XVII Legislatura

Commissione parlamentare di inchiesta su sicurezza e degrado delle città

Resoconto stenografico



Seduta n. 21 di Martedì 18 luglio 2017

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Causin Andrea , Presidente ... 3 

Audizione del dottor Gianluigi Bovini, già direttore dell'area programmazione controlli e statistica del Comune di Bologna:
Causin Andrea , Presidente ... 3 
Bovini Gianluigi , già direttore dell'area programmazione controlli e statistica del Comune di Bologna ... 3 
Gasparini Daniela Matilde Maria (PD)  ... 9 
De Maria Andrea (PD)  ... 9 
Mannino Claudia (Misto)  ... 9 
Morassut Roberto (PD)  ... 10 
Bovini Gianluigi , già direttore dell'area programmazione, controlli e statistica del Comune di Bologna ... 10 
Causin Andrea , Presidente ... 12 
Mannino Claudia (Misto)  ... 12 
Bovini Gianluigi , già direttore dell'area programmazione, controlli e statistica del Comune di Bologna ... 12 
Causin Andrea , Presidente ... 12 

Audizione del professor Salvatore Settis, accademico dei Lincei:
Causin Andrea , Presidente ... 13 
Settis Salvatore , accademico dei Lincei ... 13 
Causin Andrea , Presidente ... 18 
Morassut Roberto (PD)  ... 18 
Settis Salvatore , accademico dei Lincei ... 19 
Causin Andrea , Presidente ... 20 
Mannino Claudia (Misto)  ... 20 
Settis Salvatore , accademico dei Lincei ... 21 
Causin Andrea , Presidente ... 21 

(La seduta, sospesa alle 13.10, riprende alle 13.30) ... 21 

Comunicazioni del Presidente:
Causin Andrea , Presidente ... 21

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
ANDREA CAUSIN

  La seduta comincia alle 11.35.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Comunico che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche mediante l'attivazione del sistema audiovisivo a circuito chiuso e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati e, in seguito, sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione del dottor Gianluigi Bovini, già direttore dell'area programmazione controlli e statistica del Comune di Bologna.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del dottor Gianluigi Bovini, già direttore dell'area programmazione controlli e statistica del Comune di Bologna, il quale aveva avuto modo, durante la visita che abbiamo svolto nella città metropolitana di Bologna, di darci suggestioni che i componenti della Commissione presenti al sopralluogo hanno trovato assolutamente interessanti.
  Do la parola al dottor Bovini, con riserva per me e per i colleghi di rivolgergli, al termine del suo intervento, domande e richieste di chiarimento.

  GIANLUIGI BOVINI, già direttore dell'area programmazione controlli e statistica del Comune di Bologna. Cercherò in modo sintetico – agli atti rimane la documentazione – di presentarvi quest'esperienza nata a Bologna quando svolgevo il precedente incarico di capo area programmazione controlli e statistica del comune, che aveva l'obiettivo, che si è rivelato successivamente in sintonia anche con il lavoro che state svolgendo, di mappare la vulnerabilità e le opportunità delle aree in cui viene suddiviso il territorio comunale. Ovviamente, il presupposto da cui parte questo lavoro e da cui parte anche la vostra attività, è quello che oggi non si può più definire la periferia nelle aree urbane in un senso puramente geografico. Bisogna tentare, attraverso mappature di indicatori di carattere demografico, sociale ed economico, di vedere quali sono (nel caso di Bologna, nel territorio comunale; nel caso delle aree metropolitane, anche in ambiti più vasti) le condizioni di potenziale vulnerabilità e, naturalmente, le opportunità che si presentano.
  Per tentare di avvicinare quest'obiettivo, abbiamo utilizzato una selezione di indicatori di carattere demografico, sociale ed economico, e abbiamo tentato nella misura più ampia possibile di utilizzare archivi di carattere amministrativo che fossero disponibili con continuità, quindi non solo i censimenti, che pure sono una fonte importantissima, ma che hanno fino a oggi il limite di essere disponibili ogni dieci anni. Abbiamo utilizzato in modo molto sostenuto, come vedrete, l'anagrafe della popolazione, gli archivi delle dichiarazioni dei redditi e altri archivi amministrativi, che hanno anche il vantaggio, almeno nel caso di Bologna, ma potenzialmente replicabile per tutti i comuni, di permettere una disaggregazione territoriale dei dati molto puntuale. Adesso, vi presenterò in modo molto sintetico una serie di mappe che sono state realizzate nello scorso anno. Questo nostro lavoro, nato casualmente, in modo autonomo, si è incrociato successivamente con un lavoro più ampio di carattere Pag. 4 nazionale dell'Istat. Adesso, lo sforzo – io collaboro con Urban@it nell'ambito di un protocollo d'intesa con l'Istat – è di portare quest'esperienza di Bologna in sintonia con il lavoro più ampio, molto pregevole, che Istat ha svolto e che vi è già stato presentato. Nel caso di Bologna, abbiamo tentato di identificare tre forme di vulnerabilità: la vulnerabilità demografica, la vulnerabilità sociale e la vulnerabilità economica. Perché abbiamo attribuito un valore così importante alla vulnerabilità demografica? In questo caso, il ragionamento non vale solo per Bologna, ma per larga parte delle città italiane settentrionali e centrali. Nelle città meridionali il problema si pone in modi diversi, anche se forse più acuti.
  Nel caso di Bologna e delle altre grandi città del centro-nord, la demografia ormai consolidata ci consegna tre tendenze con cui dovremo fare i conti ancora con grande probabilità nei prossimi decenni.
  La prima è una tendenza a un saldo naturale della popolazione, inteso come differenza tra le nascite e i decessi, sistematicamente negativo. A Bologna, questa tendenza è iniziata nel 1973, quindi ormai da 45 anni, e non si è più interrotta. Ogni anno, a Bologna – vi fornisco un dato indicativo per Bologna, ma quello delle altre città (Torino, Milano, Genova, Firenze, Venezia) non è molto diverso – abbiamo circa 3.000 nascite e quasi 4.600-4.700, in alcuni anni, e quest'anno temo che sia il caso, quasi 5.000 decessi. C'è uno squilibrio sistematico tra le nascite e le morti che ormai caratterizza la demografia dei grandi centri urbani e, negli ultimi anni, quella di tutto il Paese.
  L'altro fenomeno, quello della longevità (conseguenza in parte di quello che ho descritto, in parte invece è una grande conquista sociale), è un grado di invecchiamento della popolazione sempre più accentuato. Oggi, nella città di Bologna, ma in tutte le città del centro-nord, quasi un cittadino su quattro si può considerare anziano in termini classificatori, cioè con un'età superiore ai 64 anni. Anche questa tendenza ci accompagnerà per tutta la prima metà del XXI secolo, a meno di eventi imprevedibili e non auspicabili, che potrebbero essere solo guerre o epidemie che modifichino in modo radicale le condizioni di mortalità.
  Avrete forse visto anche voi le previsioni ISTAT a livello nazionale, secondo cui al 2050 in Italia gli anziani, che oggi sono 13,5 milioni, saranno 20 milioni. Avremo un cittadino italiano su tre anziano. Crescerà molto la quota dei grandi anziani, le persone in età superiore agli 80 anni. Già oggi, in una città come Bologna, dove il fenomeno è molto avanzato, abbiamo identificato come una delle condizioni di vulnerabilità la percentuale della popolazione residente con 80 anni e più.
  Abbiamo chiuso questa descrizione con una variabile sintetica, la variazione percentuale della popolazione in un quinquennio. Se c'è un deficit negativo naturale molto forte, l'unica condizione per non avere variazioni della popolazione negative è un saldo migratorio molto positivo. Se non si verifica questo, anche la variazione della popolazione complessiva è negativa.
  Ho cercato di spiegare perché nel caso di Bologna, ma vale per larga parte del territorio nazionale, abbiamo attribuito un valore importante a questo tema della demografia. Purtroppo, la mappa che vi faccio vedere è un po’ locale, ma se conoscete Bologna, il centro storico è al centro della mappa, si vede abbastanza bene la cerchia dei viali, e questa, tanto per intenderci, è Piazza Maggiore. Questa è la città storica. Qui abbiamo la periferia nord, una delle più complesse. C'è poi la periferia occidentale, dove c'è l'aeroporto. C'è la periferia est verso il mare. Qua c'è la tangenziale. Quando passate da Bologna in autostrada, passate da qua. Qui c'è la stazione.
  Questa è la variazione percentuale della popolazione residente. Abbiamo preso non un anno – il dato può essere turbato da circostanze occasionali – ma un periodo più lungo, cinque anni. Come vedete, in larga parte del centro storico, la tendenza è negativa, ma anche in alcune periferie. Questo è il saldo naturale medio annuo nel quinquennio. Anche in questo caso, il rosso più scuro identifica le condizioni più negative da un punto di vista demografico. Pag. 5Come vedete, in questo caso la demografia delle nascite e delle morti è più negativa nelle periferie rispetto al centro storico.
  Questa è la percentuale di invecchiamento della popolazione. A Bologna, abbiamo già il 9 per cento della popolazione sopra gli 80 anni, uno stadio di invecchiamento più avanzato di quello italiano, poiché l'Italia raggiungerà questi valori nei prossimi anni, almeno secondo le previsioni Istat. Come vedete, in questo caso l'invecchiamento è nettamente un fenomeno delle due periferie, la periferia est e la periferia ovest. Il centro storico, dove questo fenomeno era iniziato in precedenza, appare in questo momento, paradossalmente, come l'area più giovane della città. Abbiamo anche tentato, per esigenze di sintesi, di coagulare le informazioni dei tre indicatori in un unico indicatore sintetico di potenziale vulnerabilità demografica, che è quello che vedete: restituisce un'immagine della città per chi la amministra e per chi ha interessi conoscitivi molto netta. Quello della vulnerabilità demografica a Bologna in questo momento è soprattutto un problema delle periferie geografiche.
  Credo che, se queste mappe venissero replicate in tutte le città italiane del centro-nord, gli esiti sarebbero questi, e quindi ritengo – il confronto con voi per me sarà importantissimo – non solo che questa sia un'indicazione di valore locale, in una città che è comunque la settima del Paese, ma che questo metodo possa avere un valore più ampio.
  Abbiamo anche cercato di fotografare un concetto molto difficile e impegnativo, quello della vulnerabilità sociale, anche in questo caso utilizzando il più possibile archivi di carattere amministrativo. Abbiamo identificato una serie di variabili, e adesso tenterò rapidissimamente di spiegare perché abbiamo scelto quelle variabili. Un primo fenomeno che da noi, ma anche nelle altre città, è sicuramente da tenere sotto osservazione per la vulnerabilità sociale è quello delle persone anziane che vivono sole. A Bologna, abbiamo circa 100.000 persone anziane: secondo i dati anagrafici, ma il censimento li ha ampiamente confermati, una persona su tre di queste persone anziane vive sola. Vivere solo non è automaticamente un indice di solitudine effettiva intesa nel senso relazionale, è solo una condizione abitativa, ma purtroppo, soprattutto nel caso di persone molto anziane, è probabile che in alcune di queste situazioni alla solitudine abitativa – in quell'appartamento c'è solo quella persona – si possa associare una solitudine di carattere esistenziale. Sapete che quando parliamo delle condizioni di salute psichiche e fisiche delle persone anziane, il dato relazionale è sicuramente il più importante, quindi ha una valenza sociale e sanitaria amplissima. Abbiamo poi tentato di mappare in modo ampio un fenomeno che, almeno a Bologna, ma anche in questo caso in tutte le città del centro-nord (nelle città meridionali la situazione è diversa), caratterizza la demografia moderna. Bologna ha una crescita della popolazione, anche se lieve, solo perché ogni anno ha un saldo migratorio attivo abbastanza consistente che compensa la differenza negativa. Vi fornisco due numeri per farvi capire le dimensioni dei due fenomeni: ogni anno, abbiamo 3.000 nati, persone che entrano nella cittadinanza per nascita, e mediamente 15.000 immigrati, 9.000 italiani e 6.000 stranieri. Il fenomeno di ricambio della popolazione è a Bologna, in tutta l'Emilia e in larghissima parte del centro-nord, guidato ormai in modo nettissimo dal movimento migratorio. Attenzione, anche qui è chiaro che il dibattito si concentra, soprattutto in queste difficilissime settimane, sul movimento migratorio degli stranieri, ma noi insistiamo: c'è ancora un potente movimento migratorio italiano dal sud e dalle isole verso il nord. Nel caso di Bologna, questa è la componente prevalente. Come vi dicevo, ogni anno arrivano 9.000 cittadini italiani che da altre regioni trasferiscono la loro residenza. Che cosa significa? Significa una demografia che noi tecnici chiamiamo «molto veloce». Per effetto di queste tendenze, che sono consolidate, se verranno, come credo, confermate nel tempo, Bologna ha un altissimo tasso di ricambio della popolazione, cioè praticamente ogni quindici anni il 50 per cento della popolazione, Pag. 6per effetto delle nascite, ma soprattutto del movimento migratorio, cambia completamente.
  Abbiamo mappato il fenomeno del ricambio della popolazione italiana, della popolazione straniera comunitaria e della popolazione straniera extracomunitaria. Al di là del dibattito più emotivo, che giustamente al di fuori di questi sedi prevale – qui, però, siamo in una sede per quanto mi riguarda tecnica, e ovviamente per voi politica – è chiaro che un movimento migratorio molto intenso pone problemi continui di costruzione della coesione sociale, perché la popolazione cambia in continuazione. Abbiamo mappato il fenomeno delle seconde generazioni straniere, la percentuale della popolazione residente straniera in età tra 0 e 19 anni. Abbiamo mappato un indicatore di capitale umano, in questo caso verso la scala – speriamo – positiva: la percentuale dei laureati in età tra i 25 e i 44 anni sulla popolazione totale. Abbiamo mappato il fenomeno dei minori che vivono in famiglie con un solo genitore, fenomeno ampio, perché le tendenze attuali delle forme familiari portano in diversi casi a presenze di un solo genitore, in prevalenza la madre, ma in alcuni casi anche il padre. Abbiamo mappato anche un fenomeno che a Bologna, in quanto città universitaria, è molto consistente in alcune zone: la percentuale di abitazioni non occupate da residenti. Che cosa significa non occupate da residenti? Significa che sono sfitte, ma il fenomeno dello sfitto in ambito urbano, visti i valori di mercato, non è patologico, non è irrazionale, non ha mai superato soglie «non fisiologiche»; sono però soprattutto abitazioni occupate da popolazione presenti per motivi di studio e di lavoro. A Bologna, abbiamo 40.000 studenti universitari fuori sede, che in larga parte occupano queste abitazioni.
  Trovate dopo l'insieme delle mappe che descrivono questi fenomeni. Io non vi annoierò, anche perché il mio tempo non lo consente, giustamente, ma vi mostro questa mappa: nel caso dei nuclei monogenitoriali, come vedete, il problema è molto più accentuato nel centro storico e in alcune fasce di prima periferia. In questo caso, la vulnerabilità sociale è una vulnerabilità se lo interpretiamo in questo senso.
  Le mappe successive fanno vedere come i modelli di insediamento della popolazione italiana che arriva a Bologna, della popolazione extracomunitaria (nella realtà di Bologna in prevalenza cittadini della Romania) ed extracomunitaria, che invece arrivano da tutto il mondo, siano molto diversi. Abbiamo anche una specializzazione territoriale delle varie zone del comune rispetto a questi flussi migratori: la popolazione italiana tende di più a insediarsi nel centro storico cittadino, e quest'immagine lo fa vedere; le dinamiche della popolazione comunitaria ed extracomunitaria investono di più le periferie. Nel caso della popolazione extracomunitaria, alcuni di voi quando sono venuti a Bologna hanno visto queste zone: il quartiere più investito da questa dinamica è quello a nord della stazione, la Bolognina, che ha ormai una percentuale di popolazione extracomunitaria che si avvicina a un quarto. Come vedete, andare nel profondo delle dinamiche urbane mostra anche realtà territoriali molto differenziate.
  Questa mappa mostra, invece, la popolazione residente stranieri in età tra 0 e 19 anni sulla popolazione totale: a Bologna, abbiamo in quella fascia d'età un cittadino su cinque straniero e, come vedete, in alcune zone, sempre in questo caso nella zona nord (Bolognina, ma non solo) la percentuale supera il 32 per cento. Abbiamo zone della città in cui un terzo dei giovani fino a 19 anni ha cittadinanza straniera, poi magari sono ragazzi, bambini, bambine nati a Bologna, che vivono a Bologna, ma formalmente hanno ancora questa cittadinanza.
  Questo è un indicatore di capitale umano, la percentuale dei laureati: come vedete, in questo caso i valori più bassi sono quelli scuri, e abbiamo altissime percentuali dei laureati nel centro storico e percentuali molto più basse in tutte le zone periferiche, quindi il fenomeno è molto differenziato.
  Questi sono i minori in famiglie monogenitoriali. Qui prevale, come nel caso degli anziani soli, la dimensione del centro storico rispetto a quella delle periferie. Queste Pag. 7sono le abitazioni non occupate. Anche in questo caso, prevale il centro storico per la massiccia presenza di studenti e lavoratori fuori sede.
  Qui abbiamo una sorpresa. Mentre la vulnerabilità demografica era un problema delle periferie intese nel senso classico, cioè delle zone più distanti dal centro storico, se mixiamo tutte queste indicazioni di fragilità sociale, vediamo che il centro storico in alcune sue zone consistenti – questo è il quadrante dove c'è l'università, per chi conosce Bologna magari anche per quel motivo – presenta condizioni di vulnerabilità sociale comparabili a quelle delle periferie geografiche. Questa è una conferma di come ormai vedere la periferia in senso geografico, se ci occupiamo di queste questioni, non abbia più senso, e anzi sia pericoloso. Come vedete, infatti, la vulnerabilità sociale, nella nostra città almeno, è più bassa nelle periferie, che hanno invece un problema demografico, e più alta nel centro storico.
  Infine, e concludo con l'esposizione, abbiamo preso la terza dimensione, quella della vulnerabilità economica. Abbiamo usato alcune variabili che riteniamo indicative, almeno per la nostra conoscenza della situazione, della situazione economica della popolazione. Una prima variabile, disponibile in questo caso solo in occasioni censuarie – nel progetto di censimento permanente, però, di cui credo il presidente Alleva vi abbia parlato, il dato può diventare disponibile da adesso in avanti con continuità – abbiamo preso la percentuale delle abitazioni occupate in affitto. Sicuramente, da un punto di vista economico, essere in affitto, non per tutti ma per molti, è un fattore di fragilità economica. Molti dati, anche quelli che abbiamo elaborato in sede locale, mostrano una correlazione inversa tra il reddito disponibile e la situazione d'affitto. Di solito, le famiglie in affitto sono più povere di quelle in proprietà. Abbiamo fatto elaborazioni abbastanza accurate su questo e abbiamo visto questa realtà.
  Abbiamo poi un'esperienza locale, ma replicabile: da anni, elaboriamo in modo molto dettagliato l'archivio delle dichiarazioni dei redditi, messo meritoriamente a disposizione dei comuni anche per fini statistici dal ministero e dell'Agenzia delle entrate, e siamo quindi in grado di mappare la percentuale dei contribuenti. Nel 2014 – il collega che mi ha sostituito, il dottor Chiarini, che sta proseguendo questo lavoro, sta aggiornando i dati al 2015 – avevamo un valore pari al 60 per cento del reddito mediano a Bologna di 11.746 euro. Questa è la percentuale della popolazione con un reddito inferiore al 60 per cento della mediana, che in ambito europeo viene ritenuto un segnale di possibile non povertà nel senso duro del termine, ma di disagio socio-economico sì. Attraverso ricostruzioni anagrafiche, riusciamo a vedere questa situazione non solo per gli individui, ma per le famiglie.
  Le mappe sono queste. Come vedete, anche in questo caso la percentuale di abitazioni occupate in affitto – attenzione, in questo caso non da studenti, ma da residenti – è più alta nel centro storico, quindi abbiamo situazioni di potenziale vulnerabilità economica più elevate nel centro storico rispetto alle periferie. Bologna, sotto quest'aspetto, forse è una città molto particolare: nelle periferie abbiamo tassi di proprietà delle abitazioni da parte della popolazione anziana altissime. Non so in questo caso nelle altre città che cosa succeda, ma da noi questo è stato un grandissimo ammortizzatore sociale nella crisi. La popolazione anziana che magari non aveva redditi elevatissimi, ma abbastanza costanti, con la proprietà della casa è riuscita tutto sommato a passare questi anni non dico indenne, ma con un disagio contenuto.
  Questa è la mappa dei redditi. Come vedete, in questo caso invece il centro storico emerge come la zona a maggiore disponibilità economica. Abbiamo situazioni più problematiche come percentuale di popolazione sotto il 60 per cento della mediana nelle periferie, soprattutto nella periferia settentrionale, quella dove si concentra di più in questo caso il disagio economico. Questa è la stessa mappa vista per le famiglie. Come vedete, in questo caso anche nel centro storico, se si passa dagli Pag. 8individui alle famiglie, emergono situazioni di potenziale vulnerabilità economica.
  Questo è un indice sintetico della potenziale fragilità economica. Mettendo a regime tutte le informazioni, ancora una volta viene fuori un'immagine della città non banale. Come vedete, il centro storico in alcune zone ha un indice di fragilità economica alta, mentre le periferie – questa è la periferia orientale – sono molto vecchie, ma molto meno vulnerabili da un punto di vista sociale ed economico. Naturalmente, questo è il lato problematico della questione.
  Abbiamo tentato, ovviamente su mandato dell'amministrazione, di mappare le condizioni di potenziali vulnerabilità. In tutte queste zone, per fortuna, in tutte le città e anche a Bologna, ci sono molte opportunità. Abbiamo problemi, ma anche possibilità di soluzione. Accanto a questa mappa delle vulnerabilità abbiamo predisposto – il lavoro si sta sviluppando – anche una mappa delle opportunità. Che cosa si intende per opportunità? Quello che avete chiesto all'Istat: mappare i servizi pubblici esistenti.
  Ho visto l'ultima comunicazione, mi pare in maggio, qui da voi, e Istat vi ha presentato una mappa degli ospedali con pronto soccorso, anche pediatrici; soprattutto, una mappa, anche se ancora in corso di perfezionamento, di tutti i servizi scolastici. Per Bologna abbiamo fatto esattamente lo stesso lavoro, non solo sui servizi educativi e scolastici, che per fortuna da noi sono una realtà consolidata e anche molto diffusa, ma anche sui servizi socioassistenziali per gli anziani, sui servizi culturali e sportivi. Se, ad esempio, adesso andate sul sito della città, il sito della rete civica «Iperbole», vedete una mappa di tutte le opportunità culturali che è stata sovrapposta a questo lavoro che vi ho fatto vedere. Abbiamo tentato di vedere anche quest'aspetto, per iniziativa dell'assessorato competente.
  Naturalmente, ma qui siete voi che ne avete molta più conoscenza di me, ci sono tutti i progetti di riqualificazione urbana, in parte anche finanziati col piano sulle periferie, interventi di sostegno economico, politiche attive del lavoro. Non parliamo solo di problemi, ma anche di opportunità, e quindi di possibilità di soluzione, che in molti casi per fortuna stanno funzionando per attenuare i problemi.
  Gli sviluppi di questo lavoro sono quelli che vi ho già descritto, e concludo veramente: tentare di incrociare questa nostra esperienza, che, pur avendo un valore metodologico replicabile, era nata in ambito locale, con il lavoro Istat, che in qualche modo abbiamo incrociato nello stesso tempo, ma di cui siamo venuti a conoscenza successivamente. Istat ha proposto una mappa di variabili che in parte si sovrappone a quelle che vi ho fatto vedere, in parte le amplia. Non vi farò tutti gli incroci, che però mi sono segnato. Riteniamo, almeno per quanto ci riguarda, che dal lavoro di Istat, che ovviamente sono i nostri maestri, emergano indicazioni importantissime. Attualmente, l'amministrazione integrerà questo lavoro, e lo sta già integrando, con le variabili mappate da Istat. Vi cito solo due esempi.
  Istat propone nella demografia la densità: in ambito urbano non l'avevamo messa, perché tutta Bologna è abbastanza densa come popolazione, ma sicuramente andando in ambiti più vasti la densità è un valore molto importante. Istat propone – lo avete visto – un indice di centralità, che mostra le zone che attraggono molti pendolari, sicuramente un indice di forza di una zona importantissima, e altre variabili sociali ed economiche che qui non ho descritto, ma che voi avete visto. Adesso, nell'ambito di questo protocollo Istat – Urban@it, a cui collaboro come esperto di urbanità, lo sforzo è di integrare queste informazioni.
  Concludo con un mio giudizio sintetico, ovviamente da tecnico, quindi discutibile. Ritengo che a questo punto per merito del lavoro di Istat, che non riguarda la città, ma tutte le 14 città metropolitane, gli elementi che la statistica ufficiale poteva mettere a disposizione per mappare questo fenomeno comincino a emergere con una certa nettezza. In prospettiva, con il censimento permanente, il progetto «Archimede», queste informazioni saranno disponibili con continuità, e quindi credo – il Pag. 9giudizio è adesso un po’ di parte, perché sono uno statistico – che la statistica abbia tentato di fare il suo mestiere. C'è un limite in questi esercizi, e concludo con questa nota autocritica – accanto ai meriti, devo essere consapevole anche dei limiti della tecnica a cui appartengo – qui non si vede quella che forse è la vulnerabilità più pericolosa che la statistica non è in grado di misurare, almeno al momento attuale, non so se ci riuscirà mai, che io chiamo vulnerabilità relazionale. Noi siamo in grado come tecnici di dirvi quante sono le persone anziane che vivono sole in un appartamento – è un indicatore importante – ma non di dirvi qual è la situazione di reale relazione sociale, e quindi di solitudine effettiva di quelle persone. Credo che su quest'aspetto ci sia ancora molto da lavorare. Questi aspetti di vulnerabilità sono importanti, ma a mio avviso nelle città moderne quello della vulnerabilità relazionale e della solitudine può essere anche forse il problema più pericoloso, e per voi, che avete responsabilità politiche altissime, anche più impegnativo e difficile da affrontare.

  DANIELA MATILDE MARIA GASPARINI. L'ha già detto alla fine, ma mi sembra molto interessante per il lavoro della Commissione. Ho visto che Istat ha pubblicato adesso sul suo sito tutte le mappe delle 14 città metropolitane. Lei dice che state collaborando come Urban@it. Una delle cose che ci siamo chiesti è stata come restituire, dopo questo lavoro, a ogni città metropolitana un quadro. Il tema è mappare sì, mappare no, ma mi pare che il lavoro che state facendo potrebbe essere una cosa importante da restituire alle Città metropolitane. Emerge, però, un secondo aspetto dal suo intervento, e mi sembra interessante capire, visto che il comune di Bologna è stato promotore di quest'iniziativa, se li ha autorizzati in questa maniera: i dati che lei porta e l'analisi mi portano a dire che in realtà quello che dovremmo analizzare è il sistema del welfare prima che altro. Quando ci sono anziani soli o minori soli collocati in un posto, si tratta di capire quali servizi sono necessari per evitare il tema relazionale, o comunque il disagio sociale. Mi interessa capire se il comune di Bologna di questo lavoro ha fatto motivo di ripensamento. Mi rendo conto sempre di più che in questo Paese stiamo facendo molte cose, ma alla fine non abbiamo ripensato il sistema del welfare. Mi ha preoccupato. Non avevo chiara questa cosa e mi viene voglia di capire che cosa succede, ad esempio, alla città in cui abito. Se ogni quindici anni si ricambia il 50 per cento della popolazione, mi sono detta che probabilmente il non voto di molti cittadini è legato anche a questo, agli enti locali ad esempio. È un dato allarmante che non si vada a votare per il proprio sindaco.
  Mi viene anche da dire – questo non c'entra con la Commissione, ma siccome lo penso, lo voglio dire – che le elezioni da parte delle popolazioni straniere comunitarie, e non, che vivono in una città per molti anni è un tema che si pone rispetto alla coesione sociale. Se questi sono dati che allarmano, immagino un amministratore. Mi interessa capire, quindi, se a Bologna e in Urban@it avete fatto riflessioni su questo versante.

  ANDREA DE MARIA. A me interessa quest'aspetto, se ci avete riflettuto, o comunque può essere oggetto di approfondimento: ci possono essere parametri per valutare il rapporto tra cittadini e istituzioni pubbliche, che nella nostra realtà ha una storia di particolare valore, è un rapporto particolarmente importante, forse come in altre realtà del Paese, in una fase oggi di maggiore difficoltà?
  Immagino almeno, per esempio, la partecipazione al voto, ma forse anche l'accesso ai servizi pubblici, a momenti di partecipazione pubblica, anche magari incrociando le dinamiche della partecipazione al voto con gli elementi di fragilità che vengono segnalati, forse anche gli stessi risultati del voto, ma è chiaro che qui andiamo in un settore meno istituzionale. Perlomeno il tema della partecipazione al voto potrebbe essere interessante.

  CLAUDIA MANNINO. Vorrei che mi fosse spiegata una cosa. I dati statistici in urbanistica sono l'ABC per avviare qualsiasi Pag. 10tipo di programmazione dei piani regolatori, dei piani di gestione del suolo. Mi piacerebbe una sua opinione: questa modalità di analisi dei dati può essere considerata un nuovo strumento, o forse l'unico nuovo strumento da utilizzare in termini di pianificazione?
  Di conseguenza, visto che lei parlava di vulnerabilità relazionale, ma anche dei progetti che la città di Bologna ha messo in atto con i bandi sulle periferie, non potrebbe essere interessante, se non lo state già facendo, valutare questi indici prima e dopo la realizzazione di questi progetti? Servirebbe a capire se lo strumento utilizzato dal bando ha risolto un problema o non è intervenuto minimamente su questi fattori. Credo possa essere interessante fare questa valutazione. L'Istat, che comunque è un vostro interlocutore o uno strumento con cui vi confrontate, è intenzionata a utilizzare questo modello in maniera standard per le pubbliche amministrazioni, o la città di Bologna ha quest'obiettivo?

  ROBERTO MORASSUT. Ho due domande molto puntuali.
  Dai dati a vostra disposizione, considerando che c'è la ricerca generale dell'Istat che ha citato, c'è un dato che riguarda gli standard della città di Bologna esistenti, programmati, e un indice percentuale di produzione dell'edilizia residenziale pubblica rispetto al prodotto generale annuo, alla media generale annua? In una città, che da questo punto di vista è una città leader per la qualità e per le caratteristiche della produzione di edilizia residenziale pubblica, serve a capire come questo elemento si leghi al tema della periferia, dei livelli di tenuta sociale, di sicurezza, e agli indici degli standard.

  GIANLUIGI BOVINI, già direttore dell'area programmazione, controlli e statistica del Comune di Bologna. Vi ringrazio per le domande, tutte molto importanti, nel senso che toccano questioni decisive.
  In questa fase della mia vita non rappresento neppure più l'amministrazione – ero un dirigente fino al 31 dicembre – quindi esprimo pareri spero assennati, ma di carattere personale. Intanto, fornisco un dato tecnico.
  Il lavoro di Istat che ho visto, quello recentissimo, è molto importante. Istat era partita con Roma e Milano: oggi, per tutti sono disponibili sul Web mappe molto ampie, molto complete, per tutte le 14 città metropolitane italiane, potenzialmente replicabili per tutto il territorio nazionale. I dati ci sono. Credo che il colpo di avvio di un dibattito pubblico impegnativo sia stato dato. Credo che tutti i soggetti responsabili si possano confrontare con questi schemi. Questo è veramente il mio parere personale, e rispondo al primo intervento dell'onorevole Gasparini: la sfida che la demografia italiana, ma più in generale la demografia europea – parliamo, però, di quella italiana – pone al sistema del welfare è enorme. L'insieme cumulato dei cambiamenti che vi ho descritto, il saldo naturale negativo, il fortissimo invecchiamento della popolazione, con una prospettiva tra l'altro per i prossimi cinquant'anni, e il movimento migratorio impetuoso, non solo straniero, ma anche italiano, che sta depauperando gravemente il Meridione – gli effetti sono, ovviamente, molto gravi nel Meridione – pongono veramente al sistema del welfare una sfida molto alta. Vi faccio solo un esempio per farvi capire. Questo può essere un dato specifico del centro-nord, ma comincia a riguardare anche il sud. A Bologna, ma in tutta l'Emilia e in larghissima parte dell'Italia centro-settentrionale, per effetto del violento crollo che c'è stato delle nascite, della bassissima natalità, ormai consolidata da quasi mezzo secolo, abbiamo una quota significativa di popolazione oggi adulta, nel senso di oltre i cinquant'anni, quindi teoricamente, salvo eccezioni, non più in grado di avere figli, che non ha mai avuto figli o che ha avuto un solo figlio. Questa popolazione, almeno secondo i modelli ufficiali, è in larghissima parte, per sua fortuna – spero di far parte del contingente – destinata a diventare longeva. La speranza di vita, come sapete, in Italia è 81 anni in media per gli uomini e 85 per le donne, quindi siamo su valori mondiali. Dobbiamo renderci conto che, quando quella popolazione sarà in quella Pag. 11situazione anagrafica, e tutti ci auguriamo di partecipare all'impresa, in molti casi non ci saranno figli, perché o non ci sono mai stati, non sono nati, o magari c'era un solo figlio, e con le attuali dinamiche del mercato del lavoro sapete che la probabilità che quel figlio sia lì è molto più bassa. Non mi inoltro nell'argomento, ma credo di essere già stato chiaro. Un modello di welfare, ad esempio, di intervento socioassistenziale verso gli anziani basato prevalentemente sulle reti familiari verrà completamente spiazzato da quella dinamica demografica. Su questo non ho nessun dubbio. Per quanto mi riguarda, tecnicamente credo che il problema sia già lì, e quindi, sì, bisogna ripensare integralmente il sistema del welfare. Il comune di Bologna ha tentato di vedere questi problemi, li sta affrontando, ovviamente con le difficoltà di tutte le amministrazioni. Da un punto di vista tecnico, il progetto più ambizioso è quello di arrivare a una visione integrata degli interventi di welfare, cioè tentare di capire attorno a ogni nucleo, a ogni individuo quali sono gli interventi che si addensano. Purtroppo, oggi abbiamo una visione verticale del welfare, ognuno vede il suo pezzo. In questo modo, è molto difficile avere un welfare efficace, e uso un eufemismo. Qui, purtroppo, c'è anche un tema nazionale, perché adesso il comune sta tentando di organizzare i suoi dati in questo senso e c'è già un progetto in corso, ma a un certo punto bisogna vedere anche quello che fa l'Inps, che è il grande agente non solo previdenziale, ma anche assistenziale. Secondo me la sfida che la demografia pone al welfare è molto impegnativa.
  La seconda considerazione, anche questa di carattere personale, è che credo da cittadino, per quello che vedo, che il tema dell'astensionismo stia diventando un grande tema di democrazia. Anche in una realtà come quella di Bologna, che tradizionalmente nell'Emilia aveva percentuali di popolazione al voto molto alte, le ultime consultazioni, alcune anche in modo clamoroso, hanno evidenziato una caduta verticale di quest'indice. Come comune, abbiamo fatto analisi anche sovrapponibili a queste mappe di quel fenomeno solo per quanto riguarda l'astensionismo, poi i politologi possono anche interpretare i dati elettorali più dei voti validi, ma rimaniamo al dato più neutro, più trasversale, quello dell'astensionismo. Abbiamo visto che c'è una lieve differenza di genere, le donne si astengono lievemente più degli uomini, ma questo è motivato dalla composizione per età della popolazione, perché le donne sono più vecchie, e quindi è giustificabile che ci sia un astensionismo leggermente più alto. Poi ci sono modelli di astensionismo territorialmente molto diversificati. Personalmente, ma questo è un parere da cittadino, ritengo che i poteri pubblici si debbano porre un problema in primo luogo conoscitivo di questo fenomeno. I dati ufficiali ci sono tutti, si possono benissimo elaborare e, se ho capito bene lo spirito della domanda, anche sovrapporre a queste mappe, per vedere come queste influenzano anche il rapporto dei cittadini con l'amministrazione. Credo che lo influenzino potentemente, se volete una mia opinione. Descrivendo una situazione così diversificata, sarebbe strano che non avesse degli impatti.
  Quanto alla domanda sull'edilizia popolare, a Bologna abbiamo circa 12.000 alloggi di edilizia pubblica su un patrimonio abitativo complessivo occupato dai residenti di 180.000 alloggi. La percentuale è, nella media italiana, alta, siamo attorno al 7 per cento, ma chiaramente, soprattutto in questi anni di crisi, è insufficiente. Anche da noi, ogni volta che si apre un bando per partecipare ad alloggi di edilizia pubblica, il numero delle domande è ampiamente superiore a quello degli alloggi disponibili. Sicuramente abbiamo un problema. Adesso speriamo, se veramente verremo fuori da questa situazione di crisi, che anche le difficoltà di rapporto economico tra le famiglie del mercato abitativo si attenuino, e che questo fenomeno si possa contenere.
  Rispondo adesso all'ultima osservazione della parlamentare Mannino.
  Personalmente, credo che questi dati, una volta sottoposti a un dibattito pubblico che ne certifichi la validità non solo tecnica, ma anche sostanziale... Sono uno statistico, ma ritengo che il vero giudizio sulla Pag. 12validità dei dati statistici debba essere dato dagli stakeholder, nel senso che un dato statistico è buono quando gli stakeholder lo giudicano sensato e utilizzabile nei loro processi.
  Se, come mi pare stia avvenendo, si arriverà, e questa Commissione è un luogo importantissimo – siete voi che avete sollecitato questo lavoro dell'Istat – a un giudizio condiviso sull'utilità di questi dati, allora ritengo che la statistica ufficiale, ma credo che questo sia il disegno di Istat, sicuramente lo farà, almeno credo, il comune di Bologna, che non li ha fatti una tantum, ma per vedere anno dopo anno come cambia questa situazione. Non a caso, abbiamo scelto indicatori replicabili con continuità, quindi non disponibili. Sicuramente, a quel punto, la domanda sarà: se in quella periferia, in quell'area, siamo intervenuti in modo consistente, con progetti pubblici, progetti privati, risorse di tutti i tipi, e la situazione di vulnerabilità non è cambiata, forse qualcosa non ha funzionato. Credo che sicuramente il vero senso di quest'operazione non sia una descrizione occasionale, ma una descrizione sistematica e una sovrapposizione tra questa descrizione sistematica e gli esiti delle politiche, che, almeno per la realtà che ho visto io – sono sempre stato un dirigente pubblico locale – sono mirate a specifici insiemi territoriali.
  Concludo dicendo che a mio avviso queste mappe ci debbono, almeno per me è stato così, far capire una cosa: oggi parlare anche di una città non enorme come Bologna in modo indifferenziato non ha più senso. Come avete visto, dentro una città anche molto meno complessa di Roma da un punto di vista urbanistico, demografico e sociale, si nascondono tante città. Purtroppo quindi il compito dei politici nazionali e degli amministratori locali è molto difficile, perché non si possono usare schemi precostituiti. In ogni territorio bisogna intervenire cogliendone le specificità in termini di problemi e di opportunità. Spero di aver risposto alle vostre domande.

  PRESIDENTE. La ringraziamo molto. Penso che il suo sia un contributo molto importante, di cui la Commissione farà tesoro anche per la relazione finale.

  CLAUDIA MANNINO. Ho una curiosità, non conoscendo la vostra realtà: in quante persone e in quanto tempo avete fatto queste analisi? Domandaccia.

  GIANLUIGI BOVINI, già direttore dell'area programmazione, controlli e statistica del Comune di Bologna. Il lavoro che vi mostro è partito a giugno dello scorso anno, del 2016. C'è stata anche una preoccupazione politica, legata anche alle dinamiche elettorali, che avevano mostrato pure a Bologna, nelle aree più critiche, dei segnali. Sono uno statistico, leggo come tutti voi tutti i sondaggi, ma l'unico sondaggio di cui mi fido è il voto, e credo che quando l'elettorato vota, le indicazioni vadano prese molto sul serio. Il comune ha tentato di interpretare quelle dinamiche, ci ha commissionato questo lavoro. Io ero in quel momento responsabile dell'area, ho lavorato assieme a un collega dirigente, il dottor Chiarini, bravissimo, che adesso lo sta proseguendo, e a dei funzionari: nel giro di alcuni mesi lo abbiamo chiuso. Poi è stato un po’ perfezionato, ma a dicembre, sostanzialmente si è concluso. Avevamo un vantaggio: elaboravamo e utilizzavamo tutte queste basi dati da molto tempo, c'era una cultura statistica consolidata, che non si può creare dal nulla. Il grande vantaggio di questo lavoro è che adesso in pochi giorni ogni anno si aggiorna, nel senso che gli archivi sono ripetibili e disponibili.

  PRESIDENTE. Ho dimenticato una cosa importante in apertura. Come sapete, avevamo calendarizzato l'audizione in Commissione del Ministro dell'interno Marco Minniti, che purtroppo non ha potuto essere presente. Oggi, come potete immaginare, sta gestendo qualche emergenza di non facile soluzione, ma avremmo individuato come data – lo definiremo nell'Ufficio di presidenza – mercoledì prossimo venturo, 26 luglio, alle ore 14.00. Ci tenevo a dirlo, visto che siete anche numerosi in questo momento, perché possiate appuntarvi la data. Pag. 13
  Ringrazio il professor Bovini e dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione del professor Salvatore Settis, accademico dei Lincei.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del professor Salvatore Settis, accademico dei Lincei, che ringrazio per aver accolto l'invito della Commissione.
  Do la parola al professor Settis, con riserva per me e per i colleghi di rivolgergli, al termine del suo intervento, domande e richieste di chiarimento.

  SALVATORE SETTIS, accademico dei Lincei. Vorrei ringraziare per quest'invito e scusarmi di aver chiesto un rinvio, dovuto a problemi familiari dolorosi.
  L'angolo visuale da cui posso parlare del tema di cui vi occupate non è da urbanista, perché non lo sono; non è da sociologo, perché non lo sono. Sono un archeologo, uno storico dell'arte, che si è occupato anche di paesaggio e di paesaggio urbano di città da un angolo visuale prevalentemente di natura storica e comparativa. Le mie competenze sono quelle che ho velocemente enunciato. Di quello che penso ho dato qualche saggio in un libro recente, pubblicato da Einaudi alcuni mesi fa, Architettura e democrazia.
  Tendo ad affrontare, dunque, ogni tema, ma anche questo, in una prospettiva storica e comparativa e ritengo che il problema delle periferie non si possa affrontare senza affrontare quello più vasto delle città, anzi il problema delle periferie è il cuore del problema delle città, e questo a scala non italiana, ma mondiale. Diciamo tutti che le periferie sono brutte, ma evidentemente non basta. Non si tratta di un problema solo estetico o architettonico. Sappiamo tutti che le periferie sono mal progettate, ma non è soltanto un problema urbanistico. Cerchiamo di nascondere il carattere delle periferie in alcune città, compresa Roma. Alcuni quartieri periferici sono stati battezzati con parola eufemistica «centralità», che vuol dire il contrario delle periferie. Tutto questo rivela l'importanza del problema.
  Le periferie, in sé considerate nel loro contesto, sono un problema chiave per la tenuta di un Paese, della sua economia e persino della democrazia. Elementi dell'equazione sono non soltanto l'architettura o la struttura urbana delle periferie, ma anche la qualità dei trasporti, le interconnessioni, i luoghi della socialità, punto sul quale tornerò, e il tema del lavoro.
  In questi tentativi che ho fatto, ripeto da cittadino, di ragionare su questi temi in senso anche comparativo, mi pare di poter ravvisare tre processi in atto nella trasformazione del modello mentale di città che abbiamo, un modello che si muove verso una crescente omogeneizzazione. È come se, a petto della straordinaria varietà e diversità della città nella sua storia – una città cinese era immediatamente riconoscibile da una francese, una francese molto facilmente riconoscibile da una italiana persino all'interno dell'Europa – oggi tendessimo a un modello mentale di città unico, omogeneizzato, che si basa su tre fattori standard di sviluppo.
  Da un lato, c'è la retorica della megalopoli, l'ingrandimento smisurato di alcune città, fino ai 40 milioni dell'aggregato di Tokyo, ma ce ne sono anche di 20 o 30 milioni; la megalopoli è il modello occulto di questo urban sprawl, di questa città che si estende, che si espande all'infinito e che anche in Italia ha le sue manifestazioni, per esempio nella pianura padana, ma anche nell'asse Roma-Napoli.
  Il secondo fattore, dopo quello della megalopoli, è la verticalizzazione delle architetture, la retorica del grattacielo come simbolo della modernità. Ne abbiamo esempi anche in Italia, per esempio a Milano. Rischiamo di dimenticare che fare grattacieli oggi non vuol dire imitare i grattacieli di New York o di Chicago di inizio Novecento, ma imitare Dubai e le neomegalopoli cinesi.
  Infine, l'elemento più essenziale, che s'intreccia con gli altri ma ha più a che vedere, ma si intreccia con gli altri, col tema delle periferie, è la formazione di ghetti urbani, cioè la suddivisione interna delle città. Pag. 14
  Quello a cui stiamo assistendo credo si possa definire molto sinteticamente e narrativamente come una rivoluzione dei confini urbani: uno sviluppo confuso e incontrollabile, che, a quel che sembra, segna un mutamento radicale. Riassuntivamente, questo mutamento si può descrivere come la fine, la morte dei confini della città, e l'insorgere, il moltiplicarsi dei confini nella città. Le mura che segnalavano il passaggio dalla città alla campagna non ci sono più. In molte città d'Italia ci sono ancora, ma non si vedono più, a meno che non si tratti di città che hanno la fortuna di sorgere su un cocuzzolo, nel qual caso magari la forma si vede da lontano, mentre sempre si vedono invece i confini interni. Il perimetro delle mura, che segnava i limiti, il graduale e armonico trapasso dallo spazio urbano alla campagna, non ha più la sua antica funzione, e perciò la città storica, insieme con i suoi confini, deve essere la chiave di accesso per pensare le periferie. Anziché affrontare il tema delle periferie – sto parlando a livello non soltanto italiano – si assiste dappertutto a una sorta di periferizzazione del centro storico, al tentativo di assimilare il centro storico alla periferia piuttosto che di riscattare le periferie in nome dell'esperienza storica che è il nostro patrimonio di esperienza e di memoria.
  Non ho trovato statistiche attendibili su quanta parte della popolazione italiana viva oggi in periferia. Nella letteratura che ho potuto raggiungere, si va da una valutazione del 25 fino al 50 per cento della popolazione residente in Italia, che include naturalmente gli immigrati, che risiederebbe in periferia. Una parte di questa popolazione, che non saprei valutare, non esce mai da quelle periferie, o quasi mai. L'immagine della città che ogni italiano si portava nel cuore fino a pochi decenni fa non c'è più. L'Italia sta diventando un collage di suburbi. In sintonia con questo crescere delle periferie, le città storiche si stanno svuotando di abitanti, si popolano di seconde case. Da siti per vivere, si trasformano semmai in aree per il tempo libero. Insomma, c'è un'obesità delle periferie a cui stiamo assistendo, e che condanna anche i centri storici, spesso svuotati dei loro abitanti. Il caso massimo è, naturalmente, Venezia, che ha perso il 70 per cento dei suoi abitanti negli ultimi quarant'anni, anzi in meno di quarant'anni, e che rischia di diventare una specie di shopping center o di Disneyland.
  La distinzione tra centro storico e suburbi sta diventando, insomma, un confine tra gruppi sociali, tra poveri e benestanti. Non è – lo ripeto – solo un problema di qualità architettonica. Spesso, si dice o si scrive che in Italia si è fatta poca architettura contemporanea. È vero, se intendiamo poca architettura contemporanea di qualità, ma che cosa sono allora tutte le nostre sterminate periferie, molto più grandi dei centri storici? La risposta che alcuni architetti danno è che quella delle periferie non è architettura, ma edilizia. Se, però, distinguiamo l'edilizia dall'architettura, allora questo vuol dire che edilizia sarebbe l'esito lecito di un costruire senza qualità; architettura, invece, sarebbe un costruire con qualità. L'architettura sarebbe costruire per chi può e l'edilizia sarebbe costruire per tutti gli altri. Questo confine intraurbano prenderebbe, dunque, la forma, travestita da giudizio estetico, di un progetto di società divisa tra ricchi e poveri.
  Dopo questa premessa, vorrei brevemente affrontare due punti. Il primo è un punto di natura legislativa, che in questo contesto mi pare legittimo richiamare. Il secondo è qualche considerazione finale.
  Una delle ragioni per cui, in Italia in particolare – qui vengo veramente all'Italia – il problema delle periferie nel Secondo dopoguerra è diventato crescentemente grave è un antico peccato originale che appartiene alla legislazione ordinaria, ma anche alla Costituzione: il mancato raccordo – molti dei presenti, probabilmente tutti, sapranno di queste cose quanto e più di me – tra la legge n. 1497 del 1939, la legge Bottai sulla tutela del paesaggio, e la legge urbanistica del 1942, n. 1150. Bisogna richiamare queste cose remote, perché hanno determinato due segmenti importantissimi, vitali e in contrasto tra loro, della Costituzione.
  Nella legge Bottai del 1939, i principali strumenti per la tutela del paesaggio erano Pag. 15due: l'identificazione delle aree soggette a tutela a causa del loro notevole interesse pubblico e la redazione per cura del Ministero dell'educazione nazionale, il cui erede è oggi il Ministero dei beni culturali, di piani territoriali paesistici. Le istanze locali venivano coinvolte nella redazione degli elenchi di cose immobili, in particolare i comuni e le commissioni provinciali, e nella verifica di questi piani territoriali paesistici. La disciplina di approvazione dei piani regolatori o di ampliamento dell'abitato era, invece, molto più vaga, più evasiva, più generica. Soprattutto – questo è il punto che vorrei sottolineare – i piani regolatori o di ampliamento dell'abitato venivano considerati una famiglia concettualmente distinta dai piani territoriali paesistici, questo nel 1939. Nel 1942, intervenne la legge urbanistica, della quale ancora sopravvivono frammenti, che accentuò ulteriormente il divario tra i piani paesistici e la regolazione urbanistica. Nonostante il suo scopo dichiarato, come dice l'articolo 1, fosse quello di «favorire il deurbanamento e frenare la tendenza all'urbanesimo», questa legge non fu in alcun modo raccordata con quella sui piani paesistici, come sarebbe stato logico. Al livello più alto e generale si collocavano i «piani territoriali di coordinamento», stabiliti dal Ministero dei lavori pubblici per porzioni vaste del territorio, poi c'erano i piani regolatori generali di ogni comune e, infine, i piani regolatori intercomunali. A tutti questi tre livelli non esisteva nessuna ipotesi di coordinamento con i piani paesistici di competenza del Ministero dell'educazione nazionale.
  Questa estensione dei piani urbanistici coi loro tre distinti livelli alla totalità del territorio italiano avrebbe reso necessario uno stretto coordinamento con i piani paesistici, coordinamento, che però non ci fu. È chiaro che i piani territoriali di coordinamento del Ministero dei lavori pubblici, in quel sistema legislativo 1939-42, coincidono, almeno in parte, con i piani territoriali paesistici del Ministero dell'educazione nazionale. C'erano dunque due pianificazione distinte. Se non ci fosse stata la guerra, se la storia d'Italia fosse stata diversa, sarebbero riusciti a coordinarli? È possibile, ma su questo non possiamo fare congetture dimostrabili.
  Arrivando alla Costituzione, dobbiamo partire dalla constatazione che si era persa, tra il 1939 e il 1942, la straordinaria occasione di creare un sistema unitario e coerente di gestione del territorio e del paesaggio che tenesse in conto sia le esigenze della tutela sia quelle dello sviluppo edilizio. Per dirla con un linguaggio storico-narrativo piuttosto che giuridico-formale, in quel sistema operativo che i membri dell'Assemblea Costituente si trovarono davanti, il paesaggio tutelato dalla pubblica istruzione si arrestava alla soglia della città, mentre l'urbanistica, posta sotto la vigilanza dei lavori pubblici, riguardava i centri abitati, quasi potesse fermarsi alla soglia del territorio che li circonda. Credo che questa concezione contrastasse e contrasti vivamente con la tradizione storica italiana, con quel trapasso lento, armonioso, insensibile talora, da campagna a città, che fu tra i massimi raggiungimenti della civiltà millenaria di questo Paese, e come tale fu ammirato e descritto dai viaggiatori. Potremmo citare Goethe per tutti, ma tutti evidenziavano questo carattere del paesaggio italiano, urbano e non. Nella legislazione abbiamo finito per avere invece, l'idea di una campagna senza città e di una città senza campagna, lasciando tra l'una e l'altra, a causa di questo mancato raccordo, una zona grigia, una terra di nessuno, finita con l'essere occupata dalle periferie. Da questo vuoto legislativo, da quest'incapacità nasce, io credo, la trista invadenza delle periferie, che ha rotto il filo di una tradizione che si era snodata con naturale continuità per decine di generazioni.
  Che cosa fece l'Assemblea Costituente? Attribuì allo Stato la tutela del paesaggio, e questo è l'articolo 9, ma trasferì dal Ministero dei lavori pubblici alle regioni, in gran parte, la competenza in materia urbanistica e le relative funzioni amministrative. Sono gli articoli 117 e 118. La Costituente proiettò e incardinò nella Carta gli orizzonti della legislazione ordinaria vigente, e in particolare della legge Bottai del 1939 e della legge urbanistica del 1942, da Pag. 16cui la radice dei molteplici conflitti Stato-regioni, che dopo la riforma costituzionale del Titolo V del 2001 si sono accentuati. In tal modo, si è radicalizzata l'attribuzione non solo di competenze amministrative, ma anche della potestà normativa, a differenti istanze della Repubblica, lo Stato e le regioni, separando il paesaggio dalla materia urbanistica e condannando la zona grigia intermedia a una specie di legge della giungla, poi da allora dominante.
  L'impetuoso sviluppo industriale e abitativo spostò il centro di gravità dal paesaggio all'urbanistica, all'edilizia, a una nuova viabilità, dominata dalle autostrade, e all'idea di un'Italia dominata da un paesaggio industriale, ma la deindustrializzazione ci ha costretti a venire a contatto con una realtà molto diversa, che però non ci ha indotto fino a ora a un'adeguata riflessione, almeno secondo me. La legge urbanistica del 1942, pensata entro un contesto sociale relativamente stabile, in cui le campagne erano ancora il luogo di una diffusa civiltà contadina e pastorale, restò in vigore anche negli anni del boom, mentre le campagne diventavano terra di nessuno.
  Questa inadeguatezza è stata spesso avvertita, come tutti sappiamo. Ci sono una serie di tentativi. Possiamo ricordare la legge Sullo, i tentativi di Pieraccini, di Mancini. Vorrei citare soltanto una dichiarazione di Moro, allora Presidente del Consiglio, nel 1964, quando dichiarò che la Camera avrebbe dovuto «porre fine alla sostanziale sopraffazione dell'interesse privato sulle esigenze della comunità, all'irrazionalità e alla disumanità degli sviluppi delle nostre città, con la conseguenza di una diffusa e crescente distorsione del vivere civile». Questa frase di Moro, con le istanze che esprimeva, restò lettera morta.
  Con marcatissimo contrasto, proprio mentre l'evoluzione costituzionale faceva guadagnare al principio della tutela paesaggistica il massimo rango costituzionale con l'articolo 9 posto tra i principi fondamentali dello Stato, invece le debolezze della politica, le incoerenze legislative e le prassi amministrative spingevano la normazione urbanistica nella direzione opposta, né si è mai trovato chi riuscisse a porvi rimedio. Qui risparmio, perché più recente, tutta la storia dei tentativi in questo senso. Credo che ricordare la proposta Sullo e il suo triste destino sia sufficiente.
  Per frenare il dilagare delle periferie, credo che valga la pena richiamare in questo contesto alcune misure che sarebbero in teoria semplici e che tuttavia non vengono di fatto adottate. Le ricordo soltanto per punti, senza approfondire: innanzitutto, commisurare la crescita urbana a previsioni attendibili e certificate di crescita demografica. Sappiamo che molto spesso si moltiplicano le periferie e i nuovi quartieri abitativi, che poi restano vuoti, perché si sono truccate a monte, da parte di amministrazioni comunali, in buona o in cattiva fede – io non lo so – le previsioni di crescita demografica. Far certificare dall'Istat le previsioni di crescita demografica sarebbe possibile, ma non credo sia previsto da nessuna legge. Il secondo punto è: commisurare ogni ipotesi di crescita urbana a una serie di parametri che tengano conto del problema di cui stiamo parlando, per esempio misurando la presenza e la frequenza di edifici abbandonati, recuperabili o no, e di edifici residenziali inutilizzati, ma anche di aree ex produttive, che potrebbero essere destinate a varie cose, dal verde pubblico alle attività culturali, a qualcos'altro ancora; la presenza di edilizia residenziale invenduta, che dovrebbe scoraggiare dal costruire ancora, ma non è così; il tasso di edilizia condonata; la qualità edilizia e urbanistica, più difficile da valutare.
  Per riscattare le periferie e impedirne la proliferazione, tutti questi dovrebbero essere dei parametri da adottare.
  La composizione sociale della popolazione è un tema molto studiato oggi, anche per quello che riguarda l'Italia. Michael Herzfeld, per esempio, che insegna a New York, alla Columbia University, ha scritto un libro che riguarda Roma, e studia la formazione dei ghetti urbani e il rapporto con la politica dei trasporti e i tassi di occupazione e di disoccupazione. È difficile negare che le periferie, più sono squallide, meno hanno spazi per la socialità, più attirano fatalmente gli svantaggiati della Pag. 17nostra società, a cominciare da chi viene afflitto da nuove povertà e dagli immigrati. Molto importanti sarebbero – sono sicuro che ne avrete più volte parlato in questa sede – i luoghi della socialità. Relativamente alla totale assenza di luoghi della socialità nella progettazione iniziale, ricordo le 19 cosiddette new towns, sorte intorno a L'Aquila subito dopo il terremoto, dove inizialmente non era previsto nessun luogo della socialità.
  I luoghi della socialità dovrebbero essere anche quelli in cui la popolazione viene sospinta ad apprendere, ad avere elementi di conoscenza locale, memoria dei luoghi. Ci sono tentativi virtuosi in questo senso. Ricordo, per restare a Roma, il piccolo ma molto ben fatto Museo di Tor Vergata, dove nel campus dell'università gli archeologi di quella Università hanno cercato di spiegare a chi abita in tutta quell'area che cosa c'era lì nel tempo dei romani antichi e che cosa vogliono dire questi mozziconi di acquedotto che si trovano di qua e di là. Da questo punto di vista, la ricerca a livello sociologico e antropologico, a livello mondiale, è molto vasta, in particolare negli Stati Uniti, ma anche in Olanda. Ad Amsterdam c'è un gruppo molto interessante. Credo che varrebbe la pena di convocare queste conoscenze – non parlo di audizioni, ma di convocarle idealmente – per metterle a frutto.
  Il rapporto tra la cultura, la religione, le idee, le lingue che i nuovi italiani, che lo saranno – magari non sono ancora cittadini – o lo sono già, si portano dietro e il progressivo radicamento nei luoghi è assolutamente essenziale: se non facciamo nulla perché gli immigrati capiscano che cosa li circonda nelle periferie, ma anche nelle città, perderà molto presto completamente qualsiasi senso ogni tentativo di parlare di tutela dei beni culturali, di tutela dell'archeologia, di tutela della storia dell'arte in Italia.
  Quanto all'esperienza dei luoghi che sono stati occupati negli ultimi anni, per citare velocemente un altro dato, qualche volta si tratta di teatri, certamente la cosa più nota qui a Roma, ma in molti casi le aree occupate hanno interessato delle aree industriali, delle aree produttive dismesse, con la tendenza, che andrebbe studiata più da vicino – le ho viste per caso, ma non ci ho lavorato – a dare loro una destinazione culturale, e in particolare di rinascita degli artigiani locali. Questa potrebbe essere una direzione molto interessante, non so quanto esplorata.
  L'associazionismo locale per il riscatto di varie zone è più frequente per quello che riguarda i beni culturali di natura storica. Lo è, per quello che so io, meno per quello che riguarda le periferie, ma sarebbe molto interessante studiare quell'associazionismo locale che riguarda le periferie, che pure c'è, e favorire uno scambio trasversale di esperienze con altre forme di associazionismo locale.
  Le periferie, e mi avvio a concludere, sono il luogo deputato di una diffusa patologia sociale, perché accentuano le disuguaglianze, sono spesso prive degli spazi di relazione, che per molti secoli hanno costituito il cuore e il vanto delle aggregazioni urbane in Europa, e in particolare in Italia. Infine, c'è quella che un sociologo olandese molto noto, Keizer, ha chiamato la «diffusione del disordine», il disordine delle periferie come «precipitatore situazionale», con la formula un po’ complicata che lui usa insomma, il disordine delle periferie che innesca comportamenti anche criminosi: chi vive in un quartiere sporco, mal tenuto, nel quale non riconosce niente in cui identificarsi, tende a violare ogni norma e ogni legge. Al deterioramento dell'ambiente urbano, che nasce dalla mancata manutenzione pubblica, si aggiunge il degrado provocato dai singoli, che può essere innescato da una rabbia inconsapevole contro la propria forzata emarginazione. È il famoso principio della finestra rotta, per cui se un edificio abbandonato può sopravvivere per anni tale e quale, se per caso qualcuno tira un sasso e rompe una finestra, molto presto qualcun altro romperà tutte le altre finestre. Le forme più banali di ingegneria sociale prevedono di rispondere a questo disagio e degrado socio-ambientale con deterrenti o con la repressione. Un caso estremo in questo senso sono le cosiddette ronde, di cui si è parlato Pag. 18tempo fa. Sarebbe, naturalmente, più saggio e lungimirante – credo che sia una delle ragioni dell'istituzione di questa Commissione – puntare su strategie di prevenzione, come la cura dell'ambiente, del paesaggio, delle città e anche introdurre o incrementare degli elementi normativi, in questo senso.
  Importante è, io credo, studiare una nuova geografia interiore di chi vive nelle periferie. Anche mentre borghi e città sono assediati da periferie offensive, studi sociologici e antropologici mostrano che tendiamo tutti a ritagliare entro il nostro orizzonte vedute ancora accettabili, paesaggi ancora intatti, frammenti di un modello antico che viene ripensato, riscoperto e rilanciato anche da nuove modalità del viaggio e del turismo. A quel che resta della trama di paesaggi urbani, un tempo limpida e compatta, si sovrappone l'ordito di questa nuova archeologia della mente, che riconosce il paesaggio storico, lo classifica e lo presceglie, lo sente più proprio davanti all'invasione di architetture industriali o di squallide periferie, che possono essere accettate con una dolorosa necessità, da cui però evadere. Ogni ripensamento delle periferie – questa è la mia frase conclusiva – presuppone una rivoluzione culturale, uno sguardo lungimirante, pensando alle periferie, o per meglio dire, alle nostre città come le vogliamo lasciare alle generazioni future e non come sono vissute oggi, con tutti i difetti che conosciamo.

  PRESIDENTE. La ringraziamo molto professore, soprattutto per quest'ultima suggestione, che raccoglie il filo conduttore che ha iniziato a percorrere la nostra Commissione, ovvero quello della necessità di offrire al Parlamento e al Governo uno spunto di riflessione circa l'opportunità di pensare a una strategia per il futuro. Do la parola agli onorevoli colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  ROBERTO MORASSUT. Faccio qualche riflessione di interlocuzione.
  Ringrazio il professor Settis per quest'audizione e questo contributo importante, credo anche per l'asse della relazione che dovremo costruire a fine legislatura per una lettura e interpretazione storica della nascita e della crescita delle periferie, che non sono tutte uguali, ma hanno differenze territoriali notevoli da città a città.
  La riflessione e la comunicazione del professor Settis si sono concentrate soprattutto sulla parte di ricostruzione storica della legislazione urbanistica e paesaggistica italiana, cogliendo un punto che mi pare ancora sostanzialmente aperto in Italia. Quella del 1939 è una legge di tutela. La legge del 1942, oltre alle questioni che il professor Settis ha segnalato, credo avesse un ulteriore elemento di contrasto con la legislazione dei tre anni precedenti, dovuta al fatto che con la legge 1150 si assegnava ai comuni la competenza di pianificare l'intero territorio amministrato, quindi era una legge che di per sé, per sua natura, spingeva all'espansione dei centri urbani, naturalmente a premiare una delle leve tradizionali dell'economia italiana, la rendita urbana: quali forme di regolazione e di governo della rendita urbana, della rendita fondiaria, possono essere introdotte in una legislazione urbanistica italiana molto complessa, resa ancor più complessa dal Titolo V dopo il 2001 per la compartecipazione con le regioni? C'è una premessa. Si è tentata negli anni Sessanta – anche questo era contenuto nell'accenno della relazione del professor Settis – un'operazione di stampo europeo, l'ultima che si possa annoverare negli anni Sessanta, attraverso la legge Sullo, che poi fallì, e che produsse provvedimenti transitori, provvedimenti ponte. Faccio soprattutto riferimento al decreto sugli standard 1444 del 1968 e alla legge Bucalossi successiva, quella sul versamento obbligatorio degli oneri per la realizzazione delle opere edilizie, unici due provvedimenti che in qualche maniera hanno introdotto forme di regolazione di riequilibrio rispetto alla rendita. Il peso della rendita ha avuto come grande conseguenza, soprattutto nel centro-sud, lo sviluppo dell'abusivismo edilizio, e quindi la rincorsa, attraverso strumenti legislativi con un ciclo decennale. Abbiamo avuto tre leggi per il condono edilizio che praticamente Pag. 19sono uscite una a nove anni dall'altra, che quindi segnalano quasi l'esistenza proprio di un ciclo economico rispetto alla produzione edilizia abusiva.
  Oggi, qual è la situazione? Oggi, questa contraddizione permane nel Parlamento italiano, indipendentemente da quale sia la maggioranza di Governo. Prendiamo, ad esempio, gli ultimi atti di Governo: abbiamo avuto, da un lato, la legge sul consumo di suolo, che percorre la strada delle tutele, ma tocca soltanto parzialmente la normativa urbanistica; abbiamo avuto anche, però, provvedimenti specifici che vanno in tutt'altra direzione. Pensiamo, precedentemente ormai, al piano casa, che poi si è diffuso in molte regioni, e ritengo molto insidioso da molti punti di vista, come ho sempre detto, al provvedimento sulla realizzazione degli stadi attraverso operazioni puntuali di compensazione edilizia incontrollata da qualunque principio generale.
  Concludo su questo, ma è più che altro anche una domanda.
  La stagione degli anni Sessanta è sostanzialmente basata sull'uso dello strumento operativo dell'esproprio per garantire un riequilibrio tra città pubblica e città privata, che si è rivelato, soprattutto negli ultimi anni, una pistola scarica, un po’ per i costi e un po’ per le procedure, che purtroppo hanno portato molti comuni a un'esposizione di debiti fuori bilancio molto grande anche a seguito dell'indirizzo che la normativa europea ha assunto su questa materia e che non favorisce l'uso di questo strumento. Come si può vedere una ricomposizione di questi due aspetti, cioè la parte di tutela e la parte di pianificazione urbanistica, attraverso una legge organica che finalmente superi uno dei temi centrali della legge urbanistica 1150, di attribuire quasi ad aeternum la rendita attraverso la definizione di indici edificatori? Questi restano scritti per un tempo indefinito e possono sempre essere contestati in giudizio in caso le amministrazioni decidano diversamente.
  Parlo di una legge nuova, finalmente, di cui però purtroppo non si riesce a discutere, che abbia alcune invarianti strutturali da parte dei comuni, che sono soprattutto l'ambiente, le infrastrutture e gli elementi di eredità storico-architettonica-archeologica, peraltro nella legislazione della cultura urbanistica ampiamente consolidati dall'approvazione della Carta di Gubbio del 1990, che estende al territorio più vasto del centro storico gli elementi di pregio storico e culturale, ma che rimanda a piani operativi che vengono criticati, da molta cultura urbanistica molto attenta alle tutele, come piani flessibili che possono cambiare le carte in tavola. In realtà, la flessibilità ha anche il pregio di non attribuire in tempo eterno la rendita. Il piano operativo di un comune attribuisce una rendita temporanea, finalizzata alla realizzazione di un progetto, dopodiché l'attribuzione dei diritti edificatori scade, come scadono i vincoli per le aree pubbliche, cioè si rimettono la città pubblica e la città privata sullo stesso piano dei diritti e della durata.
  Come vede questo? Questo è un Paese in cui l'acquisizione delle aree, l'acquisizione del demanio per realizzare edilizia pubblica e i servizi che servono a creare quegli spazi di socialità, che hanno poi un problema anche di gestione – non apriamo questo tema – è oggi il grande punto interrogativo: come rilanciamo la città pubblica dal punto di vista sia dell'acquisizione dei beni necessari, sia della riduzione della disparità tra città pubblica, che rischia di restare trascurata, e la città privata, che si espande, o comunque cresce, in forma verticale o in forma di sprawl, sulla spinta della rendita e anche sulla spinta dell'abusivismo edilizio abitativo o produttivo?

  SALVATORE SETTIS, accademico dei Lincei. La ringrazio di questo commento, che ha integrato, in modo a mio avviso perfetto, molte delle cose che ho provato a dire. Ovviamente, ho saltato un certo numero di cose, dalla legge ponte ai provvedimenti che lei ha citato. Risponderò alla sua domanda molto brevemente in due modi, uno più generale e uno più specifico, e tengo di più al secondo, ma vorrei almeno enunciare anche il primo.
  Uno dei compiti più difficili e più urgenti del Parlamento sarebbe di affrontare la straordinaria molteplicità e contraddizione di sistemi normativi che appartengono Pag. 20 alla gestione o alla tutela del paesaggio, che sono in capo al Ministero dei beni culturali, all'ambiente, in capo al Ministero dell'ambiente, ai suoli agricoli, in capo al Ministero delle politiche agricole, e poi al territorio, in capo alle regioni. È come se noi avessimo moltiplicato l'Italia per quattro. Ci sono quattro «Italie», con quattro normative diverse, che non coincidono. Non sempre sono in contrasto tra loro, ma a volte lo sono. Questo contrasto apre zone grigie, nelle quali poi si insedia la speculazione edilizia, si insediano gli abusivismi e, fatalmente, subentrano i condoni. Su questo ci sarebbe da parlare molto a lungo.
  Passo al secondo punto. Credo che la ragione per cui tutti quei tentativi degli anni Sessanta e Settanta sono poi falliti sia precisamente che puntavano su uno strumento come l'esproprio. L'esproprio, che non funzionò allora e funzionerebbe ancor meno adesso, è un coltello spuntato. Credo che varrebbe la pena di studiare, invece, l'antica proposta, che risale agli anni Settanta, di Massimo Severo Giannini, cioè quella di produrre una qualche forma di controllo pubblico delle aree fabbricabili. Che cos'era la sua proposta? Scorporare il diritto di proprietà e il diritto di edificazione, lasciando intatto il diritto di proprietà e subordinando quello di edificazione a un rigoroso sistema di controlli pubblici, finalizzato a un piano lungimirante, e qui torna il discorso sulle nuove generazioni che avevo fatto e che il presidente ha appena ripreso. Credo che quella dovrebbe essere la direzione da studiare: scorporare, come suggeriva Massimo Severo Giannini, il diritto di proprietà dal diritto di edificare, subordinandolo a concessioni pubbliche, e naturalmente rendendo il meccanismo di queste concessioni pubbliche commisurato a parametri reali. Non voglio fare nessun nome, non so da dove venite e non voglio citare città, ma ci sono comuni, sia nell'Italia del nord sia nell'Italia del sud, che hanno messo a base dei propri piani urbanistici una previsione di raddoppio della popolazione. Anche una città importante come Milano, per permettere ampliamenti e grattacieli, ha truccato le statistiche, che risultano dal sito del comune di Milano. L'ho anche scritto da qualche parte. Credo che si potrebbe partire dal principio di Massimo Severo Giannini e si potrebbero introdurre parametri obiettivi certificati – l'ho chiesto a Giovannini, una volta, e l'Istat può fare questo lavoro, ha i dati, le attrezzature per farlo – si potrebbe far certificare dall'Istat i dati di crescita demografica. Ci vuol tanto? A questo punto, la domanda l'ho fatta io.

  PRESIDENTE. È una bella provocazione.

  CLAUDIA MANNINO. Intervengo innanzitutto per complimentarmi col professor Settis, i cui contributi sono sempre razionali e fotografano una realtà che non si può non vedere.
  Partendo dal presupposto, e dandolo per scontato, della mancata riforma del Titolo V, che è evidente, molto banalmente vorrei farle non una domanda provocatoria, ma molto pratica. I meccanismi normativi che hanno inceppato o comunque deviato la gestione della proprietà pubblica e privata, ci sono chiari. All'interno di questa situazione normativa – se già ce l'ha, mi farebbe piacere averla – quali sono gli strumenti che a oggi si dovrebbe avere il coraggio di abrogare? Uno su tutti, penso al SUAP, lo Sportello unico per le attività produttive, che avvia una serie di meccanismi all'interno delle nostre amministrazioni per cui, come lei diceva, sembra che esistano quattro «Italie»: all'interno di un banalissimo comune, piccolo o grande che sia, avvia meccanismi indipendenti da quella che può essere la volontà politica di quel territorio. Inoltre, tra i tanti strumenti che abbiamo a disposizione (che periodicamente cambiano sempre nome), dalle varianti ai piani operativi, ai piani paesaggistici, quale ha secondo lei la priorità assoluta? In un Paese in cui i piani paesaggistici sono attuati poco, come i piani regolatori vigenti, con tantissime varianti, qual è lo strumento che un Paese dovrebbe decidere di mettere al primo posto, stabilendolo come standard che tutte le regioni devono avere, per poi attivare gli altri meccanismi? In realtà, abbiamo tante strade Pag. 21parallele che sembrano camminare ciascuna per conto proprio: i comuni, le province, le città metropolitane, le linee costiere, i comuni montani, i piani paesaggistici regionali, il piano delle infrastrutture nazionali. Al di là delle quattro «Italie» di cui lei parlava, ci sono veramente tanti strumenti che utilizzano sempre lo stesso territorio.

  SALVATORE SETTIS, accademico dei Lincei. Provo a rispondere alle due domande, molto collegate l'una all'altra. La ringrazio di avermele fatte.
  Che cosa si potrebbe abrogare? Io abrogherei immediatamente quello che non dovrebbe esistere, cioè il piano casa. Non ho qui i dati e non posso citare i numeri esatti, ma tutti sappiamo che il piano casa fu annunciato dal Governo di allora come una legge nazionale alla quale avrebbero fatto seguito normative locali. La legge nazionale, che prevedeva tra le altre cose un'attenuazione molto sensibile dei controlli antisismici, non è stata approvata mai, perché ha avuto la grande disgrazia che quattro giorni dopo l'annuncio dell'allora Presidente del Consiglio c'è stato il terremoto di L'Aquila. La legge nazionale non c'è mai stata. Nonostante questo, tutte le regioni hanno fatto un piano casa, tutte, senza eccezione. Lo hanno fatto diverso l'una dall'altra – quello del Veneto è molto diverso da quello della Toscana – ma lo hanno fatto tutte, e la domanda è: lo potevano fare in mancanza di quella legge nazionale che avrebbe dovuto innescare? È in nome del piano casa che si sono fatte delle cose. Il piano casa ha finito con l'assumere, specialmente in alcune regioni, non in tutte, il valore di una sorta di condono preventivo, cioè ha indotto a saltare la fase del condono condonando prima. Qual è la priorità assoluta? La priorità assoluta sarebbe di coordinare – mi dispiace tornare su questo punto, forse è una risposta insoddisfacente – le varie normative. Solo tre regioni hanno fatto i piani paesaggistici previsti dal codice dei beni culturali – questo è un fatto indubitabile – nonostante fossero già previsti dalla legge Galasso, e parliamo degli anni Ottanta. Passano decenni e le regioni non fanno i piani paesaggistici. Il Ministero dei beni culturali ha un potere di intervento sostitutivo e non lo esercita. In una situazione come questa, quanto di questo è dovuto al fatto che le varie norme non sono coordinate sufficientemente tra loro? Quanto di questo è dovuto al fatto che l'incertezza normativa, anche a livello costituzionale, ha generato un sistema per il quale i contrasti tra Stato e regioni devono giungere alla Corte costituzionale perché qualcuno li possa dirimere? È un sistema funzionante quello in cui la Corte costituzionale deve ripetere cinque o sei volte l'identica sentenza per cinque o sei regioni diverse? Questo è il sistema. A tutto questo bisognerebbe porre rimedio, nella fattispecie con una riforma costituzionale, non una riforma che pretenda di riformare 46 o 50 articoli in una volta, tra cui il Titolo V, ma indirizzata più specificamente a una riscrittura del Titolo V nel modo giusto. Tra l'altro, la riforma del Titolo V che non passò il 4 dicembre scorso non è, a mio avviso, del genere a cui sto in questo momento pensando. Credo che la vera priorità sia questa.
  Perché deve essere stato il Ministero delle politiche agricole, quando il ministro era Catania, a sollevare la questione del consumo dei suoli? Che c'entra coi piani paesaggistici? Moltiplicare le competenze sullo stesso tema è come voler correre in dieci sulla stessa corsia. Succedono, fatalmente, degli incidenti.

  PRESIDENTE. Salutiamo il professor Settis, ringraziandolo per l'importante contributo, che acquisiamo per il lavoro della Commissione.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta, sospesa alle 13.10, riprende alle 13.30.

Comunicazioni del Presidente.

  PRESIDENTE. Nelle scorse settimane sono pervenute numerose segnalazioni da associazioni rappresentative di cittadini residenti prevalentemente nell'area sud-est di Roma, e presenza di nubi tossiche che Pag. 22quotidianamente si leverebbero da roghi nei quali sono bruciate macchine, rifiuti e materiali plastici di vario genere, con ciò mettendo in grave pericolo la salute di chi vive e lavora in quelle zone e più in generale procurando un grave danno ambientale. In considerazione della gravità dei fatti denunciati dai cittadini e prima ancora che la Commissione si rechi in quelle aree per il sopralluogo, che dovrebbe svolgersi il prossimo martedì 1 agosto, su sollecitazione anche di alcuni colleghi, propongo di trasmettere sulla base degli elementi fin qui acquisiti un esposto alla procura della Repubblica presso il tribunale di Roma perché accerti, per quanto di eventuale competenza, se sui fatti e comportamenti sopra riportati siano rinvenibili fattispecie penalmente rilevanti, così da procedere in caso affermativo, nei confronti dei soggetti responsabili.

  (La Commissione concorda)

  La seduta termina alle 13.35.