XVII Legislatura

I Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 2 di Mercoledì 20 maggio 2015

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Toninelli Danilo , Presidente ... 2 

INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DELL'ESAME DEL DISEGNO DI LEGGE C. 3098  GOVERNO, APPROVATO DAL SENATO, RECANTE DELEGHE AL GOVERNO IN MATERIA DI RIORGANIZZAZIONE DELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE

Audizione di esperti.
Toninelli Danilo , Presidente ... 2 
D'Alessio Gianfranco , Professore ordinario di diritto amministrativo presso l'Università di Roma Tre ... 2 
Toninelli Danilo , Presidente ... 6 
D'Alessio Gianfranco , Professore ordinario di diritto amministrativo presso l'Università di Roma Tre ... 6 
Toninelli Danilo , Presidente ... 7 
Deodato Carlo , Consigliere di Stato ... 7 
Hinna Alessandro  ... 11 
Toninelli Danilo , Presidente ... 14 
Gasparini Daniela Matilde Maria (PD)  ... 14 
Toninelli Danilo , Presidente ... 15 
Fabbri Marilena (PD)  ... 15 
Ferrari Alan (PD)  ... 16 
Piccione Teresa (PD)  ... 16 
Toninelli Danilo , Presidente ... 16 
Hinna Alessandro  ... 16 
Deodato Carlo , Consigliere di Stato ... 17 
D'Alessio Gianfranco , Professore ordinario di diritto amministrativo presso l'Università di Roma Tre ... 18 
Toninelli Danilo , Presidente ... 20

Sigle dei gruppi parlamentari:
Partito Democratico: PD;
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Forza Italia - Il Popolo della Libertà - Berlusconi Presidente: (FI-PdL);
Area Popolare (NCD-UDC): (AP);
Scelta Civica per l'Italia: (SCpI);
Sinistra Ecologia Libertà: SEL;
Lega Nord e Autonomie - Lega dei Popoli - Noi con Salvini: LNA;
Per l'Italia-Centro Democratico: (PI-CD);
Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale: (FdI-AN);
Misto: Misto;
Misto-MAIE-Movimento Associativo italiani all'estero-Alleanza per l'Italia: Misto-MAIE-ApI;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Partito Socialista Italiano (PSI) - Liberali per l'Italia (PLI): Misto-PSI-PLI;
Misto-Alternativa Libera: Misto-AL.

Testo del resoconto stenografico
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PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE DANILO TONINELLI

  La seduta comincia alle 8.45.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata attraverso la trasmissione diretta sulla web-TV della Camera dei deputati.

Audizione di esperti.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, in relazione all'indagine conoscitiva nell'ambito dell'esame del disegno di legge C. 3098 Governo, approvato dal Senato, recante deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, l'audizione di esperti. Interverranno nel corso dell'audizione il professor Gianfranco D'Alessio, il consigliere di Stato Carlo Deodato e il professor Alessandro Hinna.
  Do la parola al professor Gianfranco D'Alessio, ordinario di diritto amministrativo presso l'Università di Roma Tre, avvertendo che il tempo a disposizione per ciascun intervento è di circa dieci minuti.

  GIANFRANCO D'ALESSIO, Professore ordinario di diritto amministrativo presso l'Università di Roma Tre. Ringrazio prima di tutto per l'invito. Immagino che io sia stato convocato per parlare di un tema di cui da tanto tempo mi occupo, il tema della dirigenza. Concentrerò, quindi, questo mio intervento su alcuni dei problemi sollevati dalla normativa presente nel disegno di legge nel testo approvato dal Senato e al vostro esame, relativo all'articolo 9.
  Evidentemente c’è una scelta fortemente innovativa rispetto all'attuale assetto della normativa sulla dirigenza. Finora abbiamo avuto una normativa fondamentalmente distinta per i vari tipi di dirigenze. Il decreto legislativo n. 165 del 2001 si occupa per la parte strutturale, non per quella di distinzione delle funzioni, per la quale è uscita una norma di ordine generale applicabile a tutte le amministrazioni, come è noto, della dirigenza dello Stato.
  Qui, invece, la scelta di fondo è quella di occuparsi complessivamente, in termini unitari, di tutte le dirigenze pubbliche, adottando un modello che, in una certa misura, si ispira a quello finora vigente per lo Stato, ma con una serie di modificazioni e di integrazioni rese necessarie dal fatto di doversi poi applicare a tutte le dirigenze pubbliche, segnatamente anche alle dirigenze regionali e locali, il che rappresenta uno dei primi profili problematici.
  Voi vi siete occupati e vi rioccuperete della riforma dell'articolo 117 della Costituzione in un ulteriore passaggio. Sappiamo che, per quanto riguarda la materia del lavoro pubblico, la scelta del disegno di legge costituzionale è quella di accentrare fortemente la competenza normativa sullo Stato in materia di lavoro nelle pubbliche amministrazioni. Peraltro, la materia della dirigenza e degli incarichi dirigenziali, che nell'attuale legislazione è esclusa dalla contrattazione, è materia a cavallo fra l'aspetto dell'ordinamento del lavoro e quello dell'organizzazione, in cui, invece, c’è un'esplicita competenza regionale.Pag. 3
  Io credo, quindi, che un primo profilo problematico possa essere questo, ossia comprendere fino a che punto questa normativa nazionale possa limitare e condizionare lo spazio del legislatore regionale. Sicuramente alcuni princìpi generali sono realizzabili in sede normativa nazionale, ma bisognerà prestare attenzione a non invadere il versante organizzativo, su cui c’è – e rimarrebbe anche dopo l'ipotizzata riforma dell'articolo 117 della Costituzione – una competenza del legislatore regionale.
  Quali sono i punti salienti su cui mi vorrei soffermare ? Un primo punto è quello dell'accesso alla dirigenza. Nel testo si adotta per tutte le amministrazioni e per tutte le dirigenze il doppio canale finora vigente per lo Stato e per qualche regione, ossia quello del concorso riservato ai funzionari con una consistente esperienza pregressa nell'amministrazione e il corso-concorso, aperto invece anche a soggetti esterni dotati di elevato titolo di studio.
  Mi soffermo sugli aspetti problematici. Questa scelta del doppio canale, per esempio, io la considero condivisibile. Considero condivisibile il fatto che nel testo approvato dal Senato e già nel disegno di legge governativo si tenda a privilegiare il corso-concorso, ma senza escludere l'altro canale, inteso a valorizzare evidentemente chi abbia già competenze ed esperienze nell'amministrazione. Sottolineerei, però, un paio di problemi.
  Il primo riguarda i titoli di studio. Il Senato ha approvato una norma che prevede come titolo di studio necessario la laurea magistrale o titoli equipollenti, ossia la laurea quinquennale. Occorre, però, fare i conti col fatto che l'attuale normativa, ossia il decreto del Presidente della Repubblica n. 70 del 2013, prevede per il corso-concorso il possesso anche di titoli post-universitari (master di secondo livello, dottorato di ricerca). Si tratta di capire se questa condizione possa o debba rimanere o se, invece, nel nuovo sistema la partecipazione alla selezione per il corso-concorso possa essere riaperta, come era prima del 2013, a tutti i laureati di secondo livello.
  Secondo me, la criticità di un sistema che pure complessivamente io trovo convincente sta nel fatto che si prevede che in esito al corso-concorso non si diventi dirigenti, ma funzionari per quattro anni, per poi transitare nella dirigenza. A me questo pare un percorso eccessivamente lungo. Sommando gli anni del percorso universitario, di quello post-universitario, se dovesse rimanere, i periodi per la selezione, il corso, l'esame conclusivo e i quattro anni, questi soggetti entrerebbero nella dirigenza in un'età non dico avanzata, ma piuttosto matura, il che mi pare in contrasto con l'idea di un ringiovanimento e di un ricambio generazionale dei quadri dirigenziali.
  Allo stesso modo mi pare che prevedere che ci sia anche per i dirigenti assunti per concorso un primo periodo con una posizione a tempo determinato e con un esame successivo, in esito al primo periodo, per la conferma in ruolo sia un percorso piuttosto pesante. Su questo aspetto forse potrebbe essere opportuna qualche correzione.
  C’è poi il problema – ne parlavamo qualche minuto fa informalmente con la ministra – della riforma della Scuola nazionale dell'amministrazione, di cui si propone una riqualificazione del ruolo. A me sembra positiva l'idea che emerge dal testo votato dal Senato, che emendava il testo del disegno di legge governativo. Mi pare importante l'idea di un riordino e di un ripensamento del ruolo della struttura e delle funzioni della Scuola, aprendola anche a un dialogo e a un contributo maggiore con le Istituzioni formative universitarie di altro tipo, sia nazionali, sia internazionali.
  L'unico problema che mi pongo è quello di come gestire in maniera unitaria il corso-concorso. Finora abbiamo dato per scontato che se ne occupasse direttamente la Scuola nazionale dell'amministrazione. Si tratterebbe di capire – non so se questo possa essere risolto già a livello di legge delega – ferma restando Pag. 4l'idea positiva della riqualificazione del ruolo della Scuola nazionale dell'amministrazione e dell'apertura al dialogo con altre Istituzioni formative, come dovranno essere conformati lo svolgimento e la gestione del corso-concorso.
  Passando a un secondo aspetto, un punto a cui tengo particolarmente, che è sempre stato il nodo fondamentale della problematica della normativa sulla dirigenza, è il tema degli incarichi. Qual è la questione ? Nel momento in cui si istituiscono dei ruoli unici e per gli incarichi si prospetta l'idea che l'interpello, cioè l'avviso con il quale si comunica la disponibilità di un posto dirigenziale, non sarà più limitato soltanto a coloro che sono dirigenti del ruolo della singola amministrazione, ma sarà aperto a tutti i dirigenti appartenenti a tutti i ruoli unici. Il riferimento è a tutte le migliaia di dirigenti appartenenti ai tre principali ruoli unici, a cui poi si affiancano gli altri di settore, ossia quello dei dirigenti scolastici, quello dei dirigenti delle autorità indipendenti e via elencando, che però rimangono fuori da questo sistema. Nel momento in cui qualunque dirigente di qualunque dei tre grandi ruoli unici potrà aspirare a ricoprire un incarico presso una determinata amministrazione, bisognerà immaginare che queste selezioni saranno sicuramente molto più affollate rispetto a quelle cui potevano partecipare solo i dirigenti dell'amministrazione interessata a quell'incarico dirigenziale.
  Di conseguenza, nasce l'esigenza di porre un filtro, perché questo potrebbe portare a una moltiplicazione eccessiva di candidature e forse a un'eccessiva discrezionalità nella scelta. L'idea, che io ritengo molto felice, adottata nel disegno di legge è quella di istituire tre Commissioni per la dirigenza, cioè degli organismi connotati da indipendenza che dovrebbero fare da filtro rispetto alla scelta, che è comunque demandata al decisore, sia esso politico, per i livelli più alti, sia esso il dirigente generale, per gli incarichi dirigenziali di minore importanza.
  Questa non è un'idea del tutto originale. Riprende esperienze antiche di alcuni principali ordinamenti, soprattutto di quelli anglosassoni. Dalla metà dell'Ottocento esiste in Gran Bretagna una Civil Service Commission che svolge questa funzione di filtro, con l'intenzione di garantire che ci siano merito, apertura e trasparenza nelle nomine dei dirigenti. Un organismo analogo esiste dagli anni Ottanta del diciannovesimo secolo anche negli Stati Uniti, anche se poi una trentina di anni fa è stato riformato.
  Pertanto, l'idea che per gli incarichi di maggiore rilievo, quelli di livello generale, ci sia un filtro a monte delle candidature e che per gli altri incarichi ci sia una verifica ex post dei criteri adottati dal decisore mi sembra un dato molto importante.
  Un punto fondamentale qui è capire bene quali saranno la struttura, l'identità e la consistenza delle Commissioni che dovrebbero svolgere questa funzione di filtro tecnico rispetto alle candidature per gli incarichi dirigenziali, ma anche altre funzioni, quali funzioni valutative e di verifica dei casi di revoca nelle riorganizzazioni degli uffici e via elencando. Questo dovrebbe portare a una struttura permanente, con uno staff di supporto di una determinata consistenza.
  Questa è una possibilità che andrebbe fortemente raccomandata, posto che c’è sempre, ovviamente, il problema di nuove istituzioni, con i relativi costi e i relativi problemi di dotazione di personale. Se non si conferiscono una struttura e una consistenza vera a queste Commissioni, esse perdono di senso, perché non sarebbero sicuramente in grado di svolgere questo oneroso lavoro di raccordo fra filtro tecnico e scelta politica per una data quota dei dirigenti da prescegliere per ciascun incarico.
  Peraltro, c’è un problema per quanto riguarda le due Commissioni per il ruolo della dirigenza regionale e della dirigenza locale. Ovviamente, anche nella selezione di coloro che dovrebbero andare a guidare queste Commissioni andrà ricercato un delicato rapporto di equilibrio fra le scelte Pag. 5operate a livello nazionale e le scelte che dovrebbero provenire dal sistema regionale e locale.
  Sul conferimento degli incarichi l'altra questione che si pone, secondo me, è il problema – tratto solo alcuni dei punti fondamentali, riservandomi poi magari di farvi avere una breve memoria scritta più esplicativa – degli incarichi agli esterni ai ruoli, ossia quello che per gli addetti lavori è il problema dei cosiddetti incarichi ex comma 6 dell'articolo 19 del decreto n. 165 del 2001.
  Di questo tema il disegno di legge governativo non parlava. Il Senato, però, ha approvato una norma in cui si dice che per questi incarichi, che possono essere assegnati a esterni ai ruoli, si procede con procedure selettive e comparative nel rispetto dei limiti previsti dall'articolo 19, comma 6 del decreto n. 165 del 2001.
  Questo è un tema molto delicato. Proviamo a ragionare. Finora noi abbiamo una situazione diversificata. Nel testo si dice che vanno rispettati i limiti del comma 6 dell'articolo 19 e si pone un limite dell'8-10 per cento. La differenza è dovuta al fatto che finora c’è stata una distinzione in fasce della dirigenza statale che con la riforma dovrebbe venire meno. Diciamo il 10 per cento.
  Il 10 per cento, in base al decreto-legge n. 90 del 2014, vale per la dirigenza regionale e per quella del servizio sanitario, con riferimento alla dirigenza amministrativa e tecnica, non a quella medica, che ha una regolazione a parte. Invece, per i dirigenti degli enti locali e per quelli degli enti pubblici di ricerca, anche con una differente configurazione, si può arrivare fino al 30 per cento.
  Si è sempre giustificato questo con il fatto che ci sono carenze negli organici della dirigenza locale. Credo che anche l'ANCI e le associazioni degli enti locali abbiano richiesto questa maggiore flessibilità nell'uso di risorse esterne ai ruoli. Nel momento in cui, però, gli interpelli sono così aperti per cui tutti possono partecipare, questo problema dovrebbe venire meno. Pertanto, forse, visto che questa è una riforma strutturale, bisognerebbe ripensare a questa diversificazione di percentuali.
  L'altro punto qual è ? Si parla nel testo del Senato di limiti, con riferimento a quelli del citato articolo 19, comma 6. In merito si pone un'altra questione: per conferire questi incarichi motivatamente bisogna prima vedere che non ci siano risorse utili per quell'incarico nella dirigenza di ruolo. Finora, poiché la dirigenza cui si faceva riferimento era quella della singola amministrazione, non era difficile dimostrare che non ci fosse nessun soggetto adatto. Nel momento in cui, però, possono partecipare tutte le migliaia di dirigenti dei ruoli unici, come si fa a dire che nessuno tra le migliaia di dirigenti è adatto ?
  Inoltre, visto che si pone il problema di una selezione comparativa, si può pensare di escludere i dirigenti di ruolo, unici soggetti che potrebbero essere esclusi da questa quota ? A me pare complicato. Forse la soluzione potrebbe essere quella di non avere una quota distinta a monte, ma di offrire la possibilità alle amministrazioni, facendo i normali interpelli, le normali selezioni per i dirigenti, compresi quelli di ruolo, di motivare il fatto che in talune situazioni è necessario, utile e opportuno scegliere un esterno per la sua particolare qualificazione. Probabilmente andrebbe rimodulato il testo approvato dal Senato alla lettera f) del comma 1 dell'articolo 9.
  Con riguardo alla durata, al rinnovo e alla revoca, la durata è stabilita – anche qui è intervenuto il Senato a modificare leggermente la durata prevista dal disegno di legge governativo – in un primo incarico di quattro anni, rinnovabile per una sola volta per due anni. Questo è un compromesso fra la reiterabilità all'infinito degli incarichi e l'idea, che credo fosse anche originaria nelle intenzioni del Governo, di adottare un criterio di obbligatoria rotazione degli incarichi.
  Sulla quantificazione degli anni potremmo stare a discutere, ma è una scelta di opportunità, che non comporta problemi giuridici. L'unica questione che io Pag. 6porrei è la seguente: è giusto adottare un sistema unico (quattro più due) per tutti gli incarichi, come se fossero tutti uguali ? Forse si potrebbe adottare una maggiore flessibilità, stabilendo, come è sempre stato nella normativa finora vigente, un minimo e un massimo, sia pure mettendo un limite complessivo dei sei anni per consentire il ricambio.
  Pensate alla normativa anticorruzione. Tutti sappiamo che ci sono gli uffici a rischio. Tutti i Piani anticorruzione prevedono che negli uffici a rischio la rotazione debba essere più veloce. Poi ci sono altri uffici più routinari in cui, invece, la durata può essere più lunga. Forse introdurre un elemento di flessibilità nella durata degli incarichi a seconda della loro tipologia potrebbe essere di una qualche utilità.
  Si prevede anche l'esclusione dai ruoli dei dirigenti rimasti privi di incarico per un determinato lungo periodo, che non viene determinato nella legge delega. Forse questo aspetto può essere precisato in sede di decretazione delegata, o forse ci si può rifare a quel termine dei due anni che vale per la messa in disponibilità in generale dei dipendenti pubblici, in base alle norme, peraltro riviste con lo stesso decreto – legge n. 90 del 2014, degli articoli 33 e 34 del decreto legislativo n. 165 del 2001.
  La questione qual è ? L'idea della messa a disposizione e anche della «licenziabilità» dopo una prolungata mancanza di incarichi trova una sua giustificazione. Nel momento in cui io posso candidarmi a fare il dirigente in tutte le amministrazioni e, quindi, posso sfuggire a frizioni e difficoltà che posso avere nella mia amministrazione, la quale potrebbe emarginarmi e nel momento in cui io mi posso ricollocare in tutte le amministrazioni, se per un lungo periodo non riesco ad avere un incarico da nessuna amministrazione italiana, ci deve essere qualcosa che non va. Quanto meno sono molto sfortunato. Uso apposta questo termine poco tecnico perché qui c’è una questione.
  È comunque giusto per un dirigente di ruolo che è entrato attraverso selezioni concorsuali essere escluso dai ruoli quando non ha avuto valutazioni negative, non ha avuto alcuna responsabilità e potrebbe essersi trovato di fronte a ostacoli oggettivi nell'ottenere un incarico in questo periodo ? Forse legare la fuoriuscita dai ruoli dopo un determinato periodo a una situazione di cattiva valutazione o di cattiva qualità constatata di quel dirigente potrebbe essere opportuno.
  Ci sono poi i temi – spendo due parole solo su questi – della valutazione e della responsabilità.

  PRESIDENTE. Professore, la devo invitare a concludere, altrimenti non riusciamo a sentire tutti gli auditi. La ringrazio.

  GIANFRANCO D'ALESSIO, Professore ordinario di diritto amministrativo presso l'Università di Roma Tre. Solo un minuto. Il Senato ha scelto di eliminare quasi completamente la norma sulla valutazione dei dirigenti, credo riconducendola alla norma dell'articolo 10 sulla valutazione generale del personale.
  Probabilmente le intenzioni sono ottime – sono quelle della semplificazione e della diversificazione per tipi di amministrazioni – ma bisognerebbe affrontare un tema fondamentale: perché questo sistema non ha funzionato ? Non ha funzionato per carenze attuative, per limiti attuativi, ma anche per il fatto che spesso non si innesta il percorso della programmazione dell'attività. Qualche norma che vincoli maggiormente chi deve programmare l'attività a programmarla seriamente e, quindi, ad avviare il ciclo della gestione della valutazione potrebbe essere di qualche utilità.
  Sulla responsabilità aggiungo solo una battuta. La norma fa riferimento alle ipotesi di responsabilità dirigenziale di cui all'articolo 21 del decreto legislativo n. 165 del 2001. Sembra darle per acquisite. Secondo me, ci sono due difetti.
  Il primo difetto è che, mentre la valutazione si fa sul conseguimento degli obiettivi e sui comportamenti organizzativi, nella responsabilità i comportamenti organizzativi Pag. 7non emergono. Pertanto, c’è una sfasatura fra valutazione, che è la premessa, e giudizio di responsabilità, che dovrebbe essere una conseguenza connessa con la struttura dalla valutazione.
  Aggiungendo un altro dato, nel testo la responsabilità del dirigente per mancata vigilanza su quantità e qualità del lavoro dei dipendenti viene inserita fra le responsabilità dirigenziali. Questo, invece, secondo me, andrebbe ricondotto più a responsabilità disciplinare.
  L'ultima osservazione riguarda il trattamento economico. Qui c’è da fare i conti con il problema delle fonti regolative del lavoro pubblico.
  Esco solo per questo aspetto, veramente chiudendo, dal discorso dell'articolo 9. Nell'articolo 13 ci sono alcune importanti norme di delega sulla revisione complessiva della normativa sul personale. Manca, però, un riferimento al tema delle fonti, ossia al rapporto fra fonti contrattuali e fonti legislative in materia di lavoro pubblico, tema che nell'attuale normativa uscita dal decreto legislativo n. 150 del 2009 non è chiarissimo, non è limpido. Forse andrebbe introdotto, con conseguenze anche per quanto riguarda la dirigenza, un principio di delega che prospettasse un riordino chiaro del rapporto fra fonti di carattere normativo e fonti di carattere contrattuale e negoziale per la disciplina del personale pubblico.
  Mi fermo e vi ringrazio.

  PRESIDENTE. Grazie a lei, professore. Ovviamente, trattandosi di una materia molto ampia, invito gli auditi, come è già stato promesso dal professor D'Alessio, a consegnare, laddove ne fossero in possesso, una memoria o una relazione più completa, anche se non oggi direttamente.
  Do la parola al consigliere di Stato Carlo Deodato.

  CARLO DEODATO, Consigliere di Stato. A proposito della memoria, io mi riservo di inviare un mio scritto di commento sull'articolo 10 del disegno di legge del Governo in materia di riforma della dirigenza pubblica che è stato pubblicato su varie riviste online. Contiene un esame del testo proposto dal Governo. Quello è il testo che io mi riservo di inviare.
  È difficile evitare di ripetere alcune delle considerazioni che ha fatto il professor D'Alessio, ma cercherò di limitare il mio intervento a profili diversi, anche se su qualcosa sarò costretto a tornare. Mi limito solo a condividere l'osservazione del professore sull'opportunità di rivedere il criterio di delega sull'articolo 19, comma 6 del decreto legislativo n. 165 del 2001, ossia, per intenderci, sugli incarichi agli esterni.
  Anch'io condivido l'osservazione del professor D'Alessio quando dice che, una volta che la platea dei dirigenti si estende a tutti i dirigenti di ruolo di tutte le amministrazioni della Repubblica – comuni, province, per quello che ne è rimasto, regioni e Stato – è davvero difficile configurare il presupposto che, secondo l'ordinamento vigente, giustifica il conferimento di incarichi agli esterni, ovvero l'indisponibilità di professionalità di ruolo per un dato tipo di incarico. È ovvio che su una platea così ampia è veramente difficile farlo.
  Forse è, quindi, corretto il suggerimento di invertire la procedura, cioè di imporre all'amministrazione un obbligo motivazionale supplementare che dimostri che per un dato tipo di funzione è necessaria una professionalità eccezionale, il che giustifica il conferimento di incarichi agli esterni.
  Perché sia utile quest'audizione, che cerco di contenere nel tempo che mi è stato assegnato, non mi soffermerei sugli aspetti positivi della riforma – ce ne sono: penso al sistema della formazione continua, al principio del conferimento degli incarichi agli esiti della valutazione, a una maggiore trasparenza del conferimento degli incarichi, tutti aspetti molto positivi – ma preferirei concentrare il mio breve intervento su alcuni aspetti secondo me problematici dell'articolo 9 del disegno di legge, permettendomi alla fine di suggerire alcune proposte correttive che, secondo me, superano le criticità che sinteticamente procedo a elencare.Pag. 8
  Innanzitutto devo dire, come ha osservato giustamente il professor D'Alessio, che questa è una riforma assolutamente innovativa e radicale, direi quasi rivoluzionaria. È la prima volta, da quando è stato privatizzato il lavoro pubblico, ormai dal 1993 mi pare, che si propone una revisione dell'ordinamento della dirigenza che ne modifica radicalmente l'assetto. Tant’è vero che nel disegno di legge delega si parla dell'istituzione del sistema della dirigenza pubblica, ossia di un sistema completamente nuovo di organizzazione del rapporto di lavoro della dirigenza.
  Per questo motivo, secondo me, è necessario un esame particolarmente scrupoloso di questa proposta. La riforma dell'assetto ordinamentale della dirigenza pubblica non si risolve nella modifica del rapporto giuridico di lavoro fra dirigente e pubblica amministrazione, ma ha delle implicazioni che vanno al di là del mero rapporto di lavoro, perché riguarda il rapporto fra politica e amministrazione e, quindi, coinvolge anche il principio costituzionale di indipendenza e imparzialità della pubblica amministrazione.
  Pertanto, invito la Commissione a esaminare con molta attenzione gli effetti e le implicazioni di questa modifica nel rapporto fra politica e burocrazia, per usare un brutto termine, o comunque tra amministrazione e dirigenza pubblica. In questo senso, secondo me, alcune proposte di modifica, per quanto giustificabili secondo una prospettiva più politica, comportano il rischio di un'alterazione di questi equilibri fra politica e amministrazione. Vado a spiegare questa mia affermazione.
  Innanzitutto vorrei fare quattro rilievi critici in maniera molto sintetica. Come è stato detto, la parte più innovativa del disegno di legge è quella che prevede l'istituzione di tre ruoli unificati della dirigenza, quello degli enti locali, quello della dirigenza regionale e quello della dirigenza dello Stato, nonché la piena mobilità fra i ruoli.
  Questo significa – lo dico in maniera molto banale, forse anche rozza, ma per far capire l'effetto pratico di questa riforma – che, dopo l'emanazione dei decreti delegati, la posizione giuridica e anche economica di un dirigente generale del Ministero del tesoro equivarrà a quella di un dirigente di un piccolo comune. Al fine del conferimento degli incarichi la piena mobilità implica la possibilità di attribuire l'incarico di funzione a qualsiasi dirigente appartenga ai tre ruoli unificati.
  Se si può comprendere la ratio di questa modifica, che è quella di garantire una maggiore flessibilità e mobilità fra tutta la dirigenza pubblica, devo dire che, per taluni aspetti, questo principio della piena mobilità a me appare irragionevole.
  La possibilità di conferire incarichi dirigenziali a dirigenti appartenenti al ruolo non solo di un'altra amministrazione, ma anche di un altro livello di Governo, secondo me, non comporta, come penso che si auspichi, un arricchimento dell'amministrazione che riceve il dirigente che si è formato ed è stato reclutato presso un altro livello di Governo. Sia la professionalità acquisita, sia le procedure di reclutamento comportano l'acquisizione di una professionalità talmente diversa rispetto a quella dell'amministrazione presso cui dovrà prestare servizio il dirigente, che, a mio avviso, sono più gli svantaggi che i vantaggi derivanti da questo sistema.
  Non solo, se l'esigenza «della politica» è quella di acquisire una maggiore flessibilità, secondo me l'ordinamento vigente già consente questa flessibilità. La consente sia con gli incarichi di diretta collaborazione – un ministro può nominare il proprio staff in maniera piuttosto libera – sia con gli istituti dell'articolo 19, comma 5-bis e 6 del decreto legislativo n. 165 del 2001, i quali prevedono la possibilità, entro determinate aliquote, di nominare dirigenti appartenenti ai ruoli di un'altra amministrazione o addirittura esterni.
  Poiché questi tre istituti, ossia diretta collaborazione e possibilità di conferire incarichi dirigenziali a dirigenti di un'altra amministrazione o a estranei all'amministrazione, già di per sé soddisfano l'esigenza di acquisire collaborazioni estranee alla dirigenza di ruolo della singola amministrazione, Pag. 9che è un'esigenza condivisibile; il sistema mi sembra equilibrato. Pertanto, l'idea di andare oltre e di permettere addirittura il conferimento di incarichi a dirigenti che appartengono a un altro livello di Governo mi sembra eccessiva e non produttiva. Anzi, rischia di creare difficoltà organizzative e amministrative.
  Sulla disciplina transitoria, invece, mi permetto di rilevare dei rischi di incostituzionalità, perché nel testo si prevede che i dirigenti attualmente in servizio confluiscano nei ruoli unificati. I dirigenti di prima fascia, per effetto dell'abolizione delle due fasce, perdono, quindi, la prima fascia, con il trattamento economico fondamentale della prima fascia, e vengono assoggettati a un regime giuridico completamente diverso da quello acquisito al momento in cui sono stati reclutati.
  Noi sappiamo – e l'esempio dell'ultima sentenza della Corte costituzionale sul blocco degli adeguamenti dei trattamenti pensionistici ne è l'ennesima conferma – che la Corte ha sempre detto che la modifica in peius del trattamento giuridico ed economico relativo a rapporti di durata, soprattutto se di genesi contrattuale, come sono quelli dirigenziali (non ci dimentichiamo che si tratta di personale contrattualizzato), è compatibile con la Costituzione solo quando è giustificata da esigenze straordinarie di finanza pubblica e da motivi imperativi di interesse generale.
  In questo caso, a mio avviso, la portata impropriamente retroattiva di questa riforma, cioè l'applicazione anche ai dirigenti in servizio, rischia – dico «rischia» perché non c’è alcuna certezza su un eventuale giudizio di incostituzionalità – di incorrere in censure di incostituzionalità, perché un dirigente che ha acquisito per contratto, sulla base della normativa previgente, la posizione giuridica ed economica relativa, per esempio, alla prima fascia, per effetto di una modifica unilaterale legislativa e non concertata del suo rapporto di lavoro, perde questi diritti.
  Sul conferimento degli incarichi ci sono delle innovazioni sicuramente positive. Ricordava il professor D'Alessio l'istituzione di queste tre Commissioni, che più sono indipendenti, meglio è. Tuttavia, i profili di pubblicità e di trasparenza non sono del tutto innovativi, perché l'ordinamento vigente prevede già la pubblicità dell'avviso pubblico e l'obbligo di selezione. Alla fine, il rischio è che questa modifica finisca solo per aumentare la platea entro cui scegliere il dirigente.
  È opportuno, quindi, il suggerimento, che anche il professor D'Alessio formulava, di implementare o migliorare l'indipendenza di queste Commissioni, che rappresentano la vera garanzia di indipendenza e di imparzialità del conferimento dell'incarico, anche se un dato margine di discrezionalità non può che restare. È ovvio, infatti, che la valutazione finale è propriamente «politica», con riferimento al conferimento dell'incarico dirigenziale.
  A mio avviso, la disciplina dei dirigenti che restano privi di incarichi rischia, a sua volta, senza alcuni correttivi – potrebbero essere anche quelli che suggeriva il professor D'Alessio, ma io ne suggerisco anche altri – di incorrere in una censura di incostituzionalità, premesso che non viene individuato nella norma di delega il periodo scaduto il quale il dirigente decade dal ruolo dirigenziale.
  In merito apro una piccola chiosa. Io leggo quel criterio di delega nel senso che «decadenza dal ruolo» significa «licenziamento», cioè risoluzione del rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione. Qualcuno ha ipotizzato – ma questo si chiarirà nel decreto legislativo – che «decadenza dal ruolo dirigenziale» possa significare l'acquisizione da parte del dipendente della posizione giuridica di funzionario. Secondo me, la lettura più corretta è quella per cui egli perde il rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione.
  A mio avviso, in mancanza di una rimproverabilità al dirigente di un inadempimento o di una violazione di obblighi di lavoro, la previsione dell'automatismo della decadenza dal ruolo, cioè del licenziamento, per il solo effetto che per un dato periodo egli non abbia avuto incarichi, premesso che gli incarichi restano Pag. 10discrezionali, rischia di incorrere in una declaratoria di incostituzionalità.
  La Corte ha sempre detto che la risoluzione del rapporto di lavoro, quando il lavoro è a tempo indeterminato, come in questo caso, esige, per essere compatibile con la Costituzione, l'addebitabilità al lavoratore della grave violazione di obblighi di lavoro. In questo caso al lavoratore non viene neanche data la possibilità di lavorare, perché non ha avuto incarichi.
  Nel sistema attuale esiste l'istituto degli incarichi di studio, che non è un bell'istituto, ma che garantisce ai dirigenti privi di incarico un'attività da svolgere, per quanto spesso inventata – diciamo così – nelle amministrazioni, sulla quale si può misurare il suo adempimento.
  Il rischio – lo dico in maniera davvero non critica, ma proprio collaborativa – di questa riforma è quello di indebolire la dirigenza nei confronti della politica. Mentre le regole attuali dell'organizzazione dei ruoli per l'amministrazione e la stabilità della prima fascia garantiscono al dirigente una posizione di reale autonomia dalla politica, il rischio del licenziamento, la mobilità piena fra i ruoli delle amministrazioni e la discrezionalità che resta nel conferimento degli incarichi rischiano – dico «rischiano» perché sono una patologia, ovviamente – di relegare i dirigenti in una posizione che definire subalterna forse è troppo, ma che è comunque di debolezza nei confronti della politica.
  Questo è un punto su cui io invito la Commissione a riflettere, perché potrebbe alterare il rapporto costituzionalmente corretto ed equilibrato fra politica e amministrazione. È ovvio, infatti, che il dirigente, con il timore – fondato, perché la norma lo prevede – di rimanere senza incarico e, dopo un po’ di tempo, di perdere addirittura il lavoro, sia indotto a una posizione di maggiore permeabilità alle esigenze della politica.
  Io mi limito adesso a formulare alcune proposte correttive molto puntuali sui quattro punti che ho detto. Il primo è la mobilità piena fra i tre ruoli unificati. Condividendo in astratto l'esigenza di flessibilità, si potrebbe limitare la mobilità a un'aliquota, che potrebbe essere del 20-30 per cento. Entro quell'aliquota sarebbe possibile conferire gli incarichi a dirigenti che appartengono ai ruoli di un altro livello di Governo. Al di fuori di quell'aliquota, invece, gli incarichi verrebbero riservati ai dirigenti del ruolo dell'amministrazione di riferimento.
  Sulla disciplina transitoria, per evitare contenziosi, che ci saranno sicuramente, e problemi di costituzionalità, andrebbe limitata l'applicazione delle nuove regole solo ai dirigenti reclutati dopo l'entrata in vigore dei decreti delegati e non estesa anche a quelli attualmente in servizio. Questo per essere sicuri di evitare un contenzioso. Questo probabilmente contraddice la volontà iniziale, ma il rischio esiste.
  Sul conferimento degli incarichi, per assicurare veramente un'imparzialità, bisognerebbe garantire una reale indipendenza delle tre Commissioni e prevedere forse l'obbligo di motivazione della scelta, in esito a un confronto comparativo fra i curricula, e la giustiziabilità del conferimento degli incarichi. Così si garantirebbe veramente una piena imparzialità e trasparenza del conferimento degli incarichi.
  Sulla decadenza dal ruolo, secondo me, si potrebbe prevedere il licenziamento nelle sole ipotesi in cui il dirigente per un dato periodo non abbia partecipato ad alcun avviso pubblico, oppure abbia partecipato, sia stato selezionato e abbia immotivatamente rifiutato l'incarico. A queste condizioni, secondo me, il licenziamento può essere mantenuto e può sfuggire a rilievi di incostituzionalità.
  Per com’è adesso, a mio avviso, è molto probabile che possa essere dichiarato incostituzionale, mentre, se c’è un'inerzia del dirigente nella partecipazione a procedure di conferimento di incarico, o addirittura un rifiuto ingiustificato, sarebbe anche costituzionalmente compatibile la misura della decadenza dal ruolo.
  Da ultimo, ci sono dei criteri di delega – ripeto, io mi sono soffermato sui rilievi critici, ma ci sono tanti princìpi di delega assolutamente condivisibili e positivi; alcuni li ho detti, ma ce ne sono anche altri Pag. 11– che bisognerebbe, secondo me, rivedere. Mi riferisco, in particolare, al sistema della valutazione e della responsabilità dirigenziale, che potrebbe essere meglio precisato nei decreti delegati. Questo in modo da configurare un sistema effettivamente meritocratico, che consenta di premiare le eccellenze e di sanzionare i dirigenti effettivamente inadempienti.
  Io non voglio fare il sindacalista dei dirigenti. Questo lo voglio chiarire. C’è un problema serio sulla dirigenza in Italia e non voglio difendere nessuno. Tuttavia, ci vuole un sistema che sanzioni in maniera adeguata, con una responsabilità dirigenziale vera, in esito a una procedura di valutazione attendibile, i dirigenti incapaci e che premi quelli meritevoli e anche eccellenti, e ce ne sono molti.
  Forse si potrebbe intervenire anche sul nucleo dei poteri dei dirigenti, che dovrebbe essere equiparato in toto a quello dei datori di lavoro privati. Anche qui bisognerebbe rivedere il sistema degli strumenti di amministrazione e di gestione del personale da parte dei dirigenti, in modo da consentire agli stessi di svolgere le loro funzioni amministrative, ma anche di amministrazione del personale, con strumenti adeguati ed efficaci.
  Vi ringrazio.

  ALESSANDRO HINNA. Professore associato di organizzazione aziendale presso l'Università di Roma Tor Vergata. Innanzitutto grazie per quest'invito. Io sono il terzo e, quindi, ho un vantaggio competitivo. Alcune delle cose dette, ovviamente, non le ripeterò. Per selezionare le informazioni ho preparato una nota in bozza. Magari la finalizzerò anche rispetto alla discussione che emerge e la invierò alla Commissione oggi pomeriggio.
  Io vorrei esprimere innanzitutto un giudizio molto positivo sul testo in esame, perché, a mio modo di vedere, sistematizza e affronta alcuni nodi cruciali che da tempo andavano affrontati. C’è una domanda su alcuni dei punti che vengono affrontati ormai fortissima. Pertanto, io credo molto che questa sia l'occasione per mettere a fuoco alcuni passaggi chiave.
  Io mi metterei, quindi, nella prospettiva di che cosa c’è ancora da migliorare, volendo migliorare, e lo farò con un taglio che è il mio. Io insegno organizzazione aziendale, ragion per cui non ho un taglio giuridico e amministrativo, ma un taglio organizzativo e gestionale. Con questo taglio ho riletto il testo e la prima domanda che mi sono posto è: quali obiettivi riesce a cogliere ?
  A mio modo di vedere, il testo è un vettore di obiettivi piuttosto complessi. La maggioranza si identifica nel tema della semplificazione, il che è abbastanza palese. Ci sono dei punti fondamentali che gridano vendetta per alcuni passaggi fatti in passato. Poi c’è un altro grande blocco importante, che riguarda il tema dell'efficienza e della razionalizzazione. Parlo di tutta la seconda parte.
  La prima cosa che viene da notare è che, fatta eccezione per il tema della dirigenza, gran parte degli articoli lavora sul fare meglio ciò che si sta già facendo, perché semplificazione ed efficienza parlano di questo.
  Rispetto, invece, all'aumento della capacità di elaborazione e di attuazione di politiche pubbliche e, quindi, di creazione di valore pubblico, al netto del ragionamento sulla dirigenza – parlo di efficacia – secondo me, qualche passaggio in più si può ancora fare all'interno dello schema e questa è l'occasione per farlo. Forse sarebbe un'occasione persa quella di approcciare il problema soltanto nel riuscire a far meglio semplificando ed efficientando quello che già facciamo. Perché non cogliere l'occasione per aumentare la capacità produttiva dell'amministrazione ?
  Ripeto; dentro il testo questo elemento lo troviamo, perché vi troviamo i temi degli standard di qualità sulle Camere di commercio e dei temi di rifunzionalizzazione di alcuni istituti che chiamano in causa il tema dell'efficacia. Tuttavia, si può affrontare la questione in maniera un po’ strutturata, nelle maglie dello schema, risolvendo, io credo, tre tipi di equilibri di base che stanno sempre lì, che con difficoltà noi abbiamo affrontato in passato e che ci diciamo sempre che vanno sciolti.Pag. 12
  I tre equilibri sono, dal mio punto di vista – su questo vorrei argomentare e, quindi, fornire, al limite, qualche suggerimento – il rapporto tra centrale e locale, il rapporto tra omogeneità e differenziazione e il rapporto tra vigilanza e responsabilizzazione delle amministrazioni. Vengo ai punti.
  Per quanto riguarda il rapporto tra centrale e locale, noi abbiamo investito tantissimo – lo dico con un esempio – nei sistemi di misurazione e valutazione della performance dentro le singole amministrazioni. Al di là del fatto che funzionino o non funzionino, questo è un investimento del Paese che sta concentrando fatiche enormi. Al di là di quanto funzioni o non funzioni il sistema, il punto chiave è che non serve, nel senso che non viene adeguatamente usato. Non lo dico io, ma lo dicono i rapporti della Corte dei conti. La lettura dei rapporti sulla spending review 2013-14 dimostra che qualsiasi ragionamento fatto non è stato fatto sulla base degli esiti di quei controlli.
  Che cosa voglio dire ? Voglio dire che i sistemi di misurazione e valutazione attuali non informano le decisioni né della singola amministrazione, né, più in generale, ed è questo il problema, secondo me, in termini di efficacia, il ciclo di programmazione del Paese.
  Noi non abbiamo a oggi una vera cinghia di trasmissione ascensionale, relativa cioè a come e in che modo oggi il policy maker riesce ad avvalersi delle risultanze di quei sistemi di misurazione e valutazione per prendere decisioni consapevoli, che siano di allocazione delle risorse, di spending review o di vario tipo, in fase ascensionale.
  Quella, però, che, secondo me, va peggio, e che ci differenzia da altri Paesi, è la fase discensionale. Se oggi vengono identificate delle priorità del Paese, delle politiche del Paese che puntano il sistema dell'amministrazione verso determinati obiettivi, non abbiamo però effettivamente un meccanismo e una cinghia di trasmissione che vedano inserire queste policy, queste priorità, all'interno dei sistemi di programmazione delle amministrazioni. Questo è il primo punto, su cui c’è uno spazio, io credo. Poi arrivo, ovviamente, alle proposte.
  Il secondo passaggio è il rapporto tra omogeneità e differenziazione. Questo è un tema che ha riguardato alcune importanti riforme del passato. In favore dell'omogeneità c’è sempre il tema dell'uniformità e della confrontabilità delle pratiche che conseguono alle politiche e c’è il tema di dare dei minimi comuni denominatori di comportamento alle amministrazioni. Tuttavia, normative e temi quali la performance prima e le politiche di prevenzione della corruzione poi hanno dimostrato come in entrambi casi noi abbiamo fatto un errore, ossia quello di aggredire il problema in maniera omogenea, non declinandolo rispetto ai problemi delle differenze.
  Penso, in termini di performance, a tutto il problema del ciclo di programmazione e controllo, che negli enti locali è profondamente diverso da quello delle amministrazioni centrali. Su questo è collassato il sistema.
  Penso, al tema, oggi attuale – io mi occupo di politiche di prevenzione della corruzione – di un Piano nazionale anticorruzione che oggi non fa differenze di comparto, che non ha cataloghi di rischi di corruzione differenziati e che prevede misure obbligatorie uguali per tutti, in gran parte inapplicabili in situazioni di dimensioni diverse o di comparti differenti.
  Il secondo passaggio che io credo sia importante – e che è da gestire – consiste nel capire come provare a equilibrare meglio il problema di omogeneità e differenziazione su alcune policy.
  Il terzo e ultimo è il tema del rapporto tra vigilanza e responsabilità. È ovvio che, nel controllo dell'uso delle risorse pubbliche, siano esse finanziarie e tecniche, ma anche umane, si pone il grande tema di come si arriva a tutelare l'interesse collettivo nel controllo di dette risorse. In questo senso, secondo me, è emblematico il ragionamento sulle Commissioni che si stava facendo prima rispetto all'articolo sulla dirigenza.Pag. 13
  Che cosa voglio dire ? Noi abbiamo, da una parte, grande apertura e grande favore al ragionamento che si sta facendo: è ora che liberalizziamo questo mercato, è ora che rompiamo le rendite di posizione, è ora che il merito possa riuscire a rendere alcuni soggetti partecipi della costruzione del valore nell'amministrazione pubblica.
  È anche vero, però, dall'altra parte, che, se mal gestito – i colleghi l'hanno detto più volte – il sistema mette in discussione un principio fondamentale di separazione della politica dall'amministrazione e, quindi, mette a serio rischio l'indipendenza dell'amministrazione rispetto alla politica.
  Rispetto a questo è ovvio che tutta la partita si giochi sul sistema di valutazione. Questo è indubbio. Arrivo all'esempio di vigilanza o responsabilità delle amministrazioni. Io non so se il modo migliore per garantire la qualità dei sistemi di valutazione, in modo che essi definiscano il merito, rispetto al quale rendiamo questa manovra vera e non strumentalizzabile, sia in Commissioni esterne. O meglio, mi chiedo se non sia il caso di fare un ragionamento sul rapporto tra dette Commissioni e i sistemi attuali – sicuramente da migliorare – di valutazione della performance che abbiamo nelle amministrazioni.
  Qui c’è un tema, in sintesi, di raccordo tra quello che si sta riflettendo in termini di compiti e responsabilità delle Commissioni e i compiti e le responsabilità di oggi o a venire degli Organismi indipendenti di valutazione, se li vogliamo lasciare ancora vigenti e se vogliamo investirci sopra.
  Arrivo, quindi, velocemente alle tre proposte. Rispetto ai tre punti, sul rapporto tra centrale e locale, secondo me, c’è la possibilità di lavorare sull'articolo 1, laddove si parla del Sistema pubblico di connettività, per forzare la mano e lavorare in maniera di interoperabilità dei sistemi. Noi abbiamo fondi comunitari importanti su questo. Leggere la razionalizzazione e la revisione del Sistema pubblico di connettività non solo in una logica di semplificazione, ma anche in una logica di condivisione delle informazioni per informare le decisioni potrebbe essere lo strumento attraverso il quale abilitiamo quel processo ascensionale e discensionale in sede di – fatemelo dire con uno slogan – ciclo della performance del Paese e non della singola amministrazione.
  In secondo luogo, se c’è un tema di valore pubblico, ascensionale e discensionale, forse il tema della performance organizzativa è riduttivo, come è stato scritto nel decreto legislativo n. 150 del 2009. Infatti, la performance organizzativa si è tradotta in prodotti e servizi, non in valore pubblico.
  Probabilmente nel decreto legislativo n. 150 del 2009 occorre pulire meglio il tema della performance e parlare di una performance del valore pubblico. Altrimenti noi rischiamo di avere enti locali o amministrazioni che ci dimostrano di aver raggiunto i risultati. Peccato, però, che quei risultati non servano a nessuno, ammesso che li raggiungano. C’è un problema di rilevanza dell'obiettivo, prima ancora del raggiungimento dello stesso, altrimenti siamo in una logica dell'efficienza e non dell'efficacia.
  Rispetto al rapporto tra omogeneità e differenziazione si potrebbe lavorare sulle procedure e sui criteri comuni all'esercizio della delega. Perché ? Perché il tema dell'omogeneità e della differenziazione si gestisce pensando ad adeguati modelli organizzativi di alcune autorità che sono al centro del campo. Penso al Dipartimento della funzione pubblica e all'ANAC, l'Autorità nazionale anticorruzione.
  Come faccio a fare in modo che questi due soggetti – per tornare ai due esempi di performance e anticorruzione – abbiano la capacità di portare a sintesi delle politiche, pur includendo, però, le differenze di comparto, le problematiche specifiche e le problematiche tecniche che finora, proprio perché specifiche e tecniche, hanno inibito l'efficacia di quelle politiche ? Come faccio sostanzialmente a mantenere una governance centrale pur nella capacità di ascolto, inclusione e condivisione delle differenze che inevitabilmente trovo in sede applicativa ?Pag. 14
  Questo è un tema che riguarda i modelli organizzativi, operativi e di gestione di queste policy sui soggetti che sono i player. Rispetto al decreto legislativo n. 150 del 2009, forse il testo normativo era migliorabile, ma il grande limite era che il modello organizzativo per implementarlo non era pronto. La CiVIT, la Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche, era completamente inadeguata, in termini non solo di strutture tecniche, ma anche di modello concettuale, per implementare il decreto legislativo n. 150.
  Chiudo sul tema del rapporto tra vigilanza e responsabilizzazione. Io farei una riflessione, nella garanzia del sistema di valutazione alla gestione del ruolo unico, sul rapporto tra le Commissioni esterne e gli Organismi indipendenti di valutazione. Guardate che c’è un passaggio delicato. Le Commissioni esterne, ammesso che riescano a fare tutto quel lavoro, perché la sostenibilità di quell'operazione non è semplice, hanno un punto chiave: è stata affidata loro, tra le altre funzioni, la valutazione della congruità degli incarichi.
  Questo significa che le Commissioni potrebbero trovarsi a valutare la congruità di un incarico sulla base degli esiti di un sistema di valutazione che, però, non sono loro ad aver certificato, ma che è stato certificato da un altro soggetto. Per assurdo, io, Organismo indipendente di valutazione, certifico un sistema che non funziona e la Commissione, che esita delle cose che non sono meritocratiche, valida l'esito del sistema di validazione. Io non posso scindere il garante del sistema dalla responsabilità degli effetti del sistema.
  Questo era solo per dire che, se quello degli Organismi indipendenti di valutazione è ancora un tema, va forse ragionato per consolidarlo. Oggi questi organismi sono rimasti un ibrido, ma sono un internal audit della pubblica amministrazione. Non possiamo rimanere a metà strada come siamo: o li togliamo, o li facciamo diventare degli internal audit, il che vuol dire renderli indipendenti e dare loro le competenze, dei poteri e delle responsabilità importanti anche su queste scelte.

  PRESIDENTE. Grazie, professore. Ringrazio tutti e tre gli esperti per gli apporti che hanno fornito.
  Do la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  DANIELA MATILDE MARIA GASPARINI. Mi ha colpito il fatto che nelle vostre relazioni non si parli mai del tema centrale, per quanto riguarda il dibattito, della fine di una storia, quella dei segretari generali, e della scelta fra i dirigenti di un apicale.
  Pongo questo tema a voi perché, avendo fatto il sindaco, ho vissuto le stagioni in cui si riteneva che, con la nomina dei direttori generali, anche dei comuni superiori ai 15.000 abitanti, si potesse risolvere il problema della managerialità di un ente e della sua capacità di essere efficace ed efficiente. Siamo arrivati, di fatto, a una situazione in cui oggi i segretari generali, in questa fase, hanno compiti di coordinamento della dirigenza, ma non hanno alcuna responsabilità sulla dirigenza stessa.
  In una situazione complicata e complessa come è quella che c’è in Italia in questo momento, con 8.000 comuni, di cui pochissimi superiori ai 100.000 abitanti, ci sono, quindi, pochi comuni che si possono permettere un direttore generale. Al di là dell'esigenza di valutare in questi anni di esperienza anche il valore di una dirigenza di questo tipo, ci troviamo di fronte a comuni più piccoli che hanno difficoltà ad avere degli apicali capaci di fare quello che, a mio avviso, un apicale dovrebbe fare e non fa dentro la pubblica amministrazione, ossia la programmazione, la gestione delle risorse e la gestione del personale.
  Quello che manca in questi anni, e che io ho visto in più amministrazioni, è questo. La norma, ancora una volta, prevede – anche in questo testo tale soggetto viene individuato – un apicale per ogni Pag. 15amministrazione, ma non prevede che abbia competenze specifiche sul tema della programmazione, della gestione del bilancio e sulla gestione del personale.
  Se non esiste una persona che abbia il compito di sovraintendere la programmazione e di gestirla con potere, di fatto la pubblica amministrazione non funziona. Ci troviamo di fronte a una situazione in cui spesso ormai – conosco molto da vicino il tema – i sindaci si considerano dei direttori generali, mettendo in moto una confusione impropria di ruoli tra politica e amministrazione.
  Altro che la valutazione o i dirigenti che sono preoccupati. A questo punto in moltissimi comuni grandi – posso citarvi oggi Sesto San Giovanni, Cologno Monzese e Cinisello Balsamo; sono i comuni che conosco – i sindaci tengono la riunione dei dirigenti e stabiliscono le cose, sfasando tutto. Pertanto, io credo che questo tema, legato alla formazione di una classe dirigente apicale capace di gestire una programmazione seria, a quel punto sarà più facile.
  Certo, questo richiede che anche lo Stato permetta agli enti locali di fare dei progetti triennali. Ormai sono anni che non si riesce più a fare un bilancio annuale e triennale coerente con una programmazione precisa. Questo fa saltare qualsiasi tipo di valutazione, perché, se si fa il bilancio a novembre e poi si chiede di raggiungere i risultati in quell'anno, vi assicuro che non è facile.
  Occorre, quindi, rimettere in fila queste situazioni. In tal senso, mi interessa sapere da voi che cosa ne pensate. Attorno al tema del valutare chi e del come valutare le cose che avete detto sono di grande interesse. Il problema, però, è chi lo fa e qual è l'interfaccia con le Commissioni, centrali o altro. Chi è il soggetto, il sindaco o l'apicale e l'apicale, a questo punto, che tipo di formazione deve avere ?
  Oggi come oggi, i segretari generali – questa è la grande discussione che è in corso da sempre – sono stati e continuano a essere, ancora una volta, anche nella formazione degli apicali, quelli che devono controllare dal punto di vista formale la pubblica amministrazione, la trasparenza e l'anticorruzione. A me non risulta, però, che in un'azienda privata un dirigente, quando decide una cosa, non debba tener conto della legge e del tema della trasparenza. Da questo punto di vista quel tema, se lo si demanda a una persona, sembra quasi che sia un tema demandabile. Non è demandabile.

  PRESIDENTE. L'Aula è iniziata e non abbiamo molti minuti. Ovviamente, non dobbiamo arrivare a ridosso dell'inizio delle votazioni. Vi chiedo di fare domande puntuali con meno osservazioni.
  Grazie.

  MARILENA FABBRI. Io ho solo una domanda, che potrà essere eventualmente oggetto delle risposte o dei suggerimenti scritti che i nostri esperti ci potranno fornire. Riguarda il tema che era stato posto sul rapporto e l'autonomia fra politica e alti dirigenti.
  Vorrei sapere come mantenere questo aspetto dell'autonomia, sia professionale, sia etica, dei dirigenti rispetto alla politica, considerato che l'accesso e poi la permanenza nei ruoli e nel mondo del lavoro dipende anche dalla scelta delle amministrazioni e della politica.
  Mi chiedevo se, per esempio, sia utile rivedere l'aspetto di un codice etico, o comunque il fatto che questi professionisti, questi alti funzionari o alti dirigenti, abbiano un codice etico di riferimento che li distingua e li separi dalla politica e che ponga loro degli obiettivi che prescindono semplicemente dal loro essere funzionali al raggiungimento degli obiettivi delle pubbliche amministrazioni nelle quali verranno chiamati. Questo in modo che rispondano a valori superiori, che sono quelli indicati anche in Costituzione e nelle nostre norme sull'autonomia e la trasparenza della pubblica amministrazione, ossia la mancanza di conflitti di interesse, l'integrità e via elencando.
  Mi chiedo, quindi, se rivedere questi aspetti possa essere funzionale a un'autonomia che va garantita, oppure se, invece, non vada considerato qualcosa di ulteriore, Pag. 16ovvero la costituzione proprio di una categoria formale distinta e autonoma anche rispetto alle tre Commissioni che poi valuteranno i dirigenti.
  Diversamente, il rischio è che ciascun dirigente tenda poi a salvaguardare se stesso e la propria carriera e che, quindi, sia funzionale agli obiettivi dell'amministrazione nella quale viene chiamato e non anche all'essere garante di una legalità e di una trasparenza all'interno dell'azione amministrativa anche oltre gli obiettivi e le intenzioni dei politici. Occorre, in sostanza, che sia capace di dire anche dei «no» e non sono solo dei «sì» e di indicare i percorsi legali sugli obiettivi dati, ma non necessariamente di inseguire l'obiettivo a prescindere dalla legalità dei percorsi.

  ALAN FERRARI. Grazie anche da parte mia. Mi pare che gli stimoli siano stati tanti. Io volevo chiedere solo una cosa in funzione di come il professor D'Alessio e il consigliere Deodato hanno concentrato le energie e le attenzioni sui dirigenti e delle riflessioni che il professor Hinna ci ha offerto sul sistema di performance del Paese: come collocate nei ragionamenti che ci avete portato il ruolo della Scuola nazionale dell'amministrazione ? Mi pare che sia uno dei luoghi che dovrebbero assumere una funzione significativa dentro un quadro che, a mio avviso – condivido l'impostazione del professor Hinna – va letto in questa logica di centro e periferia.
  Noi stiamo riaffidando a questa importante Istituzione del Paese un compito, che è quello di formare i dirigenti, che dovrebbero leggere i cambiamenti che noi imponiamo al sistema della pubblica amministrazione in termini anche di efficacia e non solo di efficienza con questa riforma. Quello snodo mi pare, quindi, assolutamente significativo. Volevo capire come voi lo collocate rispetto alle cose che avete detto prima.

  TERESA PICCIONE. Ringrazio per tutti i suggerimenti e i nodi che sono stati attenzionati. Su uno, in particolare, vorrei ritornare, ed è quello sulla dirigenza dei tre ruoli unificati. Anch'io ho qualche perplessità sul fatto che il gestire, per esempio, il livello amministrativo degli enti locali – lo vedo bene perché sono anche consigliere comunale – non corrisponde all'essere poi dentro la macchina di un ministero. C’è molta differenza.
  Lo stesso pensiero mi viene a proposito del segretario comunale. Nel mio comune, che è molto grande, trattandosi di Palermo, nonostante ci siano molte figure apicali che curano i loro settori e nonostante le delibere che pervengono in Consiglio comunale, noi ci siamo avvalsi moltissime volte, proprio nel momento in cui si svolgeva il Consiglio, del parere di legittimità, ma anche di guida all'interno della normativa di riferimento, proprio del segretario comunale.
  Come diceva la collega Gasparini, il segretario non ha forse responsabilità che potrebbero essere utili nella gestione delle risorse umane e della programmazione, ma tuttora, a mio avviso, mantiene, soprattutto quando non ci fossero dirigenti apicali, un ruolo fondamentale all'interno degli enti locali, soprattutto dopo la soppressione del Co.re.co, ed è di assoluto supporto al Consiglio comunale stesso per stare nell'alveo della correttezza deliberativa.

  PRESIDENTE. Informo che l'Aula riprende, con votazioni, alle 10, ragion per cui purtroppo abbiamo a disposizione solo dieci minuti. Io invito gli esperti magari a riscontrare le richieste anche per iscritto, accompagnandole alle memorie che consegneranno alla Commissione. Avete – ahimè – circa tre minuti a testa per rispondere a tutte le domande.
  Do la parola ai nostri auditi per la replica, a cominciare dal professor Hinna.

  ALESSANDRO HINNA. Professore associato di organizzazione aziendale presso l'Università di Roma Tor Vergata. Impiegherò anche meno di tre minuti, perché accorperò le domande in un blocco sulla formazione e in un blocco sul rapporto tra politica e amministrazione.
  Il rapporto tra politica e amministrazione è un tema tecnico. Quella separazione Pag. 17è gestibile nella misura in cui ognuno è nel ruolo, politica da una parte e vertici dall'altra, e c’è un terzo indipendente che, per eccezione, gestisce le criticità nel rapporto.
  Ciò significa che c’è, sì, un tema di codice di comportamento sull'amministrazione, ma anche che c’è un tema di codice di comportamento – lo dico perché è una riflessione che la Comunità europea ha fatto a febbraio 2014 rispetto alle politiche di prevenzione della corruzione – della politica. Il tema fondamentale è che i sistemi di valutazione collassano perché la politica alcune volte non pone gli obiettivi. Noi siamo pieni di amministrazioni in cui avviene questo.
  Diventa difficile che qualcuno venga valutato su obiettivi fatti a novembre per dicembre. Tutto il sistema salta, nonostante vi sia stato investito un sacco di soldi. Non è questa l'unica causa, ma questo significa che è nel rapporto reciproco delle parti e nell’internal audit che si gioca quell'indipendenza.
  Tutti i Paesi hanno l’internal audit, vale a dire un soggetto interno all'amministrazione ma indipendente che svolge da garanzia, nell'interesse collettivo, del rapporto tra queste parti. Questo investimento l'abbiamo fatto col decreto legislativo n. 150 del 2009, ma è una strada a metà. Va capito se sia sbagliata o se sia una strada che non abbiamo portato fino in fondo. Secondo me, c’è un tema di governance di quel rapporto, perché con la moral suasion non si va da nessuna parte. Bisogna inventarsi un sistema di governance che riesca a presidiare differenze di questi tipi.
  Il secondo tema è la formazione. Per uno che, come me, si occupa di formazione manageriale avete toccato un tema un po’ caldo. Secondo me, il tema fondamentale è che abbiamo una retorica del management che fa paura. Se guardate i corsi delle scuole nazionali e delle scuole locali, notate che tutto si fa meno che formazione di natura manageriale. Non è banale, perché tale formazione non è sulle conoscenze, ma è sull'allenamento delle capacità e delle attitudini, elemento di valutazione che c’è nel disegno di legge.
  Questo significa che per la Scuola nazionale il primo tema è che manca una policy dalla quale essa deve derivare le sue politiche formative. Lo dico da dentro, perché conosco bene la Scuola, avendoci lavorato tanto tempo. Si autodefiniscono le politiche di formazione ? No, quelle devono fare parte di quella cinghia di trasmissione. Inoltre, la modalità di formazione non può essere quella attuale. Serve un punto di sintesi, ma il dirigente va formato per fare delle cose che finora non ha mai fatto. Questo investimento in formazione, che è radicale nel metodo, noi non ce l'abbiamo. È inevitabile.
  Scusate, ma vorrei solo dirvi quanto sia preziosa questa riflessione. Nel decreto legislativo n. 150 ricorreva, in 47 pagine, circa 94 volte la parola performance e una volta sola la parola «formazione». Poi ci chiediamo perché il sistema non abbia funzionato. Io credo che, in effetti, il tema sia, dopo aver fatto questo disegno, ragionare sulle politiche di formazione.

  CARLO DEODATO, Consigliere di Stato. Riprendo questa osservazione finale del professor Hinna, che condivido assolutamente. Devo dire che nel disegno di legge l'aspetto della formazione continua è molto enfatizzato e valorizzato ed è uno dei punti forti di questa riforma della dirigenza.
  C’è un criterio di delega che prevede la revisione della missione, dell'organizzazione e delle funzioni della SNA. Io credo che il Ministro Madia sia assolutamente consapevole dell'importanza che la Scuola nazionale dell'amministrazione dovrà assumere nel governare questo processo di riforma della dirigenza pubblica, sia sull'aspetto del reclutamento, sia sull'aspetto della formazione continua.
  Il criterio di delega su questo aspetto è generico, perché parla, in generale, di ridefinizione della missione e dell'organizzazione, ma l'obiettivo è chiaramente quello di fare della Scuola la struttura che dovrà governare questo processo di revisione Pag. 18e di riordino della dirigenza sotto il profilo soprattutto dell'acquisizione delle competenze e delle capacità dei dirigenti, che, allo stato, devo dire – in questo ha ragione il professor Hinna – è stato piuttosto trascurato.
  Questo è uno dei punti di forza del disegno di legge del Governo. Io credo che si dovrà lavorare molto nei decreti delegati per fare della Scuola nazionale dell'amministrazione effettivamente l'organo che dovrà gestire questo processo di cambiamento anche della mentalità della dirigenza pubblica, che è uno dei punti di debolezza della dirigenza italiana, di cui si parla spesso, ma che non viene affrontato. Devo dire che la formazione su questo fronte è uno dei punti fondamentali.
  Quanto alle osservazioni più generali sui tre ruoli unificati, io ho già detto che, secondo me, effettivamente questa mobilità piena, così com’è concepita e così come viene prevista, ossia applicabile anche ai dirigenti in servizio, crea delle difficoltà. I dirigenti in servizio sono stati reclutati e si sono formati presso strutture e amministrazioni a livelli di governo molto eterogenei quanto a competenze e a organizzazione rispetto ad altri livelli di governo. La piena mobilità a regime può andare bene, ma per la dirigenza già in servizio rischia di essere problematica. Io ho indicato, quindi, quella soluzione della limitazione al 20 per cento, o comunque a un'aliquota.
  Sul rapporto fra dirigenza e politica il principio della separazione, ovviamente, resta. Non viene modificato da questo disegno di legge. I compiti gestionali restano imputati ai dirigenti e i compiti di indirizzo politico restano riservati alla politica e, quindi, ai vertici politici dell'amministrazione, ossia il ministro, il sindaco e il presidente della regione. Su questo non c’è un'alterazione dell'assetto della ripartizione delle competenze fra dirigenza e politica.
  L'unica osservazione che io ho provato a svolgere, a titolo di stimolo di riflessione – non come critica politica o anche tecnica, ma come stimolo di meditazione sul testo – è che, a mio avviso, da tutto questo disegno la dirigenza esce indebolita, perché ha meno garanzie, meno diritti e meno tutele, ragion per cui è più esposta alla volontà del politico. È uno spunto di riflessione.
  Sull'organizzazione amministrativa dei comuni mi limito a dire che è stata fatta questa scelta politica, credo frutto anche di un compromesso al Senato, perché quello della posizione dei segretari comunali è uno dei punti più delicati.
  Mi limito a dire che le osservazioni che ha fatto la deputata Gasparini sono condivisibili sulle difficoltà applicative. Quando si chiede chi valuta chi, io direi che forse la risposta più coerente con l'ordinamento è che il dirigente apicale venga valutato dal sindaco, vale a dire dal vertice politico-amministrativo dell'ente, mentre il resto della dirigenza venga valutato dal dirigente apicale. Questa dovrebbe essere la fisiologia della valutazione. È ovvio che poi la valutazione va fatta secondo i criteri che diceva giustamente il professor Hinna, ossia criteri rigorosi, stringenti e indipendenti.
  Grazie.

  GIANFRANCO D'ALESSIO, Professore ordinario di diritto amministrativo presso l'Università di Roma Tre. Io non ripeto le cose condivisibili che hanno detto i colleghi. Non mi soffermo sulla formazione. Vi avevo fatto qualche riferimento nel mio intervento iniziale. Io credo che il discorso della Scuola di qualificazione come agenzia che governi efficacemente il sistema sia un discorso molto serio. Questo tema c’è già nella norma approvata dal Senato e forse può essere ulteriormente precisato.
  Quanto agli altri punti, ossia quello del ruolo del segretario comunale e del rapporto tra politica e amministrazione negli enti locali, come diceva giustamente Deodato la soluzione trovata al Senato è considerata una soluzione di compromesso, ma io credo che forse si potrebbe ulteriormente precisare la funzione e il Pag. 19ruolo della figura apicale, per venire incontro alle questioni che l'onorevole Gasparini sottolineava prima.
  Tuttavia, non è tanto questo il problema, né lo è il tema del cambiamento rispetto alla figura del segretario. I parlamentari che sono intervenuti sul tema hanno detto di avere esperienze di amministrazione locale. Già oggi c’è un rapporto fiduciario nella scelta del segretario. Non è questo il problema.
  Io avrei una preoccupazione molto vicina a quella dell'onorevole Piccione, relativa cioè al problema del garantire quella funzione di verifica e di sostegno sul profilo della legittimità, e ne aggiungerei un'altra.
  Voi sapete che l'ANAC, non so se in via ufficiale, ma attraverso i suoi esponenti, ha espresso qualche preoccupazione rispetto agli esiti della riforma per quanto riguarda il ruolo attribuito attualmente dalla legge al segretario in termini di responsabilità per trasparenza e anticorruzione. Forse su questo versante occorrerebbe ulteriormente lavorare e precisare il dato, perché lì può esserci un rischio. Può esserci una perdita rispetto alla situazione attuale.
  Sicuramente va rafforzata l'idea che, confermata la distinzione, nel governo del personale e nella gestione complessiva della macchina amministrativa dell'ente locale l'apicale debba svolgere una funzione compiuta e completa. In merito vengo anche alle osservazioni dell'onorevole Fabbri. Sicuramente le normative non possono più di tanto. Anche le cose che voi avete riportato nascono più dalle prassi. Riguardano tutte amministrazioni compatte, come lo sono le amministrazioni locali, almeno quelle medie o quelle piccole. Forse nei grandi comuni il problema è diverso, ma vedo che è rappresentato anche un grande comune, come quello di Palermo.
  Che cosa trovo positivo nel disegno di legge ? Trovo positiva quest'idea dell'unificazione dei sistemi di reclutamento e anche della mobilità, ma sopratutto l'idea unitaria della dirigenza. Questo può forse aiutare a realizzare anche nel nostro Paese – è un tentativo che negli anni Settanta si è provato a fare, ma senza esiti – un vero e sostanziale corpo dirigenziale che abbia un suo spirito di corpo, una sua cultura comune, una sua visibilità e una sua identità. Questo le norme possono aiutare a farlo. Più sono unitari i sistemi di reclutamento e di formazione, più è unitario l'assetto della compagine, più questo può aiutare contro le frammentazioni del corpo dirigenziale, che sono un fattore di debolezza.
  Certo, i codici etici e un trasparente rapporto con la politica sicuramente aiutano, ma, secondo me, vanno al di là delle norme. Le norme possono aiutare, come dicevo, attraverso l'unificazione dei sistemi di reclutamento e formazione e attraverso la creazione di una cultura comune della dirigenza, ma poi contano i concreti comportamenti anche della stessa dirigenza, che non bada soltanto alla situazione individuale. Le cose che diceva il professor Hinna sulle esigenze di una valutazione dell'efficacia rivolta all'interesse pubblico complessivo mi sembrano molto importanti.
  Aggiungo un'ultima cosa, se posso commentare una considerazione del consigliere Deodato. Io capisco le sue preoccupazioni sulla situazione della dirigenza in servizio. Credo, però, che creare due diversi regimi per i dirigenti in servizio e per quelli che verranno reclutati d'ora in avanti possa essere molto complicato rispetto a tutto il sistema complessivo che si va a costruire degli incarichi.
  Pertanto, credo che l'idea della trasparenza, della pubblicità e del filtro tecnico degli incarichi possa essere una chiave di lettura anche per continuare a valorizzare coloro che hanno maggiore esperienza e qualificazione. Quello che si può perdere sul piano della collocazione in una fascia per quanto riguarda lo Stato si può acquisire sul piano degli incarichi di maggiore rilievo, perché, se i dirigenti devono essere qualificati dal punto di vista tecnico, probabilmente quelli con maggiore esperienza e qualità riceveranno gli incarichi.Pag. 20
  Un'ultima cosa e chiudo su questo aspetto. Mi permetto di commentare anche una considerazione di Alessandro Hinna. Io sono del tutto d'accordo con lui sul problema della qualificazione e del chiarimento del ruolo degli Organismi indipendenti di valutazione e su un raccordo con le Commissioni, tant’è che proporrei addirittura una riflessione al ministro sull'opportunità di coinvolgere le Commissioni anche nel sistema di valutazione che oggi è passato dall'ANAC al Dipartimento della funzione pubblica.

  PRESIDENTE. Ringraziando il ministro Madia per la sua presenza e gli auditi, dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 9.55.