XVII Legislatura

Commissione parlamentare di inchiesta su sicurezza e degrado delle città

Resoconto stenografico



Seduta n. 19 di Martedì 4 luglio 2017

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Causin Andrea , Presidente ... 3 

Audizione del professor Simone Ombuen, docente di urbanistica dell'Università di Roma Tre, e della professoressa Daniela De Leo, docente di urbanistica all'Università La Sapienza di Roma:
Causin Andrea , Presidente ... 3 
Ombuen Simone , docente di urbanistica dell'Università di Roma Tre ... 3 
De Leo Daniela , docente di urbanistica all'Università La Sapienza di Roma ... 7 
Ombuen Simone , docente di urbanistica dell'Università di Roma Tre ... 12 
Causin Andrea , Presidente ... 12 
Gasparini Daniela Matilde Maria (PD)  ... 12 
Ombuen Simone , docente di urbanistica dell'Università di Roma Tre ... 13 
De Leo Daniela , docente di urbanistica all'Università La Sapienza di Roma ... 13 
Ombuen Simone , docente di urbanistica dell'Università di Roma Tre ... 13 
Mannino Claudia (Misto)  ... 14 
Ombuen Simone , docente di urbanistica dell'Università di Roma Tre ... 14 
De Leo Daniela , docente di urbanistica all'Università La Sapienza di Roma ... 15 
Piso Vincenzo (Misto-UDC-IDEA)  ... 16 
Ombuen Simone , docente di urbanistica dell'Università di Roma Tre ... 17 
De Leo Daniela , docente di urbanistica all'Università La Sapienza di Roma ... 17 
Causin Andrea , Presidente ... 18 
De Leo Daniela , docente di urbanistica all'Università La Sapienza di Roma ... 18 
Causin Andrea , Presidente ... 18 

Audizione del professor Ezio Micelli, ordinario di estimo presso l'Università IUAV di Venezia:
Causin Andrea , Presidente ... 18 
Micelli Ezio , ordinario di estimo presso l'Università IUAV di Venezia ... 18 
Gasparini Daniela Matilde Maria (PD)  ... 24 
Gandolfi Paolo (PD)  ... 25 
Micelli Ezio , ordinario di estimo presso l'Università IUAV di Venezia ... 26 
Causin Andrea , Presidente ... 29 

Audizione della professoressa Rossella Selmini, associato di sociologia e criminologia presso l'Università del Minnesota:
Causin Andrea , Presidente ... 29 
Selmini Rossella , associato di sociologia e criminologia ... 29 
De Maria Andrea (PD)  ... 34 
Gandolfi Paolo (PD)  ... 35 
Piso Vincenzo (Misto-UDC-IDEA)  ... 36 
Selmini Rossella , associato di sociologia e criminologia ... 36 
Causin Andrea , Presidente ... 38 

Comunicazioni del Presidente:
Causin Andrea , Presidente ... 38

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
ANDREA CAUSIN

  La seduta comincia alle 10.40.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Comunico che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche mediante l'attivazione del sistema audiovisivo a circuito chiuso e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati e, in seguito, sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione del professor Simone Ombuen, docente di urbanistica dell'Università di Roma Tre, e della professoressa Daniela De Leo, docente di urbanistica all'Università La Sapienza di Roma.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del professor Simone Ombuen, docente di urbanistica dell'Università di Roma Tre, e della professoressa Daniela De Leo, docente di urbanistica all'Università La Sapienza di Roma, che ringrazio per aver accolto l'invito della Commissione.
  Do la parola al professor Ombuen, e successivamente alla professoressa De Leo, con riserva per me e per i colleghi di rivolgere loro, al termine degli interventi, domande e richieste di chiarimento.

  SIMONE OMBUEN, docente di urbanistica dell'Università di Roma Tre. Qualche breve elemento per delineare che cos'è Urban@it. L'associazione che oggi qui rappresentiamo è un centro nazionale di studi per le politiche urbane costituito nel 2014. Comprende 13 atenei italiani e la Società italiana degli urbanisti. Lo scopo di questo network che si è costituito tra gli atenei italiani è di promuovere riflessioni intorno al tema delle politiche urbane, tema ricco di lavori, ma segnato da elevati livelli di frammentazione anche all'interno del dibattito disciplinare. Abbiamo già prodotto due rapporti sulle politiche urbane nel Paese, che consegnerò alla fine di questa breve introduzione al presidente. Stiamo redigendo un terzo rapporto. Abbiamo anche collaborato alla redazione del Rapporto italiano per la Conferenza internazionale sugli insediamenti urbani Habitat III. Speriamo che gli elementi sostantivi che vorremmo presentare all'attenzione della Commissione possano essere di interesse per lo sviluppo del lavoro. Naturalmente, esprimiamo un rilevante interessamento per la Commissione, che si trova per il suo impegno istituzionale ad affrontare temi al centro dello studio e del lavoro della nostra associazione.
  Abbiamo attualmente cinque gruppi di lavoro attivi a livello nazionale, che coordinano unità di ricerca di diversi atenei, tutti gruppi di ricerca che lavorano materialmente nella realtà del territorio italiano nelle diverse condizioni di urbanità, e che possono quindi essere di utile riferimento e con la loro produzione scientifica apportano contenuti originali. Anche il metodo di lavoro nella produzione del rapporto è basato sui background papers, elaborati che potete trovare nel sito web di Urban@it, che costituiscono la base dalla quale vengono sintetizzati gli orientamenti e gli indirizzi del rapporto, che è solo una sintesi molto concentrata dei ricchi contributi presenti. Stiamo parlando di qualcosa come 120 background papers, per esempio, per lo scorso rapporto, che sono il portato del lavoro di ricerca che avviene nelle università. Pag. 4
  Il nostro lavoro, come potete trovare nel documento in distribuzione, al capitolo XII, pubblicato nel febbraio di quest'anno, si occupa specificamente della rigenerazione urbana su scala nazionale. In questa elaborazione, anche frutto di una serie di interlocuzioni istituzionali che abbiamo cercato di svolgere con regioni, ministeri, ANCI, con cui abbiamo un rapporto di collaborazione permanente, di cui parlerà più approfonditamente Daniela De Leo nel suo intervento, alcune questioni sono emerse in modo molto chiaro. Innanzitutto, «periferia» è un termine abusato e molto spesso foriero di incomprensione, perché nasce come una definizione geografica o urbanistica, ma in realtà ormai, se guardiamo ai fenomeni di degrado, è abbastanza evidente che povertà, emarginazione, esclusione e segregazione, fenomeni gravi esistenti, sono presenti in vari contesti nel tessuto insediativo italiano. Questo vale per le periferie storiche dei centri urbani, per le periferie estreme della metropolizzazione, a volte per i centri storici. Il concetto di periferia – questo è un primo elemento – non va assunto a nostro avviso come urbanistico-geografico, ma nella sua dimensione problematica. Da ciò deriva che un lavoro per recuperare gli elementi di degrado non può essere solo fisico. La storia delle politiche urbane italiane, che pur tra tante vicende è comunque ricca di esperienze importanti, anche riconosciute a livello internazionale, ha alle sue origini una componente importante di tipo edilizio-urbanistico. La circostanza attuale del Paese porta a pensare che quest'elemento vada accoppiato a un'altra serie di interventi sperimentati in modo non così ricco come gli interventi urbanistici, che però sono molto importanti, e che sono le dimensioni sociali, culturali, di sviluppo, di sostenibilità ambientale, che dovrebbero rientrare in una visione integrata degli interventi per la definizione di modi per uscire dalle condizioni di degrado. I fenomeni sono presi in quest'accezione molto più ampia di quanto non sia il fenomeno periferico, a sua volta molto più ampio di quanto non sia il fenomeno di degrado delle periferie realizzate con interventi di edilizia economica e popolare dagli anni Settanta agli anni Novanta.
  Ho seguìto personalmente tutta la vicenda dei programmi complessi, dalla delibera CER-CIPE del marzo 1994 a tutto lo sviluppo che seguì all'interno del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, fino ai PRUSST (Programmi di riqualificazione urbana e di sviluppo sostenibile del territorio) dei primi anni 2000 e, successivamente, alle attività che a seguito della riforma della Costituzione sono state trasferite alle regioni per il nuovo quadro del Titolo V. Da queste esperienze, di cui non è mai stato tracciato un bilancio completo, occorre trarre utili insegnamenti. Se una nuova stagione di programmi e di approcci per la definizione di interventi, di rigenerazione non sa capitalizzare il patrimonio presente nel territorio italiano nelle pratiche portate avanti dai comuni e negli studi svolti dagli studiosi che si occupano di questa materia, c'è il rischio che continui questo percorso di perenne disconnessione di un Paese ricchissimo di fantasia, di innovatività, di casi di studio, ma che non riesce mai a rimetterli in un quadro coerente e capace di produrre degli effetti significativi. In particolare, nell'esperienza dei programmi complessi, e soprattutto guardando al quadro costituzionale nel quale dobbiamo lavorare, e cioè al Titolo V, ci sono alcuni elementi rilevanti che vanno richiamati.
  Ricordo anzitutto i Quadri strategici territoriali che su promozione del Ministero delle infrastrutture furono fatti dalle regioni italiane per dare quadri di coerenza alla fase di programmazione 2007-2013, molto importanti per produrre una programmazione regionale comunitaria molto interessante dal punto di vista degli interventi urbani. Cito i PIUSS, i PISL, i PUC 2 in Umbria, una serie di programmi urbani, che con la logica comunitaria intersecano al loro interno le dimensioni fisica, economica, sociale e ambientale, importanti punti di riferimento che vanno riassunti per costruire (questo è un secondo elemento di prospettiva) quello che tutti hanno ribadito (ho visto che ci sono state varie audizioni), cioè costruire una logica integrata, come sempre, ossia fare in modo di uscire da Pag. 5interventi settoriali e costruire politiche urbane, tra l'altro corrispondenti a questo titolo, che sappiano affrontare la realtà delle circostanze che abbiamo davanti, una realtà molto varia, molto articolata. Non è possibile pensare di confezionare un prodotto predefinito. Se si vuole pensare a un'Agenda urbana nazionale, cosa che a nostro avviso è essenziale, essa dovrà interpretare questa sussidiarietà verticale, tracciare gli elementi di un approccio utilizzabile, che coniughi insieme quadri conoscitivi specifici e modalità di esercizio capaci di attraversare i livelli amministrativi e di federare intorno alle proposte una molteplicità di attori e di adattarsi e raccogliere le emergenze che ci sono nei tanti contesti.
  Siamo un Paese a elevato dualismo territoriale da sempre: tra nord e sud, tra zone forti e zone deboli, tra costa e interno, tra zone affette da degrado ambientale e monumenti naturali meravigliosi. È il Paese della varietà, l'Italia, e quindi una politica urbana nazionale, capace di affrontare i problemi di degrado, deve essere capace di modulazione e di individuazione dei punti di volta in volta importanti. È importante federare secondo una geometria variabile, quindi federare interessi pubblici e privati intorno a obiettivi, ma che queste modalità federative riescano a essere pertinenti ai problemi specifici che si presentano.
  Abbiamo in corso un'analisi, che stiamo svolgendo insieme con ANCI, sui programmi presentati agli ultimi bandi per il recupero delle periferie degradate. Tra gli elementi di riflessione che emergono da queste analisi, una quota importante delle proposte è fatta componendo prodotti che stavano nel cassetto delle amministrazioni. C'è un gap drammatico, che tra l'altro ricordo provammo ad affrontare con i PRUSST, e cioè il dramma del ritardo della progettualità delle amministrazioni. Come sapete, è impossibile iscrivere un intervento nel programma triennale delle opere pubbliche se non è dotato di adeguato livello di progettazione, ovvero progettazione definitiva, studio di fattibilità più le integrazioni economico-finanziarie: d'altra parte la progettazione non è finanziata se non quando è finanziato un intervento. È una sorta di comma 22, per cui chi è pazzo ha diritto di chiedere l'esenzione dal volo, ma chi chiede l'esenzione dal volo non è pazzo. Questo è un punto importantissimo. Nei PRUSST si tentò di risolverlo anche positivamente dando risorse proprio alla progettazione e chiedendo ai programmi nella progettazione di individuare, nella molteplicità delle dimensioni della programmazione regionale comunitaria e delle altre fonti di finanziamento, le risorse per poi attuarle, quindi preponendo il tema della progettazione agli altri. La congiuntura in cui ci troviamo chiede che questa progettazione, però, non sia più – già in parte non era per i PRUSST – solamente mirata ad aspetti edilizi urbanistici, ma che sappia integrare al suo interno altre dimensioni. Questa è una sfida. Tra l'altro, si parla di dimensioni su cui abbiamo anche competenze specifiche, come ad esempio le dimensioni sulla povertà urbana e sulla sicurezza, di cui Daniela De Leo è portatrice personalmente sia come studiosa sia come coordinatrice di uno dei gruppi di lavoro che stiamo avanzando all'interno di Urban@it. C'è dunque un problema profondo di problem setting, non tanto di problem solving. Non si tratta di confezionare soluzioni che vadano in cerca di problemi, quanto di riuscire a individuare correttamente il modo di impostare il problema.
  C'è una grandissima questione che va tenuta presente molto fortemente, ovvero la necessità di costruire un quadro di coerenza e di priorità tra le tantissime strategie di cui ormai siamo dotati. Abbiamo una strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile, una per la biodiversità, una strategia per l'efficienza energetica, una strategia energetica nazionale, una per le comunità sostenibili. Abbiamo anche troppe strategie. Il problema è che non riusciamo a sintetizzare le priorità, da un lato, e, dall'altro, come fare a costruire interventi polisenso, che cioè in una singola opera riescano a perseguire contestualmente diversi livelli e tipologie di interessi pubblici.
  Questo è un tema fondamentale. Vale la pena di spendere un istante a riflettere su questo. Abbiamo un sistema amministrativo Pag. 6 che fraziona gli interessi pubblici per competenze, e quindi poi ci troviamo nelle conferenze dei servizi tante figure separate che gestiscono le competenze, ma spesso nessuno è in grado di fare delle sintesi. All'interno delle conferenze dei servizi spesso le amministrazioni, per difendere le singole competenze con i criteri separati che le hanno costruite, non riescono ad arrivare a quella necessaria selezione gerarchizzata di priorità dell'interesse pubblico. Non è possibile pensare che le competenze siano tutte equiordinate. È chiaro, per esempio, che nel degrado delle periferie attualmente il fenomeno sociale è un punto di sensibilità e che a volte il tema sociale chiede di essere considerato in misura prevalente rispetto ad altri. Ora, non è detto che per forza debba prevalere. Il punto è riuscire a costruire un logical framework, un quadro logico, che consenta di superare questo tipo di conflitti. Il segno di nuove politiche urbane, a nostro avviso, dal lato delle politiche pubbliche è essenzialmente questo. Tra l'altro, è anche uno strumento essenziale per riuscire a superare un altro dei problemi, e cioè una buona sintesi tra intervento pubblico e intervento privato nella definizione delle politiche. Molto spesso, il partenariato pubblico/privato non riesce a funzionare completamente proprio perché il soggetto pubblico non riesce a fare pienamente il suo mestiere, perché non riesce a essere regista, come peraltro sarebbe giusto che fosse, delle partite politiche. In particolare, ci sono alcuni provvedimenti importanti che il Governo ha recentemente assunto. Ricordo i bandi per le periferie degradate 1 e 2, il piano città, altri provvedimenti per la strategia energetica, «Casa Italia», un programma molto importante, che andrebbero messi in coerenza tra loro per costruire un quadro d'insieme e riuscire a raggiungere quel livello di fattibilità che attualmente impedisce per esempio alla messa in sicurezza e all'efficientamento energetico degli edifici di uscire dalla scala esclusivamente edilizia.
  Abbiamo assolutamente bisogno di affrontare alcuni temi a scala di parti insediative. Non possiamo pensare di risolvere tutti i nostri problemi lavorando sui singoli edifici. Questi programmi a scala di patti insediativi non hanno attualmente la fattibilità sufficiente. Il programma «Casa Italia» è molto importante, sia per il quadro di conoscenze che è in corso – la stessa De Leo è membro del gruppo di lavoro nominato da Azzone – sia perché il quadro conoscitivo che si formerà via via che il programma avrà attuazione nelle diverse zone consentirà di incrementare un'approfondita scansione dello stato di fatto del nostro patrimonio edilizio e delle sue condizioni di urbanità. Occorre assolutamente, però, che questo quadro conoscitivo e le finalità generali di politiche urbane individuabili, che trovate riepilogate nel documento che abbiamo distribuito, vadano a regime insieme al contributo pubblico, altrimenti c'è il rischio che questi contributi pubblici vadano dispersi. Pensate che già adesso il contributo del 65 per cento siamo finiti per darlo anche agli edifici che stanno nell'alveo dei fiumi, perché nessuno ha un quadro conoscitivo aggiornato sufficiente per distinguere e dire che il contributo per l'efficientamento non si dà a chi ha costruito in alveo, anche se ha fatto il condono edilizio.
  Questo è molto importante anche per elevare il livello di efficienza nel nostro Paese. Da questo punto di vista, già la formazione di politiche coerenti ed efficaci è non solo un elemento di promozione e di più elevata capacità, ma anche un elemento fondamentale per il recupero della produttività complessiva al costo dei fattori, che nel nostro Paese continua a non essere elevata. Se guardiamo all'interno dei dati economici dell'ultimo rapporto ISTAT, ci rendiamo conto però che non sono le aziende italiane ad avere un basso livello di produttività del lavoro, che invece sono efficaci, esportano, sono competitive. Il problema è che lo scarso livello europeo di produttività ce l'abbiamo soprattutto negli elementi esterni, nell'assetto del territorio, nelle diseconomie territoriali e nell'inefficacia del nostro mercato del lavoro di allocare le risorse e del nostro mercato immobiliare di funzionare. Pag. 7
  Ultimo punto di riflessione: una politica urbana nazionale ha bisogno di un'azione incisiva e chiara per risanare l'inefficienza del mercato immobiliare. Senza un risanamento del mercato immobiliare questo sarà impossibile, mercato immobiliare che non è più il mercato affluente dei primi anni Duemila, naturalmente, ma è sicuramente un'inefficienza del mercato l'esistenza di una grandissima e crescente domanda di servizi di residenza sociale a prezzi accessibili, che non trova un'offerta. Qui c'è un compito fondamentale e c'è bisogno di una politica nazionale che costruisca condizioni di ripristino di rapporto e di costruzione di un'offerta specifica che vada in questo senso. Alcuni elementi ci sono nell'articolo 26 dello Sblocca Italia del 2014, quando si privilegia l'intervento per il recupero del patrimonio edilizio statale per la realizzazione di alloggi di edilizia sociale, notoriamente in gran parte inattuato, a parte qualche episodio che si può vedere sul sito dell'Agenzia del demanio. Anche qui, l'uso del patrimonio immobiliare pubblico, che è un grande volano di lancio, va assolutamente coordinato con altre dimensioni della politica: è assurdo, dal nostro punto di vista, che non venga coordinato con le politiche infrastrutturali, altra grande competenza. È evidente che il patrimonio immobiliare dismesso è in aree interessantissime, abbastanza interne, molto spesso ben servite dal punto di vista infrastrutturale, ma che per motivi diversi non riescono a essere ingegnerizzate e restituite alla vita concreta del Paese. Le due dimensioni, però, potenziamento dell'azione dello Stato delle interfacce tra infrastrutture e sistemi insediativi e valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico, a oggi sono sostanzialmente separate, distanti e distinte, e riescono a congiungersi solo in alcuni casi particolari, come nel caso dell'operazione in corso a Milano sugli scali ferroviari. In quel caso, il patrimonio pubblico coincide con l'infrastruttura, ma è un caso assolutamente particolare. Tutti i siti industriali sono normalmente serviti, quelli dismessi, dalle Ferrovie, quantomeno perché per l'uso industriale serviva essere connessi e si tratta di fare un ragionamento di sistema che consenta di rimettere a regime queste risorse. Questo è un compito essenzialmente pubblico e di costruzione di una strategia nazionale che renda possibile questo e che possa essere affidata ai comuni. Una strategia nazionale – qui faccio riferimento al CIPU, l'ultimo soggetto istituzionale che in qualche misura ha cercato di raccogliere entro una visione unitaria le diverse dimensioni delle politiche urbane – dovrebbe tracciare questi elementi, darsi gli strumenti e dialogare con le autonomie locali per promuovere secondo questo nuovo logical framework politiche urbane locali in grado di produrre gli effetti di rigenerazione, che sono anche lo scopo fondamentale di questa Commissione.
  Io concluderei qui e col permesso del presidente passerei la parola a Daniela De Leo, che ci esporrà alcuni elementi più specifici delle nostre analisi in materia di programmi attualmente in corso per le periferie.

  DANIELA DE LEO, docente di urbanistica all'Università La Sapienza di Roma. Vi ringrazio per quest'occasione di confronto con voi su temi sui quali lavoriamo da molto tempo, entro un panorama ampio, sicuramente con molta ricerca sul campo, che determina un'inevitabile diffusione, troppo spesso senza sintesi, come veniva ricordato, anche in considerazione della forte diversificazione tra parti del Paese, tra città capoluogo o aree metropolitane e aree interne, nord e sud, molte differenziazioni territoriali che chiedono un'estrema accuratezza nella definizione degli strumenti di intervento e di governo e nella misurazione delle questioni che fanno davvero problema, e non l'occasionalità e la discrezionalità nelle scelte su dove, quando e come intervenire che abbiamo visto troppo spesso.
  Ci sembra, quindi, di poter considerare l'indicazione «periferie» come ciò che fa problema alla scala urbana e territoriale, non solo come etimologicamente quello che sta intorno, ma quindi un problema percepito pubblico o percepito come pubblico.
  Da questo punto di vista, l'orientamento di Urban@it, sin dalla sua fondazione, è stato quello di sostenere che, se vi è accordo Pag. 8 sul fatto che c'è una qualche rilevanza di questo tema, occorre probabilmente affrontarlo in maniera stabile e consapevole e metterlo appunto stabilmente in agenda.
  Dalle molteplici ricerche sul campo e dalle analisi delle politiche urbane emerge, invece, un quadro, come si ricordava, frammentato e intermittente, di azione e reazione, privo di strategie. Questo spinge molti studiosi a sostenere che nel nostro Paese vi sia soprattutto un problema di incertezza e di inerzia, che favorisce il peggioramento delle condizioni di degrado e sicurezza a partire dai luoghi più fragili, che sono appunto le periferie.
  Per offrire qualche spunto di riflessione, saranno evidenziati in maniera puntuale alcuni elementi critici evidenti nel bando e nei dossier di candidatura al bando periferie del 2016. L'abbiamo utilizzato non solo perché, appunto, è l'ultimo nato, ma anche perché ci interesserebbe indicare una strategia anche metodologicamente attiva di valutazione delle politiche che si mettono in campo. Nel materiale in distribuzione trovate quanto sto per dire, ma anche brevi cenni, sui quali andrò ancora più veloce visto che avete il materiale stampato a disposizione e riferimenti a esiti di ricerche precedenti, nelle quali si è ritenuto opportuno approfondire questioni che paiono centrali nel tipo di ragionamento che andiamo a fare, cioè il nesso tra periferie e criminalità (in particolare, mi sono occupata di quella organizzata), quasi come un inedito nel nostro Paese, dove invece le condizioni costitutive delle organizzazioni criminali nello spazio, nella città, producono effetti che hanno forti nessi con le questioni delle quali ci occupiamo.
  C'è poi la questione della povertà urbana, ossia forme spaziali della marginalità appunto alla scala urbana, per concludere con alcuni auspicabili indirizzi per l'azione pubblica che ho messo nelle conclusioni. Nei materiali trovate questa sorta di smontaggio del bando. Chiaramente, non vogliamo prendercela con il bando. È stata sicuramente un'ottima occasione, una grande opportunità per i comuni che non vedevano un'opportunità finanziaria di questo tipo, ma possiamo apprendere ogni tanto dalle esperienze e da quello che facciamo.
  Con riferimento alla struttura del bando, è presentato come un programma straordinario per trattare intenzionalmente aree molto critiche, poi siamo andati a vedere e non è che proprio intercetti aree molto critiche. Vengono indicati interventi di non meglio specificata riqualificazione urbana. Perché non ragionare invece su cosa ci interessa davvero fare in questi territori? Questo stesso bando è un'opportunità per le città metropolitane e per i capoluoghi, che potevano candidarsi congiuntamente su entrambi i finanziamenti, e abbiamo visto gli esiti. Si favorisce la partecipazione dei privati come se fosse un bene in sé, ma dopo tanti anni di esperienza, a partire dagli anni Novanta, sulle interazioni con i privati nell'azione pubblica alla scala urbana non siamo capaci di dare indicazioni che ci aiutino a ridurre i problemi dei quali abbiamo consapevolezza storica.
  C'è una generica idea di periferie. Una Commissione periferie, a un prossimo bando, può dare forse un contributo sostantivo per chiarire su cosa ci occupiamo. Per quello parlavo della questione di ciò che per noi fa problema alla scala urbana.
  Non viene considerata la necessità di realizzare opere e servizi essenziali assenti, come spesso succede nelle periferie, perché c'è una forte enfasi (condivisibile) sullo zero consumo di suolo, ma in alcune zone di periferia probabilmente non abbiamo né un rudere da riqualificare, né un vecchio edificio da riconvertire, e mancano i servizi: che si fa? L'ossessione del consumo di suolo zero forse la possiamo riservare per altri contesti.
  L'altro elemento è quello di un'apparente irrilevante integrazione tra gli interventi. Trovate le differenziazioni dei punteggi, che sembrano più premiare la fattibilità economica che non la qualità degli interventi. Anche su questo, in tanti anni di progetti urbani una definizione di come qualificare i progetti urbani non l'abbiamo formulata. La coerenza interna sembra sempre ancillare rispetto ai tempi, sempre concitati e appunto alla partecipazione dei privati, buoni in sé, e non c'è una differenziazione Pag. 9 tra i capoluoghi, per cui Roma e Avellino hanno le stesse risorse. In una delle stampe che avete, accanto a questa che ho appena presentato, c'è il confronto sintetico tra le situazioni di Roma e Avellino, e si vede come appunto – fornirò gli originali di questi materiali – la tipologia degli interventi costringa in qualche modo a fare scelte che forse non sono quelle più appropriate e soprattutto che rispondano meglio a un bando fatto per esigenze critiche come quelle delle quali stiamo parlando.
  Abbiamo tentato per i primi 24 progetti finanziati, in una prima fase, a localizzare anche geograficamente gli interventi, a vedere dove si collocano, anche per mettere definitivamente da parte una connotazione tutta geografica di periferia, ma anche su questo abbiamo pochi elementi critici che ci fanno dire «ecco, non ci interessa quello geografico». Quello che sicuramente emerge è che dalla risposta dei bandi, dai dossier di candidatura le città mostrano la scelta di situazioni intermedie dal punto di vista geografico, tralasciano completamente le questioni più estreme. L'abbiamo già visto dagli Urban in poi. Ovviamente, la spendibilità di un progetto che dà successo, che trasforma davvero il territorio, dove la trasformazione si vede, è molto più appetibile rispetto a situazioni in cui si comincia a fare un investimento e poi forse i cambiamenti si vedranno col tempo.
  C'è una drammatica assenza di indici, di possibilità di misurazione delle condizioni di marginalità, disagio, anche utilizzando quelli che erano già stati usati nel bando per le aree degradate del 2015, quindi indici di disagio sociale e di disagio edilizio. Abbiamo una qualità medio-bassa delle proposte. La realizzazione dei progetti forse ci sorprenderà, ma per il momento, come ricordava Simone, sembrano tutti progetti già presentati e datati, lacunosi, con una debole spinta innovativa, con sinergie talvolta eccessivamente fittizie rispetto al pubblico/privato, perché devono raggiungere il limite del 25 per cento. Ci sono anche buoni casi, o comunque esperienze interessanti, come quella della solita Torino, come potete vedere dalla georeferenziazione degli interventi, con un'idea di intervento diffuso su tutta la città, con una consistente quantità di azioni immateriali, quelle in viola nelle classificazioni che trovate sotto. Quella di Milano, in particolare Pioltello, è invece sorprendentemente una delle situazioni più critiche, più problematiche, dove la quantità di azioni immateriali surclassa decisamente quelle materiali.
  Ci sono condizioni, come dicevo, di ridotta innovatività delle aree, mancanza di visione strategica, mancanza di integrazione tra gli interventi. In particolare, tutte le città metropolitane hanno presentato domanda, tranne Bari, peraltro, la prima classificata all'interno della valutazione che è stata fatta. Comunque, si declina in maniera interessante la questione della perifericità, perché si preoccupa della perifericità dei comuni dell'area metropolitana. Si vede come la dimensione delle città metropolitane incluse in questo bando mostri alcune schizofrenie, come nel caso di Roma, dove il progetto del comune capoluogo non dialoga moltissimo con quello della città metropolitana, e anche delle continuità sbilanciate, come nel caso di Napoli, dove invece sembra che Scampia sia il problema e la soluzione sia della città di Napoli sia di tutta l'area metropolitana.
  Vi sono inevitabili opportunismi dietro il termine-valigia «periferie» e dietro l'ipotesi che questi siano soldi di un intervento straordinario. È anche vero che, non essendoci finanziamenti per le città metropolitane, le nostre amministrazioni pescano dove possono, tanto che gli interventi per Genova sono per scuole, servizi e mobilità, competenze adesso in difficoltà rispetto a chi se ne occupa, com'è a Napoli per la stessa edilizia scolastica e il nuovo assetto territoriale di questo policentrismo sempre atteso. In molti casi, parliamo anche di finanziamenti per i piani strategici, proprio esplicitamente per la realizzazione della città metropolitana. Evidentemente, come dicevo, si pesca dove si può. Dentro questo quadro troviamo invece concentrazioni di degrado. Sappiamo che ci sono aree con concentrazioni di degrado, di criminalità, di povertà urbana, che pongono anche problemi di decoro e sicurezza, ma Pag. 10non si esauriscono in questo. In molti progetti, invece, prevale la condizione di trattamento di decoro e sicurezza. Si tratta di condizioni ordinarie di degrado, criminalità, povertà, che sono stabilmente sotto gli occhi degli amministratori, quindi dovrebbero essere trattati con perseveranza e convinzione entro delle agende pubbliche stabili, anche con possibilità e risorse per poterli trattare.
  Gli indirizzi prioritari evocano il superamento di un atteggiamento un po’ rimediale delle nostre politiche. C'è Parigi 2015 e poi esce il bando periferie. Non vogliamo sempre accusare il bando periferie, ma è per intenderci su che cosa voglio dire con atteggiamento rimediale di certe politiche del nostro Paese. Costruire invece un quadro di riferimento certo per l'azione pubblica non serve a mettere un po’ le toppe, ma risponde a un orientamento che non cambia continuamente, riuscendo a individuare finalmente e a trattare le aree più degradate del Paese, come fanno anche in molte esperienze internazionali, dove c'è un quadro di aree degradate di particolare criticità, che poi vengono trattate. Si tratta di superare i legittimi e diversi indirizzi per strategie di sviluppo entro autonome dinamiche del territorio, e i cittadini possono anche valutare gli esiti delle politiche, della politica, e non solo segnalare il distacco o l'abbandono. Andrebbe aperto in questo quadro un luogo di confronto stabile sulla base delle priorità individuate, che tenga conto delle differenze territoriali come vantaggio e non come limite. Per elaborare orientamenti e indirizzi meno banali rispetto a quanto forse è stato fatto nel tempo, ci permettiamo di fare brevi richiami su nessi approfonditi sulla questione sicurezza/criminalità e degrado/povertà urbana. Vado veloce, perché avete anche voi i materiali.
  Sostanzialmente, nel tempo sono stati analizzati casi, è stata elaborata una chiave interpretativa che ricollocasse dimensioni della presenza della criminalità con effetti nello spazio, con effetti di degrado, con effetti di debolezza delle istituzioni, con effetto di resistenza alle trasformazioni. Richiamo varie questioni legate al rapporto tra criminalità e controllo e governo del territorio. Non rientra tutto sub specie politiche di sicurezza o marginalità sociale, ma si pone un problema di considerare le varie forme, quelle che abbiamo chiamato le varietà delle forme spaziali della criminalità, che produce condizioni di insicurezza all'interno delle aree urbane. In particolare, ci sono tutte le immagini che mostrano la varietà alla quale ci si riferisce. Parliamo di enclave criminali, aree degradate e controllate, ma anche di lottizzazioni abusive di matrice criminale. Almeno queste tre forme spaziali richiederebbero interventi differenziati. Non hanno lo stesso tipo di problema alla radice, non possono avere lo stesso tipo di soluzione. Pensare che imbiancare, rinfrescare e sostenere orientamenti di decoro urbano possa essere sufficiente è illusorio, e ne abbiamo le prove, non è la posizione marginale di poveri ricercatori che si applicano a queste cose. Le organizzazioni criminali prendono spazio e potere sulle disfunzioni, specie quelle di gestione e controllo, classicamente caratteristiche di queste aree, sulle carenze, che per le aree periferiche sono di tipo strutturale. Si sommano così le sregolazioni, creando condizioni sulle quali diventa difficile agire, ma su cui, come dicevo all'inizio, l'inerzia e il lasciare le condizioni di status quo peggiora la situazione, quindi non ci assolve dalla condizione nella quale ci troviamo.
  C'è sicuramente una funzione supplente di protezione e sicurezza delle popolazioni più marginali entro certi contesti controllati, ma questo spiega anche la diffusa legittimazione sociale e le forme di assoggettamento delle popolazioni ai poteri criminali in alcune aree. Queste modificano la relazione con lo spazio, e se noi interveniamo anche sullo spazio, dobbiamo tener conto di queste connessioni e di questi nessi. Sono stati indicati alcuni apprendimenti a partire da contesti nei quali aveva funzionato una qualche azione di contrasto. Sembrano rilevanti le azioni che ripartono dalle risorse locali e dai punti di forza, quelle che ricostruiscono reti di fiducia, quelle orientate a qualificare invece di mortificare l'azione della pubblica amministrazione, Pag. 11 quelle che spingono ad attuare azioni visibili, materiali, perché la gente si renda conto che il cambiamento è possibile, ma anche immateriali di lungo periodo e che non danno immediato riscontro e riconoscibilità a chi le ha promosse.
  Tra le varie indicazioni nelle zone abusive, condizione che senz'altro ci interessa, uno degli obiettivi è quello di allentare i legami, a volte sono più forti con organizzazioni criminali di quanto non lo siano con le istituzioni assenti, distratte; dare valore alla domanda di pubblico; superare i falsi dilemmi di demolizione e condono; offrire alternative alla via privatistica alla risoluzione dei conflitti come elemento cruciale.
  Per concludere velocemente sulla questione degrado e povertà, nelle immagini trovate una panoramica, anche in questo caso di contesti diversi: gli storici quartieri di edilizia residenziale pubblica, già richiamati da Simone Ombuen; gli insediamenti informali ai bordi delle grandi infrastrutture, segno di certe nuove popolazioni che accogliamo, insieme con i contesti dove ci sono i campi rom autorizzati o non. Anche sfogliando le immagini, per quanto in bianco e nero, del materiale in distribuzione, potete vedere che presentano problemi spaziali, dimensionali e urbani completamente diversi, e quindi ci richiedono una capacità di comprensione e di indirizzo notevoli.
  Concludo con gli indirizzi per l'azione pubblica: senz'altro delineare strategie di cambiamento a fronte delle inerzie e del mantenimento dello status quo, come dicevo già prima; capacitare le istituzioni e abilitare gli abitanti, invece di promettere governance e negoziazione con i privati come la soluzione che risolve tutto, e ripeto che abbiamo le prove che non è proprio così, quindi forse andrebbe cambiato un po’ il passo; estendere l'ambito dell'ordinario, invece di riproporre ogni volta lo straordinario come soluzione, l'eccezione e la straordinarietà; disporsi a governare l'anomalia e le sregolazioni, invece di stigmatizzare – sappiamo che molte periferie, molte aree urbane, sono lo stigma delle città, non vengono trattate, dicevamo prima, vengono sempre rimandate in sostituzione di aree più facili da trattare.
  Altri indirizzi per l'azione pubblica riguardano la possibilità di strutturare interventi multidimensionali in grado di incidere sulle geografie dell'accessibilità, riducendo la dipendenza non solo fisica che gli ambiti a forte marginalità geografica instaurano con le aree centrali; funzioni e relazioni, quindi l'integrazione di funzioni anche relazionali, per contenere la spinta fuori dal proprio contesto abitativo con un orientamento verso l'insoddisfazione permanente, che genera poi disaffiliazione, come viene chiamata da un importante sociologo francese; intervenire sulla mancanza di qualità e sul degrado che affligge ed esaspera il disagio e la percezione di dipendenza; promuovere occasioni di sviluppo economico sostenendo attività di supporto e formazione entro una dimensione individuale, che però ha effetti collettivi, quindi non solo politiche people based per questo tipo di problemi, ma politiche pensate per i loro effetti nello spazio. Nella società vanno rinnovate le relazioni tra i gruppi sociali deboli e forme di assistenza in termini di capacitazione.
  Occorre, probabilmente, superare la forma bando, per quanto sempre perfettibile – ci siamo anche misurati in un esercizio di riscrittura del bando – individuando con chiarezza aree ad alta marginalità a scala nazionale, potenziali destinatari pilota, su cui magari testare degli indirizzi sul modello dei primi Pic Urban, che comunque ci hanno insegnato molto; determinare i finanziamenti pescando tra vari tipi di programmazione, quella regionale e quella nazionale, per esempio sul modello della SNAI (sono tre leggi di stabilità che viene ribadito, quindi evidentemente riesce a funzionare); obiettivi sistemici di strategie generali e locali in termini di scenari, assumere quindi in modo stabile forme di monitoraggio, facilitate dall'adozione di indicatori dei risultati e degli impatti; coordinamento attraverso un soggetto unitario competente e responsabile, nel senso inedito nel nostro Paese di responsibility e accountability, avere qualcuno a cui chiedere conto delle cose fatte Pag. 12entro una prospettiva di pianificazione delle azioni e delle politiche.

  SIMONE OMBUEN, docente di urbanistica dell'Università di Roma Tre. Un'ultima riflessione, a proposito dell'importanza che diamo a questa Commissione, è relativa ai programmi in corso.
  Come sapete, per la prima volta dopo molti anni la quantità di risorse riservate ad azioni per le periferie ha raggiunto importanti dimensioni. È di questi giorni la delibera che assegna al fondo sviluppo e coesione ulteriori 800 milioni, che vanno a colmare il complesso delle azioni del bando periferie degradate 2, a cui si aggiungono il bando periferie degradate 1 e il piano nazionale per le periferie del Governo Monti. Queste risorse, però, sono molto problematiche. Nel caso del piano nazionale per le periferie, ricordo che, a fronte di 260 milioni complessivi, se non sbaglio, di detrazione finanziaria, a oggi siamo, a somme trasferite a tre anni dal varo del risultato, a poco più di un decimo. Sono risorse effettivamente trasferite agli enti locali. C'è un grande problema di dismisura tra stanziamenti teorici a disposizione ed effettiva capacità di spesa, per i noti problemi. I progetti fatti senza avere i fondi per la progettazione sono fatti molto approssimativamente, bisogna rifarli quando arrivano le risorse perché mancano gli effetti di coordinamento. Ci sono molti problemi in cui sarebbe il caso di entrare.
  Una cosa rilevante è che nel passato abbiamo visto che molto si fa attraverso la rimodulazione degli interventi, sia rimodulando gli interventi che sono stati finanziati, sia attraverso meccanismi di definanziamento e rifinanziamento fatti all'interno degli insiemi di comuni e di territori ammessi al finanziamento all'interno delle diverse misure. Questo dura a volte anche decenni. Ancora oggi, il Ministero delle infrastrutture continua a definanziare e rifinanziare i PRUSST; i contratti di quartiere non sono ancora completati e via di seguito.
  La Commissione ha una vera possibilità di dare indicazioni, ed è a mio avviso molto importante che riesca a darle anche interattivamente rispetto all'attuazione di programmi già in corso, non solo pensando a programmi che verranno, ed è giustissimo in quel caso. Nei prossimi due anni, per esempio, per una serie di motivi che non dirò in una sede politica, è molto difficile che ci siano ulteriori risorse finanziarie messe sul tema città. La legislatura finisce a marzo dell'anno prossimo, si voterà, bisognerà insediare il Governo, ci saranno priorità importanti da affrontare. Cominceremo ad affrontare la questione e torneremo sul tema forse nel febbraio-marzo 2019. Nel frattempo, abbiamo davanti un arco di un anno e mezzo, due anni, in cui si tratterà di guidare i programmi in corso. Dare indicazioni su questo è, secondo me, un compito di prima grandezza per la Commissione, che può effettivamente farlo, soprattutto perché, se da questo contesto emergono linee di indirizzo per la definizione di politiche nazionali, possono avere un'influenza importante, così come per nutrire l'agenda urbana nazionale, che speriamo un giorno si arrivi a scrivere.

  PRESIDENTE. Le analisi che avete svolto suffragano un po’ le sensazioni su cui ci eravamo mossi in questi mesi. Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  DANIELA MATILDE MARIA GASPARINI. Innanzitutto, vi ringrazio di cuore. Il vostro è veramente un contributo importante. Conosco la rete di Urban@it, anche perché il presidente è un milanese, Alessandro Balducci. Avremo occasione, credo, di confrontarci meglio nel merito, visto che due componenti della nostra Commissione sono il professor Laino e il professor Calvaresi, quindi sarà utile approfondire alcune delle cose che avete indicato.
  Vorrei riprendere e fare una domanda sulle cose che diceva alla fine il professore. Stamattina, mi veniva raccontato che, a un convegno organizzato da Anci con il comune di Bergamo, in pratica si è detto da parte di Anci che si darà avvio a una rete nazionale per seguire questo progetto. Credo che sia molto utile far sì che i comuni che hanno ottenuto questi finanziamenti si parlino, ma soprattutto che qualcuno li accompagni. Pag. 13 Anch'io sono d'accordo che questo bando ha avuto delle risposte un po’ raffazzonate, molte volte non coerenti, ma a questo punto sono all'inizio, stanno ancora trattando: varrebbe la pena capire come, e questa è la domanda, Anci aiuti questo processo e, già costituendo una rete nazionale, provare ad accompagnarli, aiutarli e integrare le cose che vanno integrate. Ieri, abbiamo fatto un convegno con Nencini nella mia città, e l'assessore di Pioltello raccontava il loro progetto immateriale, come lei ha definito, che è tutto da mettere a fuoco, con il rischio che in una situazione di emergenza come hanno loro facciano una sperimentazione che è già stata fatta da altri comuni – penso all'Agenzia per la casa o ad altro – e ricomincino da capo. Credo che un accompagnamento sia molto utile. Vorrei capire se Anci e Urban@it su questo stanno lavorando. La regione Lombardia ha fatto una legge, la n. 12, in cui dice giustamente, prima di dire quali indici, il piano dei servizi... In realtà, tutto questo è come fosse nulla. Quello che di fatto non viene fuori in nessun intervento è il ruolo delle regioni. L'unico soggetto che oggi in una politica nazionale può aiutare un processo differenziato ma coerente nei territori diversi sono, a questo punto, solo le regioni, che, al di là dei problemi nazionali da mettere a punto, hanno in mano poteri e ruoli sia per l'urbanistica, sia per i servizi sociali, sia per la casa.
  Vedo, invece, che è un soggetto assente. È una mia idea o è così anche rispetto alla vostra...

  SIMONE OMBUEN, docente di urbanistica dell'Università di Roma Tre. Per questo, avevo esplicitamente citato il caso delle elaborazioni che l'allora Dicoter, in sede di avvio della fase di programmazione 2007-2013, chiese alle regioni, cioè quadri di coerenza territoriali sulla cui base orientare le politiche urbane. Quando si guarda il problema, è difficile fare un'azione diversa. In quel caso, Dicoter dette un finanziamento, modesto ma importante (che produceva conoscenza orientata alle politiche), per cui furono prodotti questi quadri di coerenza regionale, che servirono da analisi di contesto per costruire le politiche. Senza un quadro conoscitivo come si individuano gli obiettivi e come si costruiscono, peraltro, gli indicatori per misurare gli effetti, come ci chiede la Commissione europea. In quel caso, il rilevante successo che si ebbe fu dovuto proprio al fatto che esisteva una politica nazionale di orientamento, che poi naturalmente porta a programmi molto differenziati, perché le realtà sono diverse. Ci vuole però un impulso centrale, che dia consapevolezza, quadri conoscitivi, che costruisca community. Ero lì al parlamentino dei lavori pubblici quando furono presentati tutti questi quadri di garanzia: fu un'esperienza interessantissima, un dibattito anche molto elevato dal punto di vista della qualità. Il punto è che lo Stato ha smesso di farlo. Le regioni da sole non sono lo Stato. La Repubblica italiana è costituita da comuni, province, città metropolitane. Ci vogliono tutti. Tutti devono fare il loro mestiere, e il mestiere dello Stato in questo quadro è far capire che c'è il quadro e farlo funzionare.

  DANIELA DE LEO, docente di urbanistica all'Università La Sapienza di Roma. Peraltro, già rileviamo un'assenza di strategia tra comune capoluogo e città metropolitana. Intravedere la possibilità del richiamo di un quadro di coerenza con livello regionale, che sarebbe sensato, mi sembra una di quelle cose che va costruita nelle indicazioni di «lavoriamo tutti per lo stesso fine», ma deve essere chiaro l'obiettivo che stiamo perseguendo. Cambiare ogni volta denominazioni, target, senza mai definire il problema del quale davvero ci vogliamo occupare, è probabilmente la mistificazione della quale paghiamo maggiormente il prezzo.

  SIMONE OMBUEN, docente di urbanistica dell'Università di Roma Tre. Un altro esempio? Abbiamo una strategia nazionale di efficientamento energetico, per fare la quale è essenziale il catasto energetico, ma i catasti energetici ci sono solo in alcune regioni o sono tutti diversi gli uni dagli altri, hanno impianti informatici diversi, hanno procedimenti di certificazione diversi. Il lavoro di unificazione dell'Enea è Pag. 14stato acceso, poi spento, poi acceso, è stato cambiato il software. Com'è possibile una cosa del genere? Potremmo continuare. Pensate che ancora oggi la competenza per la costruzione dei quadri conoscitivi per la costruzione dei sistemi informativi territoriali non è nazionale, è stata data alla conferenza delle regioni. A parte il protocollo di DigitPA, in realtà è una conferenza interregionale che sostanzialmente decide i protocolli di costruzione dei sistemi informativi. È possibile una cosa del genere? Ci vuole lo Stato, ci vogliono politiche nazionali.

  CLAUDIA MANNINO. Anch'io mi associo veramente ai ringraziamenti per questo quadro d'insieme che abbiamo riscontrato durante questi anni di attività, ma effettivamente oggi, io almeno, ho avuto una visione d'insieme.
  La domanda che vorrei porre è di due tipi. Sono assolutamente d'accordo sul ruolo centrale che deve avere lo Stato nel dare gli indirizzi su come raggiungere un determinato obiettivo e che quest'obiettivo deve essere chiaro, preciso, non modificabile, e soprattutto non interpretabile. Alla scala inferiore, che si tratti delle regioni, delle province o ex province, delle città metropolitane o di soggetti attuatori X – penso anche a Ferrovie dello Stato se dovessimo parlare delle infrastrutture – anche quelli devono avere lo stesso obiettivo, la stessa visione, e ognuno ha il suo ruolo, come è stato detto poco fa. Sono assolutamente d'accordo su questo. Mi chiedo e chiedo a voi, poi magari dico la mia opinione, quale sia lo strumento che deve permettere questa visione unanime. Le iniziative, le attività, gli investimenti di cui i territori o le periferie hanno bisogno ovviamente non sono raggiungibili nell'arco di due anni, tre anni. Nella maggior parte dei casi, c'è bisogno proprio di una visione, di una programmazione a media e lunga scadenza, che appunto può avere lo Stato centrale, dovrebbe avere lo Stato centrale, e regioni e comuni attuare. Manca lo strumento, dal mio punto di vista. Lo strumento preposto a fare questo viene, secondo me, fortemente sottovalutato, e credo – vi chiedo se la pensate così anche voi – sia fortemente sminuito proprio da tutti questi «finanziamenti a pioggia», programmazioni speciali, progetti straordinari. A me piacerebbe avere chiarezza, o meglio mi piacerebbe sapere se tutti la pensiamo così sugli strumenti urbanistici. Il PRG non esiste più, ma ancora abbiamo i piani paesaggistici delle regioni. Dove sono? Non ci sono. Pensiamo che li possa fare tutti lo Stato a livello centrale? Non credo proprio. Penso che le regioni debbano avere il loro ruolo. Nel momento in cui non è così, probabilmente bisognerebbe pensare a un atteggiamento di un certo tipo. I comuni devono avere la loro programmazione urbanistica, che non può essere la scala di dettaglio del progetto esecutivo finanziato dall'Europa o finanziato dallo Stato. Il PRUSST dovrebbe rientrare in una pianificazione anche un po’ più ampia.
  Siccome la sensazione per me è quella di partire quasi da zero su questo fantomatico problema delle periferie, mi chiedo quali siano le priorità. Abbiamo una realtà frastagliata di strumenti avviati, da avviare, in fase di conclusione, ma se si devono coordinare, allora forse si deve decidere: su qualcuno mettiamo un fermo di cinque anni; su un altro portiamo a compimento i piani paesaggistici; i piani regolatori; i piani delle infrastrutture?
  La domanda che vi rivolgo è: quali sono le priorità, visto lo scenario molto ampio? Non è l'interesse personale, ma è la singola realtà che sembra essere in effetti virtuosa, e quindi poi inizia a fare le eccezioni, le deroghe, e cominciamo da capo.

  SIMONE OMBUEN, docente di urbanistica dell'Università di Roma Tre. Anzitutto, sono due ordini di priorità diversi. Ci sono priorità di merito e ci sono priorità di sistema. Vanno distinte.
  Grazie al cielo, la voglia di fare degli enti locali italiani ha comunque prodotto tante esperienze. La pianificazione strategica è ormai abbastanza nota, per esempio, sia pur in modi molto differenziati, è stata addirittura finanziata al tempo dall'allora dipartimento per le politiche di sviluppo in alcune realtà regionali, in particolare nelle aree convergenza e in certe zone del phasing out. Quello è un riferimento. Pag. 15
  Quanto al secondo aspetto, ormai molti sistemi di pianificazione in Italia distinguono tra una pianificazione di tipo strutturale, che forma un quadro conoscitivo stabile e con una vista di lungo periodo, e una dimensione operativa, che invece mira al governo di trasformazioni entro il termine del mandato del sindaco, o comunque di passo molto più stringente.
  Questa doppia linea è indispensabile in genere per tutto il governo del territorio. Naturalmente, bisogna distinguere obiettivi di lungo periodo e obiettivi che invece sono materialmente operabili a breve. Questo è per quanto riguarda elementi di sistema.
  Poi ci sono degli elementi fattuali. Alcune emergenze, alcune situazioni hanno a che vedere con gli elementi strutturali. Il cambiamento climatico sta portando a trasformazioni profonde del quadro di riferimento. Abbiamo scoperto che non è vero che quelle che alcuni sistemi di mitigazione chiamano invarianti strutturali lo sono: variano. I regimi fluviali variano, i regimi delle acque variano. Siamo dentro una siccità drammatica, che sta mettendo in ginocchio le zone del centro sud. Questi sono elementi molto rilevanti, che chiederanno interventi di tipo strutturale sui regimi delle acque, sull'allestimento dei sistemi urbani e così via. Poi abbiamo altre esigenze molto più rapide, per esempio il fatto che abbiamo flussi migratori molto rilevanti, peraltro non solo di provenienza straniera. È ripartito anche il fenomeno migratorio interno all'Italia, che genera ulteriori problemi. Da questo derivano problemi sociali nei contesti, problemi di rischi. Capisco che far collimare le diverse politiche è una cosa complessa, ma dovrebbe portare a lineamenti diversi. Se immagino cosa potrebbe dire la Commissione al Parlamento, le linee di orientamento potrebbero essere, da un lato, a elementi di intervento sul sistema, introducendo appunto modalità strategiche che individuano obiettivi e strategie che poi declinano sulla base di questo anche flussi di risorse, e delle modalità di recepimento di obiettivi specifici diversi da contesto a contesto.

  DANIELA DE LEO, docente di urbanistica all'Università La Sapienza di Roma. Provo a dare una risposta più secca.
  Ogni volta che siamo chiamati a parlare di queste cose, di tutta la questione del governo del territorio, ci dicono: «i piani...tutti i tipi di piani», quindi sembriamo vittime di questi piani che alcuni di noi non hanno mai fatto, per cui non sono neanche la parte che prediligono della disciplina. In ogni caso, quello che a me sembra evidente, che ho provato anche a dire, è: decidiamo che cosa ci interessa fare rispetto alla questione periferie, non su tutto il governo del territorio del Paese, le assenze, le lacune gravissime della pianificazione nel nostro Paese che hanno portato moltissimi problemi e ancora ne determinano. Rispetto alla questione delle periferie, probabilmente, come dicevo all'inizio, abbiamo dimensioni che fanno problema e altre che, invece, sono trattabili entro politiche ordinarie se stiamo parlando di un problema specifico delle periferie, della sicurezza, del degrado delle città e delle periferie, del quale si occupa questa Commissione. A me sembra che potremmo finalmente dire che i bandi non ci servono, non funzionano, perché sappiamo che premiano sempre i più bravi, quelli che già sanno fare e che farebbero tutto lo stesso anche senza quelle risorse, o si riciclano i progetti che si hanno nel cassetto perché non c'è il tempo. Di fronte a una cosa di questo tipo, pensare di poter attivare una strategia di pianificazione di lungo periodo, ma che interessi la scala nazionale – è un problema che hanno tutte le città, con le differenziazioni e le diversificazioni che abbiamo detto – adottando anche buone pratiche, copiando, adattando ai nostri contesti buone pratiche di livello internazionale... penso alla situazione del Regno Unito, che comunque dentro una mappatura della marginalità multipla sceglie le città sulle quali intervenire e destina delle risorse. Alcune cose le rimette a bando, su altre accompagna i soggetti più deboli, ma questa priorità nazionale di intervento sulle aree della marginalità multipla è messa a sistema entro direzioni di intervento che, come dicevo, hanno una selezione delle aree, dei finanziamenti stabili Pag. 16 e un set di azioni che si possono fare. Non ci si può inventare «la qualunque», non si possono fare le panchine. Si sta trattando la marginalità multipla. Se qui dentro, e io con voi – sono anni che mi appassiono sempre ai lati disperati e disastrati delle città – ci interessa trattare delle condizioni di degrado che ci offendono come cittadini di questo Paese, come persone che provano a governarlo, forse si possono fare delle scelte che dicono che bisogna fare queste cose in queste aree, in prima battuta. Su questo una strategia di pianificazione nazionale, poi gestita a livello locale per le differenziazioni di cui abbiamo detto, ha anche in questo Paese una qualche sperimentazione a livello di policy. Continuo a citare la strategia nazionale aree interne, perché mi sembra che tenga insieme un livello di indirizzo nazionale con un livello locale. Adattato rispetto a questo, probabilmente avrà un'altra forma, un altro dispositivo, ma questa necessità di tenere insieme un orientamento di livello nazionale e pratiche locali diversificate sulla base delle differenziazioni delle quali abbiamo detto è possibile. Mi sembra che stabilendo la priorità di intervento sulle aree urbane che fanno problema, quindi a fronte di condizioni di mancata pianificazione storicamente determinata, di adeguamenti in corso d'opera, varianti su varianti, ci siano però condizioni che chiedono un intervento prioritario. Individuarle e assumersi la responsabilità di portare avanti quell'intervento è, secondo me, possibile e ci consentirebbe di adattare anche modelli sperimentali. Come dicevo, proviamo, decidiamo aree pilota, facciamo una verifica, per una volta valutiamo l'esito di una policy che portiamo a compimento. La realizziamo, la portiamo fino alla fine, guardiamo che cosa è successo e decidiamo: dobbiamo continuare a fare in questa maniera o no? A me sembra che negli ultimi vent'anni di politiche pubbliche la nostra capacità di concentrazione su uno strumento, un po’ storditi dagli acronimi, dalle nuove sigle che abbiamo dovuto tutte le volte definire e memorizzare, non ci abbia portato a fare una verifica seria. Questo ha funzionato? Allora, replichiamo. Questo non ha funzionato? Serve l'accompagnamento? Lo facciamo. Non serve? Non lo facciamo. Funziona il bando? Sì, no. Su alcune cose è ogni volta una riffa, si apre la scatola e si mettono alcuni ingredienti. Non importa se ci sono, come dicevo, le prove che magari facilitano il rafforzamento di certe élite estrattive, come vengono chiamate da certi autori; se si riproducono dei meccanismi perversi, per cui, invece di migliorare, le condizioni peggiorano. Se non apprendiamo e non facciamo una valutazione delle politiche che abbiamo portato avanti, come facciamo a trattare i problemi del Paese, che si ripropongono? Quella dimensione dell'inerzia che ho segnalato all'inizio, del mantenimento dello status quo, è diventata persino peggiore dei mali in questo Paese. L'incapacità di prospettare ai cittadini la possibilità che si possano cambiare le cose, che le cose possano migliorare, che si possa vivere meglio, e che non sia invece tutto un piano discendente di malessere e vessazioni, probabilmente dobbiamo assumerla come elemento prioritario rispetto a quest'azione.

  VINCENZO PISO. Intervengo rapidamente, anche se la professoressa De Leo ha in parte risposto ad alcune mie perplessità.
  Prendo spunto dalle osservazioni che sono state fatte anche sugli ultimi bandi del Governo per quanto attiene le periferie. Avendo fatto per tanti anni il consigliere comunale e non credendo molto nella capacità di autoriforma della politica, sono arrivato alla conclusione che forse bisognerebbe avere il coraggio non soltanto – chiaramente, quello dovrebbe essere un compito della politica – di individuare delle priorità e su quello concentrare le risorse a disposizione, ma di mettere anche dei paletti molto rigidi. In termini di risorse perlomeno potenziali, l'ultimo bando fatto è importante. Vedere come queste risorse vengono utilizzate senza nessun criterio di differenziazione, per poi ritrovarci col rifacimento dei giardinetti, lascia veramente molto perplessi.
  Siccome questo tipo di prassi è molto più facile da perseguire forse bisognerebbe vincolare, ad esempio, le risorse dello Stato a interventi di carattere strutturale e impedire Pag. 17 che queste risorse vengano utilizzate per, come si dice a Roma, inseguire Maria per Roma, per la città, e investirli non si capisce bene in che cosa. Questo è un modo di fare politica che purtroppo conosciamo molto bene, che la nostra città ha subìto per tanti anni e che ci ha portato a questa condizione assurda. Ribadisco la domanda, perché non la voglio fare troppo lunga: secondo voi, sarebbe auspicabile questa maggiore rigidità nell'utilizzo delle risorse dello Stato? Intendo dire: tu, comune, vuoi rifare il giardinetto e te lo finanzi con le tue risorse, non puoi attingere a risorse messe a disposizione dallo Stato, che a mio giudizio dovrebbero rispondere a una logica più di carattere strategico su quella che proprio dovrebbe essere l'ossatura su cui poggiare la riqualificazione delle nostre città, sui servizi, sulle cose che hanno un peso effettivo. Di conseguenza, o sei in grado di darmi risposte o progetti su questi temi, differenziando l'importanza – tocco un altro tema, che a me sta particolarmente a cuore – di una nobile pista ciclabile e un trasporto pesante su ferro, che sono due cose diverse, anche se oramai in termini di immagine sembrano la stessa cosa, ma purtroppo non lo sono; o credo che continuando su questa strada non ne usciremo. Su questo vorrei una vostra opinione.

  SIMONE OMBUEN, docente di urbanistica dell'Università di Roma Tre. Per rispondere al cambiamento climatico, a volte bisogna mettere mano a come sono fatti i giardinetti. Dipende da che cosa si vuole fare. Si mette mano al giardinetto, appunto, dipende per fare che cosa. Non si tratta di pensare al servizio di prossimità di madri che nel frattempo sono sempre di meno e poi sono sempre più non italiane. Per fortuna, ci sono le madri non italiane in Italia, sennò saremmo veramente nei guai con la demografia. Un punto fondamentale non è, secondo me, introdurre criteri di rigidità. È un Paese che ama dividersi tra reazionari e conservatori, il nostro. La rigidità normalmente non riesce a produrre esiti quanto elevare la cultura del Governo. Il modello francese, in qualche modo modello di riferimento per il nostro Paese, è stato profondamente influenzato dall'esistenza della Datar e dell'Agence d'urbanisme, che hanno costruito la cultura del governo del territorio in Francia, Paese nel quale si fa una riforma generale del governo del territorio ogni dieci anni circa, adeguando via via lo sviluppo. Non tutte con successo, non tutte le ciambelle vengono con il buco, ma la Francia continua a provarci, a sfidare e a innovare le dimensioni territoriali, la scala opportuna per le diverse cose. Avete qui anche rilevanti competenze di supporto per affrontare queste questioni. Questo è un punto fondamentale.
  Il secondo aspetto è costruire una community, cioè fare in modo – il riferimento dell'onorevole Gasparini è rilevante – di capitalizzare l'esperienza, che vuol dire dare continuità, soprattutto agli aspetti di formazione, conoscitivi, peraltro afflitti – ricordo – dal blocco del turnover. Nel frattempo infatti le amministrazioni hanno perso drammaticamente competenze, i funzionari dirigenti che devono fare queste cose sono sempre più anziani, e questo impedisce di assumere giovani che abbiano le nuove competenze ed esperienze digitali, essenziali invece nella visione corrente delle pratiche.
  Naturalmente, siamo assolutamente disponibili. Tra l'altro, i gruppi di ricerca che fanno riferimento a Urban@it praticano correntemente sia i rapporti con il territorio sia i rapporti con le amministrazioni. Certamente, il grado di partecipazione delle amministrazioni all'innovazione nei rapporti con l'università è drammaticamente calato, non per indisponibilità delle amministrazioni, ma per scarsità di risorse umane, organizzative ed economiche, cosa fondamentale. Abbiamo la metà delle persone che si occupano di governo del territorio per abitante rispetto alla Germania. Se prendo il rapporto tra addetti al governo del territorio e popolazione, in Germania ne hanno il doppio. È chiaro che loro riescono a farlo meglio, c'è anche un fatto quantitativo, e anche perché sono tedeschi, ma non è un caso. Poi, anche i tedeschi hanno i loro limiti.

  DANIELA DE LEO, docente di urbanistica all'Università La Sapienza di Roma.Pag. 18Questa indicazione della necessità di capacitare le istituzioni e abilitare gli abitanti è tra le cose che ho detto forse molto velocemente. Sicuramente, la dimensione del dare credito e rafforzare l'azione pubblica alla quale ho fatto riferimento richiede questo. Ovviamente, in alcuni casi sono necessari anche la pista ciclabile e il giardinetto. La questione che abbiamo provato a sostenere è che questo intervento deve essere parte di una strategia con un obiettivo di trasformazione non in modificazione tra quando esce il bando e quando rispondono i comuni, ma con l'indirizzo chiaro di una volontà di trattare seriamente alla radice alcuni problemi giudicati urgenti per tutti i livelli di governo, quindi responsabilizzando tutti i governi i livelli di governo che hanno competenza su quell'aspetto, ma una volta che è stata definita quella come priorità. Citavo il caso del Regno Unito, che attraverso la mappatura decide quali sono le aree sulle quali vanno fatti alcuni interventi per trattare il problema della marginalità attraverso un approccio multiplo. Secondo me, nel tempo abbiamo anche messo a fuoco cose con caratteri di innovazione, ma poi ce li siamo persi per strada o non abbiamo appreso dall'esperienza, quindi è come non averli fatti. Su questo penso che ci sia del lavoro da fare, e mi auguro che la Commissione possa dare il suo contributo: noi siamo disponibili a dare il nostro.

  PRESIDENTE. Vi ringraziamo molto per il contributo, soprattutto perché si evidenzia questo tema della strategia, che veniva fuori anche nell'audizione della volta scorsa con la Ministra Fedeli, la quale denunciava la presenza di molteplici e diverse modalità di intervento non coordinate tra loro, che configurano uno spreco di risorse e anche, a volte, un'inefficacia nel risultato. Su questo filone, su cui siete stati anche molto chiari, credo che dovremo fare un lavoro di indagine suppletivo con la Commissione.

  DANIELA DE LEO, docente di urbanistica all'Università La Sapienza di Roma. Sulla risorsa delle scuole alla quale ha fatto riferimento – ho letto l'intervento della Ministra Fedeli – molti progetti riescono a interloquire e considerano le scuole effettivamente risorse locali su cui rilanciare interventi di rigenerazione del tessuto sociale. Se trovate il modo per raccordare tutte queste buone risorse e intenzioni.

  PRESIDENTE. Il modo si chiama strategia, ed è quello che evidentemente spetta alla politica. Dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione del professor Ezio Micelli, ordinario di estimo presso l'Università IUAV di Venezia.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del professor Ezio Micelli, ordinario di estimo presso l'Università IUAV di Venezia, che ringrazio per aver accolto l'invito della Commissione, che in particolare ha svolto e presentato una ricerca molto interessante sul tema delle implicazioni dell'economia urbana e della rigenerazione delle periferie.
  Do la parola al professor Micelli, con riserva per me e per i colleghi di rivolgergli, al termine del suo intervento, domande e richieste di chiarimento.

  EZIO MICELLI, ordinario di estimo presso l'Università IUAV di Venezia. L'occasione per me è particolarmente gradita, anche perché così ho la possibilità di promuovere contenuti che nel corso di questi mesi ho maturato all'interno di una ricerca, promossa dal MiBACT con particolare riferimento alla direzione arte e architettura contemporanea e periferie urbane. Ho qui davanti a me l'architetto Galloni, che ha convintamente sostenuto un percorso di approfondimento e di ricerca, che aveva proprio come ipotesi una riflessione che a qualcuno potrà apparire peregrina, al sottoscritto è apparsa invece fondante di fertili percorsi di riflessione e di azione, che vede nella relazione tra cultura e rigenerazione urbana un pilastro delle nuove modalità di intervento nelle nostra città. Voglio condividere con voi alcune riflessioni. Lo faccio nei trenta minuti che il presidente mi ha dato, cercando di rispettare Pag. 19 al meglio i miei tempi, organizzando la mia riflessione in cinque punti.
  In primo luogo, voglio ragionare con voi su qual è stata la riflessione che abbiamo fatto sull'idea stessa di periferie, non dando per scontato il tema, in particolare l'oggetto, e cercando invece di problematizzare, per quanto possibile, questo tipo di sostantivo, che ripeto per noi non è apparso né monolitico né scontato. Abbiamo poi ragionato sul tema della cultura. Come può la cultura intervenire utilmente nell'ambito di processi di rigenerazione, di processi che mobilitino le comunità locali in un percorso di rinascita, di rigenerazione degli spazi. In terzo luogo, abbiamo considerato le risorse, abbiamo ragionato soprattutto sul ruolo che le politiche patrimoniali possono avere. Il quarto punto che voglio considerare con voi è il tema del valore. Il presidente ha segnalato la centralità, anche nella mia personale riflessione, dei temi legati alla creazione di valore. Vedremo poi come questa riflessione può essere declinata in molti modi e il tema del valore può trovare un'ampia gamma di declinazione. Infine, un aspetto che è stato toccato anche alla fine della ricerca promossa dal MiBACT e dalla direzione che ho prima ricordato l'8 maggio, è il tema delle politiche: come agire, come promuovere concretamente azioni di questo tipo.
  Non c'è la minima volontà di sostituirsi all'organo che fa, per quanto riguarda il suo potere legislativo, quanto invece una serie di indicazioni che emergono con chiarezza con riferimento sia alle politiche di rango nazionale sia a interventi di carattere locale, sul fronte delle amministrazioni che operano a diretto contatto con simili processi.
  Parto dal primo punto, relativo al tema della problematizzazione del concetto di periferia. In realtà, il Paese esce profondamente mutato dalle recenti crisi che lo hanno colpito. In particolare, se vogliamo prendere la data del 2008 per convenire su una data di riferimento, scopriamo che con un orizzonte di maggiore profondità due grandi variabili sembrano incidere potentemente sulla società, sull'economia italiana e sulla sua struttura, sulla sua articolazione territoriale. Se prendo il tema economico, posso considerare che nel lungo periodo, nel medio-lungo periodo – prendiamo quindici anni per darci un orizzonte condiviso di riferimento – ebbene, il nostro è un Paese che non cresce più. Questa non è semplicemente un'affermazione di maniera. Se utilizziamo, per esempio, i dati del Fondo monetario internazionale, siamo di fronte a una crescita zero, che performa meno di Paesi che non rappresentano la locomotiva d'Europa, e penso alla Grecia e al Portogallo. È un problema strutturale di crescita, che ha un suo corrispettivo anche in un dato molto importante sotto il profilo demografico: il nostro è un Paese che ha un saldo demografico naturale ormai da diversi anni negativo, compensato dalla componente migratoria, che tuttavia proprio in questi ultimi anni ha mostrato di essere particolarmente erratica, poiché ovviamente legata alle opportunità lavorative e di sviluppo che in un determinato Paese hanno sede. Questa doppia crisi, demografica ed economica, non è senza esito sotto il profilo delle variabili territoriali. Se consideriamo come esce il nostro Paese da questi 15-20 anni, scopriamo che alcune aree metropolitane si sono potentemente rinforzata, e altre hanno invece iniziato a mostrare evidenti segni di crisi. All'interno delle aree metropolitane troviamo sistemi che si rivelano essere più fragili di altri. Contro ogni apparente e rassicurante indicazione, troviamo problemi anche laddove pensavamo di avere soluzioni, di avere conferme a una buona condotta da un punto di vista delle politiche territoriali. Arrivando al nodo della questione, se esistono grandi poli metropolitani – penso, in particolare, alle due grandi città, Roma e Milano – ci troviamo di fronte ad ampi territori che oggi iniziano a conoscere fenomeni di spopolamento e di abbandono. Il dibattito sulle aree interne certo non vi stupisce, certo non è una novità. Allora, non ritorno su aree come Umbria, Marche e alcune zone del Lazio, ma prendo due estremi del nostro Paese, il Friuli e la Basilicata: se andiamo a vedere i dati demografici ed economici di queste due regioni, scopriamo indici demografici praticamente preoccupanti, Pag. 20 e qui uso degli aggettivi che non voglio forzare, ma che devono avere tutta l'enfasi del caso; troviamo meccanismi di spopolamento ormai quasi irreversibili. Se prendo, in particolare, gli indici di vecchiaia di una regione, di benessere, di solidità culturale, economica, sociale, come il Friuli-Venezia Giulia, scopro che l'indice di vecchiaia è tale per cui per ogni giovane sotto i 15 anni ci sono due anziani sopra i 65 anni, piramide dell'età completamente rovesciata, completamente compromessa, che evidentemente indebolisce grandemente la struttura economica e sociale di quei luoghi. Non siamo di fronte alle tradizionali periferie del degrado urbano, del disagio, della concentrazione di povertà e di crisi sociale, ma di fronte a territori che iniziano a segnare il passo sotto il profilo delle chance di vita che offrono alle proprie popolazioni. Abbiamo poi altri fenomeni che riguardano quelle che potremmo chiamare le periferie storiche. Abbiamo conosciuto, nel corso del viaggio che abbiamo fatto quest'anno, centri storici che iniziano a segnare francamente il passo, con processi di abbandono che si rivelano assolutamente preoccupanti. In particolare, nel sud e nel centro interi centri storici sono abbandonati, ma anche nel ricco nord, da cui il presidente e io veniamo, ci sono fenomeni che meritano di essere considerati con la massima attenzione. Se considero una città ricca e agiata come Treviso, che certo non passa per essere un contesto degradato e bisognoso di politiche specifiche, scopro che per esempio all'interno di quel centro storico il 40 per cento delle unità immobiliari è abbandonato. Si tratta di un dato sotto gli occhi di tutti, perché leggibile a partire dai dati dell'ISTAT. Voglio sottolineare come, se prendo in considerazione un'area notoriamente oggetto di processi di riconversione industriale e di dismissione come Porto Marghera, la percentuale è assolutamente la stessa. In quell'area abbiamo il 60 per cento di immobili occupati e il 40 per cento di aree che, invece, sono abbandonate. La dimensione periferica, del degrado, dell'abbandono, della perdita di funzionalità, della perdita di dimensione autenticamente urbana, è fenomeno che non riguarda più solo le grandi fasce periurbane costruite negli anni ’50 e ’60, ma inizia a essere un tratto che diventa costitutivo di più parti del nostro Paese, e che dunque merita di essere letto a prescindere dagli stereotipi che il cinema, la letteratura, il sentire comune ci hanno trasferito. Ebbene, all'interno di un panorama molto più ampio, molto più differenziato rispetto al passato, abbiamo voluto considerare quali potessero essere le dinamiche di processi di rigenerazione. Devo dire che nasco in tutt'altro contesto, nasco come studioso di mercati immobiliari urbani, di dinamiche dello sviluppo che per esempio riguardano processi di costruzione condivisa, pubblico/privato, delle città. Ebbene, se c'è una constatazione che mi ha portato a considerare come assolutamente necessaria una nuova prospettiva, è proprio quella che dal mercato non vengono più soluzioni. Di certe logiche ho avuto modo di discutere anche con persone presenti in sala in altre fasi della vita, con altri ruoli: con strumenti come perequazione, accordi pubblico/privato, trasferimento di diritti, non si arriva oggi da nessuna parte. Con le politiche di promozione del patrimonio immobiliare nelle forme di una progressiva dislocazione al mercato non si va da nessuna parte. Questo è sotto gli occhi di tutti, ed è sotto gli occhi di chi si occupa di mercato immobiliare, che a più riprese ha provato a incentivare il mercato, a stimolare il mercato.
  In un contesto in cui questa soluzione di affidamento al mercato delle dinamiche di regia nazionale appare sostanzialmente impraticabile, è stato necessario considerare tutt'altra prospettiva. Si è guardato invece a processi di riuso in cui il primato va all'emersione di processi della base, processi partecipati, processi in cui il capitale sociale, il capitale umano si è messo in moto, gruppi autorganizzati, associazioni hanno dialogato con le amministrazioni occupando spazi, occupando sedi abbandonate di carattere pubblico, privato, che hanno spesso trovato nella cultura il punto di coagulo per un percorso di creazione del valore sociale ed economico-finanziario. Cito alcuni esempi, partendo da nord o da sud, Pag. 21variamente. Se parto da nord, «Mare culturale urbano» è un'esperienza che distingue Milano, in questo momento. In quella città, un imprenditore che nasce dal settore culturale ha tutt'altra formazione, di base non è certo un manager, decide che sulla cultura si può scommettere, sulla cultura si può investire e su un patrimonio di carattere locale intende investire per realizzare un centro di produzione e consumo culturale. Diventa rapidamente una delle più interessanti prospettive per la cultura e l'intrattenimento nella metropoli milanese. Andiamo a sud, a Favara, in provincia di Agrigento, un contesto completamente diverso. Là troviamo, per esempio, una coppia che decide di investire in questo piccolo paese, rigenerandolo a partire da pratiche artistiche che risignificano, rideterminano l’appeal di quel luogo e il suo valore. Tutto a un tratto, quella che era una località assolutamente marginale della nostra carta geografica, della carta geografica della Sicilia, diventa uno dei luoghi più interessanti, più ambiti da un turismo culturale, da un turismo interessato non solo alle tradizioni di quelle terre, ma anche a ciò che avviene di contemporaneo in un contesto come quello siciliano. Milioni e milioni sono le risorse che ricascano all'interno di quel territorio, proprio perché da località anonima si trasforma in uno dei poli più interessanti del turismo contemporaneo siciliano. Il tema della cultura, tuttavia, credo meriti di essere declinato assolutamente al plurale. Tradizionalmente, consideriamo cultura sempre performing arts, letteratura, musica, tutte cose sicuramente doverose, ma sulla scorta di una lettura più ampia e più articolata, sono portato a pensare che oggi la cultura non sia solo quest'insieme di pratiche, di valori, quest'insieme di riferimenti, a cui tutti guardiamo ovviamente con favore, ma ci sia anche una cultura che sta nelle pratiche, che sta nell'azione degli italiani, nella loro tradizione, nelle loro capacità. È la cultura materiale, che sta scritta in conoscenze pratiche, che sono per esempio quelle della manifattura, che sono quelle del settore primario. Allora, per esempio, troviamo operazioni estremamente interessanti a Milano con CasciNet, in cui la nuova cultura del settore primario diventa decisiva per rigenerare territori abbandonati, che non erano più coltivati e vengono recuperati da giovani interessati a promuovere un nuovo modo di fare agricoltura. Penso a un'operazione come a quella di San Vito dei Normanni, in cui un gruppo di giovani, oltre a promuovere pratiche culturali di grande interesse, si dedica anche alla manifattura, anche digitale, per pensare a un percorso legato non solo alla cultura tradizionalmente intesa, ma che concepisce la cultura anche come vettore per lo sviluppo di attività economiche, in grado poi di generare sviluppo anche in luoghi che tradizionalmente consideriamo poco propensi, poco idonei a quel tipo di sviluppo. Potrei fare esempi di questo tipo per il nord, il sud e il centro, ma mi piace sempre considerare aree che nella letteratura economica sono ricche di capitale sociale con aree che invece il capitale sociale lo presentano in forme molto più contenute, per evidenziare come si tratti di un movimento che non riguarda una parte del Paese, ma riguarda la totalità della penisola.
  Arrivo al terzo punto e considero il tema delle risorse. Il refrain classico è che gli enti locali, lo Stato, le regioni non hanno più risorse per poter finanziare politiche di questo tipo. In realtà, molto è stato fatto, e il piano periferie ne è una concreta dimostrazione. Tuttavia, una risorsa è assolutamente disponibile, là, pronta per essere impiegata, soprattutto dagli enti locali, che per anni hanno considerato questa stessa risorsa in tutt'altra maniera. In questo Paese abbiamo realizzato moltissimo patrimonio, pubblico e privato. Abbiamo costruito per le famiglie italiane un patrimonio vastissimo, che oggi, secondo i dati dell'OCSE, rappresenta una ricchezza formidabile, per alcuni anche una trappola, un po’ il salvadanaio del nostro Paese. È stato così anche per le amministrazioni, che per molti anni – lo dico senza alcun giudizio, né moralistico né di valore – hanno considerato il patrimonio come vera e propria fonte di finanziamento per promuovere politiche tese a riequilibrare i conti pubblici. Hanno venduto caserme, Pag. 22ospedali, scuole, con l'idea che il mercato immobiliare avrebbe comunque assorbito risorse immobiliari per trasformarle e farle diventare qualcos'altro. In quante città conosciamo ex ospedali, ex mattatoi, ex qualsiasi cosa vorrei dire, che a un certo punto avrebbero dovuto diventare qualcos'altro e questo qualcos'altro poi non si è trasformato, in particolare dal 2008 in poi. Ora, quest'enorme ricchezza che gli italiani hanno, che non riguarda più solo il patrimonio delle fabbriche dismesse, ma rappresenta in larga parte anche un terziario ormai obsoleto – pensate solo, oltre ai casi che ho già fatto, all'immenso patrimonio di caserme che sta sulla linea del nord est del Paese, o del nord del Paese – questo patrimonio da fonti di finanziamento può sicuramente diventare risorsa per una logica di sviluppo profondamente diversa. Ho parlato di risorsa, ma alcuni comuni e alcuni enti locali hanno voluto andare oltre, e hanno pensato per esempio, in continuità con questo ragionamento, che quello che francamente non poteva essere in alcun modo venduto doveva trasformarsi in bene comune. Passando da nord a sud, prendo Bologna e prendo Napoli, che hanno promosso una politica dei beni comuni, che, al di là di una radicalizzazione ideologica che qua e là fa capolino, indica un modo diverso di pensare il patrimonio come risorsa messa in gioco per favorire processi di sviluppo locale per gruppi che si mettono in gioco, per imprenditori sociali che fanno la loro partita innescando processi di mobilitazione delle proprie energie, di energie della comunità, che creano ricchezza finalizzata sia ad attività tipicamente sussidiarie del welfare sia ad attività tipicamente di impresa. Se consideriamo una prospettiva di questo tipo, è evidente che una straordinaria opportunità di valorizzazione non va più nella logica della cassa, dell'alienazione in tempi brevi, ma diventa una risorsa fisica a supporto di una diversa modalità dello sviluppo locale.
  Ebbene, per creare quale valore? Per molte amministrazioni, il valore primario è stato quello del consolidamento del capitale sociale. Del resto, il dibattito sulle periferie spesso è indirizzato a finalità di contenimento del disagio, di allentamento delle tensioni proprie delle situazioni delle periferie. In realtà, credo che queste politiche che la ricerca ha messo in luce possano e debbano essere messe in una diversa prospettiva. Queste politiche servono non solo a consolidare un capitale sociale, ma anche a mobilitare un capitale umano fatto di competenze, di abilità, di conoscenze proprie di una generazione che spesso trova frustrazione nell'accesso al mercato del lavoro, nella capacità di trovare in un contesto locale un adeguato percorso di valorizzazione di studi, di intraprese che sono state effettuate. Non devo qui ricordare i dati, che vi sono perfettamente noti, ma per me, che lavoro all'università, è sempre fonte quasi di angoscia vedere la mobilitazione delle risorse che da sud vanno verso nord e, eventualmente, fuori d'Italia dei giovani nella loro età di 18 anni, scegliendo per esempio università a grande distanza dal proprio territorio. Se lo fanno, lo fanno perché evidentemente non ritengono che quei territori possano dare loro chance. Queste politiche non possono essere solo di contenimento del disagio sociale, ma devono diventare occasione per creazione di valore, creazione di nuova impresa, di nuovo lavoro. Se proprio devo pensare a operazioni di questo tipo, vedo quelli che potremmo definire come una sorta di incubatori dal basso. Abbiamo per molti anni portato avanti l'idea degli incubatori dall'alto. Questi, invece, sono esito di processi, in larga parte favoriti e sostenuti dalle amministrazioni, ma promossi dal basso. Così come ho citato il caso dell'ExFadda a San Vito dei Normanni, potrei citare lo spazio Grisù, a Ferrara, per omaggiare un po’ anche il centro del nostro Paese. Tutti questi rappresentano luoghi all'interno dei quali è possibile immaginare traiettorie di sviluppo di grande interesse, perché al loro interno troviamo declinate spesso linee di uno sviluppo originali per il nostro Paese. Prima, facevo riferimento all'artigianato, ma vediamo l'artigianato digitale, la capacità di svilupparsi in sede locale, ma poi di aprirsi anche a mercati che vanno ben oltre l'orizzonte dell'ambito regionale. Due altri aspetti voglio segnalare. Il primo è legato a Pag. 23una delle attenzioni che molti assessori e sindaci ci hanno fatto: non è che in questo modo sacrifichiamo il valore patrimoniale dei nostri beni? Molto concretamente, assessori e dirigenti sono preoccupati dal fatto che sia questo un modo per rovinare un patrimonio collettivo, non utilizzarlo e valorizzarlo. Anche da un punto di vista patrimoniale, anche tenendo lontane le considerazioni in merito alla potenzialità in termini di creazione di ricchezza, di sviluppo, di nuova occupazione, voglio sottolineare che sono proprio in corso degli studi che evidenziano come questi tipi di logica creino anche ricchezza patrimoniale, creino anche ricchezza sul patrimonio degli enti locali, sicuramente superiore rispetto a dinamiche tradizionali, che il mercato è destinato a rigettare, nella più grande frustrazione poi degli enti locali, che non trovano canali per vedere valorizzate pienamente le proprie risorse di carattere immobiliare e patrimoniale. In secondo luogo, credo – qui ci apriamo a una considerazione propriamente urbanistica – che questo tipo di dinamica possa portare poi anche a nuove forme di creazione di valore intese come nuovo spazio, nuova città. Penso, per esempio, a un altro caso milanese di grande interesse, il caso di Base Milano, che qualcuno magari conoscerà, che sicuramente rappresenta un modo nuovo di interpretare spazi dell'industria abbandonata, che danno vita al co-working, alle industrie culturali, a fenomeni di grande interesse sotto il profilo delle logiche di valorizzazione delle attività che là hanno sede, e che diventano anche una nuova architettura, un nuovo spazio urbano.
  Giungo all'ultimo punto, quello legato alle politiche, con una constatazione e con una prospettiva di ordine culturale. La constatazione è quella legata al fatto che è possibile promuovere politiche di mobilitazione del capitale sociale, del capitale umano, è possibile promuovere la valorizzazione del patrimonio immobiliare delle nostre città anche in un regime giuridico quale quello in cui viviamo. Alla domanda secca, che abbiamo voluto fare a diversi assessori (ad esempio, a Bari, Ferrara, Milano), la risposta è stata univoca, ed è stata: sì, possiamo portare avanti politiche di questa natura, possiamo portare avanti processi di rigenerazione che magari nascono dal basso, che siamo in grado di circondare, di federare. Tuttavia, la risposta è anche corredata da una valutazione amara: è anche molto difficile, molto impegnativo. È necessario probabilmente portare avanti un ragionamento che modifichi grandemente l'approccio che abbiamo alle politiche in quest'ambito. Fino adesso abbiamo ragionato, o almeno così è scritto nel DNA delle politiche urbane – qui vedo persone che hanno vissuto nell'ambito dell'urbanistica, e non c'è nessun problema a riconoscerlo, sono il primo – in modalità fortemente regolativa, abbiamo sempre vissuto in termini di norma, di vincolo, di zoning. Questo era il modo in cui fermavamo le forze impetuose del mercato e davamo a esse un ordine in termini di ricchezza collettiva e di ricchezza privata. Ecco, oggi generiamo quella ricchezza collettiva favorendo processi e promuovendo politiche che chiamiamo abilitanti, che determinano processi che inneschiamo nella società, che devono trovare inevitabilmente uno spazio più libero e più creativo. Questo è uno sforzo al quale molte amministrazioni non sono preparate e che, devo dire, invoca anche strumenti radicalmente nuovi. Ne indico alcuni. C'è bisogno di discipline relative agli usi temporanei dei luoghi. L'urbanistica nasce con lo stato finale, definitivo, di ogni parcella di terra, di ogni metro quadro di edificio. Qua, invece, siamo di fronte a processi che possono avere anche una durata temporanea, di qualche mese, di qualche anno, e tuttavia devono trovare un chiaro riconoscimento giuridico, non possono mettere in imbarazzo le amministrazioni e le figure dirigenziali, perché questo non può essere. Dobbiamo, dunque, favorire processi. La regione del Veneto lo ha fatto con la recente normativa sul contenimento dell'uso del suolo. L'articolo 6 prevede proprio una norma specifica in questo senso. Dobbiamo regolare l'accesso a risorse comuni. In realtà, il regolamento dei beni comuni, l'accesso a questo tipo di risorse non deve dimostrarsi poi a giochi fatti un processo di appropriazione da parte di gruppi o associazioni, Pag. 24 che diventano semplicemente quasi proprietari di questo o quel bene. Dobbiamo iniziare a regolare percorsi di entrata e di uscita da questo tipo di patrimonio che mettiamo in gioco, favorendo una dimensione grandemente inclusiva e non processi di appropriazione camuffata. Questa è una delle grandi preoccupazioni che ci sono state rappresentate nel corso di questi mesi e che merita senz'altro di essere approfondita. Dobbiamo svolgere funzioni di intermediazione tra domanda e offerta, una funzione per esempio oggi ampiamente surrogata da fondazioni di carattere privato o quasi privato. Prendiamo la fondazione Unipolis, la Fondazione con il Sud, la fondazione Cariplo. Sono tutti soggetti che oggi sviluppano funzioni sussidiarie, facilitando e promuovendo anche finanziariamente soggetti che magari sono alla ricerca di un consolidamento, di una posizione patrimoniale, ripeto dando una mano anche finanziariamente, ma anche offrendo servizi che in realtà poi si rivelano decisivi nello sviluppo e nel proseguimento di questo tipo di operazione. Politiche abilitanti, dicevo, hanno un tratto comune, che voglio sottolineare: non si occupano più del design degli spazi, ma soprattutto del design di processi sociali, che poi diventano spazio. Si inverte un po’ la logica con la quale per tanti anni abbiamo lavorato. Per tanti anni, abbiamo pensato che lo spazio avrebbe cambiato la società. In questo caso, nei processi di riuso di un patrimonio come il nostro, immaginiamo che prima di tutto venga una società, con processi che speriamo i più virtuosi e i più dinamici possibili, a cui segue la trasformazione di uno spazio. Se esiste un nuovo percorso, è quello che dal city making si sposta verso il city building, ma è prima il city making e poi il city building, e non viceversa, come è stato per tanti anni.
  Concludo sottolineando di nuovo le grandi variabili demografiche ed economiche del nostro Paese, non tanto perché sia questo il tema sul quale voglio portare la vostra attenzione, quanto per segnalare e ricordare come operiamo entro vincoli grandemente cogenti. Sarebbe davvero illusorio immaginare di tornare al tempo che è stato, di ritornare a un mondo in cui il tasso di crescita del 5 per cento caratterizzava il nostro sviluppo economico, in cui una crescita impetuosa delle città permetteva grandi processi di arricchimento e anche grandi processi di cofinanziamento della città pubblica, così come li abbiamo conosciuti in altri anni. Noi oggi dobbiamo considerare una società e un'economia che deve più sapientemente utilizzare sia le sue risorse materiali, le sue conoscenze e la sua cultura sia il proprio capitale così faticosamente accumulato in 70 anni di pace. Si tratta di pensare entro uno schema nuovo, in cui dobbiamo mettere da parte da un lato le nostalgie per un mondo che è stato e che, per lo meno nei prossimi anni, non sarà più e dall'altro modelli di sviluppo che possono essere propri di Paesi come la Cina e l'India, che sono evidentemente irraggiungibili. Dobbiamo determinare modalità nuove per pensare allo sviluppo delle nostre città e, dunque, anche per pensare a dare concretezza alle istanze di uno sviluppo economico inclusivo e ambientalmente sostenibile delle nostre periferie.

  DANIELA MATILDE MARIA GASPARINI. È stata una relazione interessante e condivisa. Oltretutto la città in cui abito, che il professor Micelli conosce, ha usato scuola e cultura nel passato per integrare 50.000 immigrati arrivati in dieci anni (principalmente scuole e servizi sociali più che cultura in quella fase). Le reti immateriali sono più importanti di quelle strutturali e comunque le due cose devono andare di pari passo. Questo è venuto fuori più volte anche in questo nostro confronto. Certamente mi metto nei panni degli enti locali. Gli enti locali riescono con i bandi, la Cariplo, il privato, a riconvertire degli spazi pubblici o privati da destinare a funzioni che creano capitale umano, che danno la possibilità alle realtà del territorio di sentirsi cittadini. In realtà, fanno molta fatica a gestirli, perché comunque servono sempre denari correnti per dare continuità. Oltretutto, questo è un tema che va differenziato, perché ci sono realtà che sono realtà di base. Ad esempio, tutti i vecchi contratti di quartiere sono nati come un patto con le associazioni del territorio. Pag. 25Ognuno garantiva che avrebbe fatto pezzi d'intervento culturale e sociale, con una partecipazione dal basso che produce un primo problema. C'è una discussione che è stata fatta anche qua, con casi diversi a seconda delle regioni e delle città: se riqualifico un quartiere e alla base delle case ho spazi che ritengo debbano essere utilizzati da soggetti sociali e culturali, giovani artisti, coworking e arriva il capo del patrimonio che dice: «eh no, quella roba lì la Corte dei conti...»... Rispetto alle cose che diceva sarebbe interessante capire su questo tema che cosa potremmo fare come Commissione per indicare a Stato, regioni o altri come cambiare una norma.
  Quella cosa va fatta, ma poi c'è tutto un altro livello, che invece coinvolge certamente di più il ministero, in una sfida che a mio avviso va oltre i confini delle grandi città storiche, delle varie città capoluogo. Penso al valore delle bande musicali, della musica come luogo di aggregazione giovanile e di formazione culturale molto importante e anche matematica. Oggi ci sono grossi problemi a gestire dei processi nel tempo da parte degli enti locali. Aggiungo una considerazione, visto il suo principale lavoro. Mi è stato sottolineato ieri sera proprio dal movimento cooperativo lombardo ma anche nazionale il fatto che parlare di rigenerazione della città è il tema dell'oggi: riusare il suolo e ripensare a brani di città, anche pubblico-privata, che devono essere trasformati. Ci sono moltissime situazioni di capannoni abbandonati, quindi c'è l'esigenza di riflettere anche sul riuso, ripensando una nuova città e ricucendo dei pezzi di città. Il tema che mi hanno posto è: non succederà nulla se le amministrazioni locali prima di tutto, ma anche le leggi regionali e nazionali, non riconoscono la rigenerazione al pari della ristrutturazione. C'è un problema di costo in queste operazioni che non viene valutato in maniera coerente.
  Faccio un'ultima annotazione. Quello che abbiamo visto negli ultimi vent'anni è stato un discorso di carattere finanziario sul valore delle aree. Due anni fa in una legge abbiamo introdotto un obbligo: nel caso di cambio di destinazione d'uso delle aree minimo il 50 per cento deve restare ai comuni. Questa potrebbe essere una leva per il mondo immobiliare. Oggi qualcosa si sta muovendo e stiamo assistendo a una ripresa. Come un tempo c'era il tema del 4 per mille per le opere d'arte che voleva Mussolini nella legge, ci potrebbe essere una norma in cui si dice che nel caso di trasformazione della rigenerazione urbana il valore della trasformazione, un 10 per cento o un 20 per cento deve essere destinato ad attività di carattere artistico- culturale a supporto del territorio. Bisogna trovare una formula, perché è un obiettivo che dalla ricerca è stato delineato, per una valorizzazione di quello che già succede. Perché sia moltiplicabile e sostenibile deve trovare comunque dei supporti.

  PAOLO GANDOLFI. Certamente sposo appieno il ragionamento e la filosofia che ci veniva illustrata dal professor Micelli relativamente – lui la inquadrava in termini positivi – al superamento della fase della convinzione di molti di noi che l'urbanistica avesse gli strumenti per risolvere questo tipo di problemi, a prescindere dal passaggio di fase che c'è stato descritto. Infatti, temo che in realtà una fase di ritorno della domanda di investimenti sull'immobiliare slegata dai reali bisogni ci possa sempre essere, anzi in alcuni casi sento già voci di recupero di questa dimensione. Tuttavia, va detto che anche chi ha sempre creduto che l'urbanistica tradizionale fosse uno strumento di gestione della rendita, in realtà, deve ammettere che in molti casi è stato un fallimento, anche dove è stata applicata correttamente. Detto questo, ci sono stati un paio di passaggi interessanti nella sua relazione. Ce n'è uno che chiederei di sviluppare un po’ di più, perché secondo me non è molto chiaro nella testa di molte persone che incontro, soprattutto amministratori locali. È una visione che mi sembra lei abbia abbozzato e che riprende un tema abbastanza innovativo. Vorrei capire se effettivamente ho colto il senso.
  Quando lei parla di rigenerazione dal punto di vista dell'uso degli spazi, dove prima viene la funzione sociale, la rigenerazione sociale rispetto all'intervento fisico Pag. 26di riqualificazione dello spazio, il concetto in sé è molto chiaro. Tuttavia, immaginato in un caso concreto, in situazioni di città e di aree degradate, di edifici abbandonati, di zone e spazi pubblici che necessiterebbero di un intervento di riqualificazione, significa che riusciamo a immaginare di ottenere risultati anche senza mettere mano direttamente sull'edificio o sullo spazio fisico? Io credo di sì. La mia è una domanda ovviamente retorica, ma vorrei uno sviluppo, perché si è spesso convinti – e sento spesso nel dibattito questa convinzione errata da parte di nostri interlocutori – che necessariamente bisogna partire con ruspe per demolire, per rifare o per costruire. In qualche misura bisognerebbe forse rafforzare il convincimento di questa Commissione, ma in generale di tutti coloro che operano in questa materia, sul fatto che si possa lavorare anche su spazi grezzi, che non assumano immediatamente il carattere di bellezza che può essere indotto, a mio giudizio erroneamente, semplicemente dal fatto di essere nuovi e rifatti o di averci speso dei soldi sopra. Questo concetto probabilmente è interessante e lo dovremmo sviluppare di più, perché altrimenti, come il dottor Stranamore, parte subito il braccio della cazzuola prima di quello del ragionamento sulle effettive necessità di un'area urbana. Si tratta semplicemente di approfondirlo, in maniera tale che diventi un nostro patrimonio intellettuale un po’ più consolidato.
  Per il resto, come diceva lei, la crescita di soggetti sociali che in qualche maniera ci possono aiutare in questi processi è interessante. Ha citato dei casi. Le pongo un'ultima domanda e poi chiudo. Tra le forme di investimento sul capitale umano c'è sicuramente quella – già emersa nel corso dei nostri sopralluoghi nelle varie situazioni che abbiamo visitato e in molti riferimenti – di destinare parte delle risorse a disposizione del pubblico, sia esso lo Stato o siano essi i comuni o le regioni, verso soggetti sociali attivi: associazioni, forme di aggregazione, le scuole di cui parlava la Ministra Fedeli presente in una precedente audizione. Ci sono spazi anche per altre forme di investimento sul capitale umano? La collega Gasparini suggeriva di fare anche interventi di natura culturale, che – mi spiego in maniera molto diretta – non danno soldi direttamente a un soggetto, ma magari creano le condizioni perché di quel luogo si ricostruisca un'identità culturale, morale, etica, che magari è degradata anch'essa assieme al carattere fisico della zona. Esiste anche un filone di investimenti che vanno verso il carattere culturale dei luoghi? Si parlava di natalità, di forme di ricostruzione del rapporto identitario delle popolazioni con il luogo in cui vivono a prescindere dal fatto che esistano mediatori diretti, cioè associazioni a cui diamo dei soldi e che fanno questo lavoro. Esiste un filone di intervento diretto su questo tipo di attività?

  EZIO MICELLI, ordinario di estimo presso l'Università IUAV di Venezia. Al di là del fatto che mi rivolgo a onorevoli, mi rivolgo anche a degli amici, a persone che ho avuto il piacere di incontrare anche in altri frangenti della vita e ne sono onorato.
  Parto dalle considerazioni e dalle domande dell'onorevole Gasparini. Su un primo tema voglio essere chiaro. Credo nella massima utilità che questa istituzione ragioni su norme che favoriscano, per esempio, modalità innovative di impiego del patrimonio a disposizione delle comunità. Quello che lei diceva era anche dentro la mia relazione. Quando si arriva al dunque c'è sempre un assessore al patrimonio che incrocia un dirigente del patrimonio. I due si guardano e dicono: «No, questa non è una procedura che si può fare». È stata una delle grandi preoccupazioni che abbiamo avuto nel corso della ricerca, anche su diretta sollecitazione dell'architetto Galloni: trovare la concretezza di questi procedimenti. Abbiamo trovato soluzioni. Ci sono percorsi sostenibili, che abbiamo anche elaborato con colleghi di diritto amministrativo. È sicuro che, se riuscissimo a costruire quello che prima chiamavo «regolamento delle risorse comuni», potremmo dare alle amministrazioni un percorso chiaro e differenziato, che non è il famoso articolo 58 per l'alienazione speditiva dei beni di proprietà degli enti locali, ma che diventa un percorso valido, alternativo, ampiamente Pag. 27 percorribile. In questo senso, il lavoro che il Parlamento può fare è certamente importante.
  Per quanto riguarda poi altri strumenti legati ai costi, l'onorevole parlava di costi e metteva vicino – lo provo a sviscerare io – sia costi di tipo amministrativo sia costi di tipo industriale. Trovo spesso che nel nostro dibattito ci sia un'enfasi a volte esagerata sulla rilevanza dei costi amministrativi come gli oneri, per esempio nelle aree del consolidato. Dico questo perché oggi dobbiamo lavorare moltissimo sul fronte industriale. Non ho voluto dilungarmi, ma uno dei temi che mi sono più cari dal punto di vista della ricerca in questo momento è il nuovo orizzonte del settore delle costruzioni nell'ambito del retrofit, del riuso, dei processi di rigenerazione del patrimonio. È ovvio che non è una frontiera che riusciremo a traguardare domani, ma è evidente che oggi ci scontriamo contro il muro dell'inoperatività, se ancora pensiamo a tecnologie assolutamente tradizionali che non riescono ad adeguarsi alla nuova agenda del riuso, del retrofit del patrimonio, per esempio, degli anni 1950 e 1960. Sicuramente abbiamo la leva dei costi amministrativi. Possiamo dire, per esempio, che nel consolidato non si pagano più oneri, però rimangono quei famosi 1.200-1.500 euro al metro quadro che oggi in molte località rappresentano un valore eccedente agli stessi prezzi delle abitazioni e agli stessi prezzi del patrimonio immobiliare. Solo se facciamo un vero lavoro sul fronte industriale si può a termine intravedere una prospettiva di rilievo, perché allora riduciamo i costi, ibridiamo i modelli industriali delle costruzioni e quelli dell'energia, iniziamo a vedere un mondo che oggi non vediamo e che potrebbe darci a termine straordinarie soddisfazioni nei processi di rigenerazione del patrimonio che abbiamo realizzato in anni in cui la ricchezza sembrava illimitata. Oggi, invece, scopriamo amaramente che così non è.
  Il terzo tema è quello del capital gain. Voglio sottolineare un passaggio. Prima affermavo che la geografia del nostro Paese è cambiata. Chiaramente ci sono molte aree metropolitane – soprattutto nella regione da cui viene l'onorevole Gasparini di casi concreti ne abbiamo quanti ne vogliamo – in cui esiste ancora un capital gain robusto e importante, per cui continuiamo a usare la leva del prelievo, che in Lombardia si chiama «programmi integrati di intervento» e nella regione Emilia Romagna «articolo 18». Il problema è che in molti altri contesti del Paese questa leva si rivela pura teoria, perché non c'è più una domanda immobiliare, non c'è più un patrimonio su cui effettuare prelievi di rendita, in quanto non c'è più la rendita. In molti contesti il mercato immobiliare ha raggiunto uno stato in cui possiamo immaginare, in stretta via teorica, che qualcosa possa accadere, ma queste dinamiche di prelievo del valore non ci sono. Lo dico al presidente. Anche in luoghi come Mestre, un capoluogo di una regione del Nord Italia ricca e operosa, ci sono contesti in cui il capital gain è zero. Se riusciamo a recuperare i valori di acquisizione dei beni comprati magari nel 2004-2005-2006, è già, come si suol dire, un grandissimo risultato.
  Vorrei lasciare a voi una rappresentazione, che è problematica rispetto ai vecchi strumenti e alla loro operatività. Sicuramente i prelievi di plusvalenza per finanziare la città pubblica e anche processi di rigenerazione sono assolutamente validi in quei contesti in cui ancora la popolazione si insedia e ancora vi è grande produzione di ricchezza e una risorsa come il suolo scarsa. Parliamo di Milano, di Roma, forse di alcuni ambiti di Torino, forse degli ambiti in cui arriva l'alta velocità. Molti altri ambiti del nostro Paese non hanno quella ricchezza immobiliare che hanno conosciuto magari in altri anni.
  Giungo ad alcune considerazioni che faceva l'onorevole Gandolfi. Ce n'è una in particolare che mi è cara, perché in realtà si parte dai processi sociali e poi si arriva allo spazio. È questa la novità. Cito tre casi. Casa Bossi a Novara è un progetto dell'Antonelli, un patrimonio del nostro Paese, in una piccola città di provincia, che non ha mai trovato acquirenti, non è mai stata comprata, non ha mai trovato qualcuno che fosse interessato. Lì i processi sociali di rigenerazione, soprattutto Pag. 28a partire da attività culturali sono partiti in perfetta assenza di interventi, lavorando sul patrimonio che c'era. Certamente all'inizio è stato un po’ disagevole e alcune parti sono chiuse, ma la risignificazione di un luogo, la riappropriazione da parte della comunità può avvenire anche in contesti a modestissimo impatto. Si mette un po’ in ordine. Dico questo per confortare. Non c'è bisogno della ruspa là fuori. Togliamo i minimi interventi. Abbiamo deliberatamente voluto lavorare quest'anno solo in contesti in piena norma e nella piena legalità. Tuttavia, laddove il capitale edilizio residuo lo consente, anche in assenza di grandi investimenti immobiliari, di grandi investimenti in costruzioni, è possibile far ripartire una dinamica che a sua volta determina l'attenzione degli investitori e quindi il mutamento dello spazio. Questo è avvenuto a Ferrara. Cito un'esperienza vicina alla base di partenza dell'onorevole Gandolfi. Ho citato anche il caso di Base (ex Ansaldo) a Milano. Mi è caro riprenderlo perché là si è poi andati avanti e lo si è ristrutturato, investendo risorse, generando un'estetica che non è più quella dell'ufficio col curtain wall, con le pareti finestrate – quel tipo di uffici non è più nell'agenda degli architetti – ma è un'ampia valorizzazione delle strutture preesistenti, una logica di riuso di ciò che già c'era, dando vita a uno spazio che è coerente con una nuova società. Oggi si entra all'interno di quell'area, si vedono dei giovani, si vedono dei coworker – chiamiamoli come vogliamo – in uno spazio che è corrispondente anche a nuove modalità, a nuove logiche del lavoro. Occorre costruire le premesse, perché non possiamo solo lavorare coi social entrepreneur. Uso un'espressione che è cara, perché il dibattito non è solo nazionale. Il dibattito su mobilitare relazioni sociali, capitale umano, capitale sociale è un dibattito internazionale e la figura essenziale è rappresentata proprio da un imprenditore sociale. In questo c'è una filosofia che non ha niente a che fare con un welfare che si sovrappone alla cittadinanza, ma c'è invece l'innesco di processi che attivano la base sociale e la spronano a mobilitare le energie di cui essa è depositaria. Certo è che molto spesso dobbiamo costruire le premesse: processi di risignificazione, processi tesi a valorizzare. Quelle che possiamo considerare le premesse sono state ampiamente promosse da alcune amministrazioni. Certo è che in questi anni quello che vediamo è l'incapacità dell'ente locale di mettere a fuoco compiutamente la nuova agenda e i nuovi vincoli e, invece, una base che se ne fa prima una ragione e quindi cambia verso e inizia a percorrere strade che prima erano non battute, non esplorate. Devo dire che questo nella rassegna della cinquantina di casi che abbiamo indagato è evidente: amministratori che reiterano modelli ormai obsoleti, con grande frustrazione da parte del personale politico e di quello tecnico-amministrativo, e, invece, una cittadinanza che dice: «Va bene, prenderò un'altra strada, mi darò da fare io, costruirò io un nuovo orizzonte di senso». Quello che oggi iniziamo a vedere è un insieme di amministrazioni che dicono: «Ho capito come può funzionare e allora sono io che devo costruire le premesse perché altri di questi processi possano effettivamente aver luogo». Mi ha molto colpito l'assessore di Novara che alla riunione preparatoria dell'evento dell'8 giugno è venuta con uno scetticismo che potevo misurare chiaramente nei suoi occhi, che ha detto «impegni istituzionali mi portano altrove tra cinque minuti» e che si è fermata prima un'ora, poi tutta la mattina, poi tutto il pomeriggio. In seguito è venuta a Roma, perché ha detto: «Ho capito come posso intervenire nei contesti di disagio di natura periferica della mia città, con un budget che è risibile rispetto a quello che altrimenti richiederei al mio sindaco e con effetti che possono essere di grande potenza sulla vita della comunità». Quello che vedo oggi è che gli amministratori iniziano a imparare che è possibile costruire le condizioni e il contorno su cui si innesta questa imprenditorialità che poi determina rigenerazione. Pag. 29
  Faccio un'ultima precisazione: la rigenerazione non si fa senza soldi, ma sicuramente bastano meno risorse per avere importanti effetti sulla vita della comunità rispetto ai modelli che tradizionalmente abbiamo impiegato. Costruire le premesse mi sembrerebbe una di quelle agende su cui costruire anche una politica per gli enti locali, per spiegare che non è un percorso impossibile, ma è un percorso praticabile, che la risorsa principe è quella del patrimonio, che la mobilitazione del capitale sociale latente è praticabile e che i risultati possono essere di grande soddisfazione. Devo dire che su questo si potrebbe davvero aprire un cantiere di grande interesse.

  PRESIDENTE. Ringrazio il professor Micelli. La Commissione rimane in attività fino a novembre, quindi accogliamo volentieri qualsiasi altra sollecitazione.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione della professoressa Rossella Selmini, associato di sociologia e criminologia presso l'Università del Minnesota.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione della professoressa Rossella Selmini, che avevamo conosciuto a Bologna durante la visita della città metropolitana, associato di sociologia e criminologia presso l'Università del Minnesota e che ringrazio per aver accolto l'invito della Commissione ad approfondire le questioni che avevamo affrontato durante la visita della città di Bologna.
  Do la parola alla professoressa Selmini, con riserva per me e per i colleghi di rivolgerle, al termine del suo intervento, domande e richieste di chiarimento.

  ROSSELLA SELMINI, associato di sociologia e criminologia. Grazie a voi per l'invito. Penso che stiate facendo un lavoro molto complesso, visto come il tema delle periferie nel nostro Paese si configura.
  Come avevamo concordato, se posso farei una breve introduzione di una ventina di minuti e poi magari ci sarà uno scambio. Per dare un'idea del tipo di conoscenze che ho rispetto al tema delle periferie, sottolineo che la mia esperienza viene da due livelli: un'attività di ricerca in particolare nelle periferie romane sui conflitti interetnici e sulle problematiche di tipo sociale e criminale e una molto più lunga esperienza, prima di dedicarmi solo all'attività accademica, come dirigente di un servizio di politiche per la sicurezza nella regione Emilia-Romagna, che ha coordinato molti programmi di recupero delle aree periferiche difficili di quella regione. C'è anche un'esperienza sul campo nel passato che si combina con un'esperienza di ricerca. In particolare, visto che lavoro molto a livello europeo e ho fatto soprattutto ricerca comparata, la prima parte della mia presentazione riguarderà questo fenomeno anche in una chiave comparata. Ci sono esperienze molto note di altri Paesi, come le rivolte delle periferie francesi o inglesi, da cui possiamo apprendere qualcosa, visto che l'Italia si trova in una situazione piuttosto diversa rispetto ad altri Paesi europei e sicuramente molto diversa dai contesti nordamericani o sudamericani, ma c'è un quadro di sfondo che non è poi così diverso. Credo che in Italia il problema principale sia la diversa caratterizzazione delle periferie. Non abbiamo un concetto di periferia così ben evidente, come succede ad esempio in Francia, dove ci sono quartieri specifici con caratteristiche ben delineate dal punto di vista urbanistico e sociale. In Italia questa forma di segregazione spaziale e sociale è meno pronunciata e meno evidente, anche per le caratteristiche del territorio, la presenza di molte città di medie e piccole dimensioni. Il concetto di periferia quindi è un po’ più variegato. Abbiamo quartieri che tendono ad assomigliare ai quartieri ghetto delle altre metropoli europee, ma abbiamo soprattutto aree dentro alla città, a volte anche contigue ai centri storici e spesso alle zone delle stazioni, aree interne a questi quartieri, che presentano caratteristiche e problemi delle periferie pur non essendolo magari geograficamente. Abbiamo poi delle situazioni diverse, che sono quegli specifici edifici collocati magari ai margini di un comune grande o di un comune piccolo. Se ne è visto un esempio Pag. 30nella visita a Bologna, a Calderara di Reno. In questo caso ci si concentra su un unico edificio che però riesce a stigmatizzare un territorio intero, quasi fosse un ghetto. In realtà, si tratta di un errore urbanistico che ha avuto ripercussioni enormi sui territori circostanti. Noi consideriamo anche quella come un'area difficile che richiede forme di intervento. Ci sono altri esempi, come l'Hotel House sull'Adriatico. Ci sono questi errori urbanistici, in genere degli anni 1970, che non possiamo definire quartieri, perché sono effettivamente solo costruzioni di un certo tipo. Già questo differenzia un po’ l'Italia dagli altri Paesi europei: la varietà della collocazione delle periferie. Ciò rende anche abbastanza difficile affrontare il tema, perché ognuno di questi territori richiede soluzioni in qualche modo diversificate.
  Dicevo che, però, c'è uno sfondo comune. Ci sono differenze e si sviluppano problemi in parte legati a delle peculiarità locali, però il problema fondamentale delle periferie che i sociologi tendono a evidenziare in maniera molto chiara negli ultimi decenni è collegato a fenomeni globali, non soltanto alla deindustrializzazione, ma anche alla globalizzazione in genere e ai fenomeni migratori, fenomeni che, come sappiamo, fanno parte delle trasformazioni delle società democratiche occidentali negli ultimi decenni. Questo ha implicato anche una forte competizione tra le città per attrarre risorse e per rendersi appetibili rispetto a investimenti, al turismo e, quindi, la necessità di creare delle zone «protette», con un fenomeno evidente di incremento che sta avvenendo anche in Italia. Ci sono gruppi sociali che non possono accedere a certe aree e non hanno altra scelta che concentrarsi in certe zone. La competizione a livello urbanistico tra le città cosiddette «globali» – sicuramente Roma e Milano fanno parte di questa rete di città globali, seppur in modo diverso – in qualche modo produce uno spostamento ai margini, che in genere si va poi a collegare a fenomeni preesistenti, come nel caso delle periferie romane, che hanno una storia molto lunga. Non è solo un problema urbanistico e di segregazione economica e sociale, ma è anche un problema di perdita di egemonia culturale di certi gruppi che hanno garantito in Italia la tenuta delle periferie, ad avviso mio e di altri studiosi. Mi riferisco in particolare alla presenza di una forte classe operaia, con una cultura e un'etica del lavoro molto significative, che ha fatto da cuscinetto per molti decenni all'esplosione di problemi più gravi. Lo abbiamo visto sicuramente in città come Modena o Reggio Emilia, ma anche a Birmingham e a Detroit, posti molto diversi tra di loro ma in cui la presenza di una classe operaia abbastanza forte, con una cultura di un certo tipo, ha protetto, negli Stati Uniti in particolare, rispetto alla formazione delle bande giovanili. Ora non ci sono più questi fattori di protezione, quindi le aree delle periferie sono sempre più una concentrazione di gruppi marginali che convivono con altri gruppi sociali preesistenti, spesso in modo conflittuale.
  Come sono caratterizzati dal punto di vista economico e sociale questi gruppi? Naturalmente sintetizzo, ma il tema andrebbe sviluppato molto più a lungo. Si tratta prevalentemente di gruppi di immigrati, ma non solo, non connotabili demograficamente in modo così chiaro come nelle periferie francesi o inglesi, perché sono più trasversali rispetto alle classi di età. La caratteristica più importante è la marginalizzazione e precarizzazione economica e sociale di questi gruppi. Si tratta di gruppi che non hanno accesso – ciò vale in particolare per i giovani – a lavori stabili, quelli che conoscevamo nel passato. Possono accedere a un mercato del lavoro molto precario e molto malpagato. Soprattutto in questa situazione, in assenza di un mercato del lavoro regolare, stabile, che offra opportunità dignitose, si sostituiscono i mercati informali e illegali collegati alla criminalità. Il rischio, che non è ancora così forte, è che le nostre periferie diventino aree completamente controllate da mercati di tipo illegale, come è successo nei quartieri delle città americane, in particolare per quanto riguarda il mercato della droga. In seguito tornerò ancora sui problemi dell'illegalità e della criminalità. In modi diversi, dietro ai problemi delle periferie a livello globale ci sono questi fenomeni. Pag. 31 È importante tenerli presente, perché non si tratta semplicemente di analizzare i sintomi, ma si tratta di capire da dove provengano. Vengono da processi molto complessi e molto generali: impoverimento e disoccupazione, che sono le conseguenze più significative per i gruppi sociali che tendono a concentrarsi nelle aree che abbiamo descritto prima. Come dicevo, sicuramente l'Italia è in una situazione ancora relativamente meno problematica di altri Paesi, in particolare per quello che riguarda i giovani, però è da tener presente quello che è successo in altre città del mondo. Quando questi processi arrivano a raggiungere un'intensità molto forte, in particolare sulle giovani generazioni gli effetti possono essere devastanti. Nelle città nordamericane il mercato della droga è l'unico mercato del lavoro disponibile per i giovani. Questo spiega le forme di violenza e di creazione di bande giovanili, in particolare per gli afroamericani.
  Torniamo all'Italia e ad alcuni confronti con altri Paesi, in particolare europei. Penso che il fatto che finalmente esista una Commissione dedicata a questi temi aiuterà molto a superare il vuoto di conoscenze rispetto alle periferie italiane, che deriva anche dalla varietà di periferie che ricordavo all'inizio. In ogni caso credo che si possano individuare alcuni caratteri comuni di queste periferie o quartieri difficili. Nella maggior parte dei casi c'è un handicap di tipo spaziale: la collocazione nello spazio, che, come abbiamo visto, può essere diversa, non è necessariamente periferica (può essere vicina alla stazione o al centro storico), ma ha una caratteristica di separatezza rispetto al resto dell'ambiente urbano. Gli handicap urbanistici sono anch'essi determinanti. In particolare quando parliamo degli edifici che consideriamo degli errori urbanistici, degli edifici isolati, sono quasi sempre presenti i problemi di tipo urbanistico: grandi agglomerati o singoli edifici di scarsissima qualità urbanistica e architettonica. Abbiamo poi una forte concentrazione di gruppi sociali, come dicevo, caratterizzati da lavori precari e instabili. C'è una certa sovrapposizione di gruppi sociali accomunati in qualche modo dalla precarietà e dall'impoverimento ma diversi. Abbiamo gruppi di residenti storici, in genere italiani, che vivono in questi quartieri e che naturalmente entrano in conflitto con i nuovi arrivati, che sono in genere immigrati. Nelle nostre periferie convivono strati diversi di popolazione. Questo è un tema da tener presente, in particolare per quanto riguarda il rischio di conflitti etnici, di cui si sono avuti esempi concreti in passato e se ne stanno vedendo anche di questi tempi. Abbiamo gruppi sociali, in particolare gli italiani residenti in queste aree, che hanno visto il loro universo di riferimento cambiare drammaticamente, però sono gruppi stabili, residenziali, con una forma di attaccamento al territorio, mentre i nuovi arrivati sono spesso gruppi transitori, in particolare nei periodi più recenti, con l'invio in certe zone di periferia di rifugiati, richiedenti asilo o profughi. A volte queste aree sono contigue a campi nomadi, con un ulteriore specifico problema, che in questo caso riguarda in particolare l'Italia. Sono diversi gruppi sociali che rischiano uno scontro tra di loro. Questo è molto meno presente nelle periferie degli altri Paesi. Ricorderete tutti le rivolte urbane francesi o inglesi. In quel caso si tratta di giovani immigrati di seconda o terza generazione, che hanno un nemico molto ben chiaro e molto ben identificato, che sono le polizie, e non ci sono scontri interetnici all'interno della periferia. In altri casi il nemico è il ricco che vive nel centro della città. Quella delle periferie francesi è una composizione diversa, molto più omogenea, che provoca determinati risultati che in Italia ancora non abbiamo visto. In seguito vedremo se è possibile interrompere questa spirale che può portare a questo risultato. Un'altra peculiarità delle nostre periferie è la presenza, come dicevo, dei mercati illegali, che vanno dalla droga alla piccola ricettazione, che fondamentalmente garantiscono a questi gruppi marginali o a una parte di essi delle forme di sopravvivenza. Una peculiarità dell'Italia è che nelle periferie, in particolare del centro-sud, il rischio è il controllo di forme di criminalità organizzata più importanti su questa economia informale. Inoltre, questa Pag. 32 economia informale dalla periferia ha ripercussioni anche nei centri storici (venditori abusivi, venditori di rose, mendicanti eccetera), quindi c'è un passaggio tra centro e periferia che crea ansie da insicurezza.
  Un altro problema fondamentale delle periferie italiane e in questo caso anche delle periferie della Francia, della Spagna, dell'Inghilterra e molto meno della Germania, è lo scadimento e l'erosione dei servizi sociali: scuola, welfare e trasporti, che sono i tre nodi fondamentali per garantire una tenuta delle periferie. Lo abbiamo visto in maniera molto evidente in particolare in Francia, dove è ritenuto uno dei motivi che stanno alla base dello scatenarsi delle rivolte urbane, insieme ad altri aspetti collegati all'identità di questi gruppi di giovani e a quella che loro ritengono essere una violazione dei loro diritti di cittadinanza. Anche i temi dell'abbandono scolastico, della distanza, della scarsa offerta di servizi per i giovani sono tutti aspetti fondamentali e purtroppo aggravati negli ultimi dieci anni dalla riduzione delle risorse degli enti locali. Questo è un pericolo che considero davvero molto importante per il futuro, perché credo che il nostro Paese abbia tenuto. Se le periferie italiane non sono diventate delle polveriere, secondo il linguaggio giornalistico, è per questa distribuzione spaziale un po’ diversa, che ha garantito una mescolanza, quella che gli urbanisti chiamano la mixité, la possibilità di tenere insieme gruppi abbastanza diversificati e di non concentrare in uno spazio molto segregato certi gruppi. Questo ha aiutato, così come ha aiutato il fatto che la nostra immigrazione è molto diversa da quella francese. Ha aiutato anche, fino a una decina di anni fa, il fatto che almeno in alcune parti del Paese ci fossero servizi sociali di un certo livello, in particolare la scuola primaria. Nell'area dell'Emilia-Romagna ne abbiamo parecchie esperienze. Questo in Francia non è avvenuto, mentre è avvenuto in Germania, altro Paese che non ha avuto esperienze di rivolte urbane, perché il welfare ha tenuto più che in altri Paesi europei. Sono tutti aspetti da tener presente.
  Un'altra caratteristica di queste aree è la stigmatizzazione, ossia il fatto che spesso dalla stampa o nel discorso pubblico vengano qualificate in certi modi. Questo è un altro processo pericoloso.
  Un'altra caratteristica peculiare delle nostre periferie è il problema degli scontri di tipo etnico, con forti strumentalizzazioni politiche. Questo nelle periferie romane è avvenuto, come sappiamo dai fatti di cronaca. Abbiamo fatto parecchia ricerca su questo tema, in particolare sul tipo di conflitto etnico che si è avuto in quartieri come Tor Sapienza, dove c'è stata anche una forte strumentalizzazione politica. Questi sono processi che la politica deve riuscire a governare, per evitare che il conflitto venga acuito facendo leva sulla furia dei penultimi contro gli ultimi, che è un meccanismo che rischia di scatenare delle tensioni molto forti. La competizione non è tanto sul lavoro, perché di fatto, non solo nelle periferie ma in tutto il Paese, non c'è una forte competizione sulle opportunità professionali. Infatti, naturalmente gli immigrati svolgono lavori che ancora gli italiani non hanno particolare interesse a svolgere. La competizione è sulle scarse risorse del welfare, gli alloggi in primo luogo. Anche gli esempi di questi giorni ci riconfermarono come sull'assegnazione degli alloggi di edilizia pubblica, con la strumentalizzazione di tipo politico, si possano scatenare dei conflitti – questo a Tor Sapienza si è visto molto bene – o in ogni caso una competizione per le scarse risorse disponibili del welfare. Un altro rischio per le periferie italiane è la concentrazione di problemi di tipo sociale. Prima ho accennato alla presenza dei campi nomadi. Questa è una realtà presente nelle periferie romane e distribuita diversamente in altre zone del Paese. Sicuramente la concentrazione dei problemi che dicevo prima, con l'arrivo di rifugiati e richiedenti asilo ed eventualmente con la presenza di un campo nomadi, può creare situazioni particolarmente esplosive, che vanno quindi governate con molta attenzione e anche con attività di comunicazione, di spiegazione ai cittadini. Pag. 33
  Vengo ora a fattori protettivi e fattori di rischio. Penso che il nostro Paese per quanto riguarda il problema delle periferie abbia alcuni fattori protettivi a cui in parte ho già accennato, però si intravedono anche alcuni fattori di rischio. Un fattore protettivo è l'immigrazione più recente, come dicevo prima. Non esistono ancora gruppi di giovani di seconda generazione, in particolare con le caratteristiche che hanno i gruppi di giovani delle periferie francesi o inglesi. Un altro fattore protettivo che ci è parso di vedere anche dai conflitti e dalle tensioni che ci sono stati tra il 2014 e il 2015 in particolare a Tor Sapienza, è il diverso rapporto con le polizie. Questo, come dicevo, è un tema fondamentale, nel senso che il modo in cui le polizie si comportano nelle aree periferiche è determinante nel non creare o nel creare degli atteggiamenti di ostilità e di conflitto più forti. C'è una ricerca che ho visto recentemente di alcuni colleghi tedeschi e francesi, che hanno confrontato le relazioni dei giovani immigrati con le forze di polizia rispettivamente in Francia e in Germania, che conferma altre ricerche dalle quali si deduce che un buon rapporto con le forze di polizia sul territorio è un fattore protettivo rispetto all'esplosione dei conflitti urbani. In effetti, anche i conflitti del 2014- 2015 a Tor Sapienza sono stati gestiti con una strategia, non di escalation, ma al contrario di de-escalation, con una certa attenzione. Questo è un aspetto importante. Anche le forze di polizia quindi dovrebbero essere coinvolte quando si parla di periferie, perché possono giocare un ruolo importante e in Italia questo può rappresentare un fattore protettivo.
  Come dicevo, mancano forme di segregazione spaziale accentuate. Questo è un altro aspetto importante.
  Invece, i fattori di rischio che penso debbano essere tenuti in grande considerazione sono in particolare l'impoverimento dei gruppi sociali dei cittadini italiani e la loro crescente vulnerabilità. L'impoverimento di tutti ci deve stare a cuore, ma l'impoverimento di questi gruppi può scatenare dei conflitti, come abbiamo visto e come stiamo vedendo verificarsi in questi giorni. Bisogna evitare in tutti i modi che si crei una situazione in cui ci sono gruppi vulnerabili della società che si mettono in contrasto con altri gruppi vulnerabili, come dicevo, i penultimi contro gli ultimi, in una specie di spirale del declino. Ci sono rischi molto forti, soprattutto, come dicevo, quando le ansie, questa rabbia e questa frustrazione vengono strumentalizzate politicamente, come ha fatto spesso CasaPound, per esempio, nelle periferie romane.
  L'altro fattore di rischio, come dicevo, è l'eccessiva concentrazione di un carico di problematiche sociali in uno stesso territorio.
  Il terzo e più importante è lo scadimento del welfare, dell'assistenza sociale in generale e dei trasporti nonché la crisi abitativa. Questi sono i fattori di rischio più significativi e più evidenti.
  Dal punto di vista della criminalità, ci sarebbe da fare un'altra considerazione. Sarebbe importante, in particolare ora che c'è una Commissione che si occupa di questo tema, che ci fossero dati disponibili sull'effettiva criminalità delle periferie. Forse la Commissione può, ma i ricercatori non hanno accesso a dati che non siano di livello nazionale, regionale, provinciale o al massimo con una disaggregazione comunale, divisi per aree del territorio. Questo è un problema storico in Italia: la difficoltà di raccogliere i dati sulla criminalità dalla polizia, cioè le denunce, per un'area, per un quartiere o per una parte di un quartiere. Tuttavia, i dati ci sono, perché con il sistema di interscambio (SDI) è possibile averli. Forse la Commissione ha avuto modo di vederli per aree specifiche, ma in genere i ricercatori non hanno accesso a dati disaggregati di questo genere, quindi le nostre informazioni sono di ordine più generale. Non credo, però, che cambierebbero molto il quadro di quello che sappiamo della criminalità e piccola criminalità ai margini, con i mercati della sussistenza illegale.
  C'è un altro importante fattore di rischio per il nostro Paese, in particolare per alcune città del nostro Paese, che è il controllo che la criminalità organizzata può fare anche di questi piccoli mercati illegali, Pag. 34che possono alla fine rivelarsi sufficientemente redditizi. Non parliamo di grandi organizzazioni criminali, se non magari nel caso della droga. Per gli altri mercati comunque questa è una caratteristica importante che è venuta fuori in alcune ricerche. Inoltre, sappiamo che la criminalità organizzata – definiamola così – si è anche collocata all'interno delle cooperative e delle associazioni che facevano assistenza nelle periferie o nei centri profughi. Questo è un aspetto piuttosto determinante.
  Per quanto riguarda le soluzioni possibili anche rispetto a quello che è stato fatto in altri Paesi, sono assolutamente convinta che sul tema delle periferie, in cui si combinano problemi di tipo sociale e in cui l'aspetto della criminalità tutto sommato non è neanche quello più determinante, non si possa fare altro che intervenire con misure di medio e lungo periodo e di grandissimo respiro. Questo va controcorrente con tutto quello che si fa oggi in materia di sicurezza urbana o di criminalità, però è l'unica strada perseguibile. È quello che ha fatto Chicago negli anni ’30, quando era un territorio devastato dalle bande criminali di italiani, polacchi, irlandesi. È quello che ha scelto di fare quella città. Faccio l'esempio di un grande programma di recupero sociale, comunitario e urbanistico, che si chiamò Chicago area project, che è ancora attivo dopo tanti anni. Significa intervenire con misure combinate di tipo sociale, comunitario e urbanistico. Senza andare lontano come a Chicago, ci possiamo fermare ad alcune zone del nostro Paese. Ci sono state esperienze, che probabilmente nelle vostre visite avete avuto modo di vedere, in Emilia-Romagna. Mi riferisco a un grande programma d'intervento di recupero urbanistico per la sicurezza che è stato fatto dal 2000 al 2012-2013 circa, attraverso cui sono stati recuperati edifici particolari, ma anche interi pezzi di città. È stato fatto a Modena e a Reggio Emilia. Nelle aree contigue alla stazione di Reggio Emilia, il quartiere Turri-Paradisi nel 2002-2003 aveva una percentuale di presenza di immigrati del 75 per cento, con un nucleo del 25 per cento di vecchi residenti (classe operaia o piccola borghesia degli anni 1970). Era una situazione che avrebbe potuto diventare veramente esplosiva, ma non lo è diventata perché c'è stato un lavoro accuratissimo e attento delle istituzioni locali, con una collaborazione tra regione e comuni, con programmi di tipo sociale, apertura di spazi, risistemazione urbanistica, collegamento con la città e anche resistenza alla stigmatizzazione e alla cattiva reputazione che questi luoghi tendono ad assumere. Sono quindi anche operazioni culturali importanti. Gli esempi ci sono. Io conosco in particolare quelli dell'Emilia-Romagna perché per molti anni è stato il mio ambiente di lavoro privilegiato. L'aspetto che era risultato particolarmente vincente, come forse avete visto nelle visite, è stato riuscire a far sentire le persone che vivono in quel territorio coinvolte e a far provare un senso di appartenenza rispetto al territorio stesso. La prevenzione comunitaria fondamentalmente si basa su questo: sulla ricostituzione del legame comunitario e del senso di appartenenza dei cittadini. Se trattiamo questi gruppi sociali come estranei o corpi anomali e non si cerca di farli sentire parte di un processo di recupero di tipo sociale e urbanistico, probabilmente diventa più difficile. Quando, invece, si coinvolgono anche i cittadini in prima persona, anche perché le risorse adesso sono più scarse che in passato, quindi l'attivismo comunitario è più importante, perché non tutto può venire dall'istituzione locale, si possono ottenere dei risultati. Vedo una situazione ancora sostanzialmente sotto controllo. Ci vuole un fortissimo impegno dal punto di vista sociale e comunitario, come dicevo, con una forte attenzione agli enti locali, perché a livello nazionale si possono dare linee guida, indicazioni, ma la diversificazione sui territori e le specificità dei territori sono importanti e quindi comuni e regioni dovrebbero essere messi in grado di riprendere con programmi di prevenzione di questo genere.

  ANDREA DE MARIA. Avrei tre questioni da porre. Due nascono un po’ dalla missione che abbiamo fatto a Torino recentemente, dove sono emerse due cose. La prima è la presenza di organizzazioni criminali, però straniere. In questo caso, per Pag. 35esempio, abbiamo fatto un'audizione sulla criminalità organizzata nigeriana. Mi interessa approfondire questo elemento. Vorrei sapere quanto, a suo avviso, si sta radicando in Italia, accanto alle mafie nostre, che credo siano comunque superiori a tutte le altre, anche nella percezione delle stesse organizzazioni criminali. In questa cosa abbiamo un primato. A parte le battute, vorrei sapere quanto si stanno radicando organizzazioni criminali straniere. Penso anche a Milano e al tema delle organizzazioni sudamericane.
  Il secondo punto riguarda i campi nomadi. A Torino, in uno dei campi che abbiamo visitato abbiamo registrato una cosa molto interessante: alcuni tentativi di governo basati sulla coesione sociale e sulla formazione hanno funzionato per una fase, con un certo tipo di presenze legate a profughi dalla ex Jugoslavia, ma poi, invece, una volta che sono arrivati un altro tipo di nomadi, quelle esperienze sono fallite e chi le faceva ha dovuto cambiare completamente campo, perché veniva anche aggredito. Vorrei un'opinione sulle modalità effettive di governo della situazione nei campi nomadi. Quali possono essere le esperienze più di successo per garantire un presidio delle istituzioni e una forma di governo delle presenze? Per esempio, a Torino la cosa che abbiamo visto è che a un certo punto c'è stata la presenza di gruppi aggressivi rispetto agli altri che sono entrati nel campo regolare e l'hanno occupato. Quelli che dovevano stare lì si sono dovuti spostare da un'altra parte e adesso praticamente c'è una difficoltà delle istituzioni a garantire una qualche forma di presenza.
  Inoltre, mi interessa il tema dell'edilizia residenziale pubblica (ERP). È vero che la prima risposta a un problema di graduatorie è allargare l'offerta edilizia residenziale pubblica. Secondo me, questo è un problema – anch'io sono dell'Emilia-Romagna – un po’ in tutto il Paese. Si è un po’ bloccata la costruzione di nuovi alloggi di edilizia residenziale pubblica, quindi c'è un tema di livello di offerta. Forse, però, anche un tema di normativa delle graduatorie esiste, perché le leggi regionali sull'ERP sono state fatte in una fase in cui il fenomeno dell'immigrazione non c'era e oggettivamente la possibilità che le famiglie immigrate con molti figli siano sempre sopra alla graduatoria rispetto a nuclei italiani, magari di anziani in condizioni economiche molto gravi, c'è, e questo crea una tensione sociale. È vero che c'è un problema di dimensione degli alloggi, quindi nella prassi di gestione a volte la graduatoria slitta perché non c'è un alloggio sufficientemente grande per ospitare la famiglia di quelle dimensioni, però forse si deve porre un ragionamento, che ovviamente deve riguardare italiani e immigrati, legato al numero di anni di residenza, una questione che, per esempio, in Emilia-Romagna è stato aperta. Comunque, il fatto che alcuni strumenti storici di welfare a un certo punto riguardino solo gli immigrati rischia di creare una conflittualità sociale molto rilevante.
  Il conflitto fra i ceti sociali più deboli c'è. Ovviamente lo si governa in tanti modi, con un indirizzo politico, ma secondo me anche intervenendo sulle norme, per adeguarle alla nuova fase e per dimostrare che le istituzioni in realtà sono eque rispetto a chi ha situazioni di disagio sociale.

  PAOLO GANDOLFI. La mia più che una domanda è una curiosità stimolata dal fatto che la professoressa è una sociologa e che ha illustrato alcune differenze tra il caso italiano e i casi in particolare di Gran Bretagna e Francia, dove ci sono state rivolte. Vorrei approfondire e fare una domanda per rispondere anche un po’ a una mia curiosità personale. Visto che le rivolte nelle periferie sono state prevalentemente in Francia e in Gran Bretagna e non sono avvenute né in Italia né in Germania né in Spagna, oltre a tutti i fattori che ha detto lei e che mi convincono assolutamente – non li metto minimamente in discussione – può esistere anche un fattore che deriva dal rapporto che questi gruppi etnici presenti nelle periferie inglesi e francesi hanno in relazione al fatto di essere ex colonie di recente dismissione? Ci potrebbe essere una sorta di rapporto intrinsecamente conflittuale con il Paese d'origine, anche in relazione al fatto che in alcuni casi le famiglie di immigrazione sono arrivate in Pag. 36questi Paesi, cioè in Gran Bretagna e in Francia, quando ancora quelle erano colonie, quindi hanno vissuto culturalmente dall'interno anche la fase della decolonizzazione. Me lo chiedo – e lo chiedo a lei perché è una sociologa, quindi a maggior ragione rispetto ad altri può avere una risposta – perché in effetti, se fosse così, questo rimarrebbe un elemento strutturale che in qualche maniera caratterizzerebbe, a prescindere dalle nostre politiche, il contesto sociale delle periferie.

  VINCENZO PISO. Ho una domanda simile a quella che ha posto il collega poc'anzi. Mi sembra di aver colto nel corso della sua esposizione una differenziazione fra la conflittualità che abbiamo in Paesi come la Francia e l'Inghilterra nei confronti della polizia e probabilmente dello Stato e il caso dell'Italia, dove invece, se ho ben capito, si è sviluppata una conflittualità più interetnica, con meno rivolta contro lo Stato. Vorrei capire secondo lei perché accade questo.

  ROSSELLA SELMINI, associato di sociologia e criminologia. Parto dalle prime tre osservazioni.
  Sulle mafie straniere quello che ho visto nelle ultime ricerche che ho fatto in Italia in quest'ultimo anno è stata in particolare una sorta di specializzazione per gruppi stranieri diversi. Ad esempio, tutto il mercato della ricettazione dei pezzi di ricambio è molto controllato, anche con delle forme di organizzazione che cominciano a essere abbastanza sofisticate, da gruppi stranieri, solitamente dell'est. C'è poi il mercato della droga, che è ancora abbastanza condiviso. Quando parlo di criminalità organizzata senza riferirmi alla grande criminalità organizzata mafiosa mi riferisco a questi livelli intermedi. Non parliamo di grande o di piccola criminalità, ma di forme che si trasformano abbastanza rapidamente passando da un territorio all'altro. Questo è un problema fondamentale di lavoro investigativo delle polizie, che in Italia andrebbe sviluppato moltissimo. Purtroppo, sono considerati spesso reati collegati a una criminalità minore, come anche tutta l'organizzazione dei mercati della povertà (venditori di rose, i mendicanti)... Le ultime ricerche a Barcellona, per esempio, dove sono stata recentemente a un convegno, dimostravano l'esistenza di forme di criminalità organizzata piuttosto significative dietro a tutti quelli che vendono la birra a un euro ai turisti per strada. Cominciano a esserci dei mercati – per carità, non parliamo di cose sofisticate, non sono comparabili – con forme di distribuzione, una suddivisione di ruoli eccetera. Sono prevalentemente stranieri oppure sono misti, locali e stranieri. Quello che ho visto di interessante in questo viaggio a Barcellona è stata l'attività investigativa della polizia. All'inizio si dicevano: «Ma perché ci dobbiamo preoccupare di quelli che vendono la birra a un euro? Fa parte della vita della città. Abbiamo tutti questi giovani che arrivano». In seguito, cominciando a investigare, hanno trovato delle cose più interessanti. Penso che non andrebbe trascurato il fatto – su questo sono d'accordissimo – che ci sono mercati nuovi, con caratteristiche particolari, anche molto mobili, che possono anche spostarsi, quindi senza caratterizzare solo le periferie. Su questo sarebbe estremamente importante fare un lavoro accurato di investigazione, che invece non sempre viene ritenuto significativo.
  Il tema dei campi nomadi o della presenza dei nomadi in genere non è stato e non è un mio tema di studio privilegiato, non avendo mai fatto ricerca specifica sui nomadi in Italia. Penso, però, che sia importante quello che lei diceva. Tendiamo a mettere sotto l'etichetta «rom», «nomadi» o «sinti» un po’ di tutto, ma c'è una differenza tra i gruppi originari che sono arrivati nel passato e che sono qui stanziali da parecchi decenni e i gruppi più recenti che sono arrivati dopo la guerra dei Balcani e che continuano ancora ad arrivare adesso, rispetto ai quali non si sa quali siano i legami reali di appartenenza con questo gruppo etnico. Sotto questa etichetta c'è un po’ di tutto. Per chi sta da trent'anni in Italia con una famiglia e ha un senso di attaccamento al territorio può essere produttivo offrire una forma di reinserimento Pag. 37 di un certo tipo, ma può non esserlo assolutamente per qualcuno che è in una condizione diversa. Non conosco nel dettaglio quale lavoro stiano facendo adesso i comuni. Queste sono attività che gli enti locali dovrebbero essere messi in condizione di fare. Non so quanto lavorino effettivamente sulle presenze nei campi. Ci si limita a gestire la situazione, sperando che non succedano dei disastri, e a fare qualche sgombero quando è necessario, ma non mi risulta – potrei sbagliarmi – che ci sia un'attività costante e continua di qualcuno che segue e differenzia le situazioni. Infatti, se c'è qualcuno che è aggressivo o si mette in conflitto con altri, è chiaro che tutto il discorso di integrazione non ha più senso e bisogna intervenire in un altro modo. Il problema è che qui si continua a pensare a una categoria, anche nell'immaginario delle persone, invece non è sempre così, ma c'è una varietà di situazioni importante da tener presente.
  Per quanto riguarda l'accesso agli alloggi di edilizia pubblica è lo stesso discorso. A me pare che nel nostro Paese, ma anche in tanti altri, queste risorse si siano ridotte. Questa è una delle ragioni per cui ci sono problemi di questo genere. Mi riferivo infatti alla necessità di tenere in considerazione i bisogni di questi gruppi sociali vulnerabili, per evitare che si mettano in contrapposizione ad altri. Lei faceva riferimento agli aspetti tecnici delle graduatorie. Non so come tecnicamente possano funzionare. Quello che noto è che rispetto agli strumenti del welfare, di cui parlavo quando mi riferivo alla prevenzione sociale e comunitaria, abbiamo bisogno di riprendere cose vecchie, perché c'è molto di buono nel vecchio. Non a caso ho citato un programma di Chicago che sopravvive da 60 anni con molto successo, che non ha funzionato dappertutto, ma in alcune aree ha funzionato. Dall'altro lato, c'è bisogno di innovare moltissimo, perché le cose cambiano molto più rapidamente che in passato e alcuni strumenti sono molto vecchi. Per questo accentuavo l'importanza della partecipazione diretta della comunità, perché non è più pensabile che ci siano delle risorse che arrivano e che un cittadino passivamente possa usufruirne. Non siamo più in quel periodo, quindi bisogna pensare sicuramente a strumenti nuovi. Sono d'accordo che ci debba essere una forma di equità. Pensiamo anche alle famiglie dei giovani precari italiani oppure ai padri e alle madri singoli e divorziati, che sono un'altra emergenza silenziosa di cui non si parla sempre. Sono tutte categorie in qualche modo vulnerabili, che non ritengo debbano essere messe in alcun modo in contrapposizione con gli immigrati. Si deve trovare un criterio equo anche per proteggere questi gruppi. Credo che molti degli strumenti che abbiamo siano piuttosto vecchi e purtroppo non mi sembra di vedere neanche un forte investimento nel pensare a degli strumenti nuovi. Si investe molto in altro, non nel ripensare il welfare. Si investe molto nella sicurezza, pensata come controllo amministrativo, ma neanche tanto, poiché non richiede grandi investimenti. Forse dovrebbe essere fatto uno sforzo più in questo senso e si potrebbe tener conto di questa varietà di situazioni.
  L'aspetto della storia coloniale è molto citato nelle ricerche sulla Francia e sull'Inghilterra, anche se non è ritenuto quello determinante. È uno degli aspetti che compongono le caratteristiche della conflittualità degli immigrati in quei Paesi, è una parte. Pertanto, non credo che potremmo ritenerci completamente indenni dal rischio dello sviluppo di fenomeni di questo genere in futuro perché noi non abbiamo una storia di colonialismo. È sicuramente un elemento che spiega una relazione più difficile, ma sono altri gli aspetti che vengono ritenuti più determinanti nell'analisi delle violenze, in particolare giovanili. Infatti, a differenza dell'Italia, dove ci sono scontri interetnici che riguardano generazioni diverse, nel caso della Francia e dell'Inghilterra le rivolte urbane nelle periferie sono un problema giovanile. Parliamo di giovani, concentrati grossomodo nella fascia d'età dai 14 ai 24 anni, cresciuti con le aspettative dei cittadini di quel Paese, aspettative di inserimento sociale, di un lavoro dignitoso, di tutte quelle cose che le generazioni più giovani sperimentano sempre di meno, spesso a prescindere da quale Pag. 38sia la loro appartenenza etnica in generale, e al tempo stesso con una cultura di dell'edonismo e del consumismo. Si aggiunge, quindi, una frustrazione molto forte per l'impossibilità di raggiungerle. Questi sono processi un po’ più generali, non necessariamente legati al tema delle colonie. È sicuramente una delle spiegazioni che stanno alla base. Non so dire se in Italia tra vent'anni, una volta che si sarà consolidata una seconda o terza generazione, potrà succedere questo. Francamente non lo credo, perché tutta la storia della migrazione italiana è diversa e parliamo anche di numeri molto diversi. Sicuramente il fatto di non aver avuto delle colonie con degli arrivi così consistenti qualche cosa ha significato.
  Per ciò che concerne lo Stato e la polizia, quando parlo della polizia intendo che il nemico per i giovani francesi è soprattutto la polizia. In particolare mi riferivo a questa, perché la polizia francese è stata particolarmente violenta, aggressiva e brutale. Ciò è riconosciuto, non solo da rapporti di associazioni non governative, ma anche da ricercatori ed è venuto fuori sulla stampa. Forse ricorderete tutti un episodio di terribile violenza (credo di pochi mesi fa), commesso proprio dai poliziotti francesi su un immigrato nella periferia. Sono almeno dieci o quindici anni che la polizia francese ha adottato una strategia molto aggressiva nei confronti dei giovani. In primo luogo c'è sicuramente la polizia, però dietro questo c'è quello che dicevo prima: la frustrazione per un Paese di cui questi giovani sono cittadini (sono nati in Francia), che non ha dato loro le stesse opportunità che magari ha dato ai genitori, con in più delle aspettative in termini di consumismo molto significative. Le rivolte di Londra sono state emblematiche: i saccheggi nei negozi, le Nike, i telefonini. Era evidente la combinazione di rabbia e frustrazione e il mito del consumismo assoluto. Anche in questo c'è la differenza con le generazioni precedenti, che avevano valori diversi.
  Questo però è anche un problema culturale, che riguarda la cultura che un Paese propone e diffonde, quindi c'è anche molto lavoro culturale da fare quando si parla di periferie in genere.

  PRESIDENTE. Ringrazio la professoressa Selmini e dichiaro conclusa l'audizione.

Comunicazioni del presidente.

  PRESIDENTE. Comunico che l'Ufficio di Presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, nella seduta del 27 giugno 2017, al fine di coadiuvare la Commissione nell'approfondimento dei temi della sicurezza, della rigenerazione urbana e della rigenerazione sociale, ha convenuto di avvalersi dei seguenti consulenti: professor Giovanni Laino, ordinario di tecnica e pianificazione urbanistica presso il Dipartimento di architettura dell'Università Federico II di Napoli e architetto Carlo Pagan.
  Ricordo che l'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, ha convenuto che tutti gli incarichi indicati siano attribuiti per la durata dell'inchiesta e che si intendano a tempo parziale e non retribuito e che ciascun incarico sia riferito all'espletamento di compiti di volta in volta attribuiti con indicazioni singole e specifiche. Ai predetti consulenti sarà riconosciuto l'eventuale rimborso delle spese debitamente documentate, sostenute in occasione dell'espletamento di tali specifici compiti.

  (La Commissione concorda).

  Avverto che la presidenza avvierà le procedure autorizzatorie, ove previste, per assicurare l'avvio delle collaborazioni sopraindicate.

  La seduta termina alle 14.05.