È estremamente critico e ritiene che l'uso fatto in Italia del preteso diritto di necessità «concorra a convincerci che esso può tornar comodo per legittimare l'imprevidenza e la negligenza del potere legislativo e impedire alle Assemblee l'irrevocabilità del fatto compiuto, ma non risponde punto a un bisogno imperioso dello Stato». Già allora, nel 1890, l'analisi era limpida e lucida: è un problema essenzialmente politico, non è solo un problema di fonti del diritto.
  È molto interessante, e rinvio allo scritto, vedere tutte le tesi che la dottrina ha sostenuto già nel 1800 per legittimare il decreto legge: ci si richiamava allo stato di necessità, ai poteri necessari al buongoverno, alla consuetudine costituzionale, a una delega tacita, all'esimente della legittima difesa dello Stato, alla soppressione dell'avverbio «giammai» nello Statuto Albertino rispetto alla Costituzione francese del 1830, alla negotiorum gestio del Governo rispetto al Parlamento e via elencando.
  Cito solo rapidamente le grandi polemiche di fine Ottocento-inizio Novecento, i famosissimi decreti Pelloux del 1899, con tutte le polemiche che ne seguirono, i decreti per il terremoto di Messina e Reggio Calabria e le polemiche che ne seguirono fra Santi Romano e Perassi.
  Tutto questo per arrivare al 1915, quando per l'ultima volta in Italia sono stati concessi i pieni poteri. Con la legge dei pieni poteri, quindi, si legiferò negli anni successivi praticamente solo con decreti legge, più di mille l'anno, che addirittura portarono alla necessità delle conversioni in blocco. La legge dei pieni poteri non è mai stata revocata in Italia e, quindi, negli anni 1919 e 1920 si pensò di dover sanare tutto ex post con due enormi conversioni in blocco.
  A quel punto la giurisprudenza si ribellò. Avevamo ancora le Cassazioni regionali e soprattutto la Cassazione di Roma, che disapplicò un paio di decreti legge. Questo orientamento giurisprudenziale, che fu portato anche nelle Cassazioni regionali, rientrò, soprattutto perché la legge 31 gennaio 1926, n. 100, come sappiamo, riconobbe l'istituto e lo legittimò, trasformando il decreto legge in una sorta di legge provvisoria, in una legge a tempo, perché durava due anni e, ove decadeva, decadeva non retroattivamente, ma ex nunc. Era, quindi, una vera e propria legge transitoria.
  Malgrado questo, per tutto il ventennio fascista si governò con decreti legge, arrivando poi anche, come sappiamo, a chiudere la Camera dei deputati.
  Questo excursus storico serve a farci capire l'animo con cui arrivarono i Costituenti. I Costituenti avevano un grande timore del decreto legge. Inizialmente avevano previsto di non disciplinarlo per escludere l'istituto. Poi, invece, preferirono una «gabbia di Nesso». Cito Meuccio Ruini, il quale pensava che l'articolo 77 Pag. 5fosse una gabbia di serpenti intorno a questo istituto, che non doveva essere usato mai.
  La storia repubblicana la conosciamo. L'aspetto più interessante degli ultimi anni è l'orientamento della Corte Costituzionale. Cito solo due passaggi fondamentali.
  La Corte Costituzionale tradizionalmente ha ritenuto che la conversione in legge fosse completamente novativa di ogni vizio proprio del decreto legge, di vizi formali e di vizi propri, e questo è stato l'intervento consolidato quanto meno fino al 1995. Dal 1995 ha cambiato orientamento e ha ritenuto che il vizio proprio del decreto legge, che può essere la reiterazione o la mancanza dei presupposti, si trasferisce anche alla legge di conversione. C’è stato poi tutto il filone sulla reiterazione, che, con la sentenza n. 360 del 1996, è stata praticamente eliminata come fenomeno, salvo qualche rarissima eccezione.
  Il punto importante è che, invece, mai la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale un decreto legge per mancanza dei presupposti, anche se da cinque o sei anni a questa parte, dal 2007, ha avviato l'orientamento di controllare le norme intruse in conversione, che è sicuramente un orientamento molto importante. Le prime sentenze (sindaco del comune di Messina e Teatro Petruzzelli di Bari, del 2007 e 2008) sindacavano la norma intrusa, ritenendola carente dei presupposti.
  Questo è stato per la Corte un esercizio molto difficile, perché si è trattato di andare a rivalutare ex post un presupposto sicuramente anche politico e fattuale, come il presupposto del decreto legge. Infatti, da ultimo, prima del 2012, con la sentenza n. 22, e poi con la sentenza n. 32 di quest'anno, la Corte ha cambiato orientamento e ha trasformato il vizio della norma intrusa in conversione in un vizio della natura della conversione stessa.
  È tornata, quindi, l'idea che la legge di conversione sia una legge soprattutto meramente formale, una legge che si avvicina all'idea del prendere o lasciare – idea spagnola, ma portata avanti anche in Italia, per esempio, da Aldo Maria Sandulli negli anni Settanta – e che, quindi, non si possano aggiungere emendamenti fuori dall'oggetto del decreto legge, per quanto possa essere un oggetto plurimo, come proprio il decreto legge sulla Fini-Giovanardi.
  Pertanto, io ritengo, in conclusione, rinviando poi all'atto scritto, che sicuramente del decreto legge si sia abusato tanto in questi decenni per ragioni politico-istituzionali e che la soluzione non sia sicuramente solo una soluzione giurisprudenziale. Non può essere la Corte Costituzionale ad andare a sindacare tutti i decreti, ma è un problema di forma di governo ed è un problema di rapporti Governo-Parlamento e, quindi, è un problema che ridonda proprio sull’iter legis. Come noi sappiamo, infatti, è la farraginosità dell’iter legis che ci porta poi a dover spesso ricorrere a dei decreti legge, che vengono caricati in conversione di tanti contenuti eterogenei e che hanno completamente snaturato l'istituto.
  L'istituto di cui parla l'articolo 77 della Costituzione è quell’«atto straordinarissimo» che serve, nell'idea dei Costituenti, come nell'idea storica, a fronteggiare una calamità, un'emergenza fiscale, lo stato d'assedio, ma non certo per diventare lo strumento alternativo di legislazione.

  GAETANO AZZARITI, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università «La Sapienza» di Roma. Grazie, presidente. La ringrazio per l'invito e mi permetto innanzitutto due osservazioni preliminari.
  La prima è la seguente: è chiaro che, se si dovesse giungere alla riforma costituzionale preannunciata, se si dovesse cioè cambiare il sistema bicamerale, cambierebbe il contesto, con rilevanti ripercussioni sulla questione della decretazione d'urgenza. Una semplificazione dell’iter di formazione della legge dovrebbe in qualche modo scoraggiare l'adozione di provvedimenti d'urgenza, almeno di tutti quei decreti legge che vengono adottati, e sono molti, solo per accelerare i tempi di entrata in vigore di provvedimenti ritenuti Pag. 6utili per le politiche di governo. In questa ipotesi di semplificazione la riduzione dei decreti legge sarebbe un obiettivo auspicabile, anche se non scontato, ma evidentemente in un contesto diverso, che non possiamo in questo momento affrontare.
  Vengo alla seconda premessa che vorrei fare. Io credo che la questione dei decreti legge dovrebbe essere affrontata entro la più ampia prospettiva delle trasformazioni complessive della funzione legislativa e che sia una prospettiva, anch'essa, che evidentemente non può essere svolta nei pochi minuti che sono a mia disposizione.
  Ritengo, però, di doverla richiamare, perché ritengo che le patologie di cui andrò a dire siano essenzialmente una conseguenza della crisi della legge, la quale non riesce più a porsi come fonte generale, astratta, distinta dall'attività provvedimentale. Personalmente ho l'impressione che, solo se si dovesse ripensare radicalmente la funzione della legge, si potrebbe giungere a una più esatta ridefinizione anche dell'atto legislativo d'urgenza. Solo se la legge tornasse a essere una legislazione per princìpi e non anche un intervento di normative specifiche, si potrebbe arginare il potere normativo del Governo e, quindi, la decretazione d'urgenza dello stesso, peraltro assegnando anche forse un ruolo centrale al Parlamento, che l'ha perduto.
  In questa sede io mi limito soltanto a sperare che in questa stagione che si preannuncia di riforme prima o poi, il prima possibile, si ponga anche in agenda la questione della funzione della legge e del ruolo del Parlamento. Mi sia consentito dire che tanto la legge, quanto il Parlamento mi sembrano oggi fortemente in crisi.
  Vengo adesso alla specifica questione della decretazione d'urgenza. Dal punto di vista costituzionale io osservo quello che a me sembra il più evidente e il più profondo distacco della prassi da quanto scritto nell'articolo 77 della Costituzione. Lo accennava il collega Celotto. Tanto la Costituzione sottolinea la straordinarietà della decretazione d'urgenza, quanto essa è diventata ormai uno strumento ordinario di governo. La scelta del Consiglio dei ministri di adottare e se adottare un decreto legge ovvero un disegno di legge appare puramente dettata da ragioni di opportunità e convenienza politica.
  È vero, il tempo di entrata in vigore della normativa può essere un elemento rilevante ai fini della scelta se adottare un decreto o un disegno di legge, ma la questione dei tempi e della fretta non è necessariamente legata all'urgenza di provvedere, bensì alla necessità eventualmente di fare qualche cosa per lasciare dopo alla via ordinaria e ai disegni di legge il resto.
  Lo spacchettamento dei provvedimenti in parte adottati con decreto e in parte con disegno di legge sulla medesima materia mi sembra abbiano valore emblematico e, volendo, ma solo per esemplificare, si possono richiamare le ultime importanti decisioni politiche dell'attuale Governo, dal Jobs Act alla riforma della pubblica amministrazione, che sono appunto adottati con entrambi gli strumenti.
  D'altronde, bisogna ammettere che non si è mai riusciti a contrastare con efficacia l'uso straordinario della decretazione d'urgenza. Non che non ci si sia provato. Anzi, nella relazione che abbiamo letto del Presidente Sisto si rende conto delle numerose e significative decisioni della Corte Costituzionale, nonché delle decise prese di posizione del Capo dello Stato. Eppure non può dirsi francamente che questi interventi siano stati decisivi, tutt'altro. Si deve registrare un'impotenza dei controlli sul rispetto dei presupposti costituzionali della decretazione d'urgenza.
  Devo dire che anche il Regolamento della Camera – siamo alla Camera, ma, volendo, potremmo parlare anche del Regolamento del Senato – che espressamente individua dei limiti, poco opera in sede di conversione.
  Se questa è la situazione, anche alla luce dei fallimenti sin qui registrati nella limitazione della decretazione d'urgenza, io credo che si debba operare con decisione, con l'obiettivo di conseguire un doppio risultato: da un lato, consolidare la responsabilità nel momento dell'adozione Pag. 7del decreto da parte del Governo e, al tempo stesso, riaffermare il carattere provvisorio del decreto, che è l'essenza, mi sembra, di quanto scritto in Costituzione a proposito del Governo; dall'altro, riconsegnare al Parlamento un effettivo potere di controllo – poco fa veniva richiamato Sandulli e lo voglio richiamare anch'io – sull'atto del Governo al momento della conversione, esigenza che pure è alla base del sistema costituzionale.
  Entro questa prospettiva io credo che alcune limitazioni debbano essere affermate, o forse solo riaffermate, rispetto a una prassi che non le rispetta adeguatamente. Io credo che dovrebbero, in questa prospettiva, essere richieste delle limitazioni ai poteri del Parlamento, essenzialmente una drastica limitazione della emendabilità e comunque un più rigoroso rispetto del principio di omogeneità rispetto all'oggetto e alla finalità dell'atto.
  Questa compressione dei poteri emendativi in sede di conversione dovrebbe, però, riguardare anche il Governo, il quale, secondo la mia prospettiva, non potrebbe intervenire in sede di conversione proponendo modifiche ulteriori di carattere sostanziale rispetto al testo originario presentato, interrompendo la prassi distorsiva, tante volte denunciata, dei maxiemendamenti, ma limitando drasticamente – non dico escludendo – la possibilità di porre la fiducia su testi quali decreti legge che assumano già una particolare rilevanza politica.
  Io penso che un sostanziale divieto di modificare in modo radicale in corso di conversione il decreto legge potrebbe costituire anche un modo per responsabilizzare nel momento dell'approvazione dell'atto l'Esecutivo, il quale non avrebbe più la possibilità di ripensamenti, o di profondi ripensamenti. Ridurremmo forse il rischio di quei decreti approvati un po’ troppo frettolosamente, perché tanto poi ci si pensa in sede di conversione.
  Se mai fosse ipotizzabile, dunque, una limitazione del potere emendativo dei parlamentari, ma anche, parallelamente, di quello del Governo, non mi sembra, invece, opportuna una limitazione del potere di controllo, come dicevo prima, in sede di conversione. Anzi, la semplificazione prodotta dalla ridotta possibilità di emendare dovrebbe favorire la discussione dell'atto.
  Proprio a questo fine io credo che debba essere esclusa la possibilità di adottare misure drastiche per interrompere la discussione. Mi riferisco, in particolare, alla cosiddetta tagliola, ma forse anche a un troppo rigido contingentamento dei tempi, oltre che alla poco giustificabile apposizione della fiducia cosiddetta tecnica, non foss'altro perché di tecnico mi sembra che abbia ben poco.
  Credo, altresì e parallelamente, che le pratiche dilatorie che possono essere adottate dalle opposizioni e che spesso sono indicate come ragione della chiusura forzata del dibattito possano essere evitate, o quanto meno limitate, attraverso, da un lato, una migliore organizzazione e programmazione dei lavori e, dall'altro, da una limitazione della presentazione degli emendamenti di cui ho detto.
  A proposito di organizzazione e programmazione dei lavori, riterrei, inoltre, assai utile una definizione formale, che può porsi in sede di Regolamento parlamentare (Camera), dei tempi di discussioni ripartiti tra le due Camere, tenendo presente, altresì, un tempo del possibile controllo successivo da parte del Capo dello Stato.
  Si tratta, in sostanza, a mio modo di vedere, di evitare il rischio, almeno a Costituzione invariata, di non lasciare il tempo alla seconda Camera per intervenire, se non formalmente, per apporre un visto, quel bicameralismo alternato che giustamente è denunciato dalla relazione del Presidente Sisto.
  È evidente, almeno ai miei occhi, che la difficoltà di dare sostanza e autonomia alla fase di conversione dipende massimamente dall'abuso dello strumento da parte del Governo, oppure, come ho detto prima, dall'uso ordinario di questo strumento.
  I dati forniti anche nella documentazione della Camera sono impressionanti. Nella legislazione in corso, in sostanza, gran parte dell'attività del Parlamento è Pag. 8impegnata per la conversione, in un flusso continuo di decreti promossi nelle materie più diverse, che sottraggono pressoché ogni energia ulteriore al Parlamento, il quale praticamente rischia di diventare organo servente rispetto all'attività normativa del Governo.
  Questa mi sembra, statisticamente, la situazione. Credo che si debbano far valere con maggior rigore i limiti di materia posti dall'ultimo comma dell'articolo 72, così come attuati dall'articolo 15 della legge 23 agosto 1988, n. 400 e così come richiamati in diverse occasioni dalla Corte Costituzionale. Vorrei, cioè, sostenere che si dovrebbe essere più rigorosi rispetto al passato nei limiti di materia.
  Forse il caso più clamoroso è quello delle deleghe contenute nei decreti legge, che evidentemente contrastano con la ratio dell'urgenza e della immediata applicabilità della normativa. Anche alla luce di quanto prima richiamato sui limiti di emendabilità, ritengo che debba essere escluso che si possano introdurre deleghe in sede di conversione. In ogni caso l'inammissibilità di emendamenti contenenti deleghe credo debba essere una misura necessaria, anche se so bene che la giurisprudenza costituzionale sul punto è ambigua, se non forse del tutto reticente. Credo, però, che, nonostante questo, nulla impedisca di introdurre una previsione regolamentare che escluda l'ammissibilità di emendamenti contenenti deleghe e, più in generale, tutte le misure non immediatamente applicabili, che credo non possano trovare giustificazione nella ratio della decretazione d'urgenza.
  Pertanto, si potrebbero escludere per via regolamentare tutte le misure di rinvio ad atti normativi ulteriori o a decisioni ministeriali successive, magari con necessari contemperamenti.
  L'ultima decisione della Corte in materia di Province credo, inoltre, ci debba insegnare che non è possibile introdurre riforme di struttura tramite lo strumento della decretazione d'urgenza; riforme, peraltro, che, se effettivamente di struttura, ben difficilmente possono essere concepite come immediatamente applicabili.
  Se si applicasse, come è auspicabile, rigorosamente questo criterio, ritengo che si ridurrebbe di molto lo spazio occupato, forse impropriamente, dallo strumento della decretazione d'urgenza e si contribuirebbe, peraltro – lo dico incidentalmente – a riservare al Parlamento la cosiddetta grande legislazione di iniziativa. Questa, però, è questione cui facevo inizialmente riferimento.
  Svolgo soltanto due ultime e rapidissime considerazioni de iure condendo.
  La prima con riferimento al cosiddetto voto a data fissa, che imporrebbe al Parlamento di adottare entro 60 giorni il testo di legge del Governo. È una misura che, si dice, dovrebbe ridurre la necessità del Governo di utilizzare la strada della decretazione d'urgenza, il che è vero. Inviterei, però, alla cautela, perché rischierebbe di essere una soluzione peggiore del male. È vero che il Governo non avrebbe più la necessità di usare in modo distorto la decretazione d'urgenza, ma si finirebbe per consegnare all'Esecutivo uno strumento analogo alla decretazione d'urgenza, senza neppure il limite dell'articolo 77 della Costituzione.
  Come ultima questione, non voglio ovviamente entrare nella discussione sulle proposte di modifica del bicameralismo. Mi limito, però, a segnalare un punto: qualora il Senato non dovesse più essere il titolare del rapporto di fiducia di alcuni poteri legislativi e comunque non dovesse essere coinvolto nella conversione della decretazione d'urgenza, io credo che si potrebbero allora utilmente assegnare ad esso, al Senato nuovo – diciamo così – alcuni poteri di controllo preventivo. Per esempio, potrebbe il Senato previamente operare una verifica sulla sussistenza dei presupposti costituzionali, sull'omogeneità del contenuto e sull'immediata applicabilità delle norme in quanto previsto.

  BENIAMINO CARAVITA DI TORITTO, Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università «La Sapienza» di Roma. Grazie, presidente. Ringrazio anche la Commissione.Pag. 9
  Io cercherò effettivamente di essere breve, perché è inutile che noi andiamo a fare una rassegna dei difetti che conseguono al decreto legge. È inutile che andiamo a fare una rassegna degli abusi. Sono cose che conosciamo oramai da tempo immemore. Sappiamo benissimo che il decreto legge, così come è utilizzato, è fonte di una continua serie di abusi. Sappiamo benissimo che il decreto legge, così come è utilizzato, è assolutamente problematico nei rapporti fra Governo e Parlamento. Sappiamo, però, altrettanto bene che i rimedi per vie interne – diciamo così – non sono mai stati sufficienti.
  Ricordo la prima sentenza della Corte Costituzionale che ha colpito un decreto legge prima della sua conversione. È la n. 161 del 1995, in cui il decreto legge fu impugnato in conflitto di attribuzione dai promotori del referendum (era quello sulla par condicio) e la Corte prima dei sessanta giorni si pronunziò.
  Dopo quella vicenda, che è forse la prima di significativo controllo sul decreto legge, la Corte, l'anno dopo, fece la sentenza sul divieto di reiterazione e poi ha continuato fino all'ultima sentenza importante, quella in cui, ancorché sulla legge di conversione, ha detto che non si può usare il decreto legge per fare un intervento di riforma di sistema, qual era quello sulle Province.
  Passando per questi venticinque anni, troviamo che i tentativi di intervento per linee interne della Corte Costituzionale sono stati praticamente tutti. La Corte è tornata indietro sulla sua giurisprudenza sulla legge di conversione e ha ritenuto sindacabile anche la legge di conversione. Le strade per un controllo interno sul decreto legge e sulla legge di conversione la Corte le ha tentate tutte.
  Egualmente, il Presidente della Repubblica, altrettanto ha tentato tutto. Ha provato più volte a negare la firma, ha fatto più volte appelli e richiami alle forze politiche e al Governo per evitare l'abuso del decreto legge, ma, ciò nonostante, questo non è accaduto.
  Ciò significa che c’è un problema di sistema, che c’è un problema di organizzazione complessiva della nostra forma di Governo da svariati anni, fin dal memorabile – non c’è bisogno che lo ricordi – e famoso intervento di Predieri sull'uso del decreto legge. Vuol dire, dunque, che c’è un problema di sistema.
  Io vorrei segnalare un'altra conseguenza dell'abuso dei decreti legge, conseguenza che, purtroppo, secondo me, viene scarsamente presa in considerazione. Si parla di decreto legge, di rapporti fra Governo e Parlamento e maggioranza e opposizione, di circuito decisionale che viene bypassato. Il decreto legge, per la sua struttura, ha, però, un altro gravissimo problema. Il decreto legge, in quanto norma immediatamente efficace, è fonte di un disordine amministrativo tale per cui è da chiedersi, meravigliati, come abbia fatto il nostro Paese a resistere al disordine amministrativo che l'uso del decreto legge crea.
  Questo problema, scusatemi, è molto più grave del problema del raccordo fra Governo e Parlamento, perché fare quest'uso del decreto legge significa gettare il Paese in una situazione di caos amministrativo insuperabile.
  Perché di caos amministrativo ? Perché l'amministrazione, i giudici, i soggetti privati, gli operatori industriali, gli operatori economici, ognuno di noi, di fronte al decreto legge non sa se prendersi il rischio di attuarlo o se aspettare la legge di conversione. Questo significa che il Paese, tutto il Paese, vive sessanta giorni – ma tempo addietro ancora di più – nell'incertezza dei propri comportamenti amministrativi. Questa è la più grave fonte di disagio creata dal decreto legge.
  Dunque, c’è un problema di sistema. C’è un problema di sistema che deriva dalla struttura dell'atto, naturalmente, che deriva da quello che diceva il collega Azzariti della complessiva crisi della legge.
  Sicuramente la legge come strumento tradizionalmente inteso è ormai entrata in crisi, non è più generale e astratta, i procedimenti di produzione normativa si sono modificati. Sono tutte questioni che Pag. 10conosciamo, ma il problema di fondo è, scusatemi, uno solo: il nostro sistema di produzione normativa è un sistema disordinato, è un sistema che non permette alla maggioranza parlamentare di portare avanti il suo programma e che la costringe a utilizzare questo strumento abnorme e mostruoso, questo monstrum, che è il decreto legge.
  Senza entrare nel problema della verifica di tutta una serie di presupposti, su cui possiamo entrare e in merito ai quali possiamo chiederci se occorra introdurre qualche modifica in più nei Regolamenti parlamentari e se bisogna rafforzare la legge n. 400 del 1988, il problema è uno solo: bisogna dare al Governo uno strumento che gli permetta di avere garantito il suo tentativo di attuare il programma di maggioranza.
  C’è un'unica risposta di sistema, ed è quella dell'iniziativa legislativa rafforzata, quella che permette al Governo di poter presentare un testo e di aver garantita l'approvazione in un lasso di tempo determinato. Naturalmente, è evidente che l'introduzione di una previsione di questo tipo non è sufficiente farla in sede regolamentare. Non ce la si fa con i Regolamenti. Occorre la previsione di rango costituzionale.
  In secondo luogo, è evidente che dall'introduzione di una previsione di questo tipo non può che derivare una drasticissima riduzione dell'uso del decreto legge, anch'essa introducendo previsioni costituzionali di strettissima applicazione in sede costituzionale. Si è ipotizzata la costituzionalizzazione della legge n. 400 del 1988, ma il problema è che il sistema non ce la fa.
  Il sistema non ce la fa perché non regge la richiesta di produzione normativa e il Presidente del Consiglio, il più buono o il più cattivo, è costretto a utilizzare lo strumento abnorme del decreto legge.
  Sono decenni che ci poniamo questo problema e la risposta di sistema è una sola. Se è come ci diceva Alfonso Celotto e ragioniamo sui decenni, la risposta di sistema è una sola: quella della previsione in Costituzione di una norma che garantisca al Governo, nel processo legislativo, la possibilità di attuare il suo programma.
  Il resto viene da sé. Il resto, una volta che noi andiamo in questa direzione, che è quella che, fortunatamente, viene prevista nel testo di riforma, viene da sé. Allora potremo ragionare più serenamente su come correggere o su come introdurre alcuni correttivi all'uso del decreto legge, perché avremmo risolto il problema principale, che è quello di fornire al Governo uno strumento per l'attuazione del programma.

  ANTONIO D'ANDREA, Professore ordinario di diritto pubblico presso l'Università di Brescia. Grazie dell'invito. Io devo dire che concordo nel ragionare, come hanno fatto i colleghi, guardando alla decretazione d'urgenza come a una patologia più complessiva che riguarda la forma di governo. In particolare, sono d'accordo con Gaetano Azzariti quando dice che noi parliamo di questi abusi e che è inutile fare l'elencazione degli abusi. Ha ragione anche Caravita: sono noti gli abusi perpetrati attraverso il decreto legge e attraverso la legge di conversione. È inutile, appunto, farne l'elencazione.
  Può essere, tutto sommato, perlomeno per me, di conforto sapere che rispetto a questi abusi talvolta la Corte Costituzionale interviene e non spinge l'abuso sino al sovvertimento del sistema delle fonti, chiudendo gli occhi dinanzi alla legge di conversione, che è una sorta di treno in corsa nel quale si sale al volo e in cui tutti stanno male, ma in cui tutti sono pronti a mettersi in qualche modo in piedi.
  Questo non è né serio, né edificante, ma in merito la reazione ex post la Corte Costituzionale la garantisce. Ci saranno sofisticate questioni interpretative della tipologia della decisione della Corte, ma sostanzialmente oggi non è più sicuro che si possa fare tutto con la legge di conversione. Non è un problema solo di omogeneità della materia, ma è un problema proprio di materia.
  Da questo punto di vista io sono tranquillizzato da questo cambiamento di registro della Corte, che non può fingere di Pag. 11non vedere quello che accade. Il tema, però, è quello della forma di governo. Questa idea per cui il Governo – poveretto – non avrebbe alcuno strumento per realizzare il suo indirizzo politico, così debole e così privo da dover ricorrere a questo escamotage del decreto legge altrimenti non realizza il programma, è una favola che io non mi bevo affatto e che ritengo sia non realistica.
  Non voglio neanche difendere l'attuale contesto costituzionale, che non consentirebbe alcuna forma di primato del Governo sul Parlamento. A limite posso constatare la circostanza che nel nostro ordinamento tutto questo è potuto accadere perché non c’è più la maggioranza parlamentare. La maggioranza parlamentare è struttura servente rispetto al Governo. Se l'indirizzo politico non si realizza, è perché la maggioranza parlamentare e il Governo hanno problemi al loro interno, non perché mancano gli strumenti.
  Il Governo dispone eccome di straordinari strumenti di pressione sulla sua maggioranza, persino in disprezzo di regole procedurali e regolamentari poste e che vengono bellamente disattese, sia da chi governa le Assemblee, sia da parte di quelli che dovrebbero essere i giudici interni rispetto al Regolamento parlamentare.
  Questa è una questione delicata, che pure andrebbe affrontata. Che diritto è il diritto parlamentare ? È un diritto, non è un diritto, è tutto politica, non è un ramo dell'ordinamento giuridico, basta la prassi per cambiare il senso delle norme scritte ? Bisognerà prima o poi risolvere anche questo problema e ammettere, per esempio, che l'ordinamento italiano, a differenza di altri ordinamenti, questo controllo non solo non ce l'ha – mi riferisco al controllo esterno rispetto ai Regolamenti parlamentari – ma lo affida a giudici interni, che spesso sono molto poco giudici e molto attenti alle ragioni di chi, in realtà, preme perché si faccia in fretta e velocemente rispetto a ciò che chiede il Governo.
  Il decreto legge, dunque, esplode in un contesto che falsamente, secondo me, viene dipinto come un contesto nel quale al Governo non sono forniti e garantiti poteri procedurali che siano in grado di consentirgli la realizzazione del programma.
  C’è anche un altro grosso equivoco che andrebbe risolto, se si resta dentro un contesto parlamentare. Naturalmente, se andassimo verso una variazione dell'attuale forma di governo, si potrebbe ragionare più serenamente anche sulla posizione autonoma del Governo e della maggioranza parlamentare. Il Governo deve avere garantita sempre e comunque, senza limiti di tempo e di oggetto, l'approvazione delle sue iniziative ? Bisogna dire sempre «sì» ? Lo dico alla maggioranza parlamentare. La maggioranza parlamentare ha una soggettività da giocare o no ? Esiste o non esiste come soggetto che ragiona rispetto al Governo ?
  Io sono convinto che l'assoluta inconsapevolezza di un ruolo abbia prodotto l'esorbitanza del rilievo istituzionale del Governo, che fuoriesce dalle Aule parlamentari, e arrivo al punto di pensare che l'elettorato elegga il Governo. C’è questa sorta di favola per cui, in realtà, i successi elettorali di una competizione che serve per avere la rappresentanza parlamentare e, quindi, per assegnare seggi, sono diventati meccanismi che determinano più o meno efficacemente l'elezione del Governo.
  Anche per i discorsi sulla votazione a data certa vediamo quel che succede in altri ordinamenti, stabiliamo un limite, stabiliamo qualche materia. Quante volte nel calendario si può utilizzare ? Il Governo la chiede e la ottiene o è l'Assemblea che gliela concede ? Dobbiamo ragionarci, altrimenti si rischia davvero di stravolgere un ordinarissimo funzionamento di una democrazia parlamentare. Un conto è che il Governo abbia preferenza rispetto alle proprie iniziative e alla calendarizzazione, un conto è che abbia il diritto di vedere garantita l'approvazione delle sue iniziative.
  Secondo me, ragionando in questo modo, si snatura il minimo che dovrebbe essere garantito alle democrazie parlamentari. Pag. 12Ho l'impressione che nel contesto generale, quando si allude a modificazioni costituzionali che dovrebbero essere controbilanciate da banalissime concessioni – per esempio riguardo alla cosiddetta costituzionalizzazione dell'articolo 15 della legge n. 400 del 1988, mentre questa circostanza è già ottenuta per via giurisprudenziale – quando si insiste, come si insiste, su questa strada, addirittura inserendo questa norma nel progetto del Governo che si occuperebbe di altro, vale a dire del mutato ruolo del Senato, in realtà si voglia accelerare, in modo, dal mio punto di vista, innaturale e pericoloso, verso forme che sviliscono il Parlamento e addirittura formalizzano lo svilimento del Parlamento medesimo e del primato della legislazione.

  CLAUDIO DE FIORES, Professore straordinario di diritto costituzionale presso la II Università di Napoli. Ringrazio la presidenza della Commissione per l'onore che ha voluto riservarmi, invitandomi a quest'audizione sulla decretazione d'urgenza.
  Gli interventi che mi hanno preceduto hanno affrontato in modo articolato i nodi problematici di carattere costituzionale che investono oggi, ma non solo da oggi, la questione della decretazione d'urgenza: l'impiego sempre più massiccio e smodato, la tendenza di alcuni decreti legge a coinvolgere ambiti materiali sempre più variegati e complessi, dai decreti omnibus a quelli che oggi vengono definiti i decreti macrosettoriali.
  Si è fatto anche ampiamente riferimento alla giurisprudenza costituzionale, in modo particolare con le due sentenze, la n. 29 del 1995 e la n. 360 del 1996, che hanno ribaltato l'impostazione originaria del giudice costituzionale. Con la sentenza n. 29 del 1995, si è detto, è stato affermato il principio della sindacabilità, del difetto della necessità e dell'urgenza. Con la sentenza n. 360 del 1996 è stata in qualche modo travolta la prassi della reiterazione dei decreti legge.
  È opportuno, però, a questo riguardo, precisare che, se con la sentenza n. 360 la reiterazione dei decreti è sostanzialmente sparita, lo stesso non può dirsi per l'uso disinvolto della decretazione d'urgenza censurato dalla sentenza n. 29 del 1995 e poi successivamente, in termini ancora più netti, dalla sentenza n. 171 del 2007.
  Come si vede, i termini che ricorrono in dottrina e in giurisprudenza sono molti, con riferimento alla decretazione d'urgenza, ma sono quasi sempre gli stessi: «urgenza», «necessità», «reiterazione». A fronte di tutto ciò, io mi chiedo, invece, che fine abbia fatto la straordinarietà.
  A mio modo di vedere, è proprio questo elemento, l'elusione della straordinarietà, il connotato che ha alimentato la prassi distorsiva di questi anni. Vi è stata una sistematica rimozione, alla quale abbiamo tutti concorso, giudici e giuristi, Parlamento e Governo, della straordinarietà, che è più che un presupposto, è un elemento sostanziale della decretazione d'urgenza e dei presupposti dell'esercizio della decretazione d'urgenza.
  C’è, quindi, un vulnus con il quale siamo chiamati a fare i conti, perché questo richiamo alla straordinarietà, dal mio punto di vista, allude non solo all'anomalia dell'evento su cui il decreto legge si fonda, ma anche al carattere eccezionale della disciplina in esso contenuta. Aver rimosso la straordinarietà fino a qualificarla, anche in una certa dottrina, come definizione rafforzativa della necessità e dell'urgenza, una sorta di mero accessorio di questi due connotati e presupposti, ha contribuito ad avallare le tendenze attuali del sistema, fino a trasformare il decreto legge in uno strumento di normazione ordinario. È da qui che discende l’impasse del sistema, come anche la giurisprudenza costituzionale parrebbe ampiamente confermare.
  Quella che è stata – come è stata definita – la rivoluzione giurisprudenziale dei decreti, pur assumendo quale premessa generale la prescrittività della Costituzione, non è stata capace di svilupparne appieno gli effetti. Anzi, in più occasioni lo stesso giudice costituzionale ha sistematicamente eluso il precetto della straordinarietà, che pure, come dicevo Pag. 13prima, è un dato positivo. In qualche modo bisogna fare i conti con questo elemento e bisogna approdare a effetti giuridicamente apprezzabili e, di per sé, idonei ad arginare gli abusi della decretazione d'urgenza.
  Mi riferisco, in modo particolare, a ciò che parte della dottrina ha definito «l'urgenza auto-procurata», con riferimento a tutti i casi in cui l'urgenza e la necessità di provvedere derivano da un'inerzia del legislatore. Il legislatore non interviene attraverso le vie ordinarie per inerzia o perché vi è una difficoltà politica e, quindi, preferisce ricorrere a strumenti straordinari, quali il decreto legge, per far fronte a situazioni che straordinarie non sono. Si tratta, invece, di situazioni ampiamente prevedibili, attorno alle quali il dissenso, se c’è, è un dissenso di natura politica, ma che non attiene alla straordinarietà dei connotati del fatto.
  L'elusione, quindi, della straordinarietà non è stata in questi anni a costo zero. Ha determinato gravi alterazioni, in alcuni ambiti irreversibili, sul piano dei rapporti tra i poteri nella tutela dei diritti e anche per quanto riguarda la forma di governo. Parti rilevanti dell'ordinamento sono state riscritte e sbrigativamente ridisegnate su input dei Governi, estromettendo di fatto in molte circostanze le Camere dai processi decisionali.
  Io ho l'impressione, quindi, che più che di fronte – per utilizzare un'espressione nota – a una «legislazione motorizzata», come direbbe Carl Schmitt, noi ci troviamo oggi di fronte a molto di più. Lo strumento attraverso il quale il Governo interferisce ripetutamente sui lavori parlamentari è forte e tende sempre più ad alterare le dinamiche del procedimento legislativo ordinario, a espropriare le Commissioni parlamentari dell'esame in sede referente di normative spesso di rilevante peso politico, per non parlare della questione, cui ha già accennato Gaetano Azzariti, del ricorso, non certo sporadico, soprattutto in questa Camera, alla questione di fiducia quale grimaldello per imporre la conversione della legge in tempi costituzionalmente previsti.
  A fronte di tutto ciò si auspica da più parti un controllo – si dice – più rigoroso della decretazione d'urgenza da parte del giudice costituzionale. Comprendo le ragioni di questa sollecitazione, ma non sarei poi così sicuro dell'esito. Non sarei sicuro dell'efficacia di questa soluzione. Certo, il giudice costituzionale ha ancora dei margini di intervento, può ancora dire qualcosa, ma non può dire molto.
  Dico questo perché, se il decreto legge si è trasformato in uno strumento politico utilizzato, come è stato detto in dottrina, per rispondere rapidamente a domande legislative che hanno carattere di urgenza politica, allora è evidente che un argine a queste tendenze non può che provenire dalla politica, più che dalla giurisdizione.
  È al Parlamento, quindi, che spetta assicurare la tutela dei limiti della decretazione d'urgenza, esercitando innanzitutto l'attività, che gli spetta, di controllo ai sensi degli articoli 96-bis del Regolamento della Camera e 78 del Regolamento del Senato, ridefinendo su basi nuove, meno meccaniche e senza automatismi, i rapporti con il Governo in sede di conversione del decreto.
  Più che su un controllo esterno di un giudice, io porrei l'attenzione sull'esperibilità e sulla ridefinizione di forme di controllo interno da parte dello stesso Parlamento. È questo l'ambito sul quale bisogna puntare. Come si è detto, se la politicità dei presupposti è il connotato significativo e rilevante della decretazione d'urgenza, è evidente che vi sia anche l'esigenza di un controllo che risponda a queste istanze di politicità e che non può che essere, quindi, esercitato dal Parlamento.
  Non c’è bisogno, a mio modo di vedere, di riformare l'articolo 77 della Costituzione, una questione che viene affrontata nell'ultima parte della relazione del Presidente Sisto. Quelli che sono, o che dovrebbero essere, i limiti della decretazione d'urgenza li conosciamo. Essi non vanno, quindi, riscritti, ma, a mio modo di vedere, vanno piuttosto rispettati.
  Per invertire questa tendenza e, quindi, per porre un argine a quella che è stata la Pag. 14dimensione patologica della decretazione d'urgenza è necessario soprattutto, e su questo concludo, intervenire sulle dinamiche del sistema. È necessario, quindi, che la rappresentanza parlamentare recuperi appieno gli spazi di decisione e di intervento rispetto al Governo. È necessaria una riaffermazione forte e sostantiva dell'ordinarietà della funzione legislativa e, per questa via, della centralità delle funzioni e del ruolo del Parlamento.

  GIOVANNI GUZZETTA, Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università Tor Vergata di Roma. Grazie, presidente. Nel ringraziare per l'invito, io mi scuso per il ritardo con lei, Presidente, con gli onorevoli parlamentari e con i colleghi, ma l'anticipazione dell'audizione non mi ha consentito di organizzarmi per evitare questo quarto d'ora di ritardo.
  Sul merito io condivido – mi pare che sia già stato detto da molti colleghi – lo scetticismo su due atteggiamenti che si possono avere nei confronti del tema del decreto legge. Il primo è l'atteggiamento della pura e semplice e utopistica eliminazione dell'istituto: mettiamo tanti di quei limiti per cui il Governo di fatto non lo possa più utilizzare. L'altro scetticismo rispetta una soluzione più realistica, più praticata e più tentata, che è quella della normalizzazione del decreto legge: interveniamo perché il decreto legge sia arginato e indirizzato e rimanga uno spazio congruo per la legge.
  Io credo che entrambe queste due soluzioni siano destinate al fallimento. Innanzitutto la storia ci dice che da centocinquant'anni a questa parte tutte le soluzioni sul decreto legge non hanno funzionato. Come diceva molto bene Celotto, non hanno funzionato né la soluzione di negarne l'esistenza, come nello Statuto Albertino, né la soluzione di disciplinarlo, come ha fatto la Costituzione. Non hanno funzionato perché è nella natura dell'istituto che non possano funzionare.
  Io credo che tale istituto sia consustanziale a qualsiasi ordinamento, tanto è vero che cambiano i nomi, cambiano le forme e cambiano gli strumenti, ma ogni ordinamento ne fa uso. È normale che ci sia una valvola che si possa attivare nei momenti in cui l'ordinamento non è in grado di reagire in termini ordinari.
  Un altro motivo per cui la normalizzazione mi sembra inadeguata e addirittura rischiosa è che il decreto legge nell'ordinamento italiano è l'unica risorsa decisionistica che ci sia. Mi sembra, quindi, molto difficile che si possa risolvere il problema eliminando o contenendo puramente e semplicemente questa unica risorsa decisionistica.
  Secondo me, per inquadrare la questione del decreto legge, bisogna considerare che la vicenda del decreto legge mette in luce quattro paradossi. Li indicherò molto brevemente.
  Il primo paradosso l'ho appena accennato ed è tra l'abuso, da una parte, e la tutela, la difesa e la cultura giuridica di tipo parlamentarista spinto, dall'altra, che ne fa da contraltare. Esiste una relazione evidente tra queste due condizioni, nel senso che, quanto più la cultura giuridica e costituzionale difende un modello di funzionamento ordinario del Parlamento legato a prassi e abitudini che, secondo me, non sono più sostenibili oggi, tanto più si determina la necessità di scivolare sull'utilizzo del decreto, al punto che noi arriviamo al paradosso che l'utilizzo del decreto legge in Italia è molto più grave e pesante dell'istituto che unanimemente si considera più allarmante, cioè quello del voto bloccato con voto di fiducia nell'ordinamento francese.
  I meccanismi con cui viene fatto operare il decreto legge con la legge di conversione, l'emendamento del Governo e la questione di fiducia sulla legge di conversione sono, dal punto di vista garantistico, mortificatori per il Parlamento, molto più di quanto non lo siano nel sistema in cui notoriamente si ritiene che il Parlamento sia particolarmente mortificato.
  Il secondo paradosso è che la normalizzazione del decreto legge rischia di rafforzare la legittimazione dell'esistente e, Pag. 15quindi, di produrre ancora di più abnormità rispetto a un funzionamento fisiologico delle Istituzioni.
  L'esempio più evidente viene proprio dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. Noi abbiamo finito per scaricare sulla Corte una serie di valutazioni che evidentemente sono estremamente delicate, perché la Corte giudica in termini di ragionevolezza e di buonsenso su parametri, come la straordinaria necessità e urgenza o l'omogeneità, che sono estremamente sfuggenti, con le conseguenze che si arriva ai paradossi per cui magari la Corte una certa legge di conversione l'annulla e la legge di conversione del decreto Milleproroghe non l'annulla, non perché trova un'omogeneità rappresentata dal fatto che ci siano mille proroghe su mille argomenti, ma perché è l'esigenza della proroga che unifica tutto il provvedimento.
  È chiaro che questo è un terreno estremamente sfuggente, sul quale la Corte non potrà che andare avanti e indietro, tant’è vero che, da una parte, annulla le leggi di conversione quando sono disomogenee, ma, dall'altra, consente alla legge di conversione addirittura di prevedere una delega legislativa sulla materia sulla quale sta convertendo il decreto legge. La normalizzazione, quindi, può essere rischiosa.
  In terzo luogo – lo diceva benissimo Caravita e, quindi, spendo una sola parola sul punto – il problema è che l'evoluzione dell'istituto del decreto legge ha determinato la circostanza che noi rispondiamo all'emergenza con l'incertezza, con un'incertezza generalizzata, con un'incertezza che viene talmente interiorizzata da riflettersi sullo stesso procedimento, ragion per cui un procedimento non è mai certo fino alla fine.
  Il Governo presenta il decreto legge in Consiglio dei ministri in modo tale che, quando non è una cartellina vuota, è un disegno di legge con più opzioni. Il Consiglio dei ministri approva questo disegno di legge con più opzioni, con buona pace dell'articolo 77 della Costituzione, dopodiché inizia una fase, ignota ai più, che può durare anche giorni o settimane, nella quale si definisce il decreto legge.
  A questo punto, il decreto legge viene pubblicato in Gazzetta Ufficiale, ma il dibattito sul decreto legge e i comportamenti dell'amministrazione sul decreto già si sono verificati al solo annuncio. L'effetto è un effetto di paradossale incertezza rispetto a un istituto che avrebbe avuto, invece, la funzione di essere la mannaia che si scarica sull'ordinamento nel momento dell'emergenza per stabilizzare una soluzione immediata, salvo poi reintervenire.
  Il quarto e ultimo paradosso è che il decreto legge sta perdendo la sua urgenza, ma non nel senso dei suoi presupposti di urgenza. Il senso è che questo procedimento che si sta sfilacciando e che, come ho detto, inizia con il Governo che non si sa nemmeno bene quale provvedimento faccia approvare al Consiglio dei ministri, continua con quella fase ignota di negoziato, la cosiddetta parte «salvo intese», approda al Parlamento, dove naturalmente si svolge tutto il negoziato, e arriva alla Presidenza della Repubblica, la quale, come dimostra l'esperienza, a volte è intervenuta dicendo: «Va bene, io vi promulgo la legge, purché, però, poi mi cambiate quello che avete fatto nel decreto legge». È il caso del decreto legge salva precari del 2009.
  Il Presidente della Repubblica dice: «Promulgo la legge di conversione di questo decreto legge avendo avuto dal Governo assicurazione che lo cambierà». L’iter del decreto legge è, quindi, molto più lungo di sessanta giorni. Diventa un iter virtualmente indefinito, il che è paradossale.
  In conclusione, quali soluzioni adottare ? Sono state più o meno illustrate, ma un punto deve essere chiaro: il Governo cesserà di utilizzare i decreti legge, come fa da centocinquant'anni, nel momento in cui sarà per il Governo più conveniente utilizzare un'altra strada.
  Io non credo che ci sia soluzione diversa. Il decreto legge è ormai talmente nella nostra cultura e ha talmente tante giustificazioni e stratificazioni storiche di ogni orientamento che l'unico modo per impedire che il Governo ne abusi è fornirgli Pag. 16uno strumento che sia per il Governo più conveniente dal suo punto di vista. Uno strumento che dia certezza, secondo me, sarebbe più conveniente di uno che non dà certezza.
  A mio avviso, non c’è altra soluzione che quella di prevedere tempi certi, non sul contenuto della soluzione, ma sull'esistenza o meno di una soluzione. Il Governo fa la sua proposta, sa che essa verrà decisa e che avrà un punto finale il giorno stabilito e poi se la vede con la sua maggioranza. Questo è giusto. Se la negozia, trova delle soluzioni. Questa è la prima soluzione.
  La seconda soluzione è che, se si realizza questo obiettivo di rendere per il Governo più conveniente esperire la via ordinaria, che a questo punto diventa, però, una via certa, il decreto legge rimane e non può non rimanere – sono convinto che il decreto legge, o il provvedimento emergenziale, sia un istituto – ma può essere disciplinato in modo molto secco: il decreto legge viene presentato il giorno stesso alle Camere e le Camere il giorno stesso, o entro cinque giorni, devono dire: «Lo converto» o «Non lo converto». Punto. Se non lo convertono, si trasforma nel disegno di legge, che ha i suoi tempi certi.
  Il decreto legge diventa, quindi, l'atto totalmente eccezionale, perché il Governo ha convenienza a perseguire un'altra strada, nella quale il Parlamento si pronuncia con un solo atto, in tempi del tutto certi, travolgendo tutta quell'incertezza amministrativa di cui, molto acutamente e icasticamente, parlava Caravita. Se non si prende la questione da questa parte, io credo che i nostri sforzi siano piuttosto disperati.

  FRANCESCO SAVERIO MARINI, Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università Tor Vergata di Roma. Grazie dell'invito. Io rinvio a un testo scritto per tutto quello che non dirò. Peraltro, è stato già detto molto e, quindi, mi limiterò solo ad accennare ai diversi tipi di controllo e al significato istituzionale della loro evoluzione.
  Sul controllo della Corte costituzionale si sono già spesi molto i colleghi, citando le sentenze più importanti, quella sulla reiterazione, la n. 360 del 1996, e la n. 29 del 1995, che in fondo rappresenta il vero snodo, perché da quella sentenza la Corte, dopo aver per lungo tempo sostenuto il carattere eminentemente politico della votazione al presupposto costituzionale, segue invece un'altra strada e configura il vizio in procedendo della legge di conversione.
  È un precedente che poi trova conferma nella successiva giurisprudenza e che nelle sentenze n. 171 del 2007 e n. 128 del 2008 conduce alla dichiarazione di incostituzionalità di norme contenute in legge di conversione proprio per difetto dei presupposti di legittimità della decretazione d'urgenza.
  Questi precedenti rappresentano le premesse logiche per la successiva giurisprudenza costituzionale, che è molto più restrittiva, tanto sul potere di emendamento in sede di conversione, quanto sui limiti di oggetto della decretazione d'urgenza e della successiva conversione.
  La Corte, cioè, inizia a considerare – lo accennava anche Celotto – la legge di conversione come una legge a competenza tipica, una legge funzionalizzata alla stabilizzazione di un provvedimento avente forza di legge (sono espressioni della Corte), e a valorizzare la semplificazione procedimentale di tale procedimento legislativo.
  In questo senso si può leggere proprio la recente sentenza sulla Fini-Giovanardi, la sentenza n. 32 del 2014, nella quale la Corte, confermando l'orientamento che era emerso nella sentenza n. 22 del 2012, sul cosiddetto decreto Milleproroghe, evidenzia come le Camere non possano introdurre emendamenti che siano estranei all'oggetto o alla finalità del decreto, proprio perché altrimenti si finirebbe per sfruttare abusivamente l’iter semplificato del procedimento di riconversione per scopi diversi rispetto a quelli che giustificano l'atto con forza di legge, a detrimento – dice la Corte – delle ordinarie dinamiche del confronto parlamentare.Pag. 17
  Nella stessa prospettiva può inquadrarsi la sentenza n. 220 del 2013, quella che ha annullato le norme introdotte dalla decretazione d'urgenza sugli enti locali, norme che sono poi confluite nella legge Delrio. In tale sentenza la Corte ha, infatti, censurato l'inserimento nei decreti legge e nelle relative leggi di conversione di norme a carattere ordinamentale, le quali, per loro natura – dice la Corte – non possono essere interamente condizionate dalla contingenza sino al punto da costringere il dibattito parlamentare sulle stesse nei ristretti limiti tracciati dal secondo e terzo comma dell'articolo 77. Il riferimento alla costrizione dei tempi del dibattito parlamentare penso sia molto rilevante.
  Per riassumere, la giurisprudenza costituzionale degli ultimi vent'anni manifesta la tendenza a un'estensione del sindacato sulla decretazione d'urgenza e sulle relative leggi di conversione che va dalla sussistenza dei presupposti straordinari di necessità e urgenza all'omogeneità del decreto, al divieto di inserire emendamenti estranei all'oggetto del decreto in sede di conversione, al divieto di reiterazione o, infine, al divieto di inserire norme a carattere ordinamentale o comunque destinate ad avere effetti pratici differiti nel tempo.
  L'accennata evoluzione della giurisprudenza costituzionale rappresenta, però, il sintomo di un processo più ampio, che riguarda i diversi controlli sull'esercizio del potere di decretazione e, dunque, anche quelli svolti da parte degli organi politici, in particolare dal Presidente della Repubblica, in sede soprattutto di emanazione del decreto legge, più che di promulgazione della legge di conversione, e delle Camere, nel procedimento legislativo di conversione.
  Quanto al controllo presidenziale, dicevo che esso ha funzionato in sede di emanazione prevalentemente in via informale, con l'accoglimento da parte del Governo dei rilievi formulati del tutto informalmente dal Capo dello Stato, ma non sono mancati i casi in cui il Presidente abbia formalizzato la sua richiesta o la sua posizione critica. Molteplici sono i richiami a un uso più parsimonioso dello strumento o all'omogeneità dei decreti, che hanno trovato espressione in una serie di lettere inviate ai Presidenti delle Camere e del Consiglio quasi con cadenza annuale dal 2007 ad oggi.
  In un caso, la nota vicenda Englaro, il Capo dello Stato ha poi addirittura negato l'emanazione a un decreto deliberato dal Consiglio dei ministri, constatando la carenza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza. Il Presidente della Repubblica molto raramente ha esercitato il potere, invece, di rinvio della legge di conversione, per non correre il rischio di determinare la decadenza di un decreto già approvato dalle Camere.
  Nondimeno, negli ultimi anni, lo accennava prima Guzzetta, il controllo presidenziale ha sperimentato strade nuove attraverso l'introduzione di figure atipiche di promulgazione, denominate dalla dottrina come «promulgazioni monito» o «promulgazioni condizionate». L'atto di promulgazione viene, cioè, accompagnato da un comunicato stampa o da una lettera ai Presidenti delle Camere e del Consiglio, nei quali si esprimono rilievi sulla legge promulgata e se ne auspica una tempestiva modifica.
  Un'intensificazione delle forme di controllo si riscontra anche nell'attività parlamentare e, specificamente, nei Regolamenti delle Camere. Se n’è già accennato. Ciò vale soprattutto per la Camera. Oltre alle modifiche dei Regolamenti va constatata anche una prassi più severa sul controllo del regime di ammissibilità degli emendamenti presentati nel procedimento di conversione, soprattutto alla Camera dei deputati.
  Il rafforzamento dei controlli da parte della Corte costituzionale e degli organi politici può, verosimilmente, ricondursi alla trasformazione, agli inizi degli anni Novanta, del nostro assetto istituzionale da consociativo e consensuale a maggioritario. Questi controlli vengono intensificati a partire da questa data, sia a livello di Corte costituzionale, sia a livello di organi politici.Pag. 18
  Per quasi un cinquantennio, infatti, lo spostamento del potere normativo attraverso l'abuso della decretazione d'urgenza era bilanciato dalla tendenza assembleare della forma di governo italiana, nella quale le decisioni erano il frutto di negoziati e compromessi tra i vari attori politici e istituzionali e le minoranze erano variamente coinvolte nelle scelte parlamentari.
  Successivamente alla riforma della legge elettorale, a seguito dei referendum del 1991 e del 1993, in senso maggioritario, si è affermata, invece, una democrazia competitiva, fondata cioè sulla concorrenza per il controllo dell'indirizzo politico di governo tra forze reciprocamente alternative. Ciò ha fatto venir meno il fattore compensativo e ha quasi automaticamente attivato o reso più sensibili le istanze di controllo sull'esercizio dei poteri governativi e, in particolare, proprio sulla decretazione d'urgenza, che ha rappresentato e rappresenta il mezzo principale di attuazione dell'indirizzo politico di maggioranza.
  Pongo un ultimo interrogativo de iure condendo sul quale si sono soffermati un po’ tutti, e concludo: quali rimedi si possono introdurre per contrastare l'abuso dei decreti legge ? Tradizionalmente si è provato a porre dei limiti di contenuto e a rafforzare le modalità di controllo nell'ambito del procedimento di conversione, ma la prassi dimostra che si tratta di soluzioni inefficaci. La Costituzione continua a essere elusa e i decreti continuano a essere, come ho accennato, mezzo ordinario e non straordinario di legislazione.
  La patologia non scaturisce, infatti, dalla mancata esplicitazione dei limiti o dall'insufficienza dei controlli. La sua fonte è da ricercare altrove e precisamente nell'inefficienza decisionale del Parlamento o nella mancanza o inidoneità degli strumenti ordinari in capo al Governo per indirizzare l'attività legislativa e ottenere entro tempi ragionevoli e certi una decisione parlamentare sugli atti di attuazione dell'indirizzo politico di maggioranza.
  Sotto questo profilo il recente disegno di legge costituzionale attualmente in discussione al Senato, oltre a costituzionalizzare i limiti previsti dall'articolo 15 della legge n. 400 del 1988, contiene due proposte di riforma che potrebbero sdrammatizzare il problema, anche se poi, ovviamente, ne creano altri: la riforma dei poteri del Senato, col tramonto del bicameralismo perfetto, e l'attribuzione al Governo del potere di chiedere l'iscrizione con priorità all'ordine del giorno e di ottenere la votazione entro i 60 giorni dalla richiesta.
  Condivido le perplessità di Azzariti e di D'Andrea, ma sono convinto che, finché queste o analoghe riforme non verranno approvate, sia difficile immaginare, nonostante i richiami presidenziali e l'affermarsi di una giurisprudenza costituzionale più stringente, una virtuosa trasformazione del patologico uso della decretazione d'urgenza. Queste soluzioni quantomeno diminuirebbero gli effetti di incertezza nell'ordinamento che determinano i decreti legge.

  GIULIO SALERNO, Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Macerata. Grazie dell'invito. Prima di tutto devo dire che concordo con quanto è stato affermato dai colleghi, vale a dire che il problema del decreto legge è un problema, ovviamente, del sistema e che, quindi, probabilmente, se non si attribuisce al Governo uno strumento alternativo ed efficace – il progetto di riforma costituzionale in corso prevede lo strumento del disegno di legge d'iniziativa del Governo a data fissa, con il voto bloccato – è difficile risolvere il problema del decreto legge. Probabilmente bisogna intervenire in senso più ampio.
  Il decreto legge, come è stato detto abbondantemente, ha prodotto degli effetti molto negativi. Io aggiungerei a quello che è stato riferito che ci sono, per esempio, dei problemi gravi che il decreto legge ha prodotto sul ruolo del Capo dello Stato. Non si comprende bene quale sia il ruolo del Capo dello Stato nella sede dell'emanazione del decreto legge e se il Capo dello Stato possa rifiutarlo, problemi che concernono la possibilità di rinvio alle Camere.Pag. 19
  Il decreto legge ha trasformato anche il ruolo delle Camere, che sono diventate sostanzialmente un organo meramente correttivo della volontà legislativa espressa dal Governo.
  Il decreto legge ha prodotto una frantumazione del sistema delle norme, una perpetua variazione delle norme, che cambiano costantemente – decreto legge e legge di conversione, successivi decreti legge e legge di conversione – e ha prodotto dei problemi sulla riserva di legge. La Costituzione prevede in tanti ambiti questa riserva, ma la riserva di legge sostanzialmente è stata svuotata dall'uso del decreto legge.
  Bisognerebbe ripensare l'istituto della riserva di legge, probabilmente riducendone i campi di intervento, ma riservandola davvero al Parlamento e, contemporaneamente, prevedendo qualcosa che possa assicurare al Governo la possibilità di intervenire con regolamento.
  L'abuso del decreto legge è intervenuto poi molto pesantemente sulla certezza del diritto. Esposito insegnava che il decreto legge poteva essere fondato sulla necessità o del provvedimento o del provvedere. Diciamo che ormai è fondato sulla necessità dell'annunciare: deve semplicemente confermare un annuncio che è stato fatto.
  Il decreto legge comporta un forte deficit di effettività del diritto, come è stato osservato – si aspetta praticamente la legge di conversione – ed è anche una fonte di sfiducia verso il diritto tutto, perché il cittadino – come anche gli operatori e gli amministratori – è in una sorta di limbo di attesa.
  I rimedi sinora attuati sono stati molto lacunosi e inefficaci. Io non credo che basti correggere la legge n. 400 del 1988 o che si possa puntare su un maggiore intervento della Corte costituzionale. Probabilmente servono, invece, un intervento deciso sulla Costituzione e un intervento sulle norme dei Regolamenti parlamentari.
  Per quanto riguarda la Costituzione, nella sintetica nota scritta che ho consegnato alla Presidenza ho immaginato alcuni possibili interventi, azioni che si potrebbero intraprendere per cercare di rendere la «gabbia di nesso», così come si era detto nell'Assemblea costituente, davvero efficace.
  Si potrebbero, da un lato, prevedere in Costituzione direttamente le circostanze eccezionali che giustificano questi atti. D'altronde, la legge di attuazione dell'articolo 81 della Costituzione, la legge 24 dicembre 2012, n. 243, prevede le circostanze eccezionali che consentono di poter derogare rispetto all'obiettivo strutturale di bilancio. Non vedo perché questo non possa essere fatto anche per il decreto legge.
  Io eviterei di porre in Costituzione i limiti relativi al criterio dell'omogeneità o della corrispondenza al titolo. Mi sembrano dei limiti molto sfuggenti, a cui si può sfuggire facilmente. Ricordiamo soltanto la prassi dello spacchettamento dei decreti legge, cui talora sappiamo che il Governo ricorre anche dopo la delibera del Consiglio dei ministri. Ne viene deliberato ufficialmente uno, ma poi ne vengono spacchettati e pubblicati due.
  Circa il ruolo del Capo dello Stato e il rapporto tra Governo e Capo dello Stato concordo con quanto è stato detto: bisogna cercare di evitare il più possibile una sorta di oscura trattativa fra il Governo e la Presidenza della Repubblica. Sarebbe, quindi, opportuno che il decreto legge venisse presentato dal Governo al Presidente della Repubblica il giorno stesso dell'adozione e che il Capo dello Stato avesse un tempo molto breve, di qualche giorno, per procedere all'emanazione oppure per rinviare questo atto allo stesso Governo, così come si fa nel caso delle leggi.
  Per quanto riguarda gli interventi sui Regolamenti parlamentari, io credo che bisognerebbe intervenire per rendere il più possibile omogeneo il procedimento di conversione alla Camera e al Senato. Si potrebbe cercare di intervenire sulle norme dei Regolamenti soprattutto stabilendo una posizione più paritaria. Sappiamo che oggi sostanzialmente la prima Camera che esamina il testo è una Camera avvantaggiata, perché all'interno di questa Pag. 20Camera si svolgono in concreto le trattative sul contenuto del testo. La seconda Camera deve poi approvare o meno.
  Si potrebbe stabilire, per esempio, una sorta di regola di alternanza nella presentazione dei disegni di legge di conversione fra una Camera e l'altra. Si potrebbe anche cercare di rendere omogenei i Regolamenti delle Camere, in modo tale da assicurare il voto finale entro il termine costituzionale dei sessanta giorni, mettendo automaticamente il disegno di legge di conversione all'ordine del giorno dell'Assemblea a data fissa. Si potrebbe, infine, garantire il voto finale delle Assemblee senza utilizzare degli strumenti traumatici.
  Bisognerebbe anche rendere più omogeneo il controllo sugli emendamenti, accentuare il ruolo delle prime Commissioni e probabilmente intervenire anche sulla prassi dei maxiemendamenti, limitando o proibendo – si potrebbe stabilire – al Governo di presentarli dopo che il disegno di legge è stato avviato in discussione in Assemblea. Occorrerebbero interventi mirati, naturalmente coerenti fra la Camera e il Senato.

  GINO SCACCIA, Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Teramo. Grazie dell'invito. La storia, la produzione addirittura fluviale della letteratura giuridica su questo tema e, da ultimo, il dibattito di oggi testimoniano dell'esistenza di un problema strutturale: l'impiego del decreto legge è stato ordinariamente abusivo.
  Io sono d'accordo, e mi colloco nella linea dei colleghi Caravita e Guzzetta, sul fatto che questo abuso richieda rimedi altrettanto strutturali. Non è possibile immaginare di ricondurlo in ambiti fisiologici nella nostra forma di governo semplicemente attraverso piccoli correttivi di natura procedimentale. Occorre razionalizzare la forma di governo.
  Sotto questo profilo io direi che la giurisprudenza costituzionale che è stata ricostruita, e che ho cercato anch'io nel contributo scritto di analizzare, ha tentato di razionalizzare il sistema delle fonti, ma ovviamente non ha capacità di razionalizzazione della forma di governo e, quindi, ha addirittura aggravato i problemi indotti dalla produzione normativa d'urgenza.
  Perché li ha aggravati ? Ci basta compulsare le indicazioni che ci sono state fornite e i dati statistici che sono stati forniti dagli uffici della Camera per notare un incremento quantitativo abnorme: dal 32,5 per cento – se non sbaglio – della precedente legislatura oggi il decreto legge occupa oltre il 60 per cento.
  Ciò non è imputabile, credo, alla bontà, alla cattiveria o alla malvagità del Governo in carica, ma al tentativo di metabolizzare questa giurisprudenza costituzionale, che, ripeto, con l'intento di ricondurre lo strumento nella logica della Costituzione, ha prodotto, però, uno scompenso. C’è un fabbisogno formativo al quale il Governo non riesce a provvedere, se non attraverso la decretazione d'urgenza. Prima lo faceva con grandi decreti omnibus. Non potendolo fare adesso con la stessa forma, spacchetta i decreti, ma questo non migliora la situazione per le Camere, anzi la peggiora.
  Ecco allora il dato di partenza sul quale ho sviluppato una serie di ipotesi alternative, a seconda ovviamente del grado di coesione politica che può assistere queste proposte.
  Il primo livello di intervento mi sembra quello di ridurre le ipotesi di ricorso al decreto legge, rendendolo meno conveniente – sono d'accordo con Guzzetta – per il Governo. Penso a leggi a data certa e a una riduzione dell'uso del decreto legge. Ovviamente, se dovesse avere successo la riforma del bicameralismo, che assicura la prevalenza decisionale a una Camera sulla grande maggioranza delle leggi, se non sulla totalità, questo dovrebbe ridurre i tempi di approvazione e, conseguentemente, quasi fisiologicamente, ricondurre il decreto legge in ipotesi più ridotte e marginali. Questo è il primo intervento strutturale che potrebbe portare il decreto legge in un ambito più fisiologico.
  Ho provato, però, anche a immaginare due tipi di interventi: correttivi di natura Pag. 21sostanziale, legati a una ridefinizione nell'articolo 77 della Costituzione, dei limiti di oggetto del decreto legge e correttivi di natura procedimentale, tanto a livello costituzionale, quanto a livello regolamentare.
  In ordine ai primi, ossia ai correttivi di ordine sostanziale, occorre riconoscere la debole prescrittività dell'articolo 77 della Costituzione, che non pone alcun limite, né di materia, né di tipi di disciplina, ma fa riferimento solo a una formula generalissima («straordinaria necessità e urgenza»), che è stata interpretata non in senso naturalistico, come avente riferimento a eventi di rara verificazione o a calamità naturali, ma in senso politico e con questo ha, ovviamente, perso ogni capacità di vincolo nei confronti dell'uso dello strumento.
  Sotto questo profilo il disegno di legge costituzionale proposto dal Governo Renzi nel solco di una serie di proposte di riforma che sono state avanzate negli ultimi anni ha costituzionalizzato alcuni limiti di oggetto che oggi hanno la forma legislativa, perché sono previsti nell'articolo 15 della legge n. 400 del 1988.
  A mio giudizio, qui si potrebbe andare anche oltre e introdurre ulteriori limiti, non però individuando le materie, perché, la giurisprudenza costituzionale ce lo insegna, la nozione di materia è quanto di più evanescente e si presterebbe anch'essa ad abusi e a interpretazioni e manipolazioni di tipo politico.
  Per questo motivo io sono scettico anche sulla enumerazione dei casi straordinari di necessità e urgenza, perché credo che anche quella sarebbe un terreno scivoloso. Certo, potrebbe aiutare l'interprete, ma sarebbe un terreno scivoloso.
  Bisogna piuttosto individuare dei tipi di disciplina – non delle materie – preclusi al decreto legge. Per esempio, si potrebbe stabilire che non si può con decreto legge introdurre princìpi fondamentali in materia di legislazione concorrente o norme generali, secondo la formula che adesso ricorre in numerose tipologie di competenza legislativa esclusiva del disegno di legge costituzionale del Governo Renzi.
  Questo la Corte l'aveva già affermato in una sentenza, la n. 303 del 2003, e anche richiamato nella n. 398 del 1998, sostenendo che non si potesse con un atto di natura intrinsecamente provvisoria definire i princìpi orientativi della legislazione regionale in materia concorrente, poiché la fissazione di princìpi fondamentali è contraddittoria con l'idea di provvisorietà. Si potrebbe scrivere in Costituzione, per l'appunto, che il decreto legge non può dar vita a princìpi fondamentali o a norme generali.
  Inoltre, riprendendo l'articolo 5 della legge 27 luglio 2000, n. 212, lo Statuto del contribuente, si potrebbe introdurre un principio di civiltà, ossia che con decreto legge non possano essere istituiti nuovi tributi o allargata la categoria dei soggetti concussi da un tributo già esistente. Anche questo è un principio che in altre Costituzioni opera e che in Italia si fa fatica a far operare, visto l'affanno nel quale vive la nostra amministrazione finanziaria.
  Ulteriormente si potrebbe chiarire, scrivendolo, ciò che oggi costituisce un elemento di incertezza, ossia se il decreto legge possa esprimersi in materia elettorale oppure no. A questo proposito io ritengo che si dovrebbe delimitare l'uso del decreto legge alla cosiddetta legislazione di contorno, quella che attiene ai procedimenti, ad esempio alla composizione e alla struttura grafica delle schede e alla legislazione sulla propaganda, mentre dovrebbe essere sancito un divieto di intervenire con decreto legge sulla formula del voto.
  Così pure, razionalizzando la prassi della giurisprudenza costituzionale che indicazioni in tal senso le ha fornite, si potrebbe introdurre un divieto di autorizzare con decreto legge la potestà regolamentare di delegificazione, prassi che, invece, è piuttosto diffusa e che è fonte notevole di incertezze.
  Quanto ai correttivi di ordine procedimentale, penso che andrebbe rinsaldata la previsione per cui il Governo assume il decreto sotto la sua responsabilità. Si dovrebbe, quindi, stabilire la presentazione del decreto nel giorno stesso dell'adozione Pag. 22– sono d'accordo con Salerno – per evitare contrattazioni preventive e successive sul testo del decreto legge e ricondurle, cioè, nella loro sede fisiologica, che è quella del Parlamento e non quella del rapporto tra uffici del Quirinale e uffici di Palazzo Chigi.
  Inoltre, sarebbe utile anche stabilire il divieto di reiterazione, con una precisazione che la Corte non ha fatto nella sentenza n. 360 del 1996, vale a dire che il vizio della reiterazione si trasferisce anche sulla legge di conversione. La Corte questo non l'ha detto. Ha anzi affermato che la legge di conversione sana il vizio della reiterazione. Autorevole dottrina ha osservato come in questo ci sia una contraddizione, perché la reiterazione null'altro è se non una riprova dell'inesistenza dei presupposti straordinari di necessità e urgenza. Si potrebbe forse razionalizzare in questo senso.
  Venendo brevemente e conclusivamente ai correttivi di ordine procedimentale, innanzitutto occorre armonizzare la disciplina delle due Camere del Parlamento. In effetti, al Senato esiste già un meccanismo che garantisce al Governo il voto, per così dire, a data certa sulla legge di conversione, che è il meccanismo della tagliola. Questo fa sì che al Senato ci sia una posizione di questioni di fiducia sensibilmente più ridotta rispetto alla Camera. Basterebbe forse, in questo caso, estendere in modo espresso anche alla Camera la possibilità della tagliola, che è stata pure praticata occasionalmente, non senza polemiche, per evitare almeno che l'abuso del decreto legge porti poi a un ulteriore abuso nell'utilizzo della questione di fiducia.
  A parti invertite, invece, questa armonizzazione potrebbe avvenire per quanto attiene ai controlli di ammissibilità degli emendamenti. Sappiamo tutti che il controllo previsto dal Regolamento della Camera è più stretto e stringente di quello previsto dal Regolamento del Senato, sebbene gli ultimi indirizzi della Presidenza del Senato, anche su sollecitazione – potremmo dire – indiretta della giurisprudenza della Corte, mostrano di voler irrigidire questo controllo.
  In tale contesto io attuerei l'operazione inversa. Se sul piano della tagliola è la Camera che deve riprendere dal Senato, sul piano dell'ammissibilità degli emendamenti basterebbe uniformare i criteri e, introdurre una disposizione simile all'articolo 96-bis, comma 7, del Regolamento della Camera anche nel Regolamento del Senato, per fare in modo che questi controlli viaggino parallelamente e che, dunque, il Governo non possa approfittare delle asimmetrie per eludere il controllo parlamentare, ponendo poi l'altra Camera nella condizione, con la posizione della questione di fiducia, di prendere o lasciare.
  Questi sono alcuni presìdi che possono rafforzare il controllo endoprocedimentale e, quindi, evitare un eccessivo e invasivo intervento, sia da parte della Presidenza della Repubblica, sia da parte della Corte costituzionale, ma sono tutti subordinati alla premessa alla quale faccio riferimento in chiusura, vale a dire che la risoluzione del problema strutturale si ha soltanto se si dota il Governo di tempi certi di decisione e se, possibilmente, si riduce il procedimento legislativo in tempi più contenuti anche attraverso la riforma del bicameralismo.

  MAURO VOLPI, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università di Perugia. Ringrazio l'Ufficio di presidenza e tutti i membri della Commissione per questo invito. Io ho presentato un testo scritto e, quindi, mi limiterò ad alcune sintetiche osservazioni, che traggo da questo testo, che è diviso in tre parti.
  La prima parte contiene una succinta ricognizione di natura comparativa. A differenza di quello che qualcuno potrebbe credere in Italia, l'istituto del decreto legge raramente è previsto nelle Costituzioni democratiche. Sono poche le Costituzioni democratiche che lo prevedono. Non c’è in Germania, non c’è in Francia, non c’è nei Paesi anglosassoni. C’è con una relativa ampiezza nei Paesi del Sud del Mediterraneo, tra i quali l'Italia, ovviamente.Pag. 23
  A questo proposito vorrei dire che la Costituzione spagnola, che contiene una disciplina più simile alla nostra, stabilisce però che vi siano alcune materie fondamentali sulle quali il decreto legge non può intervenire e prevede che esso sia convalidato – questo è il termine utilizzato – non entro sessanta, ma entro trenta giorni dalla promulgazione.
  La seconda parte di questo intervento scritto riguarda l'abuso del decreto legge. In merito, quindi, rimandando al testo scritto, cercherò di individuare un punto fondamentale.
  Io non condivido affatto la tesi sostenuta, anche recentemente, per cui l'abuso deriverebbe dalla natura assembleare della forma di governo, per cui, se il Governo abusa, la colpa sarebbe fondamentalmente del Parlamento. È un po’, se posso fare una battuta, come quando si sente, purtroppo, dire talvolta che, se una donna subisce una violenza, è colpa anche sua, perché magari si era vestita in modo provocante.
  Io non credo affatto che sia così. La nostra forma di governo parlamentare è stata definita da illustri costituzionalisti come atipica o corretta e tra gli strumenti correttivi esistevano appunto i poteri normativi del Governo, atti con forza di legge e Regolamenti, ai quali poi la legge n. 400 del 1988 ha aggiunto i Regolamenti di delegificazione. In più teniamo conto delle riforme regolamentari dalla fine degli anni Ottanta in poi, che sono state evocate.
  Io credo che alla base ci sia una debolezza, più che istituzionale, politica del Governo e dei Governi e la conferma viene da quello che è avvenuto in questi ultimi vent'anni, nei quali noi abbiamo avuto, grazie a sistemi elettorali prevalentemente maggioritari, o con correttivi che personalmente ritengo ipermaggioritari, in alcun legislature, maggioranze addirittura inusitate.
  Ci si poteva aspettare che il Governo non avesse difficoltà ad attuare il suo programma tramite l'ordinaria procedura legislativa o ricorrendo al procedimento abbreviato. Così non è avvenuto, e io non credo che non sia avvenuto per colpa della Costituzione, ma perché si sono formate coalizioni poco coese ed eterogenee, costruite più per vincere le elezioni che per governare e che si sono poi progressivamente sfaldate nel corso della legislatura.
  Cito alcune considerazioni che vengono dal dossier curato dagli uffici della Camera. Cito soltanto due punti.
  Il divieto di reiterazione non è più così assoluto. Il Governo ha trovato il modo di aggirarlo. Penso ai tre successivi decreti legge «Salva Roma», tanto per fare un esempio recente. Quello che io ritengo più grave è che il decreto legge venga ormai ordinariamente utilizzato per dare vita a riforme ordinamentali, alcune delle quali sono poi bocciate dalla Corte costituzionale. Penso alle Province. Questo è il caso più noto, ma, per citare solo le più recenti, c’è la riforma del finanziamento dei partiti politici, che è stata introdotta con decreto legge. Ora si parla di riforma della pubblica amministrazione. Mi pare di capire che almeno una parte di questa dovrebbe essere introdotta con decreto legge. Ormai si governa e si legifera mediante decreto legge.
  Dall'insieme di queste considerazioni traggo la conclusione che il decreto legge non è più un disegno di legge rinforzato, così come scriveva Alberto Predieri nel 1973, ma è diventato uno strumento attraverso cui il Governo impone la propria volontà alle Camere senza un adeguato dibattito parlamentare e spesso al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte del Presidente della Repubblica – cosa che lo stesso Presidente ha lamentato – quando viene presentato un maxiemendamento durante la conversione. È uno strumento attraverso il quale il Governo si impadronisce di fatto della funzione legislativa.
  La terza parte del mio intervento tratta quali possano essere i rimedi. Mi limito agli elementi essenziali, ovviamente.
  Nel disegno di legge n. 1429, scelto come testo base dalla 1a Commissione del Senato, si prevede, come è stato detto, la costituzionalizzazione dell'articolo 15, commi 2 e 3, della legge n. 400 del 1988.Pag. 24
  Si può essere d'accordo, ma io non sono così convinto che non occorrerebbe anche un limite di materia e che il limite di materia sarebbe totalmente inutile. Ci sono elaborazioni che già il Parlamento ha fatto. La Commissione De Mita-Iotti – ma anche la Commissione D'Alema – conteneva un'indicazione delle materie. Se ne può discutere, ma lo faremo sicuramente in un diverso momento.
  Quello che, invece, io trovo assolutamente non condivisibile è la formulazione dell'ultimo comma dell'articolo 72 della Costituzione novellato, per cui il Governo in definitiva potrebbe chiedere che un qualsiasi disegno di legge sia votato entro i sessanta giorni ovvero entro un termine inferiore. Qualora questo non avvenisse, alla fine ci sarebbe il voto bloccato e si voterebbe questo testo, ossia il testo voluto dal Governo.
  A me pare che si tratti di una «corsia preferenziale», che prevede l'applicazione in termini assoluti e generici del procedimento straordinario e abbreviato previsto dall'articolo 77 della Costituzione per la conversione dei decreti legge, né più, né meno.
  Vorrei evidenziare che anche chi ha proposto l'introduzione del voto a data fissa ha sottolineato la necessità di alcune cautele. Cito su questo punto la relazione finale della Commissione dei saggi del 17 settembre 2013, nella quale si precisa che «la proposta del voto a data fissa non è ammissibile per le leggi costituzionali, organiche e bicamerali», cosa di cui qui non si parla, che «l'attivazione della procedura non è automatica, ma è subordinata a un voto dell'Assemblea», che «la richiesta del Governo può riguardare un numero non illimitato, ma determinato dal Regolamento, di disegni di legge» e, infine, che non c’è nessun termine finale da inserire nella Costituzione, perché questo, al limite, sarebbe materia regolamentare.
  Aggiungo anche che questa formulazione così estrema io non la ritrovo nelle altre democrazie consolidate. Non ha eguali. È stata evocata la Francia. Io vorrei ricordare che nell'ordinamento francese, dopo la riforma costituzionale del 2008, sono state delimitate rigorosamente le materie sulle quali il Governo può chiedere l'iscrizione prioritaria all'ordine del giorno. Il Governo può fare, certo, ricorso al voto bloccato, ma guardate che il ricorso al voto bloccato non è raro in Francia. È rarissimo.
  Aggiungo anche che il voto a data fissa nella Costituzione francese è previsto per due leggi, la legge finanziaria e la legge di finanziamento della sicurezza nazionale. Questo dopo la riforma. Hanno fatto la riforma perché andava democratizzato il sistema, perché non era sufficientemente democratico, evidentemente.
  Per concludere, io sono assolutamente favorevole a congegni di razionalizzazione della forma di governo parlamentare, che devono servire a rendere più garantita la stabilità e magari anche l'efficienza del Governo, ma anche a rafforzare il Parlamento. Come studioso, come costituzionalista, io credo che si possa affermare tranquillamente che, se c’è un potere dello Stato che è stato mortificato in questi ultimi anni, è soprattutto il Parlamento, molto di più di altri poteri dello Stato.
  Possono essere utili ulteriori riforme regolamentari che rendano più agevole ed efficiente il procedimento legislativo, ma non si può, ovviamente, costituzionalizzare quello che è un dato di fatto, che è lo squilibrio fra i poteri.
  Sulla questione della decretazione d'urgenza e del suo abuso si gioca una partita determinante, quella di salvaguardia del principio dell'equilibrio tra i poteri, che richiede certo un ruolo governante dell'Esecutivo – nessuno lo contesta – ma impone che il Parlamento, che è l'organo della rappresentanza politica e l'Istituzione del pluralismo, non venga compresso e mortificato. Ciò si tradurrebbe in un pregiudizio per le garanzie dei diritti delle persone e per la qualità della democrazia nel nostro Paese.

  PRESIDENTE. Ringrazio a nome della Commissione tutti i nostri ospiti per i loro interventi e per i loro contributi, molto interessanti, che ci hanno consentito di approfondire un tema importante.Pag. 25
  Do la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  GIUSEPPE LAURICELLA. Io sono stato un po’ anticipato dall'ultimo intervento del professor Volpi. Pongo solo un interrogativo ai docenti che oggi ci hanno onorato della loro presenza e del loro contributo.
  Intanto rassicuro del fatto che nell'ultima bozza del disegno di legge costituzionale, a quanto pare, è stato posto il limite per quanto riguarda la cosiddetta deliberazione prioritaria, limite che riguarda il primo comma dell'articolo 70 della Costituzione novellato. Praticamente riguarderebbe le leggi costituzionali e il referendum.
  L'aspetto che ha guidato per ora il dibattito sulla legge elettorale e sulle riforme, per quanto mi riguarda, è l'attenzione ai valori fondamentali della Costituzione: l'elemento democratico, l'elemento della partecipazione, l'elemento della partecipazione anche delle minoranze.
  Se noi guardiamo al combinato disposto che potrebbe venire tra legge elettorale e nuova organizzazione del Parlamento, dobbiamo stare attenti anche agli strumenti che inseriamo nell'ambito del testo costituzionale, soprattutto nella fase delle procedure di approvazione, per esempio, delle leggi.
  Quando si prevede la deliberazione con priorità, così come previsto dall'articolo 72 della Costituzione novellato, io temo che – questa è la domanda che pongo – se noi non poniamo anche dei limiti numerici, ossia di numero di volte in cui si può esercitare questo potere durante la legislatura, rischiamo di eludere l'abuso del decreto legge, facendo rientrare un altro tipo di abuso, quello della deliberazione con priorità e magari mettendo dopo anche la fiducia.
  In questo modo diventa molto complicato per le minoranze e per il nuovo Parlamento, anzi per la nuova Camera, così come formata in base alla legge elettorale che per ora si delinea, stare nell'ambito di livello della partecipazione anche delle minoranze e, in genere, dei parlamentari.
  Teniamo conto che la regola, in questo caso, potrebbe diventare, se noi non poniamo dei paletti, la deliberazione prioritaria. Così come oggi la regola è diventata quasi la decretazione d'urgenza e la successiva richiesta di porre la fiducia, domani, dicendo: «Avete visto ? Noi non usiamo più la decretazione d'urgenza. Siamo bravi, abbiamo risolto. Usiamo le procedure normali» la regola diventerebbe la deliberazione prioritaria.

  ENZO LATTUCA. Oltre a condividere l'ultima considerazione che faceva il collega Lauricella, anch'io temo che tra qualche anno, se non si pensa a qualche limitazione della corsia preferenziale – poi dirò anche perché, secondo me, sia necessario costruire la corsia preferenziale per riportare il decreto legge nel suo alveo – ci troveremo a convocare un'indagine conoscitiva e a disturbare ancora una volta i professori per discutere dell'abuso della corsia preferenziale.
  È evidente che, a differenza del decreto legge, la corsia preferenziale risolve uno dei due effetti peggiori che provoca l'abuso della decretazione d'urgenza oggi, ovvero quello dei sessanta giorni di limbo e di incertezza normativa, che non sono certo da sottovalutare. Sono un grandissimo problema, soprattutto fuori da questo palazzo. Condivido tantissimo l'intervento di chi ha sottolineato questa problematica.
  Non risolverebbe, però, l'altro effetto, ovvero lo squilibrio del riparto dei poteri, in particolar modo tra legislativo ed esecutivo, a maggior ragione se poi l'assetto della forma di governo e comunque dei rapporti tra Parlamento e Governo evolverà come si sta profilando.
  Oltre al tema della limitazione, io chiedo ai professori che sono qui oggi se c’è una condivisione totale, almeno come principio, dell'idea di limitare quantitativamente e di escludere determinate categorie di leggi.
  Anch'io penso che sia problematico inoltrarsi nelle materie, perché sappiamo tutti qual è il contenzioso che può nascere Pag. 26intorno ai contenuti e ai confini della definizione di materia. Se questo elemento di principio viene condiviso da tutti, per esempio, si può pensare, da una parte, come una sorta di disincentivo alla maggioranza a al Governo ad abusare della corsia preferenziale e, dall'altra, come riconoscimento alle minoranze, di prevedere un rapporto uno a tre o uno a cinque.
  Se in un trimestre il Governo e la maggioranza, con deliberazione, individuano un numero di quattro disegni di legge da votare a data definita e fanno questa scelta, dall'altra parte si può far sì che le minoranze possano ottenerne una nello stesso periodo. Si ragiona per trimestre, ma poi si può vedere. Io credo che questa possa essere un'iniziativa che garantisca un ruolo anche del Parlamento e delle minoranze all'interno del Parlamento.
  Credo, però, che dobbiamo riflettere – sentivo interventi molto critici – sulla ragione dell'abuso della decretazione d'urgenza. Io non credo che si tratti di rendere l'utilizzo della decretazione d'urgenza da parte del Governo meno conveniente, perché in questo momento non è una scelta di convenienza, ma una scelta di necessità politica, anche per quello che è il contesto politico dell'opinione pubblica.
  La prima cosa di cui si parla quando un Governo giura e ottiene la fiducia sono i primi cento giorni. I primi cento giorni coprono due decreti. Il Governo e il Paese – non essendo un vezzo dell'opinione pubblica quello della celerità della risposta, ma riguardando anche la contingenza dei problemi che esistono – necessitano di tempi diversi.
  Io non vedo, quindi, un abuso legato esclusivamente alla volontà di non ascoltare il Parlamento in questi anni, ma vedo una scelta di necessità. Noi non dobbiamo rendere la decretazione d'urgenza meno conveniente, ma dobbiamo metterci in condizioni tali che la scelta della decretazione d'urgenza ritorni nell'alveo della Costituzione e di come è stata pensata, magari riducendo anche i tempi della conversione. Se il decreto legge ritorna davvero a essere un provvedimento straordinario, si può anche convertire in dieci giorni. Poi con il bicameralismo differenziato forse sarà anche più facile prevederne la conversione.
  Dall'altra parte, dobbiamo mettere nelle condizioni il Governo, con alcune limitazioni che segnino il rapporto e l'equilibro tra Governo e Parlamento, di agire. È difficile pensare oggi, per come è il nostro sistema delle fonti, e voi ce lo insegnate, a un'azione di governo che sia svincolata dall'utilizzo della fonte primaria e, quindi, della legge e degli atti equiparati. Non ce la si fa solo con le fonti secondarie.
  Io credo che questo sia un dato che va acquisito come dato di realtà e che va equilibrato con delle scelte di limitazione e di riconoscimento dei diritti della minoranza che possano ricreare quell'equilibrio che le riforme di cui stiamo discutendo in questi mesi non devono mai perdere di vista, come obiettivo.

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE FRANCESCO PAOLO SISTO

  PRESIDENTE. Buongiorno a tutti. Mi scuso per la presenza tardiva, nonostante sia stato più che degnamente sostituito dalla collega Agostini. La trascrizione stenotipica dei vostri interventi mi metterà comunque in condizioni di recuperare l'assenza.
  Do la parola al collega Cozzolino.

  EMANUELE COZZOLINO. Ringrazio i professori. Abbiamo molti punti di contatto sulle critiche che sono state mosse sulla decretazione d'urgenza.
  Delle soluzioni si può discutere. Noi condividiamo il fatto che il problema della decretazione d'urgenza sia soprattutto politico. È quasi un anno e mezzo che siamo qui. Noi non abbiamo tanta esperienza e, quindi, magari certe cose le notiamo meglio, come l'idea che i lavori di Commissione preparatori e le discussioni dei decreti legge, ma anche dei progetti di legge in generale, siano sempre demandati non tanto a una logica di intervento legislativo, quanto a logiche politiche.Pag. 27
  La politica è importante, però si può perdere il fine per cui si fa una legge. L'utilizzo della decretazione d'urgenza, combinata con le fiducie – nonostante ci sia un sistema elettorale che ha prodotto, almeno qui alla Camera, una maggioranza ampia, tanto che le leggi potrebbero essere tranquillamente discusse anche senza dover porre la questione di fiducia, che viene semplicemente utilizzata come metodo per ridurre i tempi di discussione e magari limitare anche l'apporto che può essere fornito dalla minoranza e dalle opposizioni – ci sembra un problema politico e anche culturale. Ci hanno abituati in questi venti anni, come diceva qualcuno di voi, alla logica per cui «Non riesco a fare la legge. Faccio il decreto legge».
  Quello che ci deve essere è un cambio culturale. Gli strumenti possono magari indirizzare, ma non ci sono solo quelli. Ci sono nel passato esempi di leggi che sono state approvate in meno di un mese. Non sono tanto la mancanza di strumenti o il bicameralismo che rallentano queste questioni, quanto piuttosto la volontà politica di fare le cose nel modo giusto, di risolvere i problemi e di non fare continuamente decreti legge che vanno a creare, oltre che con i sessanta giorni di conversione, anche con la loro applicazione, caos normativo.
  Essendo ingegnere, io ho spesso a che fare con più decreti legge sulla stessa materia, di cui è difficile l'applicazione e che fanno portare via molto tempo nell'espletare il lavoro. Io farei una riflessione in questo senso.
  Ringrazio per i contributi e spero che servano al dibattito non solo al fine di questa relazione, ma anche di tutti i lavori che ci saranno nei prossimi anni.

  PRESIDENTE. Do la parola ai nostri ospiti per la replica.

  GIOVANNI GUZZETTA, Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università Tor Vergata di Roma. Rispetto all'alternativa che è stata prospettata tra l'abuso dei decreti legge e l'abuso della corsia preferenziale, fermo restando che, ovviamente, andiamo sempre alla ricerca delle soluzioni migliori, se mi dovessero chiedere che cosa butto dalla torre, io non avrei dubbi sul fatto che l'abuso della decretazione d'urgenza sia la cosa peggiore possibile, perché è totalmente nell'opacità: produce degli effetti di incertezza assoluta, come ha detto Caravita, induce a delle forzature incredibili e attribuisce alla Corte costituzionale un ruolo estremamente ingrato.
  Quando la Corte costituzionale deve valutare la corrispondenza tra la finalità del preambolo del decreto legge e le norme in esso contenute, onde valutare se ci sia una ragionevole proporzione tra quello e quell'altro su materie che sono le più politiche per definizione, trattandosi di fonti del diritto di rango primario, io penso che stiamo proprio sulla strada peggiore possibile.

  GAETANO AZZARITI, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università «La Sapienza» di Roma. Io credo che i deputati intervenuti abbiano colto un punto essenziale: modificare le norme per far rientrare l'abuso dalla finestra con il voto a data fissa rappresenta un problema.
  Più in generale, anche alla luce di quello che abbiamo sentito e delle opinioni espresse dai miei autorevoli colleghi, io penso che tentare di risolvere le patologie del decreto legge rendendo legittimo un uso debordante e senza limiti del potere normativo del Governo sia francamente sbagliato. Mi pare che sia un essere più realisti del re.
  Voglio utilizzare – mi sarà concesso – in modo quasi scherzoso un'espressione molto in voga nel dibattito politico: bisogna uscire dalla palude. Se vogliamo prendere sul serio le pulsioni al cambiamento, che sono molto vive in questo momento, credo che ciascuno debba fare la sua parte.
  Parliamo di decreti legge. Lo dico nel luogo della rappresentanza politica, in Parlamento: io credo che al Parlamento spetti anche il ruolo, nell'ambito della forma di governo, di arginare il potere del Governo. Vorrei dire molto francamente, perché non ci siano equivoci – non ci Pag. 28dovrebbero essere, ma lo preciso per un eccesso di cautela – che parlo dei Governi in generale, del Governo Renzi, del Governo Berlusconi, del Governo Prodi. Questo ça va sans dire, ma ci tengo a dirlo. È un problema di forma di governo.
  Io credo che il ruolo del Parlamento in materia di decreto legge sia essenzialmente quello di salvare la sostanza della Costituzione, dell'articolo 77. In sintesi, alla luce di quanto è stato espresso da tutti i miei colleghi, io credo che si tratti di salvaguardare il carattere di urgenza e di immediata applicabilità, il carattere provvedimentale e la provvisorietà del provvedimento. Io credo che questo – con riferimento a quello che ho detto io, ma anche a quello che hanno detto i miei colleghi – debba essere un problema del Parlamento.
  Se mi si permette una seconda e ulteriore battuta, vorrei dire al Parlamento che la salvezza del Parlamento non la potrà assicurare che il Parlamento stesso. Non saranno certamente i professori a poter risolvere il problema. Su questo non c’è dubbio alcuno. Vorrei dire di più, però, ossia che, nell'ambito della forma di governo, non saranno neppure gli altri organi costituzionali a farlo. Non si può pensare che il Governo, quale che esso sia il Governo, si autolimiti più di tanto.
  Ricordate Montesquieu ? Le pouvoir arrête le pouvoir. Inevitabilmente, per ruolo istituzionale, o ci pensa il Parlamento ad arginare la potestà normativa del Governo, o non ci penserà nessun altro, né la magistratura, né il Governo, né altri.
  Chiudo ripetendo che io credo che non si debba – ho sentito qualche tono in questo senso – accettare il vento del tempo. Se ci arrendiamo e diciamo che troviamo un altro strumento uguale, se non peggiore, per dare al Governo la possibilità di fare ciò che già adesso fa, rischiamo di essere tutti travolti: il Parlamento, il che va malissimo, ma anche tutti noi, perché la democrazia si squilibra e, invece, la democrazia, come sappiamo tutti, è un delicatissimo problema di equilibri. Evitiamolo, quindi. Riequilibriamoci.

  BENIAMINO CARAVITA DI TORITTO, Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università «La Sapienza» di Roma. Noi siamo assolutamente convinti di essere di fronte a un abuso del decreto legge. Tutti, da qualsiasi posizione, sia politica, sia culturale, sia istituzionale, riconosciamo l'esistenza di questa situazione di abuso, con le conseguenze, i difetti e i problemi che ne derivano sia nel circuito politico-parlamentare, sia nel circuito istituzionale, sia nel circuito dell'amministrazione e della vita associata. Questo è un dato di fatto. Non si tratta, quindi, di passare dall'abuso del decreto legge all'abuso della corsia preferenziale. Si tratta di riconoscere che una prima risposta all'abuso del decreto legge è la corsia preferenziale, in quanto strumento per il Governo di attuare il suo programma. Dopodiché, su limiti, condizioni, bilanciamento fra maggioranza e opposizione si apre tutta una discussione che, secondo me, è tutta da fare. È assolutamente tutta da fare.
  Il punto cruciale è se, riconosciuto l'abuso del decreto legge, con tutte le nefaste conseguenze, noi riteniamo, o almeno una parte di noi lo ritiene, che l'introduzione dello strumento della corsia preferenziale sia una prima risposta, salvo poi aprire una discussione tutta da svolgere su limiti di materia, di tempo, di numero, di bilanciamento con l'opposizione e via discorrendo.

  MAURO VOLPI, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università di Perugia. La mia è solo una battuta. Il dilemma che è stato riassunto dal collega Guzzetta, ossia la scelta tra l'abuso del decreto legge e l'abuso della corsia preferenziale è, come si suol dire, un dilemma cornuto. Forse, se io fossi sulla torre, ma non lo farei, sarei io a buttarmi di sotto. Non sceglierei nessuno dei due abusi, ma sarei io a essere costretto a buttarmi di sotto.
  Qui pare scontato che debba esservi l'abuso e che il Parlamento sia in qualche modo – continuo a sottolineare questa espressione – mortificato nell'esercizio Pag. 29della funzione legislativa. Io non credo che sia così. Io credo che siano necessari dei limiti rigorosi alla decretazione d'urgenza, ma anche dei limiti altrettanto rigorosi alla corsia preferenziale.
  Posso anche essere d'accordo con Caravita, ma non dopo, bensì prima, se mi permette. Vediamo quali sono le caratteristiche e le limitazioni con le quali possono essere introdotti disegni di legge prioritari, per un numero limitato e con un tempo non assolutamente iugulatorio, ma che può essere variabile anche a seconda della complessità.
  Le grandi riforme non si possono fare in trenta giorni. Questo è il punto fondamentale. Chi fa questo, fa sicuramente una riforma sbagliata.

  PRESIDENTE. Devo sottolineare, a conclusione dei nostri lavori odierni, che questa è una Commissione che ha il compito, non di poco conto, di raccogliere tutti gli interessanti spunti emersi dall'audizione e di convogliarli in un intervento che non potrà che essere critico nei confronti del ricorso eccessivo alla decretazione d'urgenza. Questo mi sembra un leitmotiv che traspare e che non può che trasparire da tutti gli interventi. Forse con molta semplicità, se si limitasse il ricorso, se si perdesse l'abitudine alle occasioni dell'infortunio, gli infortuni sarebbero di meno.
  Io credo che questa valutazione di semplice buonsenso politico potrebbe essere di grande aiuto a evitare delle discussioni che, pur importanti, partono da questo presupposto, che io condivido, come ho detto più volte, che i tempi di una legge non sono mai un buon viatico perché la legge sia una buona legge. Fare presto per una legge non è un segnale di una buona legge.
  Io credo che l'efficienza e l'efficacia debbano fare i conti con una parametrazione bolizzata della sostanza, ma soprattutto della forma, che mai come in questi casi diventa sinonimo di sostanza, o comunque companatico indispensabile della sostanza.
  Credo, quindi, di poter chiudere questa sessione di audizioni, anche se parzialmente, perché abbiamo ancora degli altri esperti da audire. Credo che quanto è stato oggi riferito non ci potrà che essere di ausilio per rivolgere domande ulteriori e più specifiche a coloro che, con pari capacità e con pari impegno – di cui vi ringrazio – seguiranno al vostro intervento di oggi.
  Ha chiesto di intervenire per una precisazione il collega Lauricella, a cui do la parola.

  GIUSEPPE LAURICELLA. Io sono d'accordo col professor Volpi che non esiste il problema di quale sia il male minore. Dobbiamo affrontare il problema nei termini in cui qui è ormai emerso. Il problema esiste, ma va limitato. Dobbiamo accettare quel principio, ma va messo dentro certi parametri.
  Concludo con una battuta. Io ho avuto modo, in una prima audizione fatta col Ministro per le riforme, non di ricordare, perché sicuramente lo sapevano tutti, ma di fare un'osservazione: i nostri Costituenti costruirono una Costituzione non in funzione del Governo De Gasperi, ma in funzione dell'affermazione del mantenimento e della garanzia dei princìpi e dei valori della Costituzione stessa.

  PRESIDENTE. Ringrazio gli intervenuti e dichiaro chiusa l'audizione.

  La seduta termina alle 13.50.