XVII Legislatura

I Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 4 di Lunedì 21 marzo 2016

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DELL'ESAME DELLE PROPOSTE DI LEGGE C. 3004  FONTANELLI E ABB., RECANTI DISPOSIZIONI DI ATTUAZIONE DELL'ARTICOLO 49 DELLA COSTITUZIONE

Audizione di esperti.
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 3 ,
Besostri Felice , avvocato ... 3 ,
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 6 ,
Besostri Felice , Avvocato ... 6 ,
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 6 ,
Diamanti Ilvo , professore ordinario di scienza politica presso l'Università degli Studi di Urbino ... 6 ,
Dogliani Mario , professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Torino ... 8 ,
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 10 ,
Dogliani Mario , professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Torino ... 10 ,
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 11 ,
Falcone Anna , avvocato ... 11 ,
Ferrajoli Luigi , professore emerito di filosofia del diritto presso l'Università degli studi «Roma Tre» ... 14 ,
Dogliani Mario , professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Torino ... 15 ,
Ferrajoli Luigi , professore emerito di filosofia del diritto presso l'Università degli studi «Roma Tre» ... 16 ,
Diamanti Ilvo , professore ordinario di scienza politica presso l'Università degli studi di Urbino ... 17 ,
Frosini Tommaso Edoardo , professore ordinario di diritto pubblico comparato presso l'Università degli studi di Napoli «Suor Orsola Benincasa» ... 17 ,
Ferrajoli Luigi , professore ordinario di filosofia del diritto presso l'Università degli studi «Roma Tre» ... 18 ,
Frosini Tommaso Edoardo , professore ordinario di diritto pubblico comparato presso l'Università degli studi di Napoli «Suor Orsola Benincasa» ... 18 ,
Ferrajoli Luigi , professore emerito di filosofia del diritto presso l'Università degli studi «Roma Tre» ... 18 ,
Frosini Tommaso Edoardo , professore ordinario di diritto pubblico comparato presso l'Università degli studi di Napoli «Suor Orsola Benincasa» ... 18 ,
Ferrajoli Luigi , professore emerito di filosofia del diritto presso l'Università degli studi «Roma Tre» ... 18 ,
Frosini Tommaso Edoardo , Professore ordinario di diritto costituzionale e diritto pubblico comparato presso l'Università degli studi di Napoli «Suor Orsola Benincasa» ... 18 ,
Ferrajoli Luigi , professore emerito di filosofia del diritto presso l'Università degli studi «Roma Tre» ... 19 ,
Frosini Tommaso Edoardo , professore ordinario di diritto pubblico comparato presso l'Università degli studi di Napoli «Suor Orsola Benincasa» ... 19 ,
Ferrajoli Luigi , professore emerito di filosofia del diritto presso l'Università degli studi «Roma Tre» ... 19 ,
Frosini Tommaso Edoardo , professore ordinario di diritto pubblico comparato presso l'Università degli studi di Napoli «Suor Orsola Benincasa» ... 20 ,
Pinelli Cesare , professore ordinario di diritto pubblico presso l'Università degli studi di Roma «La Sapienza» ... 20 ,
Salerno Giulio Maria , professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Macerata ... 22 ,
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 24 ,
Toninelli Danilo (M5S)  ... 24 ,
Centemero Elena (FI-PdL)  ... 25 ,
Richetti Matteo (PD)  ... 25 ,
Fiano Emanuele (PD)  ... 26 ,
Cozzolino Emanuele (M5S)  ... 27 ,
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 27 ,
Besostri Felice , avvocato ... 27 ,
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 28 ,
Pinelli Cesare , professore ordinario di Diritto pubblico presso l'Università degli studi di Roma «La Sapienza» ... 28 ,
Ferrajoli Luigi , professore emerito di filosofia del diritto presso l'Università degli studi «Roma Tre» ... 29 ,
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 30 ,
Zampa Sandra (PD)  ... 30 ,
Ferrajoli Luigi , professore emerito di filosofia del diritto presso l'Università degli Studi «Roma Tre» ... 31 ,
Dogliani Mario , professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli Studi di Torino ... 31 ,
Ferrajoli Luigi , professore emerito di filosofia del diritto presso l'Università degli Studi «Roma Tre» ... 32 ,
Dogliani Mario , professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli Studi di Torino ... 32 ,
Ferrajoli Luigi , professore emerito di filosofia del diritto presso l'Università degli Studi «Roma Tre» ... 32 ,
Dogliani Mario , professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli Studi di Torino ... 32 ,
Falcone Anna , avvocato ... 32 ,
Salerno Giulio Maria , professore ... 33 ,
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 34 ,
Centemero Elena (FI-PdL)  ... 34 ,
Mazziotti Di Celso Andrea , Presidente ... 35

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà- Berlusconi Presidente: (FI-PdL);
Area Popolare (NCD-UDC): (AP);
Sinistra Italiana-Sinistra Ecologia Libertà: SI-SEL;
Scelta Civica per l'Italia: (SCpI);
Lega Nord e Autonomie - Lega dei Popoli - Noi con Salvini: (LNA);
Democrazia Solidale-Centro Democratico: (DeS-CD);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-Alleanza Liberalpopolare Autonomie ALA-MAIE-Movimento Associativo italiani all'Estero: Misto-ALA-MAIE;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI;
Misto-Alternativa Libera-Possibile: Misto-AL-P;
Misto-Conservatori e Riformisti: Misto-CR;
Misto-USEI (Unione Sudamericana Emigrati Italiani): Misto-USEI.

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
ANDREA MAZZIOTTI DI CELSO

  La seduta comincia alle 12.10.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata attraverso la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di esperti.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'esame delle proposte di legge C. 3004 Fontanelli e abb., recanti disposizioni di attuazione dell'articolo 49 della Costituzione, l'audizione di esperti.
  Sono presenti l'avvocato Besostri, il professor Diamanti, il professor Dogliani, l'avvocato Anna Falcone, il professor Ferrajoli, il professor Frosini, il professor Pinelli e il professor Salerno.
  Ringrazio gli ospiti per la presenza e do subito la parola all'avvocato Besostri. Abbiamo una decina di minuti per intervento.

  FELICE BESOSTRI, avvocato. Buongiorno. Ringrazio la Commissione per questa opportunità. La nostra Costituzione è esemplare anche per la lingua con cui è scritta. L'articolo 49 recita: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Nessun altro articolo, a mio avviso, è stato così male interpretato e disatteso dall'entrata in vigore della Costituzione repubblicana.
  Alla sua redazione e approvazione ha contribuito in maniera determinante il socialista Lelio Basso, lo stesso che ha avuto il merito di redigere il secondo comma dell'articolo 3, che recita: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico-sociale che, limitando di fatto...».
  I partiti politici sono una formazione sociale che ha un ruolo centrale nel nostro sistema costituzionale, in forza dell'articolo 2 della Costituzione. La mancata attuazione di previsioni costituzionali riguarda anche i sindacati, secondo l'articolo 39, il quale opportunamente precisava che «È condizione per la registrazione che gli Statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica».
  Purtroppo, in un Paese intriso di spirito causidico, invece di interpretare congiuntamente le disposizioni comuni a partiti e sindacati, si contrappose «con metodo democratico» a «ordinamento interno a base democratica». Il metodo democratico era soddisfatto dalla mera pluralità dei partiti concorrenti in libere elezioni democratiche, per di più garantite da una legge elettorale proporzionale che consentiva a tutti di essere rappresentati.
  Nella mancata attuazione dell'articolo 49 i partiti di sinistra hanno una responsabilità, innanzitutto per non averla individuata come prioritaria, benché non siano mai mancati disegni di legge al riguardo ripresentati a ogni inizio di legislatura da deputati come Valdo Spini. Sotto sotto vi era il timore che, attraverso una regolamentazione dei partiti, vi fosse un loro controllo, anche politico, sulle loro finalità.
  Nella Repubblica federale tedesca, infatti, si cominciò con l'interdire nel 1951 la Freie Deutsche Jugend, la Libera gioventù tedesca, nel 1952 la neonazista Sozialistische Reichspartei, per arrivare al KPD Verbot, divieto del Partito Comunista di Germania, Pag. 4 un partito che nelle prime elezioni del Bundestag nel 1949, con il 5,7 per cento e 1.360.000 voti, era il quarto partito, con 15 deputati.
  L'Italia, come la Germania, era un Paese dove particolarmente acuta era la tensione della contrapposizione Est-Ovest, NATO-Patto di Varsavia, ma nella nostra Costituzione non vi era norma analoga all'articolo 9, comma 2, della Grundgesetz, che recita: «Le associazioni i cui scopi e le cui attività contrastino con le leggi penali o siano diretti contro l'ordinamento costituzionale o contro il principio della comprensione fra i popoli sono proibite», ovvero all'articolo 21, comma 2, della Grundgesetz, che affida al Tribunale costituzionale federale la dichiarazione di incostituzionalità di un partito politico pericolo per l'ordinamento democratico o per l'esistenza della Repubblica federale tedesca.
  Il nostro articolo 54, comma primo, con l'obbligo di tutti i cittadini di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi, non era base sufficiente per proibire i partiti politici, come il secondo comma non ha impedito che cariche pubbliche fossero ricoperte da persone senza onore, come è cronaca anche recente. I partiti maggiori godevano di ottima salute come numero di iscritti e consenso elettorale, pur nella divisione di ruoli tra partiti di opposizione, che peraltro erano insediati in amministrazioni comunali e provinciali e dal 1970 regionali, e partiti di maggioranza.
  Fin dall'inizio l'articolo 49 fu oggetto di critiche come il fondamento della «Partitocrazia», inteso come «predominio dei partiti in quanto organizzazioni autonome e monopolistiche, che tendono a sostituirsi al Parlamento nella determinazione della vita politica dello Stato e che estendono la loro influenza in ogni campo della vita di una collettività». Il termine fu reso popolare da Giuseppe Maranini, che ne fece uso fin dal 1949, ma per i partiti non suonò alcun campanello di allarme.
  L'errore di Maranini e dei censori della partitocrazia è stato quello di confondere «Die real-existierenden Parteien», i partiti realmente esistenti, con quelli prefigurati dall'articolo 49 della Costituzione: non è il primo né unico caso di problemi provocati da un realmente esistente contrapposto a un ideal-immaginario modello di società.
  L'articolo 49 andava, invece, attuato con una legge organica, proprio per evitare la loro degenerazione, tipica di ogni associazione retta da un'oligarchia, che si rinnova per cooptazione e dà vita a una nomenclatura. Il pericolo partitocratico non esiste più. Esiste, semmai, quello di una delegittimazione e impopolarità dei partiti in sé, con i rischi per una democrazia rappresentativa derivanti dall'assenza di corpi intermedi strutturati di partiti ritornati a essere, come all'origine, invece, comitati elettorali.
  Paradossalmente, con l'elezione diretta o semidiretta dei vertici esecutivi e il loro rafforzamento rispetto agli organi assembleari, vi è il rischio opposto, ossia che le istituzioni diventino istituzioni partito, con leader carismatici. In tal caso un'attuazione dell'articolo 49 della Costituzione sarebbe tardiva e inefficace.
  A mio avviso, un momento di svolta importante nella vita dei partiti politici è stato determinato dall'inizio del finanziamento pubblico, introdotto dalla legge del 2 maggio 1974, n. 195, approvata – miracoli del bicameralismo paritario! – in soli 16 giorni. Si trattò di un tentativo di calmare l'opinione pubblica per scandali di finanziamento illecito, cui peraltro il finanziamento pubblico non pose fine. La reazione fu una richiesta referendaria dei Liberali nell'autunno del 1974, fallita per il mancato raggiungimento delle 500.000 firme.
  Nel giugno 1978 si celebra un referendum chiesto dai Radicali, che non raggiunse la maggioranza dei «sì», fermi al 43,6 per cento, probabilmente per l'abbinamento al referendum sulla Legge Reale, ma un segno di frattura con l'opinione pubblica era chiaro: i partiti che avevano invitato a votare «no» teoricamente rappresentavano il 97 per cento dell'elettorato. Lo scampato pericolo indusse i partiti a raddoppiare il contributo pubblico con la legge n. 659 del 18 novembre 1981.
  La consapevolezza di cambiare l'orientamento era presente nella classe politica, Pag. 5non ancora ridotta a casta, e la prima delle Commissioni bicamerali, quella presieduta dall'onorevole Aldo Bozzi, aveva proposto di aggiungere all'articolo 49 un secondo comma, dedicato proprio al finanziamento pubblico, che avrebbe recitato: «La legge disciplina il finanziamento dei partiti, con riguardo alle loro organizzazioni centrali e periferiche, e prevede le forme e le procedure atte ad assicurare la trasparenza e il pubblico controllo del loro stato patrimoniale e delle loro fonti di finanziamento». Non se n'è fatto nulla. Continuano gli scandali e l'intreccio sempre più stretto di partiti al Governo con le imprese pubbliche, con posizioni assicurate anche a esponenti dell'opposizione, come negli affidamenti di lavori pubblici, dove una quota alle cooperative è garantita.
  Il 17 febbraio 1992 scoppia Tangentopoli-Mani pulite, un terremoto politico i cui effetti non sono stati ancora digeriti dal nostro Paese, in attesa della pietra tombale della revisione costituzionale. In tale contesto il referendum dei Radicali dell'aprile 1993 avrebbe avuto un esito scontato: il 93,3 per cento dei voti espressi è a favore dell'abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti.
  Per nulla impressionati, i partiti, attraverso i loro parlamentari, rispondono con la legge n. 515 del 1993, che aggiorna i «contributi alle spese elettorali», come se fossero una cosa diversa dal finanziamento ai partiti politici. Si tratta di un fondo destinato ad aumentare, perché il fondo è calcolato da ultimo con 5 euro per ogni elettore iscritto, una vera e propria truffa, in quanto i voti effettivamente ricevuti non giocano alcun ruolo, se non per determinare la percentuale della torta, e nessuna documentazione fiscalmente regolare deve essere allegata. Il rimborso spetta per le elezioni regionali, nazionali ed europee, sia pure collegato a parametri differenti: per le elezioni politiche nazionali a una percentuale dei voti validi, l'ultima un mero 1 per cento, mentre per le elezioni regionali europee il requisito era quello di avere almeno un eletto.
  Questa era una norma pensata per dare rimborsi anche a chi non avesse raggiunto la bassa percentuale prevista per le elezioni politiche. In effetti, all'epoca le leggi elettorali regionali ed europee erano assolutamente proporzionali: un parlamentare europeo poteva scattare con meno dell'1 per cento. Con le nuove leggi elettorali, invece, viene posta una soglia d'accesso, in genere del 4 per cento, progressivamente in tutte le regioni e per le europee con la legge n. 10 del febbraio 2009, in via definitiva per le elezioni 2009 e 2014, con l'effetto paradossale che le liste che non raggiungono la soglia, pur avendo partecipato alle elezioni e sostenuto spese, non ricevono alcun rimborso, anzi, paradossalmente, gli elettori che hanno votato per loro contribuiscono 5 euro a testa a finanziare i partiti avversari.
  Come detto, i finanziamenti sono determinati dagli elettori iscritti e non dai votanti, che sono in costante diminuzione: il record si è raggiunto nelle elezioni regionali dell'Emilia-Romagna del 2014, con meno del 38 per cento.
  Quando si parla di partiti, non si distingue tra partiti dell’establishment, cioè presenti nelle istituzioni, e nuove formazioni, con effetti paradossali, perché, grazie ai meccanismi premiali per le coalizioni vincenti, possono eleggere un consigliere e, quindi, essere rimborsate formazioni politiche con percentuali infime, anche inferiori all'1 per cento, ed essere escluse dalla rappresentanza e dal rimborso liste con percentuali vicine al 4 per cento per le elezioni europee e anche superiori per le elezioni regionali.
  La questione di questa disparità di trattamento – l'Italia è l'unico caso in Europa in cui soglia d'accesso alla rappresentanza e al rimborso coincidano; in Germania, per esempio, la soglia di accesso è il 5 per cento e quella per il finanziamento è lo 0,5 per cento – è stata sollevata davanti alla giustizia italiana, finora senza successo.
  Altra discriminazione tra partiti esistenti e nuovi soggetti è quella della necessità di raccogliere firme di elettori per la presentazione delle liste. Nelle regioni c'è la massima varietà. Si va dalla presentazione da parte di un solo consigliere uscente (Sardegna e Puglia) al patrocinio di Gruppi Pag. 6consiliari corrispondenti a liste presentatesi nelle elezioni precedenti ovvero formatesi in coincidenza della verifica dei presupposti per lo scioglimento anticipato (Lombardia).
  Per dare un'idea delle discriminazioni, per presentarsi alle elezioni della regione Lombardia (meno di 10 milioni di abitanti) occorrono firme 10 volte di più di quelle necessarie per candidarsi nel Land Nordrhein-Westfalen, con poco meno di 20 milioni di abitanti, dove ne bastano mille, e solo per chi non sia un partito registrato.
  La discrezionalità del legislatore che ha prodotto leggi elettorali come il Porcellum del dicembre 2005, dichiarato incostituzionale soltanto nel gennaio 2014, è un tabù per la nostra giurisprudenza, anche grazie a un'interpretazione estensiva dell'autodichia prevista all'articolo 66 della Costituzione, delle Sezioni unite della Suprema Corte di cassazione e del Consiglio di Stato, estesa persino alle operazioni elettorali preparatorie, malgrado le previsioni dell'articolo 44, comma secondo, lettera d) della legge n. 69 del 2009, che finalmente assoggettava al controllo giurisdizionale le operazioni elettorali preparatorie per la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica.
  Allo stato, un Parlamento eletto con una legge incostituzionale è autorizzato a revisionare la Costituzione e a tenere in non cale la sentenza n. 1 del 2014 della Corte costituzionale, approvando, a mio avviso in violazione dell'articolo 72 della Costituzione, una legge come la n. 52 del 6 maggio 2015, il cosiddetto Italicum, mentre sarebbe stato meglio un Germanicum o un Gallicum.
  Una visita all'estero è necessaria per affrontare la riforma dei partiti. Per esempio, come limite alla discrezionalità del legislatore in materia elettorale si potrebbero recepire i princìpi della sentenza 23 aprile 1986 nella causa n. 294/83, Partito ecologista e i Verdi contro il Parlamento europeo, della Corte di giustizia delle Comunità europee.
  Da noi l'Europa, ridotta a Unione europea, è sempre invocata come limite alle nostre decisioni, ma non risulta che ci siano state proposte di introdurre nel nostro ordinamento disposizioni come l'articolo 10, paragrafo 4 del Trattato sull'Unione europea o l'articolo 224 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea e forme di finanziamento come quelle previste dal Regolamento delle Comunità europee n. 2004 del 2003 del Parlamento europeo e del Consiglio.

  PRESIDENTE. Avvocato, dovrei solo dirle che volgiamo alla chiusura del tempo.

  FELICE BESOSTRI, Avvocato. Benissimo. A mio avviso – e con questo concludo; le altre parti possono essere lette – bisognerebbe partire da leggi collaudate nel tempo, come la tedesca Parteiengesetz. L'ultima è la legge del 31 gennaio 1994, cambiata recentemente nell'agosto 2011, la cui prima versione però è del 1967. Quindi, avrà cinquant'anni il prossimo anno, che sarà anche il cinquecentesimo anniversario della riforma protestante. Una legge sui partiti e uno stabile – non soggetto a variazioni – sistema elettorale possono garantire una riforma e un'attuazione dell'articolo 49 della Costituzione conforme alle intenzioni dei costituenti.

  PRESIDENTE. Do la parola al professor Diamanti.

  ILVO DIAMANTI, professore ordinario di scienza politica presso l'Università degli Studi di Urbino. A mia volta ringrazio di questa opportunità di esprimere le mie opinioni anche in questa sede assolutamente autorevole, la sede istituzionale in cui parlare effettivamente di questo soggetto sfuggente e poco definito che sono i partiti. È necessario perché parlo esattamente in un contesto nel quale gli oggetti della mia riflessione sono i soggetti, ossia sono qui presenti in quanto soggetti.
  In realtà, non ho preparato una memoria, né una relazione sistematica, per varie ragioni. In primo luogo, perché ho avuto poco tempo, avendo saputo dell'audizione qualche giorno fa.
  In secondo luogo, però – lo dico chiaramente, non solo perché, a differenza di Pag. 7molti colleghi presenti non sono un giurista, ma faccio un «mestiere» diverso e mi occupo di questo argomento da prospettive diverse – non ho presentato una memoria scritta né argomentata, come quella che ho già sentito e come quelle che sicuramente verranno proposte in seguito e che, quindi, compenseranno la mia inorganicità e disorganicità, perché semplicemente non ho moltissimo da dire. I dieci minuti li userò sicuramente, ma in difetto in questo caso, perché non ho moltissimo da dire.
  Considero i partiti certamente un soggetto di diritto. Non a caso, sono regolati e istituzionalizzati con l'articolo 49 della Costituzione, di cui si parla in questa sede. Tuttavia, sono anzitutto un soggetto storico e un attore sociale. Secondo l'articolo 18 della Costituzione l'altro riferimento – essi sono di fatto un'associazione tra persone che volontariamente partecipano e si aggregano attorno a un fine, in questo caso politico.
  Non per caso, quando parliamo di partiti, parliamo di cose molto diverse. Se facciamo riferimento semplicemente alla disciplina e all'analisi politica dei cambiamenti dei partiti, ci accorgiamo di come in non molto tempo, in un tempo relativamente breve (poco più di un secolo), i partiti abbiano cambiato almeno tre forme quasi alternative: erano parlamentari, ossia nascevano all'interno del Parlamento; divengono poi extraparlamentari, perché sono partiti di massa, che nascono prima all'esterno, dentro la società, e come proiezione di movimenti e di organizzazioni; e alla fine, secondo gli analisti e i filosofi della politica, divengono qualcosa d'altro, perché la loro principale funzione, che è essere attori della rappresentanza e, quindi, della democrazia rappresentativa, si traduce all'interno di una democrazia rappresentativa che ha sostituito progressivamente il territorio con la comunicazione, e gli stessi partiti sono stati progressivamente riassunti e ridotti da organizzazioni a persone.
  Oggi si assiste tendenzialmente a un'ulteriore evoluzione, quella dai partiti personalizzati, al servizio delle persone, ai partiti personali, cioè alle persone che si fanno il loro gruppo, il loro comitato, la loro commissione, e possono «realizzare» quella risorsa che è preliminare all'azione politica, cioè il consenso, attraverso i media, attraverso il marketing politico, attraverso i loro consulenti che sono esterni al Parlamento e quant'altro.
  È abbastanza evidente – ma ne parlerà sicuramente anche il professor Ferrajoli – che questa evoluzione porta con sé anche il deterioramento di quell'altra grande risorsa che ha a che fare con la politica e con le istituzioni, cioè la fiducia. La fiducia si erode necessariamente nel momento in cui non sei più nella società; si erode nel momento in cui, di fatto, la dissociazione e la dissonanza tra quel che dici e quel che fai diventa evidente a tutti; si erode nel momento in cui sei distante, lontano, sei percepito come altro.
  Personalmente testo con continuità – ma non solo io – la fiducia nei confronti dei partiti. Ebbene, oggi è irrilevabile, perché il 3 per cento è il margine d'errore statistico; insomma, intendo dire che può esser nessuno, può essere che io abbia telefonato a qualcuno, ma non faccio nomi né cognomi. Insomma, mi è capitato dentro al campione, tra rifiuti e altro, il segretario di uno dei partiti qui presenti. E allora può essere, può essere il 6 per cento, ma può essere lo zero. Attualmente è potenzialmente lo zero per cento. Perché? Perché non è stato attuato l'articolo 49? Badate, non è una polemica con i colleghi che diranno altro, può essere necessario per altre cose.
  Dopo quello che è avvenuto a Napoli oggi si parla anche di regolare e di istituzionalizzare le primarie. Istituzionalizzando le primarie a Napoli, i partiti che si servono delle primarie non conosceranno più i problemi degenerativi che abbiamo visto in queste ultime elezioni? Naturalmente quando non si utilizzavano le primarie, i partiti agivano in autonomia ed erano assolutamente puliti, trasparenti e non inquinati! Lasciatemi parlare senza fare polemica, non è questa la mia intenzione.
  Io intendo che i partiti, secondo la filosofia della politica, sono degli attori del Pag. 8governo rappresentativo, che nonostante tutti i cambiamenti di cui vi ho parlato – fino alla democrazia del pubblico, come la chiama Manin, quella del rapporto tra leader e spettatore e non più cittadino – hanno comunque due specificità, il monopolio di due funzioni: non possono sparire perché comunque organizzano e partecipano alle campagne elettorali, quindi alla selezione dei rappresentanti dei cittadini, e perché organizzano e gestiscono, come qui, i lavori nelle assemblee parlamentari. Tra parentesi, guardate che la fiducia nel Parlamento è al 9 per cento, nei miei sondaggi. Quindi, questa è la fiducia nella principale assemblea della democrazia rappresentativa di questo Paese.
  Ora, senza discutere le buone ragioni di coloro che intendono proseguire e perseguire questo obiettivo, questo focus, di riempire di contenuti l'articolo 49 e renderlo di fatto efficiente ed effettivo, credo che l'articolo 49 sia autosufficiente. Esso spiega che i partiti sono di fatto delle associazioni volontarie di cittadini che hanno un obiettivo che istituzionalmente e democraticamente è assolutamente rilevante. Penso che i partiti, nel momento in cui venissero ulteriormente istituzionalizzati da regole esterne, probabilmente – ve lo dico in maniera brutale – degenererebbero ulteriormente.
  I passaggi e gli interventi fatti per istituzionalizzare l'azione e la presenza dei partiti li ho visti da un lato come riti purificatori di fronte ai cittadini in seguito a crisi esterne d'immagine; in secondo luogo, come la prima fase di ulteriori processi degenerativi.
  Per mestiere, però, non sono un pessimista ma un critico. Quindi, e con questo chiudo il mio contributo, dal mio punto di vista teniamoci l'articolo 49 come è e lavoriamo, per chi ci crede, perché i partiti di fatto possano arrivare almeno al 7 per cento di fiducia, in modo tale che anche quando viene rilevata dai ricercatori possa significare che una quota, per quanto piccola, esiste.
  Per concludere, sono i comportamenti e le degenerazioni che vanno controllate e ovviamente sanzionate, non gli attori. Le azioni, non gli attori.
  Con questo chiudo, pensando di aver detto largamente quello che penso, e vi ringrazio della pazienza oltre che dell'invito.

  MARIO DOGLIANI, professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Torino. Grazie molte per questo onore che mi è stato fatto con questo invito.
  Sarei tentato di sottoscrivere quanto ha appena detto il professor Diamanti, però la differenza tra i giuristi e gli scienziati politici è essenzialmente che i giuristi cercano di far qualcosa usando l'eteronomia del diritto per intervenire su queste situazioni. Comunque, a lungo ho pensato le stesse cose, però qui mi è sembrato di dover intervenire nella discussione che stiamo facendo con questi punti. Sarò schematicissimo.
  Primo punto. Anch'io sono convinto che l'articolo 49 è un articolo compiuto, autoapplicativo, e non richiede attuazione, come si dice. Non so chi ha inventato questa parola «attuazione» dell'articolo 49 della Costituzione. So che era comparso molti anni fa un articolo intitolato «Regolare gli sregolati», però francamente è un'idea che a me risulta piuttosto nuova. Perché non richiede attuazione in senso tecnico? Perché non è una norma tetica o una norma programmatica che richiede un intervento legislativo per poter essere applicata dai cittadini o dalla pubblica amministrazione.
  È una norma che ha un senso compiuto, in sé, quindi fornisce garanzie, attribuisce dei diritti in quanto tale, senza necessità di dover essere svolta. Non è una pagina bianca rimessa alla discrezionalità legislativa.
  Conseguentemente, visto che è una norma giuridica dal significato compiuto e autosufficiente, può essere contraddetta da norme che pretendono di svilupparla e può entrare in un rapporto antinomico con queste norme. Basta ricordare che l'articolo 18 della Costituzione recita che i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che Pag. 9non sono vietati ai singoli dalla legge penale. L'articolo 49 ripete che tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti. Quindi, tutta la disciplina dell'articolo 18 ricade sull'articolo 49 e c'è un diritto pieno di associarsi per qualunque fine e senza autorizzazione.
  Ora, la nostra Costituzione, quindi, non ammette nessun controllo sui fini, che adesso si chiamano valori, ma è sempre la stessa cosa. Non è ammesso questo. Dunque, lo si vuole introdurre? Lo si dovrà, secondo me, introdurre con una revisione costituzionale, se lo si desidera. Ho visto che il professor Massari aveva detto più o meno le stesse. Non si deve pensare che l'articolo 49 sia una norma di principio priva di significati determinati, per cui adesso il legislatore ordinario può fare quel che vuole.
  Secondo punto. Per quanto riguarda l'interpretazione dell'inciso «con metodo democratico», qui vorrei dire che, sia che si segua l'interpretazione originalista o quella storico-psicologica o l'interpretazione a contrario o letterale in senso stretto o sistematica, gli esiti convergono, ossia che, come dicevano gli antichi, il legislatore ubi voluit dixit. E qui, che il metodo democratico comporti un controllo sulla democraticità interna dei partiti la Costituzione lo esclude, perché quando l'ha voluto l'ha detto. Quindi, un'interpretazione sistematica dentro il testo costituzionale porta a questo risultato. Comunque, ammettiamo che nel dibattito che si è svolto negli ultimi settant'anni ci siano state discussioni intorno all'interpretazione dell'inciso «metodo democratico».
  Dal punto di vista tecnico la portata dell'inciso è quella che è. Lo stesso Mortati, che aveva – come è noto – seguito un pensiero diverso in Costituente, nel manuale dava questa interpretazione. Dunque, quel che conta è la democrazia nell'attività esterna. Comunque, ammettiamo che sia legittimo procedere legislativamente a una disambiguazione (come dicono i siti) di questa espressione. Ora, a me pare che questa disambiguazione possa essere giustificata da questo punto di vista.
  Tenendo conto delle trasformazioni che hanno assunto i partiti, oggi il problema più importante mi sembra sia quello di impedire – posto che si riesca con i limitati strumenti del diritto – un'evoluzione dei partiti da associazioni, come dovrebbero essere, a un'attività imprenditoriale, che ha solo un imprenditore. Le espressioni «impresa politica», «imprenditore politico» hanno un significato molto più alto, ma qui lo uso proprio in senso tecnico, ossia come di un soggetto che investe un capitale nell'organizzazione di un partito.
  Da questo punto di vista, si potrebbe dire che una legge interpretativa come quella che vi accingete a discutere potrebbe chiarire il punto, ritenendo che il metodo democratico interno è una conseguenza necessaria del carattere di associazione e di quell'attività che i cittadini prestano che è definita come un «concorrere». Quindi, il concetto di associazione e il concetto di concorso potrebbero reggere un'interpretazione tale per cui il metodo democratico interno è una conseguenza necessaria.
  Mi permetto di dire che, se così è, forse bisognerebbe avere un po’ più di coraggio sulla disciplina dell'organizzazione interna. Non basta dire che ci devono essere degli organi collegiali; bisognerebbe anche dire qualcosa, ad esempio, sulla loro frequenza di riunione, in modo che si possa dire che questo organismo vive attraverso incontri di organi collegiali ai diversi livelli.
  Su questo sentiero scivoloso – che, devo dire, fino a qualche tempo fa avrei rifiutato – che quindi potrebbe ammettere un potere di controllo sulla democraticità interna, mi sembra di dover dire (anche questa è una cosa che è già stata detta in questa sede) che non è sufficiente rimettere il controllo sugli statuti a un collegio di magistrati con la prevalenza di magistrati contabili, dei quali pure ho la massima stima perché ho fatto parte del Consiglio di Presidenza della Corte dei conti, ma sarebbe necessario pensare anche ad altri componenti. E qui la fantasia si può sbizzarrire.
  Nello stesso ordine di idee, dato lo strappo che comporta un controllo sulla democraticità interna, direi – anche questo Pag. 10è già stato detto – che bisogna evitare simbolicamente l'intervento delle prefetture come organi di controllo, di deposito degli statuti. Insomma, le prefetture sono l'organo del Governo, quindi sarebbe molto meglio pensare a un soggetto diverso. È stato proposto che sia la Corte di cassazione.
  Ulteriore punto – vado per flash – è quello di non confondere la necessità di un'eventuale disciplina in questo senso dei partiti italiani con il discorso dell'Unione europea. L'Unione europea non ha nessuna competenza in materia di ordinamento dei partiti italiani. Ha disciplinato i partiti europei, ma i partiti europei sono una cosa, i partiti italiani sono un'altra. Si dovranno coordinare, si dovrà tenere conto di questa duplicità di piani, ma non si dica che dobbiamo fare questa legge perché lo vuole l'Europa, perché non è vero. L'Europa non può voler nulla su questo punto.
  Ulteriore aspetto che mi permetto di sottolineare – non so se altri l'hanno già fatto – è che molti disegni di legge fanno un rinvio al codice civile e alla normativa in materia di riconoscimento della personalità giuridica. A me sembra che questo rinvio in toto sia piuttosto pericoloso, perché sottolineo che tra le norme da applicare richiamate da questo rinvio al decreto del Presidente della Repubblica 10 febbraio 2000, n. 361 c'è una disposizione che prevede come condizione che il patrimonio risulti adeguato e che la consistenza del patrimonio debba essere dimostrata da documentazione allegata.
  Mi chiedo se sia opportuno sottoporre i partiti all'onere di dimostrare di avere un patrimonio conforme all'obiettivo che si pongono, quello di governare un Paese, e allegare la prova.
  Insomma, le norme pensate per le persone giuridiche e quelle che invece sono collegate agli articoli 48, 49, 18 della Costituzione dovrebbero essere tenute, mi pare, molto ben separate.
  Un punto spinoso è quello delle sanzioni che possono essere irrogate ai partiti i cui statuti non presentano tutti i caratteri dovuti.
  Mi pare che la ratio della disciplina che vi accingete ad approvare abbia come fine innanzitutto quello di garantire una trasparenza dei conti (le cose si mischiano) e in secondo luogo, anche se non emerge immediatamente, quello di porre dei limiti ai finanziamenti privati, ovvero alla privatizzazione dei partiti. Infatti, pur essendo facilmente aggirabile, c'è un tetto alle donazioni fiscalmente incentivate.
  Che tipologia di partiti consegue a queste due finalità? Allo stato, considerate le proposte di legge che ho esaminato, consegue che ci potranno essere due tipi di partiti: partiti non registrati e partiti registrati. I partiti registrati accedono a finanziamenti privati incentivati o a questi e al 2 per mille. Invece, mi pare che i partiti non registrati non siano vincolati da nulla nella loro contabilità; continuano a vivere la loro vita di associazioni.
  Qui si pone il problema della sanzione. In una delle proposte di legge presentate si parla di ricusazione, cioè della possibilità che venga ricusata la lista presentata da partiti non autorizzati. Questo significa impedir loro di partecipare alle elezioni politiche. Comunque – non penso che sia un argomento che qui non può essere speso – in Senato giacciono disegni di legge che prevedono l'impossibilità di presentare liste da parte di partiti non registrati, che non hanno avuto approvato lo Statuto e via dicendo.

  PRESIDENTE. Professore, le devo chiedere di avviarsi alla conclusione, altrimenti non abbiamo il tempo per ascoltare tutti.

  MARIO DOGLIANI, professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Torino. Mi avvio alla conclusione. Il problema è se si vuole o no consentire che esistano partiti che vivono nella totale privatezza e, quindi, svicolano la disciplina relativa ai finanziamenti.
  È un punto molto delicato, però bisogna riconoscere che, se si vuole sottoporre il finanziamento dei partiti e la loro contabilità interna a un controllo pubblico, questa falla va chiusa.
  Infine, io non sono d'accordo con le norme che liberano i partiti già presenti in Pag. 11assemblee dall'obbligo di raccogliere le firme per la presentazione delle liste. A me sembra che l'obbligo di raccogliere le firme sia un fatto democratico, un fatto associativo. È certo un fastidio, ma perché bisogna eliminare questo fastidio, che consiste nel raccogliere adesioni di cittadini? A Torino abbiamo vissuto vicende molto brutte relative a questi fatti.
  A me sembra che ribadire l'obbligo della raccolta di un consistente numero di firme sia un piccolo strumento per cercare di orientare i comportamenti di questi soggetti che a noi stanno molto a cuore, che sono i partiti politici.

  PRESIDENTE. Do la parola all'avvocato Anna Falcone.

  ANNA FALCONE, avvocato. Presidente, ovviamente vi ringrazio per l'invito e per l'opportunità di discutere su un tema, quello della regolamentazione dei partiti politici e più ampiamente dell'attuazione dell'articolo 49 della Costituzione, che sta a cuore a tanti di noi che si occupano di questi argomenti.
  Signor presidente, il primo rilievo che intendo sottoporre a questa Commissione concerne l'impostazione di ordine generale che si intende dare a queste discipline, legandole all'idea dell'attuazione dell'articolo 49, come se questa attuazione fosse attinente solo ed esclusivamente alla disciplina formale dei partiti.
  Da questo punto di vista, la norma costituzionale è abbastanza evidente: il soggetto non sono i partiti politici, ma tutti i cittadini, che hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere, con metodo democratico, a determinare la politica nazionale.
  Questo legame funzionale non è un legame di secondaria importanza, perché qualifica e giustifica la particolare tutela di cui questa libertà di associazione è fornita, proprio per garantire e contribuire all'attuazione dei principi fondamentali su cui si fonda l'intera Carta costituzionale: la sovranità popolare e il principio democratico.
  Quando si parla di metodo democratico, non ci si riferisce a un'espressione suscettibile di infinite interpretazioni, anche quelle più minimali, bensì alla declinazione che tale metodo deve assumere in funzione della garanzia di quel principio democratico anche all'interno dei partiti politici e nelle modalità in cui la sovranità popolare si esercita, non solo individualmente con l'esercizio del voto, la partecipazione ai referendum eccetera, ma soprattutto, in applicazione del principio pluralista, collettivamente. È questo che qualifica l'azione politica dei cittadini e consente alle persone di lavorare insieme più efficacemente per gli obiettivi comuni.
  È evidente che, seppur da un punto di vista formale l'articolo 49 è sicuramente una norma in sé compiuta, la norma costituzionale di per sé non è affatto sufficiente a delineare e a qualificare quei diritti politici e di partecipazione politica in cui si sostanziano la costituzione e la partecipazione a un partito e, quindi, l'indirizzo dell'azione politica.
  Di questa falla, purtroppo, si sono visti gli effetti soprattutto negli ultimi 30 anni. In questa fase di transizione democratica dalla democrazia meramente rappresentativa a una democrazia che si chiede essere sempre più partecipativa, i partiti politici, invece che aprirsi alla partecipazione e garantire dettagliatamente, non solo negli statuti ma anche nella pratica politica, questi diritti di partecipazione, hanno finito per diventare, come sottolineava il professor Diamanti, prima dei partiti della comunicazione e poi addirittura dei partiti personali o del leader.
  Io credo che, se si vuole affrontare il problema della regolamentazione dei partiti politici, anche in un'ottica di superamento della crisi della sovranità popolare, della rappresentanza dei partiti e del rapporto di fiducia che dovrebbe intercorrere con i cittadini, non si possa esulare da una valutazione: questa regolamentazione, più che dare un'impostazione formale, meramente organizzativa e quasi architettonica della struttura dei partiti, deve partire dall'individuazione di questi diritti politici e di partecipazione politica.
  Tali diritti devono avere garanzia all'interno dei partiti, perché altrimenti si impedisce Pag. 12 di fatto l'esercizio della sovranità popolare, esercitata in maniera collettiva proprio tramite i partiti, i movimenti politici o tutti gli altri soggetti che partecipano all'indirizzo politico del Paese.
  Mi viene in mente una citazione di Guido De Ruggiero, che potremmo parafrasare in questi termini per giustificare l'esigenza di una regolamentazione: in un regime dispotico, che è sorretto da leggi asservite al principe, che fingono nella forma di tutelare i diritti, ma si guardano bene dall'assicurarne la sostanza, vi è un solo liberale: il despota stesso.
  A questo punto, facendo un'analisi che non è soltanto giuridica, ma credo sia fondamentale anche per il giurista, che è l'analisi d'impatto normativo delle ipotesi che possiamo immaginare sulle proposte di legge, non possiamo non tener conto della difficoltà che nella pratica i cittadini hanno incontrato nell'esercitare i propri diritti di partecipazione politica e, quindi, il diritto a contribuire all'indirizzo politico del Paese, all'interno dei partiti politici.
  Se noi guardiamo gli statuti dei maggiori partiti, vediamo che quasi tutti prevedono degli organismi assembleari di rappresentanza degli iscritti, degli organismi di direzione politica, degli organismi esecutivi e un segretario o un presidente che li rappresenta al loro esterno.
  Sappiamo altrettanto che questi partiti, nonostante siano organizzati in maniera così dettagliata e strutturata e prevedano formalmente al loro interno, alcuni con particolare pregnanza, quali siano i diritti degli iscritti, di fatto perdono consensi nel tempo e vedono spesso allontanarsi i migliori militanti, per l'impossibilità di contribuire concretamente, liberamente e attivamente alla determinazione delle scelte politiche.
  Nel testo della proposta di legge C. 3004 che è stata presentata si tiene poco conto di questo aspetto. Nell'individuazione del metodo democratico, pare ci si accontenti di dare una definizione e una garanzia meramente formali della separazione dei poteri all'interno dei partiti, ma non una garanzia dei diritti di partecipazione politica, senza i quali quei partiti di fatto non esistono.
  Mi limito ad alcuni riferimenti, partendo dalle lacune. Il mancato riconoscimento del pluralismo interno, della contendibilità del partito e degli strumenti volti a garantire la libertà per tutti gli iscritti di presentare mozioni, candidature e ordini del giorno è di fatto un limite genetico gravissimo, che ha impedito a tanti partiti di essere realmente aperti alla società e, quindi, capaci di seguire l'evoluzione del nostro modello democratico e di rispondere a questa richiesta di partecipazione a cui pochi danno ascolto.
  Un'ulteriore lacuna è la mancata garanzia della celebrazione democratica dei congressi secondo un ordine cronologico. Non mi riferisco solo a una cadenza fissa nel tempo, come sottolineava il professor Dogliani, ma anche alla garanzia che i congressi locali precedano i congressi nazionali.
  Molto spesso abbiamo visto che i partiti nazionali, nell'apprestarsi delle scadenze elettorali, accelerano la convocazione dei congressi nazionali, costringendo le federazioni o le articolazioni locali a fare dei congressi finti, in cui ci si limita a ratificare le decisioni e le maggioranze stabilite a livello del congresso nazionale.
  Sorrido pensando al riconoscimento solo eventuale e su richiesta del diritto delle minoranze a essere rappresentate proporzionalmente negli organismi collegiali. Come possiamo pensare che un partito sia organizzato democraticamente, anche soltanto in un'accezione meramente formale del metodo democratico, se le minoranze devono chiedere di essere rappresentate proporzionalmente?
  Un'altra lacuna è la mancata indicazione delle misure a tutela dell'imparzialità e dell'indipendenza degli organi di garanzia.
  Il nostro sistema soffre di una falla veramente grave, che è quella della tutela effettiva dei diritti politici. Chi, come me, il professore avvocato Besostri e tanti avvocati, presenta e difende in tribunale iscritti a partiti politici che lamentano il mancato rispetto dei propri statuti o regolamenti, sa Pag. 13benissimo che la tutela giurisdizionale garantita dallo Stato in via ordinaria è tanto lenta quanto inefficace.
  Purtroppo, quella prestata tramite gli organismi di garanzia è una via che molti finiscono per non percorrere, perché questi organismi di garanzia nella maggior parte dei casi, non solo sono espressione della maggioranza del partito, il che è legittimo, ma non prevedono neanche delle forme minime di garanzia, come ad esempio la presidenza della commissione di garanzia da parte di una delle forze di minoranza. Inoltre, non prevedono nessuna forma di indipendenza e autonomia di questa commissione, che in qualsiasi idea di modello democratico è condizione essenziale affinché ci possa essere una tutela privata dei diritti di partecipazione politica degli iscritti.
  Anche in queste proposte non si parla affatto delle garanzie di indipendenza e di imparzialità di una commissione di garanzia che, oltre a tutelare i diritti ma anche l'adempimento dei doveri degli iscritti, dovrebbe essere di fatto il soggetto controllore di tutti gli organi esecutivi.
  C'è una falla molto più grave, che ripropone un problema che si era già verificato a proposito dell'approvazione della legge sul finanziamento ai partiti, la n. 13 del 2014, in seguito ulteriormente modificata: il mancato riconoscimento agli iscritti del diritto di conoscere i finanziatori del proprio partito politico. Faccio riferimento, non tanto ai contribuenti del 2 per mille, che sarebbero davvero troppi, quanto ai finanziatori privati. Questo problema si era già verificato proprio a proposito della discussione e poi dell'approvazione della disciplina sul finanziamento ai partiti.
  In un sistema in cui i partiti politici, più che essere reale emanazione della volontà degli iscritti, finiscono per essere partiti di lobby, quando non partiti personali, essere a conoscenza di chi finanzia il partito, soprattutto se con somme ingenti, non è soltanto un diritto dell'iscritto, che deve sapere con chi concorre, con le sue modeste e forze, a realizzare un obiettivo politico, ma dovrebbe essere garantito come diritto di tutti i cittadini, i quali, votando quel partito, devono sapere chi è l'azionista di maggioranza o di minoranza e non solo chi è il suo legale rappresentante.
  Ci sono delle norme di particolare genericità soprattutto nella proposta di legge C. 3004. Nell'individuazione di quello che deve essere il contenuto essenziale degli statuti, si richiede molto genericamente l'indicazione delle procedure necessarie per l'approvazione degli atti che vincolano il partito, ma non si richiede – ciò è strano per una legge che vorrebbe attuare il metodo democratico – che queste procedure rispettino la volontà degli iscritti e addirittura promanino da essa, che sia direttamente espressa o indirettamente rappresentata dagli organismi assembleari.
  Significativamente, subito dopo, nell'indicazione dei diritti degli iscritti, si riconosce il diritto a concorrere alla determinazione della linea politica del partito, più che a determinarla, come dovrebbe essere in un organismo realmente democratico.
  Inoltre, si chiede l'indicazione delle modalità di selezione delle candidature per le elezioni nazionali, locali ed europee, ma non l'indicazione dei criteri che garantiscano che tali candidature siano promanazione della scelta democratica degli iscritti e possibilmente di una votazione libera e segreta sugli aspiranti candidati.
  Il limite di una effettiva garanzia del diritto di elettorato passivo, che di fatto continua a essere un problema, non soltanto interno ai partiti, ma di tutti i cittadini, che difficilmente riescono a candidarsi alle cariche pubbliche se già non fanno parte del partito, esprime qui tutta la sua gravità.
  Se una disciplina sui partiti politici non garantisce, non solo la libertà di partecipazione e di voto degli iscritti, ma anche la possibilità di candidarsi alle cariche interne del partito e alle cariche esterne che quest'ultimo esprime, allora siamo veramente in una condizione di grave approssimazione nella determinazione del metodo democratico.
  Mi avvio alle conclusioni. Io credo che, al di là della regolamentazione interna ai partiti, sarebbe ora che l'Italia si avviasse verso una fase un po’ più coraggiosa per la Pag. 14tutela giurisdizionale dei diritti politici. Tale tutela giurisdizionale probabilmente potrebbe essere assicurata, come accade già per i diritti dei lavoratori, predisponendo all'interno dei tribunali ordinari delle sezioni specializzate.
  So che è una proposta che crea molte opposizioni di diversa natura, ma di fatto un iscritto a un partito che si trovi nella condizione di non poter avere tutela del proprio diritto all'interno del suo partito o anche di un diritto di rilievo costituzionale, come è la possibilità di candidarsi alle elezioni pubbliche, e non può avere accesso a una giustizia rapida ed efficace, soffre un gravissimo vulnus dal punto di vista dei suoi diritti politici e di cittadinanza. Inoltre, ciò crea un vulnus nell'ordinamento democratico, che in questo modo non è effettivamente democratico e aperto a tutti i cittadini.
  Faccio un'ultima annotazione di ordine meramente formale. Io credo che nessun'altra materia come quella relativa alla tutela dei diritti di partecipazione politica e alla disciplina dei partiti politici meriti di più di essere discussa e votata in Parlamento con una legge ordinaria dello Stato.
  La delega al Governo, di cui all'articolo 5 della proposta di legge C. 3004 è, se non di dubbia costituzionalità, vista l'eccessiva genericità dell'oggetto e, quindi, della delega stessa, quantomeno inopportuna.
  Io credo che in un momento del genere, in cui cittadini chiedono una nuova stagione di democrazia, che si fondi proprio sulla ripristinata fiducia fra le istanze popolari e i loro rappresentanti, il Parlamento dovrebbe prendersi la responsabilità non di delegare un raccordo fra le norme esistenti, ma di immaginare una disciplina che, prima della regolamentazione interna dei partiti politici, tuteli finalmente in maniera completa e compiuta i diritti politici e di partecipazione politica di tutti i cittadini italiani.

  LUIGI FERRAJOLI, professore emerito di filosofia del diritto presso l'Università degli studi «Roma Tre». Anch'io ringrazio dell'onore che mi è stato fatto con questo invito a parlare di una questione di fondo per la nostra democrazia.
  Sono d'accordo con molte delle cose che ha detto Anna Falcone, a cominciare dall'ultima. Una legge sui partiti deve essere una legge di competenza esclusiva del Parlamento. Il Governo non dovrebbe entrarci, così come non avrebbe dovuto entrare sulle riforme costituzionali. Questa è davvero la questione di fondo dalla democrazia perché ha a che fare con la rappresentanza. Il Parlamento, cioè, legifera su se stesso, sulle proprie fonti di legittimazione.
  Io credo che ogni discussione sui partiti e su una legge di regolazione dei partiti debba muovere da un dato di fatto, a mio parere, catastrofico, cioè dalla consapevolezza della crisi radicale della nostra democrazia legata al crollo della rappresentanza politica. Sto parlando della capacità dei partiti di essere gli organi in grado di mediare il rapporto tra le istituzioni pubbliche e politiche e la società. Questo è il dato più drammatico che non possiamo ignorare.
  Si tratta di un dato che è testimoniato dai rilievi statistici di Diamanti, con il quale sono d'accordo sia sui rilievi ovviamente che sulla natura del partito che deve essere per l'appunto un attore e un organo della società. Tuttavia, non sono d'accordo sul fatto che questo obiettivo possa realizzarsi naturalmente.
  La democrazia non è un fatto naturale. La democrazia politica e costituzionale è il risultato di qualche secolo di elaborazioni teoriche e di istituzioni e regole complesse di garanzia. Questo dovrebbe valere anche per i partiti, quindi considero un fatto abbastanza paradossale che i partiti siano stati viceversa ignorati o comunque trascurati sia dalla dottrina costituzionalistica che dalla teoria politica, quando sono gli strumenti, come dice l'articolo 49 della Costituzione, «per concorrere a determinare la politica nazionale».
  Senza partiti la democrazia, fondata sul suffragio universale, non è possibile. Hans Kelsen, il più grande teorico del diritto, sosteneva che l'ostilità ai partiti equivale a un'ostilità alla democrazia e sosteneva altresì, come ha ripetutamente affermato e argomentato, che la possibilità della democrazia di essere rappresentativa attraverso Pag. 15i partiti richiede una legislazione di attuazione dei diritti politici, quindi una legge sulla democrazia nei partiti.
  In un certo senso, non sono d'accordo con quanto dicevano Dogliani e Diamanti sull'articolo 49 perché non è vero che non indica dei fini. L'articolo 49 indica un fine molto preciso che è quello di concorrere, cioè il fine secondo il quale i cittadini hanno il diritto di concorrere. Questa è una finalità politica, cioè la finalità che deve essere realizzata e garantita è che i cittadini non rappresentino, non esprimano il loro consenso e non siano dei semplici spettatori degli spettacoli televisivi, ma concorrano alla determinazione della politica nazionale.
  Diamanti parlava di tre tipi di partito: il partito parlamentare di tipo ottocentesco, quando non c'era il suffragio universale; il partito di massa che non è mai stato assistito da grandi garanzie, ma che aveva in qualche misura un radicamento sociale; i partiti personalizzati e statalizzati, oggi identificati con le istituzioni. Di questi tre tipi di partito, la Costituzione prevede espressamente il secondo modello che non è mai stato garantito, in quanto i partiti nel loro momento migliore, quando sono nati come partiti operai e poi, all'indomani della Resistenza, quando uscivano i loro dirigenti dalle carceri, dalla lotta di liberazione e dall'esilio, non avevano bisogno di norme per garantire la loro autonomia sociale e la loro autonomia dallo Stato e dalle istituzioni.
  I partiti hanno, tuttavia, utilizzato la loro autonomia sostanzialmente per statalizzarsi. Questo è stato l'effetto della mancanza di regole perché la mancanza di regole produce inevitabilmente il carattere sregolato per l'appunto e selvaggio dei poteri. Questo è quanto è successo, come è documentato non soltanto dei dati statistici, ma anche dal crollo della partecipazione politica: non soltanto l'astensionismo è diventato ormai maggioritario, ma anche il crollo della qualità del voto.
  Oggi, la grande maggioranza delle persone vota non per convinzione, ma per dissenso e per disprezzo o paura di altre formazioni avversarie. Si vota a sinistra per disprezzo o per paura dei voti o della possibilità di prendere il potere da parte di partiti per l'appunto personalizzati e razzisti e viceversa a destra contro i partiti di sinistra comunisti, eversori eccetera, cioè c'è un tendenziale voto per dovere per il meno peggiore. Questo è l'atteggiamento generalizzato.
  Il fatto che la percentuale ammonti al 3 per cento, cioè praticamente zero, e che l'istituzione è partito sia l'istituzione più screditata dovrebbe essere la prima preoccupazione del ceto politico. Il ceto politico ormai è privo di legittimazione ed il ceto politico più screditato. Inoltre, la mancanza di un radicamento sociale produce anche una deformazione delle formazioni dei gruppi dirigenti che avvengono non più attraverso la partecipazione dal basso e attraverso la selezione dal basso, ma attraverso meccanismi di cooptazione assolutamente privi di trasparenza.
  Io credo che tutte le norme costituzionali – qui dissento con Mario Dogliani – richiedano leggi di attuazione. Certo, la norma sul diritto di voto è una norma completa e tutti hanno il diritto di voto, così come è valido per tutti i diritti fondamentali perché tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero e il diritto alla salute e all'assistenza, ma, diversamente dai diritti patrimoniali che sono garantiti immediatamente dagli obblighi e dai divieti corrispondenti, le norme costituzionali richiedono leggi di attuazione che ne introducano le garanzie.
  Le garanzie sono quei complessi sistemi istituzionali di regole, in grado di creare per l'appunto le forme attraverso cui i diritti si esercitano e anche i limiti ai poteri altrimenti incontrollati che, in mancanza di regole, inevitabilmente si sviluppano in qualunque comunità.
  Io credo che le regole di democrazia interna che potremmo elencare sono moltissime. Anna Falcone ne ha elencate alcune e altre sono state elencate dallo stesso Dogliani, che pure è contrario a qualsiasi tipo di regola.

  MARIO DOGLIANI, professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università Pag. 16degli studi di Torino. Non è vero! Ho solo detto che ci possono essere contraddizioni!

  LUIGI FERRAJOLI, professore emerito di filosofia del diritto presso l'Università degli studi «Roma Tre». Tra queste, per esempio, il fatto che ci si possa associare liberamente certamente non giustifica i limiti denunciati da Besostri nel suo intervento, cioè gli eccessivi limiti per presentare liste in Parlamento. Naturalmente è giusto che vengano raccolte delle firme, ma non nella misura ricordata da Besostri che è assolutamente incomparabile rispetto alla misura tedesca o di altre regioni. Ci sono naturalmente le differenze che fra l'altro contraddicono il principio di uguaglianza.
  Stiamo parlando comunque di regole, per cui, se le regole ci devono essere, queste devono tutelare la rappresentatività interna degli organismi politici e la rappresentanza delle minoranze e devono regolare il finanziamento.
  Non ci rendiamo conto, dopo vent'anni di demagogia qualunquista, che il finanziamento privato dei partiti rischia di essere un tipo di finanziamento attraverso il quale vengono eletti i finanziatori assai più che i rappresentanti e i candidati e attraverso cui vengono eletti finanziatori e vengono portati al potere i mandati occulti dei finanziatori.
  Badate che, a proposito di finanziamento, quello che è assolutamente inammissibile è il finanziamento da parte di persone giuridiche e di società per azioni che evidentemente non hanno motivazioni ideali e i cui finanziamenti, dunque, occultano inevitabilmente forme di condizionamento e sostanzialmente di corruzione.
  Le regole interne sono regole di garanzia dei diritti politici che, oggi, sono i diritti meno garantiti fra tutti i diritti fondamentali. Non sto parlando di quelli patrimoniali che hanno una lunga tradizione di garanzia.
  Credo sia necessaria una regola, anche se mi rendo conto di proporre una tesi che non sarà condivisa, ma a mio parere essenziale per rifondare la credibilità dei partiti. Tale regola si ricollega a un vecchio principio, il principio dalla separazione dei poteri di Montesquieu. Non dimentichiamo che la separazione dei poteri è stata teorizzata da Montesquieu nel 1748, cioè in presenza di un assetto istituzionale che non ha nulla a che vedere con l'attuale. Montesquieu prevedeva la separazione tra i pubblici poteri. Veniva data come un elemento del costituzionalismo profondo dello Stato moderno la separazione con i poteri economici e con i poteri sociali.
  Oggi, questa separazione sta venendo meno: la politica è governata dall'economia e i poteri sociali sono stati praticamente tacitati, non esistono. L'unico modo per restituire – sono d'accordo con Diamanti, salvo che sul fatto che occorre che vengano introdotti i mezzi per realizzare questo obiettivo – i partiti alla società e per farne i veri titolari delle funzioni di indirizzo politico è quello di garantire la separazione tra cariche di partito e cariche istituzionali.
  I partiti dovrebbero essere gli organi titolari delle funzioni di indirizzo politico: dovrebbero fare i programmi, dovrebbero formulare le candidature, chiamare a rispondere i loro eletti, stabilire una dialettica rappresentativa con i rappresentanti, quindi essere organi della società e non inquinati dai conflitti di interesse consistenti nell'autocandidatura e nell'autoelezione.
  Naturalmente è fisiologico che i gruppi dirigenti vengano eletti in Parlamento, ma devono lasciare il posto ad altri soggetti che li si sostituiscano nelle funzioni di direzione del partito, per restituire ai partiti il loro carattere di organi della società, in grado di esprimere la linea politica del partito, di chiamare a rispondere e di formulare le candidature, quindi non chiamati a gestire direttamente la cosa pubblica.
  Io credo che questa sia una garanzia essenziale per restituire credibilità ai partiti e per restituire ai partiti il loro ruolo che, badate, non è quello di rappresentare, ma di essere luoghi diretti di concorso a determinare la politica nazionale. I partiti, in altre parole, sono i rappresentati e non i rappresentanti perché i rappresentanti sono le istituzioni, mentre i partiti sono i luoghi, come dice l'articolo 49, attraverso Pag. 17cui e nei quali i cittadini concorrono direttamente a determinare la politica nazionale, dunque sono i luoghi che non possono che essere separati.
  Occorre ristabilire l'alterità per la mediazione rappresentativa fra controllori e controllati, fra rappresentanti e rappresentati, in modo da restituire ai partiti il prestigio e la credibilità sociale in grado di farne i luoghi di formazione della volontà popolare e della sovranità popolare. Questo è il modo in cui l'articolo 49 fu concepito da Lelio Basso: fu concepito come il luogo di formazione della volontà popolare, quindi come il luogo che occorre separare dallo Stato.
  I partiti paradossalmente sono nati come istituzioni autonome, addirittura contro lo Stato. Pensiamo al fascismo, cioè quando sono stati messi fuori legge, ma ancor prima ai partiti operai e poi ai partiti che hanno partecipato alla formazione della democrazia e hanno difeso la loro autonomia contro qualsiasi possibilità di legislazione. Lo hanno fatto giustamente perché, come ricordava Besostri, la legislazione tedesca metteva fuori legge i partiti di sinistra e il Partito Comunista, quindi c'era questa paura.
  Tuttavia, questa paura è stata anche un alibi perché i partiti non sono mai stati dei modelli di democrazia ed è stata un alibi per l'involuzione burocratica dei partiti, che peraltro non è un fatto odierno. Michels ne parlava più di un secolo fa e Weber pure. Questo è un problema reale che ha a che fare con la qualità della democrazia e che può essere risolto solo attraverso tecniche di garanzia che riproducano grosso modo le garanzie sperimentate nella formazione delle istituzioni democratiche nazionali. In tal senso, uno statuto dovrebbe semplicemente definire l'identità del partito, come succede nelle Costituzioni, con le regole minimali di garanzia per l'appunto della partecipazione e del concorso degli iscritti, prevedere le primarie soltanto per gli iscritti e ristabilire un rapporto di fiducia con la società.
  Un rapporto di fiducia con la società avviene attraverso l'alterità dei partiti, quindi sono in un certo senso molto più convinto di Diamanti e anche di Dogliani che i partiti debbano essere organi della società non statalizzati, non istituzionalizzati. Questo non avviene naturalmente perché naturalmente è avvenuto esattamente il contrario, cioè la personalizzazione e la statalizzazione dei partiti, quindi, come proposta, per quel che può valere, oltre alle regole classiche di garanzia delle democrazie interne che possono riprodurre ovviamente le regole di garanzia di funzionamento delle istituzioni democratiche statali, regionali, pubbliche, occorre uno sviluppo della separazione dei poteri per restituire i partiti alla società. Grazie.

  ILVO DIAMANTI, professore ordinario di scienza politica presso l'Università degli studi di Urbino. Mi scuso perché, come avevo già annunciato, fra poco devo partire. Vorrei fare solo una notazione, se me lo consentite.
  Bisogna stare attenti a non utilizzare la sfiducia come un elemento nuovo e contrastante rispetto alla democrazia. La sfiducia è una delle fonti della democrazia. Per Hamilton, tutte le buone Costituzioni sono fondate sulla sfiducia. Per Benjamin Constant, questo è il seguito della separazione.
  Io ho trovato anni fa, nei miei lavori d'archivio, una ricerca di 1.400 interviste fatte nel 1954 sui partiti. C'era una pagina che sembrava un manuale di antropologia criminale, con i nomi dei partiti e tre righe dedicate a ciascuno. Qual era l'unico partito apprezzato? Nessuno. Sono passati settant'anni.

  TOMMASO EDOARDO FROSINI, professore ordinario di diritto pubblico comparato presso l'Università degli studi di Napoli «Suor Orsola Benincasa». Molte grazie, Presidente, a lei e alla Commissione per questo invito. Cercherò di stare senz'altro nel termine dei dieci minuti.
  Devo dire che, riguardando l'agenda, ho visto che nel febbraio del 2012 venni invitato da questa stessa Commissione a discutere sempre sulla progettazione della regolamentazione del partito politico. All'epoca, eravamo nel finale della scorsa legislatura Pag. 18e l'intenzione di regolare i partiti politici e dare loro un'attribuzione giuridica suonava un po’ minacciosa nei confronti dei nuovi movimenti che stavano per presentarsi alla competizione elettorale, quindi il sospetto era quello di voler imbrigliare la possibilità di alcune nuove formazioni politiche di presentarsi alle elezioni. La cosa poi si esaurì anche in un clima appunto non particolarmente felice, per questo sottofondo che aveva quell'intenzione, all'epoca, di regolare con legge i partiti politici.
  Il tema è antichissimo. Sono state fatte citazioni anche in punto di dottrina. A me piace ricordare, appunto perché siamo alla Camera e peraltro alla Commissione affari costituzionali, la bellissima ricerca degli anni Sessanta che promosse l'ISLE a opera di due autorevolissimi funzionari di questo Parlamento, Guglielmo Negri e Mario D'Antonio, appunto sulla disciplina legislativa dei partiti politici. Vedete da quanto partiamo lontano.
  Oggi, il mio approccio, rispetto al tema della regolazione del partito politico, è quello innanzitutto, come anche è stato detto, di non credere che effettivamente ci sia la necessità di attuare l'articolo 49 della Costituzione.
  Mi riferisco alla formula dell'attuazione dell'articolo 49 che è entrata in uso in dottrina. Il professor Ferrajoli afferma che tutte le norme costituzionali devono essere attuate. Non lo so. L'articolo 92, per esempio.

  LUIGI FERRAJOLI, professore ordinario di filosofia del diritto presso l'Università degli studi «Roma Tre». Mi riferivo alla prima parte.

  TOMMASO EDOARDO FROSINI, professore ordinario di diritto pubblico comparato presso l'Università degli studi di Napoli «Suor Orsola Benincasa». L'articolo 49 non sarebbe nella prima parte.

  LUIGI FERRAJOLI, professore emerito di filosofia del diritto presso l'Università degli studi «Roma Tre». Come no?

  TOMMASO EDOARDO FROSINI, professore ordinario di diritto pubblico comparato presso l'Università degli studi di Napoli «Suor Orsola Benincasa». Sì, però nella parte organizzativa. Credo che lei si riferisse alla prima parte relativa ai diritti.

  LUIGI FERRAJOLI, professore emerito di filosofia del diritto presso l'Università degli studi «Roma Tre». No, mi riferisco al funzionamento...

  TOMMASO EDOARDO FROSINI, Professore ordinario di diritto costituzionale e diritto pubblico comparato presso l'Università degli studi di Napoli «Suor Orsola Benincasa». C'è anche la teoria della Drittwirkung, l'applicazione diretta delle norme costituzionali, e così via.
  Secondo me, le norme costituzionali che debbono essere attuate sono quelle che prevedono la riserva di legge. Laddove c'è la riserva di legge, allora c'è un obbligo di attuazione della norma costituzionale. Invece, laddove la Costituzione non disciplina nessun tipo di riserva di legge, ovvero non dà mandato al legislatore di attuare, lo si può fare, ma non c'è un obbligo di attuazione.
  Credo che l'articolo 49 sia abbastanza chiaro nella sua finalità. Semmai, una certa interpretazione, più che applicazione, è dovuta al concetto di metodo democratico, che è quello sul quale ci si è confrontati maggiormente, per stabilire se esso deve avere un effetto esterno oppure un effetto interno regolativo delle associazioni e dei partiti politici.
  L'interpretazione dell'articolo 49, non solo deve tener conto del concetto di metodo democratico, ma è stata anche in parte integrata attraverso i decreti-legge. Forse non piacerà e sarà materia del Parlamento, ma in questo caso è il Governo che ha disciplinato con dei decreti-legge nel 2013 alcuni aspetti secondo me significativi, quelli riferiti al finanziamento e al fatto di poter godere dei benefici finanziari a condizione che il partito regoli minimamente alcune funzionalità democratiche al suo interno.
  Io credo che l'approccio di tipo liberale rispetto al problema della regolamentazione di una libera associazione, quali sono Pag. 19i partiti politici, sia quello più corretto. L'alternativa è un intervento fin troppo regolativo del meccanismo, come emerge da alcuni progetti di legge.
  Mi riferisco, per esempio, al progetto di legge Guerini C. 3147, laddove si prevede addirittura l'obbligo della registrazione dei partiti politici per poter presentare le candidature alle elezioni. Francamente, mi sembra innanzitutto poco conforme alla Costituzione prevedere un obbligo per consentire la libera partecipazione alle elezioni politiche.
  C'è un ulteriore problema. Ovviamente procedo per flash, perché non voglio sottrarre tempo. Parliamo di partiti, un soggetto che non esiste più, non solo in termini lessicali. Ditemi voi, a parte il Partito democratico, quali altri movimenti e organizzazioni politiche sono presenti in Parlamento con l'etichetta «partito». Anche questo è un dato di cui tenere conto. Ciò vuol dire che il modello partito non esiste più, ovvero non esiste più in questo periodo storico. L'idea di regolamentare qualcosa che oggi non esiste, secondo me, è fuori dal tempo.
  Aggiungo una cosa. A mio avviso, bisognerebbe prima stabilizzare il sistema e poi eventualmente regolare in forma minimale, secondo quello che ritengo l'approccio più corretto, piuttosto che regolare i partiti e poi stabilizzare il sistema.
  Cosa intendo dire? È chiaro che c'è in atto una riforma costituzionale. Vediamo l'esito referendario, se ci sarà, come pare, la richiesta del referendum.
  Per esempio, chi andrà al Senato? Ci andranno i partiti? Ci andranno i consiglieri regionali eletti dal consiglio regionale? Sotto quale bandiera? Sotto quale organizzazione? Non sarà di tipo partitico? Non lo sappiamo. Come si fa a regolamentare, senza sapere neanche se la seconda Camera del Parlamento sarà disciplinata in termini classici di rappresentatività, ossia composta da parlamentari espressione di partiti politici?
  Ci sono poi altre questioni, come, per esempio, quella riguardante l'idea del finanziamento. Vi accennava il professor Ferrajoli. Io stesso ho difficoltà a usare il solo concetto di partito politico, perché siamo di fronte – e voi ne siete la testimonianza vivente – a una serie di diversificazioni dal punto di vista delle formazioni politiche.
  Io credo che il Movimento 5 Stelle non si riconosca nell'etichetta «partito politico» né vi si voglia riconoscere, perché ritiene che quel modello sia superato e che oggi funzioni un altro modo di fare politica. Perché impedire questo? Non mi pare che dal punto di vista della libertà costituzionale sia necessario che ci sia il partito.
  L'articolo 49 dice di formare con metodo democratico, non impone una categorizzazione del partito. Ci possono essere anche i partiti politici, ma nulla esclude che ci siano le liste civiche, che forse non sono partiti politici, ma si presentano alle elezioni sia a livello locale che a livello nazionale, e nulla esclude che ci possa essere un movimento che non si riconosca nella formula «partito politico».
  Perché fare una legge che impone esclusivamente l'uso del concetto di partito politico e, a cascata, di una serie di condizionamenti? Io la trovo un po’ difforme rispetto al modello del costituzionalismo liberale.
  Concludo sul finanziamento. Il professor Ferrajoli affermava che non sarebbe bene vietare il finanziamento alle società per azioni. Faccio presente che in una democrazia liberale quale io ritengo gli Stati Uniti d'America – forse qualcuno può dissentire su questo – un paio d'anni fa la Corte suprema ha riconosciuto la possibilità del libero finanziamento a favore dei partiti politici.

  LUIGI FERRAJOLI, professore emerito di filosofia del diritto presso l'Università degli studi «Roma Tre». È un argomento?

  TOMMASO EDOARDO FROSINI, professore ordinario di diritto pubblico comparato presso l'Università degli studi di Napoli «Suor Orsola Benincasa». No, è una prova di diritto comparato.

  LUIGI FERRAJOLI, professore emerito di filosofia del diritto presso l'Università degli studi «Roma Tre». Che vuol dire?

Pag. 20

  TOMMASO EDOARDO FROSINI, professore ordinario di diritto pubblico comparato presso l'Università degli studi di Napoli «Suor Orsola Benincasa». Non vuol dire niente. È una prova. Il diritto comparato serve anche a confrontare analogie e differenze, ciò che funziona, che può funzionare meglio altrove e che vale la pena di importare nel nostro ordinamento.
  Io penso che questo esito da parte di un organo giurisdizionale così importante in una democrazia liberale non possa essere trascurato. Tu puoi ritenere che sia non confacente e non conforme, però non possiamo non tener conto del fatto che la Corte suprema ha «liberalizzato» il finanziamento, sulla base di un'interpretazione della Costituzione degli Stati Uniti d'America, non per un suo capriccio giurisdizionale.
  Infine, c'è un altro problema. Non è all'ordine del giorno di questa Camera, ma lo è al Senato, dove ci sono disegni di legge pendenti. Mi scuso qualora ce ne fossero anche qui, ma non ne sono a conoscenza.
  La regolamentazione, più che per i partiti politici, andrebbe fatta per i gruppi di pressione, le cosiddette lobby. È da tempo che se ne parla. È in quest'ambito che l'influenza politica è davvero notevole e andrebbe regolamentata. I partiti politici sono libere associazioni, mentre le lobby non lo sono; sono portatori di interessi privilegiati, di interessi determinati, di interessi settoriali.
  Il compito di questo Parlamento, secondo me, è prioritariamente disciplinare le lobby e poi, eventualmente, valutare in che modo e in che ordine intervenire su una minimale regolazione legislativa dei partiti politici.

  CESARE PINELLI, professore ordinario di diritto pubblico presso l'Università degli studi di Roma «La Sapienza». Io mi sono concentrato sulla principale differenza fra i progetti di legge in discussione, che è basata su un requisito previsto solo in uno di essi: l'iscrizione di un partito nel registro nazionale di cui alla legge n. 13 del 2014 di conversione del decreto-legge n. 149 del 2013 costituisce condizione necessaria per la presentazione delle candidature alle elezioni della Camera. Di conseguenza, la mancata registrazione di un partito è annoverata fra le cause di ricusazione delle liste a opera della commissione elettorale circoscrizionale.
  Per giustificare questo requisito, la relazione illustrativa del progetto ritiene che occorra ascrivere natura pubblicistica ai partiti, posto che, in base alla legge elettorale del 2015 – cito testualmente, anche se conoscete benissimo questo passo – «in partiti dove prende forma e si realizza la personalizzazione della leadership è necessario focalizzare l'attenzione sulla democraticità della vita interna. Si tratta di un passaggio fondamentale per la qualità del sistema democratico, al punto da meritare una disciplina di tipo pubblicistico».
  Una prima considerazione che mi viene da fare investe il diritto costituzionale comparato. Il puntuale dossier predisposto degli uffici della Camera dei deputati ci dice che l'individuazione della previa iscrizione di un partito nel registro nazionale quale requisito di ammissibilità della presentazione della relativa lista elettorale ricorre in ordinamenti quasi tutti di democrazia più recente e più fragile, quali Albania, Georgia, Israele, Lettonia, Lituania, Montenegro, Portogallo, Repubblica Ceca, Romania, Serbia, Slovacchia, Slovenia e Ucraina, o addirittura in democrazie illiberali, quali Polonia, Turchia e Ungheria.
  Tale individuazione non ricorre invece in ordinamenti democratici consolidati, anche quando prevedano l'obbligo di registrazione dei partiti, come nel caso di Andorra, Austria, Belgio, Canada, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Regno Unito, Svezia e Svizzera, o è privata di effetti sostanziali dalla contestuale previsione della possibilità di presentare liste di elettori non associate a partiti, come nel caso di Estonia e Spagna.
  Questo è un dato di diritto comparato. Proprio adesso si è detto che il diritto comparato può essere un sintomo della scarsa rispondenza di un requisito simile ai princìpi di democrazia pluralistica, per i quali bisogna guardare fondamentalmente al nostro diritto costituzionale. Pag. 21
  A questo proposito c'è stata una decisione della Corte costituzionale, che non è stata poco significativa. Mi riferisco all'ordinanza n. 79 del 2006, che, nel dichiarare inammissibile un ricorso per conflitto di attribuzioni sollevato da La rosa nel pugno nei confronti della Camera e del Senato, per l'irragionevolezza dell'onere, previsto dal decreto del 1957, come modificato dalla legge del 2005, di raccogliere le firme per la presentazione di liste elettorali a carico di soggetti diversi da partiti o gruppi politici costituiti in gruppi parlamentari o presentatisi in coalizione o rappresentanti minoranze linguistiche, escludendo partiti con propri rappresentanti in assemblee elettive e dotati di radicamento politico e sociale, ha qualificato i partiti come organizzazioni proprie della società civile, alle quali sono attribuite dalle leggi ordinarie talune funzioni pubbliche, e non come poteri dello Stato ai fini dell'articolo 134 della Costituzione.
  Vorrei far notare che la qualificazione «ai fini dell'articolo 134» è molto importante. In altre parole, ci possono essere organi pubblici che non sono poteri dello Stato e altre associazioni (pensate al Comitato promotore del referendum) che si possono considerare poteri dello Stato ai fini dell'articolo 134.
  Quando la Corte dice «ai fini dell'articolo 134», non necessariamente intende pubblico e privato. Tuttavia, per arrivare a questa conclusione, ci sono alcune motivazioni importanti nell'ordinanza.
  La Corte ha ritenuto che le funzioni attribuite ai partiti dalla legge ordinaria al fine di eleggere le assemblee, compresa la selezione delle candidature, non consentono di desumere l'esistenza di attribuzioni costituzionali, ma costituiscono il modo in cui il legislatore ha ritenuto di raccordare il diritto di associarsi in una pluralità di partiti con la rappresentanza politica, necessaria per concorrere nel procedimento elettorale, e trovano solo un fondamento nell'articolo 49 della Costituzione, traendone conferma dal rigetto alla Costituente di proposte di quel tenore.
  In altre parole, la Corte ha escluso di poter trarre dall'articolo 49 un fondamento sufficiente a configurare i partiti, in quanto investiti dalla legge ordinaria della funzione di selezionare i candidati alle elezioni e, quindi, di presentare le relative liste, come i soggetti titolari di attribuzioni costituzionalmente garantite e, quindi, qualificabili come poteri dello Stato ai fini dell'articolo 134.
  L'attribuzione con legge della funzione di selezionare le candidature e di presentare le relative liste appare, dunque, alla Corte solo una delle modalità costituzionalmente ammissibili, anziché una modalità costituzionalmente dovuta di raccordo fra diritto dei cittadini di associarsi in partiti e organizzazione del procedimento elettorale.
  Per quanto qui interessa, l'orientamento della Corte sembra potersi riassumere nel senso che per la Costituzione il diritto di presentare liste non sia un monopolio necessario dei partiti politici, potendo spettare altresì a gruppi di cittadini, come in effetti si ricava da gran parte della legislazione della Repubblica a livello nazionale, regionale e locale.
  Per altro verso, l'esclusione di tale diritto nei confronti di partiti che non si siano iscritti nel registro nazionale sembra comportare una compressione, potenzialmente molto incisiva, del diritto di elettorato passivo garantito dall'articolo 51 della Costituzione e, con essa, di un elemento coessenziale alla convivenza democratica.
  Né varrebbe in contrario obiettare, come affermato nella relazione al progetto di legge in esame, che la legge n. 52 del 2015 richiederebbe una legge volta, non solo a democratizzare i partiti, ma anche a sancirne la natura pubblicistica.
  A parte gli ostacoli di ordine costituzionale che ho ricordato prima, faccio presente che nella legislazione elettorale in realtà l'insistenza sulla leadership risale almeno alla legge del 2005.
  Inoltre, è appena il caso di notare che un conto è riconoscere la personalità giuridica dei partiti e prevedere in capo a essi una serie di obblighi, come quelli previsti da tutti i progetti di legge in esame, e un altro è sancirne la natura di organi di diritto pubblico. Pag. 22
  Una configurazione del genere solleverebbe dubbi in riferimento allo stesso articolo 49, i cui soggetti sono i cittadini associati in partiti.
  Inoltre, dal 1948 è assolutamente pacifico – nessuno ha mai discusso una cosa del genere – lo status dei partiti in termini di species rispetto al genus associazioni, la cui libertà trova distinto riconoscimento nell'articolo 18 della Costituzione. Questo è pacifico. Per fortuna, ci sono alcune cose nel diritto costituzionale che non si discutono. Questa non è mai stata discussa.
  Occorre peraltro tener conto dell'incongruenza di una pubblicizzazione del genere con l'abolizione del finanziamento pubblico disposta dalla citata legge di conversione n. 13 del 2014.
  Naturalmente, quanto affermato non vuol dire che la mancata registrazione dei partiti non debba avere delle conseguenze. Questo è diverso. Queste conseguenze potrebbero consistere nelle misure, già sufficientemente penalizzanti e al contempo immuni da dubbi di costituzionalità, previste dalla legislazione in vigore e riprese dai progetti di legge in esame.
  Mi riferisco, da un lato, all'obbligo di raccolta delle firme ai fini della presentazione delle liste e, dall'altro, all'esclusione dai benefici relativi all'accesso al fondo e alle incentivazioni tributarie, in linea con la tendenza, ben radicata nella legislazione di altri Paesi e ora confermata dal recentissimo regolamento dell'Unione europea in riferimento ai partiti politici e alle fondazioni politiche europee, a subordinare la corresponsione dei benefici finanziari disposti a favore dei partiti all'onere di dimostrare la democraticità della propria organizzazione interna.
  Questo è ciò che dovevo dire sine ira ac studio, sinceramente, senza prendere posizione. Ho cercato di essere il più possibile obiettivo.

  GIULIO MARIA SALERNO, professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Macerata. Grazie per l'invito. Sono state dette tante cose, anche con opinioni abbastanza differenziate. Io parlo come costituzionalista.
  Effettivamente le proposte di legge che sono all'attenzione oggi sembrano concludere un pendolo che va in senso esattamente opposto a quello che abbiamo seguito dal 1948 in poi.
  L'articolo 49 della Costituzione è stato formulato sulla base di una storia nei lavori dell'Assemblea costituente, in cui l'accordo sostanzialmente era quello di conferire ai partiti un ruolo collegato al diritto individuale alla partecipazione e, quindi, all'associazione partitica, assicurando il pluralismo e la partecipazione paritaria dei cittadini alla vita politica. Questi sono stati i due princìpi essenziali.
  Si è molto dibattuto sul metodo democratico. Nella formula conclusiva sono state respinte le proposte di Mortati di specificare che il metodo democratico si applicasse in modo esplicito anche nell'organizzazione interna.
  Ne è uscita fuori una formula dotata di una sua inevitabile ambiguità. Tale ambiguità è durata per molto tempo, grazie a un patto di non intervento. I partiti hanno deciso per lungo tempo di non intervenire. Progressivamente, questo patto di non intervento si è andato sfaldando. Le normative del 2012, 2013 e 2014 vanno nel senso di una imposizione di alcuni requisiti di democraticità interna ai fini del finanziamento pubblico o parapubblico.
  Dal mio punto di osservazione mi chiedo: possiamo assicurare che il metodo democratico dal punto di vista dell'organizzazione interna riguardi soltanto i partiti che accedono al finanziamento? Io credo che, se questo è un principio costituzionale e se noi vogliamo che il metodo democratico sia un metodo rispettato in modo omogeneo per assicurare la pari posizione degli individui che partecipano alla vita politica dello Stato, un minimo di regole comuni nelle organizzazioni partitiche, richiamabili al partito comunque esse siano autoqualificate, debba essere stabilito.
  Il problema è che dobbiamo muoverci su un terreno scivoloso. Come è stato detto, abbiamo dei binari abbastanza stretti perché dobbiamo coniugare la flessibilità e la autoapplicabilità dell'articolo 49 della Costituzione Pag. 23 con le previsioni che vogliamo stabilire per rendere strutturato il principio democratico e per assicurare anche altri princìpi. Queste normative tendono infatti ad assicurare altri princìpi, essenzialmente la trasparenza e la correttezza nell'uso delle risorse pubbliche.
  Secondo me, l'obiettivo che va perseguito è quello di dettare normative comunque coerenti con la Costituzione. Dobbiamo cercare di rispettare tutti i princìpi costituzionali, senza vincoli che irrigidiscano troppo l'assetto del partito e che altrimenti andrebbero contro i due princìpi essenziali che sono scritti nell'articolo 49, cioè il pluralismo e la paritaria partecipazione degli individui alla vita politica.
  Sono del tutto d'accordo sul fatto che l'articolo 49 si inserisce all'interno dell'articolo 18. Su questo siamo d'accordo tutti, quindi è inevitabile: non possiamo non disciplinare i partiti, se non nell'ambito dell'ombrello complessivo di garanzie previste già nell'articolo 18. Nell'articolo 18, si dice prima di tutto «senza autorizzazione», quindi nessun tipo di controllo amministrativo e di compatibilità dei partiti rispetta un interesse pubblico individuato da un'autorità dell'amministrazione.
  Questo non è assolutamente consentito e non possiamo consentircelo; quindi, se noi vogliamo stabilire dei princìpi, dei limiti e delle finalità che i partiti devono comunque realizzare secondo quello che ho letto in qualche proposta, bisogna stare molto attenti perché la Costituzione lascia ai partiti politici il perseguimento di qualunque tipo di finalità politica. È vietata soltanto la ricostituzione del partito fascista, per il resto noi siamo un ordinamento nel quale non si prevede una disciplina per i partiti cosiddetti «antisistema». Non abbiamo una disciplina, come in Germania, che prevede un controllo del tribunale federale costituzionale in relazione ai partiti antisistema.
  La linea che va seguita senz'altro è quella di stabilire una disciplina – sono d'accordo con il professor Frosini – minimale e, per quanto possibile, meno invasiva, anche perché c'è il rischio per esempio, di cui ho sentito parlare, di giurisdizionalizzazione della tutela della libertà politica individuale. Bisogna stare molto attenti perché altrimenti si nega il principio dell'articolo 49 che è quello dell'autonomia collettiva del partito che è essenziale e che va comunque garantita. Non vorrei che dalla statalizzazione del partito si passasse alla statalizzazione della vita politica dentro il partito che è un rischio molto grave.
  Naturalmente non bisogna stabilire norme che favoriscono qualche forma di partito rispetto ad altre e che proibiscono qualche forma di partito rispetto ad altre né utilizzare normative come quelle del riconoscimento civilistico, così come previsto, perché sono normative che si riferiscono a strutture associative che hanno finalità del tutto differenti. Si è citato il tema della consistenza del patrimonio. Che cosa c'entra il partito politico? Questo va effettivamente detto.
  Tra l'altro, per esempio sulle autonomie sociali, la Corte costituzionale si è pronunciata nel 2003 con le sentenze n. 300 e n. 301, stabilendo che il legislatore non può interferire nell'autonomia organizzativa delle autonomie sociali, quindi quello che è stato assicurato per i soggetti che sono espressione dell'autonomia sociale va garantito perlomeno anche a coloro i quali esercitano questa forma di autonomia in relazione all'attività politica.
  Prendendo in considerazione alcuni punti specifici delle proposte di legge, io esprimo molti dubbi su quella parte in cui si dice, nella proposta di legge C. 3004, che i partiti politici dovrebbero rispettare i valori costituzionali. Cosa sono questi valori? La Costituzione non li esplicita. Questo sarebbe naturalmente la determinazione di un parametro soggetto a una discrezionalità troppo ampia e ridurrebbe senza alcun dubbio la sfera di democraticità.
  Il divieto dello scopo di lucro senz'altro va consentito perché ovviamente si connette alla funzione pubblica del partito.
  Sulle norme relative al diritto all'iscrizione bisogna stare molto attenti perché non si può negare l'autonomia istituzionale del partito di rifiutare l'iscrizione a coloro cui non viene attribuito lo stesso tipo di Pag. 24consonanza ideologica, politica e quant'altro. È chiaro che altrimenti si verrebbe meno alla funzione di autonomia del partito.
  Per quanto riguarda alcuni obblighi di conoscenza pubblica degli elementi identificativi dell'associazione, del deposito dello statuto e dell'atto costitutivo, le misure di trasparenza relative agli associati, quindi alla conoscenza degli associati e alla conoscenza degli organi e delle attività sociali poste in essere, sono tutti aspetti ammissibili, se rientrano nella finalità per esempio dell'articolo 18 secondo comma, dove si dice che non si possono costituire delle associazioni segrete oppure associazioni con carattere militare, ma non quelle per realizzare effettivamente il metodo democratico.
  Lo dico perché ovviamente la conoscenza di quali siano gli altri iscritti ci consente di verificare se c'è davvero una tendenziale coerenza tra la volontà degli associati e la volontà degli organi sociali.
  Alcuni obblighi di organizzazione previsti in alcune proposte di legge, viceversa, vanno disciplinati, soltanto se non limitano in modo sproporzionato l'autonomia organizzativa. Per esempio, alcune regole relative alle norme sulle minoranze potrebbero essere ben scritte.
  Per quanto riguarda i concetti più generali in relazione alle deleghe, per esempio in merito alla delega relativa alle primarie, mi sembrerebbe piuttosto stravagante che questa normativa non venisse scritta dal Parlamento. Si tratta di materia elettorale, cioè rientra essa stessa nel complesso delle leggi elettorali, quindi dovrebbe essere direttamente scritta dal Parlamento.
  Sui testi unici e sul fatto che si voglia immaginare un testo unico complessivo, bisognerebbe fare attenzione perché effettivamente la normativa sulla disciplina interna del partito si può collegare senz'altro a quella relativa al finanziamento, ma non a quella relativa alle campagne elettorali. Quella è una disciplina ovviamente differente che trova già collocazione in testi normativi differenti, quindi fare un Testo unico complessivo mi sembra abbastanza complicato.
  Sono d'accordo con Mario Dogliani sul fatto di non fare confusione con la disciplina proveniente dall'Unione europea. Si tratta di competenze completamente differenti e di princìpi completamente differenti. Forse quello che si può fare è assicurare quella flessibilità organizzativa delle forme di partito tali da consentire ai partiti nazionali di poter essere aderenti anche alla normativa europea.

  PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  DANILO TONINELLI. La ringrazio, presidente, e ringrazio a nome del Movimento 5 Stelle tutti gli auditi.
  Porrò dei quesiti semplici e cercherò di mantenere un vaglio pratico.
  Di tutte le varie proposte di legge assegnate a questa Commissione e di cui stiamo discutendo, solo una è quella che probabilmente ha il peso specifico politico più alto e che parla di modifiche alle varie leggi frammentate sui partiti per l'attuazione dell'articolo 49 della Costituzione.
  Faccio una domanda indiretta, cioè non direttamente a qualcuno di voi, ma a chi ritiene che oggi l'articolo 49 non sia ancora stato attuato e, se così fosse, sulla base di quale dottrina costituzionalistica.
  Ho una seconda domanda. Il cuore di questo provvedimento probabilmente è legare l'agibilità politica all'avere personalità giuridica con uno statuto scritto in una certa maniera, altrimenti il partito non può partecipare alle elezioni. Vorrei chiedere se, accadendo questo, non matura un diritto generale in capo ai cittadini che si sentono lesi perché un partito non ha depositato lo statuto, così come era previsto per legge, di andare di fronte a un giudice ordinario che magari dispone con sentenza lo scioglimento del partito. Vi chiedo se secondo voi questo – è una domanda che rivolgo a tutti gli auditi – può essere un effetto di una legge che vincola, lo ripeto, l'agibilità politica all'iscrizione in quel registro e alla costituzione di uno statuto con dei crismi specifici. Pag. 25
  Ho un'altra domanda molto secca e semplice. Noi abbiamo la Commissione di garanzia degli statuti e per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti politici che è fatta prettamente da giudici amministrativi e contabili e che dovrebbe fare questa verifica iniziale, ma probabilmente, ricollegandomi alla domanda prima, anche il giudice ordinario può farla. Vi chiedo, se questa Commissione riceve i documenti dal partito che vanno bene e se il partito non li rispetta, nel senso che noi scriviamo che facciamo un'assemblea ogni cinque anni o ogni tre anni e in realtà ne facciamo una ogni cento anni, che succede?

  ELENA CENTEMERO. Grazie per tutti gli spunti di riflessione che queste audizioni mi hanno permesso e mi continueranno a permettere nei giorni successivi. Anche io sarò abbastanza telegrafica.
  Ho già ascoltato molto in relazione al tema delle primarie per legge e al tema della delega, rispetto alla quale noi siamo contrari, nel senso che riteniamo che questo tipo di argomento non debba essere oggetto di delega e che non ci debba essere una delega nell'ambito di un provvedimento che riguarda comunque la regolamentazione della vita dei partiti, quindi vorrei conoscere la vostra opinione per quanto riguarda il tema delle primarie e non solo della delega.
  In secondo luogo, rispetto al tema del legame dell'accesso alle elezioni, quindi alla registrazione sul registro dei partiti, la nostra preoccupazione è: a quale livello è applicabile? Nel senso che io penso sempre molto concretamente a livelli locali, dove esistono una pluralità di liste civiche che garantiscono la partecipazione dei cittadini alla vita politica delle amministrazioni locali, al di fuori di quello che è un ambito più semplicemente partitico. Credo che questo debba essere fortemente tutelato, quindi vi chiedo cosa succederebbe a queste liste civiche, nel momento in cui si negasse strettamente l'accesso alle elezioni. Si parla di accesso alle elezioni e non si dice il livello, per cui vi chiedo se è possibile fare una differenziazione, cioè a livello nazionale, a livello regionale e a livello locale.
  Mi interessava capire il futuro, anche dal punto di vista non di giuristi, dei partiti politici. Il tema è anche quello di dar vita a proposte politiche che siano efficienti.
  Io vengo da un mondo nel quale la collegialità è stata esattamente il contrario del dare risposte efficienti, anzi ha paralizzato il sistema, per cui è molto interessante il discorso fatto dall'avvocato Falcone sulla necessità di dar vita a degli organi che garantiscano la vita democratica e via dicendo. In altri mondi, questo innanzitutto non ha garantito la partecipazione effettiva nella rappresentanza e poi ha paralizzato sostanzialmente il sistema. Tra l'altro, io non credo che sia necessario e possibile dar vita a un numero e a quantificare dal punto di vista numerico quante riunioni debbano essere fatte di determinati organi o meno, ma questo debba essere lasciato poi alla decisione dei partiti. Comunque, è un discorso interessante su cui vorrei una riflessione ulteriore.

  MATTEO RICHETTI. È complicato individuare un insieme d'intersezione di tutte le considerazioni perché, senza volere riassumere più di un'ora di puntuali argomentazioni, la limitazione dell'autonomia della costituzione dei partiti mi pare un'operazione molto complicata nella piena attuazione. Certo, è anche questione di termini perché non dobbiamo attuare nulla, ma credo siamo pienamente legittimati a intervenire secondo i princìpi costituzionali dentro l'ordinamento dei partiti, soggetti fondamentali nel funzionamento della democrazia, senza limitarli e allo stesso tempo facendo sì che la prerogativa del metodo democratico non sia legata solo a chi decide di accedere o meno a un finanziamento, ma a chi decide di concorrere a quanto di più prezioso una comunità ha, cioè lo svolgimento della propria vita sociale e civile, quindi democratica.
  La mia domanda non è relativa al fatto se l'articolo 49 della Costituzione è attuato o no. L'articolo 49 ha vissuto e lo ha fatto serenamente. La democrazia si è sviluppata e i partiti hanno avuto la loro esistenza, ma adesso c'è un punto da chiarire perché le Pag. 26leggi non sono qualcosa di scollegato dalla realtà, dal tempo e dalla società sulla quale si deve intervenire. Inoltre, non so se ai costituenti o a chi ha interpretato la vita politica dalla Costituzione in avanti si sia mai presentato il tema che, per esempio, il principio della libertà del mandato e dell'eletto senza vincolo di mandato è un principio costituzionale.
  Oggi, il dibattito politico è fatto anche di interrogativi legati al fatto se alcuni o tutti i parlamentari siano veramente liberi senza quel vincolo di mandato. Si stanno ponendo dei temi sui quali, se vogliamo tentare di far fronte a quella che il professor Ferrajoli, con cui io sono assolutamente d'accordo, ha definito la devastante crisi del sistema democratico, istituzionale e politico, la legge è uno strumento per farlo. La credibilità torna alla politica nel momento in cui comportamenti e autorevolezza la fanno da padrona, però uno strumento può essere anche un intervento legislativo.
  Vorrei porre due questioni molto rapidamente.
  La prima è questa: «personalità giuridica» significa immediatamente apertura, anche rispetto alla risoluzione del contenzioso della magistratura ordinaria, così come accade per tutti i soggetti che hanno personalità giuridica, cioè, se io penso che un mio diritto da iscritto o da soggetto del partito sia stato leso nella vita del funzionamento democratico del partito, ricorro non più agli organi che l'associazione non riconosciuta di oggi si dà, cioè i probi viri del mio partito, ma mi appello fino al terzo grado alla giustizia ordinaria.
  Considerato che questo nella sostanza rischia di accadere già perché per esempio i miei colleghi del Movimento 5 Stelle, con i quali facciamo importanti discussioni su questo e che sono legittimamente contrari al riconoscimento della personalità giuridica, si trovano appunto in queste ore a fare fronte a un ricorso dei loro attivisti, ma è accaduto anche al Partito Democratico in passato. In questi casi, si invocano il rispetto dello statuto o di un non statuto a seconda delle definizioni che si usano.
  Vi chiedo se questo tema della personalità giuridica apre realmente anche a un dato di giudizializzazione della vita dei partiti che avrebbe elementi secondo me di rischio perché potremmo avere 400.000 iscritti di un partito che ricorrono alla giustizia ordinaria di fronte a qualunque tipo di diritto, come la partecipazione a un voto, l'essere sentiti per una consultazione, il determinare linee politiche o la selezione della classe dirigente. Questo è un tema molto delicato perché, una volta che si è riconosciuto, ovviamente apre alle conseguenze che ci sono.
  L'altro punto è il seguente: se non si arriva alla ricusazione della lista nel momento della presentazione della candidatura che mi pare anche dalle precedenti audizioni essere argomento che torna, come forse dato estremo o oltre l'estremo che la legge può prevedere rispetto al vaglio dei requisiti, come si irrobustiscono elementi di trasparenza, di democrazia interna e di corretto funzionamento e le cose sulle quali avete riflettuto anche voi, se non c'è in ultimo quella? Certo, c'è la possibilità di prevedere leve virtuose, come incentivi alla contribuzione trasparente, anche agevolata, o accesso al 2 per mille o accesso a strutture che lo Stato mette in disponibilità di chi svolge la politica. Però resta sempre la possibilità di dire «poiché non ho accesso, mi chiamo fuori da quel metodo democratico», oppure di sollevare elementi su cui avete ragionato fino a ora.
  Questi due aspetti sono quelli che, anche da relatore, mi preoccupano di più circa un corretto intervento normativo.

  EMANUELE FIANO. Ringrazio tutti gli auditi per gli interventi, tutti molto interessanti. Mi soffermo su un unico punto che è stato – mi pare – unanimemente considerato da voi di dubbia costituzionalità, previsto nel progetto di legge Guerini. Si tratta della conseguenza, in caso della non presenza di uno Statuto, o comunque della non corrispondenza di quello Statuto ai crismi previsti dalla legge, della non possibilità di presentare candidati alle elezioni politiche. Mi pare, se non vado errato, che questo tema abbia riscontrato un giudizio di dubbia costituzionalità da parte di tutti gli auditi. Pag. 27
  Comprendo le ragioni di questo giudizio. Purtuttavia, sono a chiedervi – è una domanda estesa a tutti, che è già stata toccata in un'altra sessione di audizioni – se, in relazione all'assenza di un vincolo tanto forte e certamente di costituzionalità molto difficile, lo comprendo, in esito alla non corrispondenza alle richieste che un'eventuale legge ordinaria potrebbe prevedere per gli Statuti dei partiti, e se le conseguenze non dovessero essere quelle di un'interruzione del nesso di possibile rappresentanza di queste associazioni che chiamiamo partiti, quale potrebbe essere l'effettiva utilità del vincolo statutario per i partiti, dalla necessità delle regole interne, alla presenza degli organi, alla procedura degli organi interni, all'obbligo di equilibrio di genere.
  Con riguardo a tutte queste caratteristiche, che alcuni di noi – ne ho sentito parlare anche in alcuni autorevoli interventi vostri – ritengono giusto considerare, se alla fine queste prescrizioni dovessero portare unicamente, per esempio, come qualcuno ha proposto, conseguenze di tipo pecuniario, ossia delle sanzioni in ordine alla non corrispondenza alle esigenze di Statuto previste dalla legge, mi pare che si determinerebbe una fragilità del disegno complessivo.
  Noi – intendo i fautori di questa ipotesi – consideriamo che l'attuazione o, se non vogliamo chiamarla attuazione, comunque uno sviluppo di ciò che è scritto nell'articolo 49 sia una regolamentazione democratica della vita interna di questi soggetti e che questa clausola della regolamentazione democratica della vita interna di questi soggetti abbia delle conseguenze. Tuttavia, se la conseguenza è che costoro possono comunque continuare a presentare le candidature alle competizioni politico-elettorali e, quindi, esercitare quel nesso fondamentale della rappresentanza che considero ineludibile e che sta in capo ai partiti, comunque li si voglia chiamare – non partiti, ma movimenti o associazioni – se la conseguenza non è così grave, e mi pare di capire dal dibattito generale che non sarà affatto facile che così sia, mi domando se tutto questo sforzo ne valga la pena.
  Se alla fine la conseguenza di quest'analisi è che comunque, a prescindere da questa riflessione, che ci unisce – non condivido l'idea di qualcuno dei colleghi del Movimento 5 Stelle che i fautori di queste proposte di legge le facciano contro qualcuno; personalmente, noi le facciamo a favore di qualcosa, ossia la democrazia del nostro Paese – dobbiamo fare tutto questo sforzo di regolamentazioni interne per una conseguenza tale che si possano anche non attuare queste clausole di regolamentazione interne, la domanda aperta che faccio a voi è: perché fare tutto questo sforzo?

  EMANUELE COZZOLINO. Intervengo brevemente. Non mi ricordo chi, in particolare, degli auditi abbia affrontato questo particolare aspetto, ossia la divisione tra partito che concorre stando fuori e orientando la politica e gli eletti. La distinzione che avete fatto è tra la dirigenza del partito e gli eletti del partito. Vorrei sentire anche gli altri auditi che pensiero hanno su questo aspetto. Vivendo in questo momento la duplice figura di segretario di partito e di primo ministro nella stessa persona, che conseguenze ha questo anche nella direzione politica di un partito che si definisce in un certo modo o che ha organi dirigenti e una struttura sul territorio che concorre alla decisione della politica per il Paese?

  PRESIDENTE. Passiamo alle risposte, possibilmente abbastanza rapide, di un paio di minuti a testa.
  Do la parola agli auditi per la replica.

  FELICE BESOSTRI, avvocato. Mi soffermo solo su un punto: non dobbiamo confondere il problema della regolamentazione dei partiti con quello della candidabilità o meno. Su questo punto c'è un esempio proprio del sistema tedesco, quello che ha la legge sui partiti più regolata e collaudata, ma che consente addirittura al singolo di candidarsi.
  Sono due questioni assolutamente diverse. Il diritto di candidatura e il voto passivo, come il voto attivo, sono un diritto Pag. 28individuale. Naturalmente dipende dal sistema elettorale. È più facile poter esercitare questo diritto se ci sono dei collegi a candidato unico piuttosto che dei collegi vasti come una regione. Vorrei che in questa discussione tenessimo le due questioni assolutamente distinte.
  La registrazione, quindi, al limite offre un vantaggio, perché il partito registrato non ha bisogno per candidarsi di raccogliere firme o altre cose e partecipa al finanziamento pubblico. Invece, la candidatura è una cosa rimessa addirittura al singolo individuo. Ci sono candidati che si candidano in un solo collegio, di quelli uninominali, e che sperano di essere eletti in quel collegio e non hanno altri obiettivi.

  PRESIDENTE. Prima di andare avanti, inserisco una domanda che avevo dimenticato di fare prima.
  Si è parlato di personalità giuridica accennando, per esempio, al requisito di raccolta delle firme. Era una delle questioni di cui si è discusso anche nelle altre audizioni. Volevo solo porre un tema di preoccupazione: se si collega direttamente la possibilità di non raccogliere le firme a chi ha la personalità giuridica, personalità giuridica che nel sistema attuale non è più una concessione del sovrano ma che, in un caso del genere, sarebbe un diritto, per di più togliendo i requisiti patrimoniali, mi domando se poi il rischio non sia quello di avere 500 partiti alle elezioni.
  Oggi abbiamo una selezione. La personalità giuridica di per sé non comporta grossi rischi per chi la assume. Mentre per i partiti esistenti un tema può esistere, mi domando se non si finirebbe per dover creare un tipo di persona giuridica particolare per introdurre un requisito di questo tipo, in cui se ne introducono degli altri. Diversamente, si potrebbe avere la conseguenza, non voluta, di avere soggetti senza alcuna rappresentanza che partecipano alle elezioni, a meno di non trasferire le firme sul numero di associati, ma allora siamo punto e daccapo.

  CESARE PINELLI, professore ordinario di Diritto pubblico presso l'Università degli studi di Roma «La Sapienza». Mi sembra che le domande abbiano introdotto degli aspetti ulteriori che vale sicuramente la pena di prendere in considerazione.
  La prima è quella della personalità giuridica come condizione di giurisdizionalizzazione della vita interna. In realtà, nel 1991 scrissi un testo sulle controversie interne dei partiti e la giurisprudenza. I giudici intervengono da molto tempo. Ci sono dei giudici che hanno deciso sulla legittimità di un congresso di partito, sia pure ad Agrigento, per dire.
  Sono associazioni non riconosciute. Non stiamo parlando di una connessione necessaria fra personalità giuridica e giustizia. Non è così. I giudici possono intervenire anche ora sulla vita dei partiti. La personalità giuridica evidentemente può avere delle diverse ripercussioni a seconda fondamentalmente della conseguenza che si voglia ascrivere, più che alla personalità giuridica, alla registrazione, perché quello è il momento in cui effettivamente si immette in un circuito o non si immette nello stesso circuito un partito.
  Le buone ragioni per assicurare, anzi, per democratizzare – diciamo meglio – le strutture dei partiti più di quanto non lo siano adesso ci sono e ci sarebbero anche se non venisse prevista la registrazione come condizione necessaria della presentazione delle liste. La dimostrazione, come dicevo prima, è che quasi tutti i Paesi democratici più significativi ritengono che questa registrazione non sia agganciata alla possibilità di presentare liste elettorali e che, se i partiti non vogliono registrarsi, non possano accedere al finanziamento e si debbano raccogliere le firme, sostanzialmente. Non è poco. Questo in astratto.
  Quanto poi al se, in questo momento, con i partiti che abbiamo e con il sistema politico in uno Stato magmatico come è adesso, questo sia proprio il momento migliore di regolare l'ordinamento interno dei partiti, è davvero una questione su cui non mi posso pronunciare. Mi limito solo a ricordare a tutti che storicamente, nelle esperienze di diritto costituzionale comparato, queste leggi si sono sempre avute in fasi di consolidamento del sistema politico, Pag. 29ossia nelle fasi proprio contrarie a quella che stiamo vivendo, nelle fasi in cui il sistema si sta consolidando, oppure dopo la guerra, o, come in Spagna o in Portogallo, contemporaneamente alla costituente. Allora si fa la legge. Questo lo dico come dato.
  Aggiungo un'ultima cosa. L'articolo 67 della Costituzione – è giustissimo – effettivamente è un presidio. Per che cosa? È un presidio soprattutto nei confronti di ingerenze dei partiti che portino i partiti a stabilire una condotta autocratica all'interno dei partiti stessi e, quindi, del Gruppo parlamentare. Il fatto di poter cacciare dal Parlamento un parlamentare perché non ha obbedito alle direttive di partito è esattamente quello contro cui l'articolo 67 si esprime.
  L'articolo 67 non consente questo. Bisogna spiegarlo a tutti. Bisogna avere molta pazienza e molto tempo perché tutti capiscano le ragioni costituzionali per le quali questo non è avvenuto. Queste sono cose che si sono consolidate da tre secoli in Paesi di grande democrazia. Ci vuole tempo. Questo è tutto.

  LUIGI FERRAJOLI, professore emerito di filosofia del diritto presso l'Università degli studi «Roma Tre». Anch'io intervengo sull'articolo 67. L'articolo 67 della Costituzione non è una norma accessoria. È la definizione della democrazia rappresentativa. In assenza di democrazia diretta, la democrazia rappresentativa esclude che ci possano essere imperativi esterni, che non sono, tra l'altro, possibili, nel senso che non sono prevedibili le decisioni.
  È stata introdotta nella Costituzione del 1791 proprio perché il ruolo della rappresentanza, tanto più se mediato da organizzazioni di massa e da organizzazioni sociali, è una modalità di espressione della sovranità popolare che affida ai rappresentanti, chiamandoli poi a rispondere, decisioni che non possono essere previste, per escludere dipendenze degli organi rappresentativi da qualsiasi tipo di ingerenza esterna, che può essere un padrone o che può essere anche un partito.
  Non sono d'accordo, viceversa, sulla questione del consolidamento. Credo che dobbiamo essere consapevoli che la nostra democrazia sta vivendo una crisi radicale e profonda, non soltanto nel nostro Paese, ma in tutta Europa e direi in tutto l'Occidente. Si tratta di una crisi di rappresentanza che si esprime in quel 97 per cento, che equivale tendenzialmente al 100 per cento, di rifiuto della politica e di sfiducia nelle istituzioni rappresentative di cui parlava il professor Diamanti.
  In queste condizioni oggi è assolutamente necessario ripensare e rifondare la rappresentanza. Rifondare la rappresentanza è possibile solo sulla base dell'eteronomia della legge, visto che dell'autonomia i partiti hanno fatto uso per statalizzarsi e per confondersi con i Gruppi parlamentari.
  Occorre ristabilire la differenza tra rappresentanti e rappresentati e la mediazione rappresentativa e garantire l'autonomia sociale dei partiti, anche per impedire i conflitti di interesse che si manifestano nell'interesse personale all'elezione e nella cooptazione dei fedeli, cioè in quei meccanismi attraverso i quali esiste un interesse personale alla rielezione che viene affidato a gruppi dirigenti in grado di decidere e di precostituire le elezioni.
  La questione, dunque, della separazione sollevata dall'onorevole Cozzolino è uno sviluppo del principio della separazione dei poteri. Non possiamo avere rappresentanza diversamente. Badate che Montesquieu non pensava affatto alla democrazia rappresentativa. Era completamente estranea al suo orizzonte. La rappresentanza implica una distinzione fra rappresentanti e rappresentati. Questa distinzione è stata di fatto realizzata parzialmente, perché non abbiamo alle spalle dei modelli di democrazia dei partiti, quando i partiti avevano una dimensione di massa. Oggi soltanto l'eteronomia è in grado di realizzarla.
  Passo a un'ultima questione che ha a che fare con il diritto. Le democrazie non sono fenomeni naturali, non nascono sugli alberi. Le democrazie sono il frutto di elaborati meccanismi istituzionali, di elaborate regole e di vincoli che sono innanzitutto vincoli ai poteri, poteri altrimenti selvaggi, illimitati e sregolati. Sono norme, quando si parla di attuazione, di garanzia dei diritti fondamentali, i quali richiedono Pag. 30di essere garantiti. Non basta proclamarli. Mentre il diritto di proprietà o il diritto di credito hanno la loro garanzia nel divieto per tutti di ledere la proprietà e nel debito del debitore, per i diritti alla salute, i diritti di libertà, i diritti politici e i diritti civili c'è necessità di una legislazione di attuazione che garantisca la trasparenza.
  Badate, vorrei dire a chi non vuole lo Statuto perché, per ragioni di principio molto ideologiche, ne esclude la possibilità, che la trasparenza è implicita nell'articolo 18, il quale esclude le associazioni segrete. Dunque, è un diritto non solo degli iscritti, ma dei cittadini sapere dove vengono prese le decisioni. Penso al Movimento 5 Stelle. È un diritto sapere chi decide, in quali sedi, attraverso quali regole e attraverso quali forme. Io, cittadino che non voto o che voto, indipendentemente dal mio voto e dalla mia simpatia o antipatia per un determinato movimento, voglio sapere di tutti i partiti come sono organizzati, come si forma la volontà, qual è la loro base, qual è l'estensione di questa base, qual è il loro radicamento territoriale.
  Queste sono norme che garantiscono la trasparenza. Non sono norme che limitano l'autonomia, ma che la garantiscono e la realizzano. Questa è una questione di fondo che ha che fare con la natura stessa dello Stato di diritto, che esclude poteri assoluti, cioè non soggetti alla legge e lo deve escludere tanto più in una questione delicata come quella della rappresentanza politica e dell'organizzazione di quelle che l'articolo 49 prevede come le forme attraverso cui i cittadini concorrono – non sono semplicemente rappresentati – a determinare la politica nazionale.
  La legge è oggi più che mai essenziale e urgente. Occorrerebbe avere un atteggiamento di consapevolezza sul carattere emergenziale della crisi che sta attraversando la democrazia non soltanto in Italia, ma anche in tutta Europa. Ormai le forme di personalizzazione e le forme di distanza dalla politica e di rifiuto della politica hanno assunto forme tali che, in assenza di Costituzioni, i nostri ordinamenti sarebbero esposti a tutte le possibili perversioni.
  Abbiamo alle spalle esperienze fasciste, naziste e staliniste che non ci consentono di rimetterci alla spontaneità, il che poi significa la legge del più forte. La spontaneità è sempre la legge del più forte. Oggi una legge è urgente proprio per garantire l'autonomia e, quindi, la libertà, i diritti di voto e i diritti politici.

  PRESIDENTE. Ha chiesto di intervenire l'onorevole Zampa per porre una domanda.

  SANDRA ZAMPA. Farò una domanda molto rapida. Professor Ferrajoli, mi ha molto interessato il suo intervento, anche perché, se ho ben compreso, insiste su un punto, che riguarda anche l'esigibilità dei diritti che, in questo caso, una legge comporta. Nella stessa direzione era andata la dottoressa Falcone.
  C'è un punto, però, su cui è tornato due volte, anche ora. Quando sottolinea il carattere emergenziale, l'emergenzialità della situazione nella quale siamo – credo che molti siano profondamente consapevoli di questo – e il fatto che nei vostri interventi si è andati dal dire che non c'è assolutamente bisogno di niente proprio in nome dell'emergenzialità al dire che, invece, c'è assolutamente bisogno di agire, lei insiste molto su una questione, che è quella della separazione e delle non sovrapposizioni di cariche tra l'Esecutivo e il politico-partitico. Ha detto anche che un soggetto che entri in Parlamento dovrebbe dimettersi da qualunque ruolo avesse fino a quel momento svolto nel partito.
  Non crede, però, che tra le cause che hanno portato la situazione a una così grande difficoltà ci sia anche quella della scarsa incisività dell'azione del progetto che un partito propone? Lei dice che si deve fare il programma e che è giustissima l'idea che concorra anche a un'idea di Paese. Nella misura in cui si concorre alla vita del proprio partito e ci si identifica con quel partito con un indirizzo, con dei valori e con degli ideali, si concorre anche a un'idea di progetto di Paese. Poi però questo progetto di Paese va nelle mani di chi sta al Governo e spesso si crea un dualismo Pag. 31che genera una frustrazione gigantesca in chi sta nel partito, ma anche nei cittadini che stanno fuori.
  Credo che all'origine di una grande parte dell'inefficacia del nostro sistema e di quello smarrimento della fiducia che ha portato addirittura a cancellare la possibilità di rilevare la fiducia nei partiti, che è troppo bassa, ci sia anche questo, ossia i rischi che poi si vada da tutt'altra parte. Si è raccolto consenso elettorale su proposte e posizioni che vengono poi contraddette. Questa è la prima osservazione.
  La seconda riguarda un dualismo che spesso si crea tra figure apicali che possono competere tra loro non in modo virtuoso. Noi lo sogneremmo virtuoso, ma non è così. La politica non è il mondo della realtà degli ideali. È tutt'altro che questo, mi sembra.
  Questa parte sinceramente, anche per quello che ho vissuto, come tanti altri, mi fa molto riflettere.

  LUIGI FERRAJOLI, professore emerito di filosofia del diritto presso l'Università degli Studi «Roma Tre». Molto rapidamente, credo che l'obiettivo della rifondazione della rappresentanza supponga la rifondazione dei partiti e del loro ruolo nella società come luoghi di formazione della volontà politica e soprattutto come titolari delle funzioni di indirizzo politico nella formulazione dei programmi delle candidature e di controllo e responsabilizzazione degli eletti.
  Tutto questo è possibile, a mio parere. Naturalmente, però, è una condizione necessaria, ma non sufficiente. Le leggi, ovviamente, non possono trasformare la realtà, non sono delle bacchette magiche. Come condizione necessaria, però, è necessaria quest'alterità, questa possibilità di controllo e l'esclusione di conflitti di interessi che si manifestano nelle autocandidature e nelle candidature dei fedeli.
  Naturalmente, non sarà mai un sistema perfetto e, tuttavia, la separazione garantisce la possibilità del controllo. I gruppi dirigenti sono destinati ad andare in Parlamento e al Governo. Si può prevedere quantomeno la differenza fra cariche di Governo e cariche di partito. C'è come unica obiezione il modello Westminster, che viene sempre proposto. La questione si è proposta per molte altre situazioni, ma vorrei sottolineare che l'Inghilterra è una grande, grandissima democrazia grazie alla sua tradizione secolare, che le ha permesso di mantenere la monarchia, le Camere dei Lord e il sistema uninominale grazie anche alla mancanza di una Costituzione. Questa non è una ragione perché noi non abbiamo, viceversa, date le nostre cattive esperienze, necessità di porre limiti e vincoli ai poteri, altrimenti sregolati, di separare i poteri in funzione delle diverse funzioni di legittimazione.
  Una cosa è organizzare la volontà popolare, un'altra è governare. I partiti non devono governare. I partiti non devono, a mio parere, se vogliamo salvare la rappresentanza, avere funzioni di diretta gestione della cosa pubblica. Solo così, grazie a quest'alterità, possono controllare, criticare i loro rappresentanti, non rinnovare le candidature e consentire anche un ricambio generazionale delle dirigenze. Naturalmente, questo non può che comportare rapidi mutamenti.
  L'esempio che abbiamo è di un Presidente del Consiglio che è anche segretario. Se un partito avesse un segretario diverso, sicuramente sarebbe più credibile, nel senso che potrebbe ancorare il presidente a un orientamento collettivo che si manifesta e si esprime nelle organizzazioni di base.
  Mi rendo conto che non sono riforme che vanno in direzione degli interessi degli attuali partiti, ma credo che i tempi lunghi dovrebbero consigliare che, se non vogliamo che i partiti siano e gli stessi partiti non vogliono essere travolti dalla disistima, dalla sfiducia e dalla rabbia, se cioè vogliamo salvare nei tempi lunghi la democrazia rappresentativa, dobbiamo anche autolimitarci. Dobbiamo anche introdurre leggi serie di garanzia del ruolo dei partiti come luoghi di formazione della volontà popolare e riaccreditare i partiti, nell'interesse degli stessi partiti e delle stesse Istituzioni democratiche e del Parlamento, oltre che, ovviamente, nell'interesse dei cittadini.

  MARIO DOGLIANI, professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università Pag. 32degli Studi di Torino Non entro nel merito delle cose che ha già detto il professor Ferrajoli, ma in relazione ai progetti di legge presentati – non mi ricordo più in quale – ho letto che il problema dell'Italia è la mancanza di un equilibrio tra partiti, maggioranza e leader.
  Questo è profondamente vero, perché nel Paese in cui la fusione tra leader di partito e funzioni di governo è portata al massimo, cioè in Inghilterra, bisogna ricordare che la signora Thatcher, vincitrice della guerra delle Falkland, fu fatta dimettere dal suo partito. Questo è nell'essenza del sistema parlamentare, ma è quanto mai difficile, come sappiamo, realizzarlo. Comunque, è un esempio tipico di funzionamento dello spirito più profondo del sistema parlamentare.
  Volevo solo dire questo. Qui siamo, ovviamente, divisi tra chi reputa meno grave o più grave la situazione. Chi la reputa meno grave è meno disposto a riforme incisive. Chi la reputa più grave è, invece, disposto a riforme molto incisive. Ho detto fin dall'inizio che, al limite, si può pensare a una revisione, a questi fini, dell'articolo 49 della Costituzione, perché quello che continuo a pensare è che l'articolo 49 non sia una pagina bianca, ma una norma.
  Per esempio, il problema dei controlli sui fini dei partiti e sugli obiettivi dei partiti non si può fare.

  LUIGI FERRAJOLI, professore emerito di filosofia del diritto presso l'Università degli Studi «Roma Tre». È ovvio, sì.

  MARIO DOGLIANI, professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli Studi di Torino. Questo è ovvio, ma significa che l'articolo 49 non è una tabula rasa su cui possiamo scrivere qualunque cosa ci venga in mente. Lì ci sono dei limiti. Comunque, sono convinto della drammaticità della situazione e per questo motivo pongo il problema e vorrei replicare alla domanda «che cosa stiamo a fare noi, se poi alla fine non mettiamo una norma di chiusura dura?».
  Questo è vero. La norma che esclude la candidabilità dei partiti che non si sottopongono alla registrazione la vedo essenzialmente in questo modo: il nemico principale oggi è l'altra faccia della statalizzazione dei partiti, cioè la loro privatizzazione, ossia la loro soggezione al denaro e ai finanziatori. Se non c'è questa norma di chiusura, avremo dei partiti che possono presentarsi alle elezioni raccogliendo soldi chissà dove, chissà da chi, chissà quanti, chissà come e nella più completa omertà.

  LUIGI FERRAJOLI, professore emerito di filosofia del diritto presso l'Università degli Studi «Roma Tre». C'è l'articolo 24, però. Si può sempre agire in giudizio a tutela dei diritti fondamentali.

  MARIO DOGLIANI, professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli Studi di Torino. Lo so, ma è molto più diretta e incisiva la sanzione di dire «si fa sul serio». Mi rendo conto che dietro tutto ciò c'è polemica politica e che ci può essere il dubbio di manovre indirette per colpire qualche partito in particolare.
  Dico solo questo: mi ha colpito il fatto che nei progetti di legge – non so se vi sia della legislazione anteriore – ricorra l'espressione «partiti o movimenti politici organizzati». Questa, in ogni caso, è una valvola che si può offrire per dire che non è necessario sposare l'ideologia del partito tutta piena. Non è necessario firmare qualche testo leniniano per accedere a questa disciplina. L'idea di partito o gruppo politico organizzato può ricomprendere qualunque autoconfigurazione che i soggetti alla competizione politica vogliano darsi.

  ANNA FALCONE, avvocato. Rispondo innanzitutto alla domanda che mi è stata fatta direttamente in merito agli organi collegiali e all'efficienza dell'esercizio delle funzioni collegiali all'interno dei partiti politici.
  Gli organi di cui parliamo, ossia gli organismi di garanzia, che sono composti in numero dispari da tre, cinque o sette componenti, non sono sicuramente degli organi il cui numero inficia o allunga esageratamente il problema dell'arrivare a una determinazione. Pag. 33
  La questione che sottolineava l'onorevole Centemero e che, invece, mi preoccupa di più è il discorso su efficienza e democrazia. La democrazia è tale non solo se è efficiente, e deve essere efficiente, ma anche se tutti partecipano e tutti hanno gli stessi diritti e dei doveri proporzionati alle loro possibilità.
  Questi organi non è che non diano risposte perché non sono efficienti, ma perché non sono organi autonomi. Nella stragrande maggioranza dei partiti il problema della separazione dei poteri che sottolineava il professor Ferrajoli riguarda anche la separazione delle funzioni all'interno del partito. Come devono essere divise le funzioni di indirizzo politico, che riguardano l'Assemblea, dalle funzioni esecutive, che riguardano le Direzioni nazionali o gli organismi esecutivi, così deve essere autonoma e divisa la funzione giurisdizionale o di controllo, che quasi mai viene affidata alla minoranza o alle minoranze, come il principio democratico richiede, non soltanto per gli Stati, ma anche per qualsiasi organizzazione a base democratica.
  Mi collego a quanto è stato detto in tanti interventi e in tante domande sul perché di questa regolamentazione. Non so se siamo ancora in tempo per una regolamentazione democratica dei partiti politici, perché in una società liquida come la nostra è vero che la rappresentanza, laddove non trova sfogo nei partiti politici esistenti, si organizza in forme diverse. Spesso, però, si organizza in forme diverse dandosi, senza regole, quei diritti che, se le regole fossero utilizzate secondo il principio del diritto come strumento di garanzia e non come strumento di potere, dovrebbe assicurare direttamente lo Stato tramite le sue leggi.
  Il punto dove sta? Il punto è: per quale scopo intendiamo regolamentare i partiti? Penso che una regolamentazione dei partiti sia necessaria e fondamentale non tanto e non solo per dare attuazione all'articolo 49, che sicuramente merita attuazione, quanto per dare finalmente riconoscimento e garanzia ai diritti politici e ai diritti di partecipazione politica. Essi non sono una categoria chiusa e limitata a quelli espressamente riconosciuti dalla Costituzione, ma si sono evoluti con l'evoluzione del nostro modello democratico, il quale richiede il riconoscimento anche delle forme della democrazia partecipativa.
  Probabilmente, se spostassimo il focus e iniziassimo a pensare a come possiamo garantire i diritti politici e di partecipazione politica delle persone a prescindere dai luoghi in cui essi si esercitano, faremmo un'operazione di democrazia e di efficienza maggiore.
  Rispondo anche all'onorevole Richetti sul problema del divieto di mandato imperativo. È un problema che esiste, onorevole, ma è un problema che esiste non solo e non tanto in relazione a una possibile disciplina dei partiti politici, ma soprattutto in relazione al modello elettorale che ci diamo. Finché avremo dei modelli elettorali e delle leggi elettorali che stabiliscono delle liste bloccate, senza legare queste liste bloccate a dei procedimenti di scelta democratica interna non solo ai partiti, ma a qualsiasi movimento che scelga di partecipare alle elezioni, il divieto di mandato imperativo sarà un enorme vulnus e non più soltanto una garanzia. Perché? Perché verrà a mancare il legame fra elettori e rappresentanti degli elettori in Parlamento che giustifica l'esistenza di questa garanzia costituzionale.
  Presidente, le firme valgono o per tutti o per nessuno. È evidente che, per gli stessi motivi che dicevo prima, in un sistema di democrazia liquida, in cui i partiti che vincono una tornata elettorale o che siedono in Parlamento in una legislatura spesso cambiano nome, ma cambiano molto spesso anche identità o scompaiono, le firme le debbano raccogliere tutti, o che non le debba raccogliere nessuno.

  GIULIO MARIA SALERNO, professoreordinario di Istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Macerata. Molto brevemente, abbiamo già detto che l'articolo 49 non prevede la riserva di legge, né un rinvio alla legge. Fu bocciato un emendamento apposito, che prevedeva il rinvio alla legge. Ci sarà stata qualche ragione per cui non volevano il rinvio apposito alla legge. Se vogliamo, possiamo svolgere i princìpi dell'articolo 49 mediante delle normative Pag. 34che devono rispettare l'articolo in questione e tutti gli altri articoli costituzionali. Nessuno ce lo impedisce.
  Riguardo al problema di che cosa accade ai soggetti che non sono disciplinati da questa legge e che si troverebbero, quindi, svantaggiati in quanto non registrati – è stato posto questo problema – queste persone fanno sollevare questione di legittimità costituzionale. Si troveranno di fronte a un provvedimento dell'amministrazione del soggetto deputato all'ufficio circoscrizionale elettorale che nega, o che pure fa la ricusazione, impugneranno questa ricusazione e poi solleveranno questione di legittimità davanti alla Corte. Vediamo bene che una legge come questa deve essere una legge costituzionalmente molto robusta, perché è inevitabile che vada poi al sindacato della Corte costituzionale. Bisogna costruirla, dunque, con grande attenzione.
  Se non si rispettano le regole, che cosa fa la Commissione di garanzia? Dovrebbe non consentire i finanziamenti previsti dalla legge. Nel caso in cui i soggetti rispettino formalmente, ma non sostanzialmente le regole la Commissione di garanzia dovrebbe avere funzioni di vigilanza sull'attuazione effettiva di questa legge.
  Per quanto riguarda la delega, anch'io sono molto sospettoso sulla possibilità che possano essere stabilite delle norme mediante delega. Ovviamente, si tratta di una materia prettamente parlamentare, su cui il Governo ben difficilmente potrebbe intervenire.
  Le primarie sono uno strumento che potrebbe essere inserito e disciplinato facoltizzando i partiti ad attuarlo. Non rinvierei a regolamenti interni dei partiti, come fa la Toscana, per esempio. Stabilirei tutto con norme dello Stato, piuttosto che rinviare con regolamenti interni ai partiti.
  È possibile differenziare l'accesso alle elezioni a seconda del livello nazionale, locale, territoriale e regionale? Direi di no, assolutamente no. Bisogna assicurare il principio d'uguaglianza.
  A che cosa potrebbe servire una normativa come questa se mancasse la clausola di chiusura relativa alla sanzione di non poter presentare le proprie liste? Sono dell'idea che le due questioni dovrebbero viaggiare su piani completamente differenti.
  In Costituzione c'è un principio costituzionale sul diritto di accesso alle cariche elettive secondo eguaglianza e requisiti stabiliti dalla legge. I requisiti stabiliti dalla legge finora noi li abbiamo interpretati sempre come condizioni individuali, mai come il fatto che il soggetto sia associato a un partito registrato. Già per la presentazione delle firme, Mortati si poneva il problema se sia un limite che possiamo costituzionalmente accettare. Allora, si è detto che se sono in numero non eccessivo, sproporzionato, la risposta è affermativa. Però condizionare l'accesso alle cariche elettive all'appartenenza a un partito registrato, secondo me, sono due questioni differenti.
  Fare questa legge o meno? È un momento di grave crisi del sistema. Utilizzare delle formule vecchie – la personalità giuridica disciplinata dal Codice è una formula vecchia – mediante discipline rigide, collegate ad altri strumenti e ad altre finalità? È utile, in un momento come questo, irrigidire la disciplina interna di un partito? Poniamo anche attenzione al fatto che sono sorti nuovi partiti, movimenti, anche per la flessibilità delle forme giuridiche consentite. Irrigidire troppo vorrebbe dire portare fuori anche dai canali della rappresentanza fasce di popolazione, di opinione pubblica e quant'altro. Quindi, bisogna fare attenzione.

  PRESIDENTE. Do la parola per una precisazione all'onorevole Centemero.

  ELENA CENTEMERO. Grazie, signor presidente. Intervengo semplicemente per dire che la crisi del sistema partitico e politico è anche legata alla necessità di dare risposte in tempi reali ed efficienti rispetto ai bisogni dei cittadini. Quindi, la mia domanda era proprio per cercare di mettere in collegamento il sistema, cioè la democrazia, con l'efficienza, ossia dare delle risposte.
  Credo che l'azione degli organi collegiali funzioni nel momento in cui c'è una divisione Pag. 35 di quelle che sono le funzioni: funzioni di indirizzo e di controllo e funzione di governo.

  PRESIDENTE. Ringraziamo tutti gli auditi.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 14.55.