XVII Legislatura

Commissione parlamentare di inchiesta su sicurezza e degrado delle città

Resoconto stenografico



Seduta n. 14 di Martedì 9 maggio 2017

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Causin Andrea , Presidente ... 3 

Audizione di rappresentanti dell'INU, Istituto nazionale di urbanistica:
Causin Andrea , Presidente ... 3 ,
De Luca Giuseppe , presidente di Inu Edizioni ... 3 ,
Causin Andrea , Presidente ... 9 ,
De Luca Giuseppe , presidente di Inu Edizioni ... 9 ,
Causin Andrea , Presidente ... 11 ,
Gasparini Daniela Matilde Maria (PD)  ... 11 ,
Morassut Roberto (PD)  ... 12 ,
De Luca Giuseppe , presidente di Inu Edizioni ... 12 ,
Morassut Roberto (PD)  ... 12 ,
De Luca Giuseppe , presidente di Inu Edizioni ... 13 ,
Morassut Roberto (PD)  ... 13 ,
Mannino Claudia (Misto)  ... 13 ,
De Luca Giuseppe , presidente di Inu Edizioni ... 14 ,
Causin Andrea , Presidente ... 17 

Audizione di rappresentanti dell'Anes, Associazione nazionale edilizia sociale:
Causin Andrea , Presidente ... 17 ,
Babuin Maristella , consigliere di Anes ... 17 ,
Causin Andrea , Presidente ... 19 ,
Babuin Maristella , consigliere di Anes ... 19 ,
Causin Andrea , Presidente ... 19

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
ANDREA CAUSIN

  La seduta comincia alle 12.35.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Comunico che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche mediante l'attivazione del sistema audiovisivo a circuito chiuso e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati e, in seguito, sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti dell'Inu,
Istituto nazionale di urbanistica.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione di rappresentanti dell'Inu, Istituto nazionale di urbanistica.
  È presente il presidente di Inu Edizioni, professor Giuseppe De Luca, che ringrazio per aver accolto l'invito della nostra Commissione.
  Do la parola al professor De Luca, con riserva per me e per i colleghi di rivolgergli, al termine del suo intervento, domande e richieste di chiarimento.

  GIUSEPPE DE LUCA, presidente di Inu Edizioni. Devo prima di tutto scusare la mia presidente, l'architetto Silvia Viviani, che stamattina non poteva esserci. Sono stato però per cinque anni consecutivi, fino a qualche mese fa, segretario generale dell'Inu e ora sono il presidente del comparto Inu Edizioni, tutta la struttura tecnica che produce le riviste e i libri dell'Inu, ma non solo. Insegno anche urbanistica a Firenze, quindi questi temi fanno parte della mia storia. Tra le altre cose, sono anche laureato in urbanistica, nella prima laurea esistente in Italia a Venezia. Sono nato all'interno del DNA dell'urbanistica nel senso più forte del termine.
  L'Inu valuta molto positivamente quest'iniziativa e questa Commissione. Valuta molto positivamente anche che nel Parlamento finalmente si torni a parlare in maniera mi sembra molto ampia di questo tema. Devo fare però prima una doppia premessa.
  La prima premessa è che dal 1949, da quando l'Inu si è rifondata su basi democratiche, abbiamo condiviso battaglie anche trasversali con tutte le forze politiche, indistintamente. Abbiamo anche aiutato molto le amministrazioni pubbliche locali, ma anche il Parlamento, a lavorare sull'argomento. Dal 1949, però, non c'è mai stato l'allineamento con i princìpi costituzionali repubblicani di una parte della struttura delle norme tecniche, soprattutto strumentali, dell'urbanistica, che fanno riferimento al Novecento, ma in uno sfondo istituzionale e tecnico, anche dei poteri pubblici locali, un po’ diverso da quello stabilito dalla Carta costituzionale. La disposizione transitoria, che voleva che entro tre anni si ridefinissero le leggi di principio, nel nostro settore è rimasta sostanzialmente lettera morta. Di questo mi dispiace.
  In secondo luogo, esprimiamo una perplessità: i lavori di questa Commissione sono davvero molto interessanti, ma molto ampi, talmente ampi che la mia difficoltà personale e quella dell'Istituto è di poter essere utili in una sola audizione. Per questo, ci siamo permessi di portare dei documenti che vi lasciamo, e comunque ribadiamo che siamo davvero disponibili nelle varie forme, anche in modalità estesa, a dare un contributo, se richiesto. Peraltro, ultimamente stiamo lavorando in maniera Pag. 4coesa e cooperativa da una parte con l'ISTAT, in modo che i dati economici e abitativi della popolazione siano correlati con i dati sulla pianificazione; dall'altra, col CRESME. Penso che tutti e tre insieme stiamo riuscendo a costruire un database conoscitivo di una certa consistenza.
  Il problema che vorrei sottoporre è il concetto di periferia. A nostro avviso, il termine è molto coprente e può essere oggetto di qualche distinguo anche negativo. In realtà, nelle letture, nell'analisi, anche nelle condizioni giornalistiche, il concetto di periferia è fortemente legato alla città come costruita nel secondo dopoguerra. Se diamo un'accezione negativa a questo termine – mi permetto di dirlo e vi chiedo anche scusa di questa sottolineatura in questo luogo, molto simbolico e molto carico di democrazia, almeno nella forma – è una critica radicale alla Repubblica. Come Inu, saremmo molto più cauti nel circoscrivere il concetto di periferia in ambito solamente negativo. Ci sono periferie molto interessanti e molto vivibili. Tengo a precisare che buona parte delle cosiddette periferie costruite negli anni ’50 e ’60 hanno una qualità della vita tutt'altro che secondaria, rispondono a elementi di cultura sociale e a forme rilevanti costituendo modelli di riferimento anche per altri Paesi. Il problema nasce, secondo le nostre indicazioni, quando l'organigramma della formazione e della strumentazione, quindi anche dei modi dell'agire pubblico, sul territorio cambiano nel 1968, secondo noi un anno di assoluta demarcazione tra un prima e un dopo. Da allora, siamo in una sorta di territorio un po’ scivoloso, che assume forme di fughe in avanti alcune volte, di precipitoso ritorno all'indietro altre. Mi riferisco alla non risoluzione, in questo Paese, del problema dei vincoli ablativi.
  Prima del 1968, il potere pubblico aveva dalla sua una forza legata sostanzialmente al potere di vincolo, che certo valeva a tempo indeterminato, ma si poteva risolvere in centinaia di modi. Ne abbiamo scelto uno, la scadenza quinquennale, senza poi allineare tutto il resto. L'Istituto, per la verità, ha più volte tentato, con la collaborazione di molti amministratori locali e di molte menti che hanno lavorato sul terreno delle pratiche pubbliche e amministrative, di correggere questo tipo di organigramma. Una delle correzioni più rilevanti, molto recepita dalle amministrazioni regionali e non già tutelata a livello nazionale – siamo ancora su un terreno molto scivoloso, come ripeto – è quella dello sdoppiamento della pianificazione: pianificazione strategica e pianificazione operativa. Era un tentativo, mutatis mutandis, di non spostare troppo le bocce nel campo di gioco, ma di redistribuirle in maniera intelligente ed è stato nel 1992-95 uno degli elementi più innovativi che abbiamo avuto, al punto che quasi tutte le regioni si sono immediatamente adeguate a questo tipo di meccanismo, a questo sdoppiamento, che però poneva sempre il problema della tutela globale, sia delle regioni che adottavano questo sistema, sia soprattutto perché non abbiamo fatto i conti con il ’900, quindi con il doppio regime dei suoli: non dico assolutamente nulla di nuovo.
  Interessante, a nostro avviso, è invece tutto il periodo sperimentale, che a valle di questo sdoppiamento ha portato più volte a quella stagione della pianificazione complessa, che è stata forse quella più interessante nel cercare di trovare degli elementi di uscita, ma anche quella più problematica, un po’ per carenza di fondi, ma soprattutto per un'assenza di governance. Siamo fortemente portatori di un concetto di governance cooperativa nel governo del territorio, che non significa consociativismo, ma che pubblico e privato dovrebbero offrire le loro massime espressioni della convivialità e dell'utilità sociale, che non tutto il pubblico è buono e non tutto il privato è buono in assoluto, ma che ci si possa rivolgere una volta all'uno e una volta all'altro solo in termini di utilità sociale: abbiamo sempre svolto questi argomenti e siamo disponibili ad aprire i nostri archivi.
  Su questo tema specifico abbiamo monitorato il bando sui progetti di riqualificazione urbana e sicurezza delle periferie. Vi lascio anche un documento che è stato presentato a Urbanpromo, qualche mese fa. Di 21 progetti presentati, ne abbiamo Pag. 5monitorati 15: da questo quadro, per noi significativo viene fuori che «periferia» è un termine omnibus, un po’ come la coperta di Linus, stiracchiato un po’ da una parte e un po’ dall'altra, non giustificando nemmeno la sua forza, perché è un termine così polisemico, che però nella maggior parte delle indicazioni è percepito nella cultura sociale e giornalistica, ma anche nel comune dibattito politico, come termine negativo.
  Nel 1954 c'è stato un volo aereo dell'IGM che ha praticamente fotografato l'intero territorio nazionale, e quindi c'è una data specifica a poter tecnicamente ancorare alcune indicazioni. Inoltre, nel 1954 tornava a essere in vigore la legge n. 1150 del 1942, sospesa per nove anni, per attivare tutta la fase della ricostruzione del Paese. Difatti, i primi veri grandi piani nascono tra il 1952 e il 1954: Siena, Firenze, Pistoia, Roma. Il 1954 è una data specifica. Dal 1954 a oggi, l'86 per cento della popolazione abita nelle periferie. Sinceramente, non siamo in grado di dire che il termine possa essere usato in maniera indistinta: dovremmo dire che è un termine coprente elementi di grande negatività. In realtà, nell'analisi che abbiamo svolto in maniera molto didascalica, nei progetti presentati nel bando, per periferie si intende: vuoti urbani, privi di relazione; problemi di aree con scarso decoro urbanistico ed edilizio, che significa che manca la città pubblica, con tessuti connettivi diffusi anche tra città e città, con aggregati edilizi nati un po’ casualmente; aree libere, che non hanno ricevuto l'interesse della valorizzazione economico-urbanistica, dunque con tessuti edilizi inespressi; aree incompiute; addirittura, zone definibili «non luoghi». Come potete vedere e consultare, la periferia è un ammasso, un groviglio di tutto questo.
  Quello che ci pare interessante è che nei progetti presentati non sembra emergere un'idea di città. Sembrerebbe quasi che le pubbliche amministrazioni abbiano candidato le zone su cui avevano progetti nel cassetto o interessi specifici, perché magari o proprietari e pubblica amministrazione, o pubblico e pubblico avevano identificato alcuni problemi. A nostro avviso, questo è uno dei problemi drammatici di tutto il processo pubblico centrale. Finanziando a bando in maniera indistinta alcune operazioni, se da una parte si configura effettivamente un investimento di spesa pubblica consistente, con ritorni probabilmente significativi; dall'altra, è un'operazione a macchia di leopardo, che non genera quella forza propulsiva che invece dovrebbe avere. Il fatto è che in questo Paese, anche per un input europeo, si parla solamente di agenda urbana come elencazione dei problemi e non già, a nostro avviso, di «progetto Paese». L'abbiamo lanciato come slogan, ma per noi dovrebbe essere un elemento fondamentale. Progetto Paese significa alcune poche scelte identificate a livello nazionale su alcuni luoghi concentrati in cui poter addensare investimento, attenzione politica, attenzione economica, in modo da far diventare questi luoghi motori di ricerca ed economici. L'unico modello molto forte di progetto Paese che l'Italia ha fatto risale a moltissimi anni fa. Alcuni di voi immagino lo ricorderanno, il Progetto ’80, che spesso viene ancora citato, specialmente nel campo dell'urbanistica e nelle nostre aule universitarie, un progetto Paese con la forza di individuare, partendo dalle città metropolitane – il fatto stesso che abbiamo 14 diverse città metropolitane...Vi do solamente un dato, molto significativo. Da una parte, la città di Reggio Calabria fa 150.000 abitanti, dall'altra, Roma ne ha 3 milioni: utilizziamo lo stesso concetto di periferie, indistinto, mentre probabilmente c'è bisogno di politiche, di attenzione, di modelli, di progettualità diversi. Lo sottolineiamo con molta forza. Dal monitoraggio del bando, la cosa significativa è che i progetti sono molto interessanti, ma le azioni proposte sono di piccola taglia e troppo frammentate. Sembrerebbe quasi una sorta di aiuto generalizzato in maniera indistinta un po’ a tutti, ma senza che questo crei quel tessuto connettivo, quella forza economica che possa, nel bene e nel male, ribadire una cultura della scelta. Uno degli aspetti significativi, secondo noi, è che c'è un sensibile cofinanziamento arrivato in questi progetti, ma è molto circoscritto a quello che individuiamo come welfare urbano, cioè servizi, Pag. 6specialmente assistenziali e socioculturali, che però sono una spia della domanda sociale che chiamo improcrastinabile, e cioè il fatto che il trend della popolazione è fortemente modificato. Abbiamo una popolazione superiore a 65 anni che è il 140 per cento di quella inferiore ai 18 anni, che significa che i servizi socioassistenziali sono prioritariamente indirizzati a questa fascia di popolazione, che guarda caso è anche quella più tutelata in termini sociali, perché è quella che sicuramente può godere di una pensione attuale, che probabilmente le classi giovani in un prossimo futuro non dico che non avranno, ma avranno in una quota completamente diversa.
  Questo mi porta a uno dei temi che avete individuato, e cioè la sistemazione della strumentazione urbanistica, che è a cascata, a tempo indeterminato tra le altre cose. Per la velocità con cui lavoriamo, il fatto che siamo invasi dai just in time in un'incredibile velocità delle trasformazioni e delle conoscenze, forse dovremmo rivedere anche questi agganci. Vi cito solamente un caso che stiamo studiando in questo preciso momento. Il mio babbo culturale si chiamava Giovanni Astengo, uno dei maestri dell'urbanistica in Italia, e ha lavorato solo su tre grandi piani nella vita. Oggi, invece, i nostri professionisti, me compreso, sia per motivi economici – le pubbliche amministrazioni hanno range di pagamento non solo diluiti nel tempo, ma con gare con ribassi del 38-40 per cento, quindi c'è un problema proprio di qualità della tecnica – sia perché siamo costretti a «sperperarci» mentalmente in una quantità dei lavori, e questo non contribuisce a creare quella serenità dell'ascolto lento che determina i meccanismi di riferimento. Una delle spie potrebbe essere anche il fatto che c'è una distanza reciproca tra strumentazione e azione individuale, e parzialmente forme di abusivismo non sono secondarie. Quando le procedure tendono a essere lente, alla fine la velocità che ci viene richiesta ci provoca anche comportamenti non sempre in linea con quello che dovrebbe essere il meccanismo.
  Adesso lavoriamo su un rapporto, che non vi lascio semplicemente perché uscirà tra un mese e ancora alcune pagine sono bianche, per cui ve lo farò avere: un rapporto quinquennale che quest'anno facciamo anche insieme al CRESME. Vi sono definiti almeno nove dei dodici punti che avete trattato in Commissione. A noi piace davvero, e non lo dico per piaggeria, che si interloquisca da questo punto di vista, davvero molto. Abbiamo bisogno dell'intelligenza di tutti.
  Dall'altra parte, molti dei temi che indichiamo oggi, ma che voi avete trattato, li abbiamo usati nel rapporto che la Presidenza del Consiglio ha mandato ad Habitat III, cui abbiamo dato un contributo significativo, e sottolineo significativo. Molti dei temi che tratterete sicuramente qui sono elencati in nuce, e hanno la forza, almeno a livello simbolico, di rappresentare una possibile agenda nazionale posta a una discussione all'ONU qualche mese fa, nella terza conferenza Habitat tenuto a Quito. Secondo me, potrebbe essere una delle cartine di tornasole in cui poter lavorare. Ve lo lascio, ma è materiale che presumibilmente avete già.
  Facciamo quest'attività in maniera quasi quotidiana, perché abbiamo 19 sedi regionali che lavorano con un sistema totalmente volontario: non abbiamo fondi pubblici, non abbiamo nemmeno finanziatori che non siano i soci che si scrivono annualmente alla nostra associazione, quindi viviamo con grandissima difficoltà, è un'attività totalmente volontaria.
  Vorrei sottolineare proprio questo dato, che ha almeno tre grandi caratteristiche secondo noi. La prima è che probabilmente tutta la strumentazione che abbiamo ereditato dal Novecento è in pensione. Molte manifestazioni che consideriamo negative, che avete elencato, si giustificano, si possono capire tenendo conto di due parallelismi. Anzitutto, è venuta meno una traiettoria dello sviluppo economico che ha modificato i contesti. La strumentazione urbanistica è appunto strumento di una decisione politica. Dico sempre ai miei studenti universitari che l'urbanistica ha due grandi mani. Intanto, è una decisione politica tecnicamente assistita, perché è un luogo pubblico, una decisione pubblica, che Pag. 7diventa un'infrastruttura di investimento pubblico sul medio periodo, ed è fatta di due grandissime componenti. Una è squisitamente tecnica: altezza, distanza e quantità, vera erga omnes, con una sua stabilità. Dall'altra parte, è un sistema di decisione politico, fatto all'interno delle istituzioni in maniera sempre più partecipate ed estesa, con varie forme di consultazione, dal contatto fisico al contatto telematico, al fatto che per esempio ormai la maggior parte dei comuni pubblica anche quotidianamente le sue decisioni temporanee e le informazioni sui siti, che la cittadinanza può controllare e guardare. Se è questo il problema, allora dobbiamo per forza rimodulare completamente il sistema novecentesco, che era basato sul presupposto della segretezza delle decisioni pubbliche per non far scagionare la rendita fondiaria urbana, che è stata ed è ancora il vero problema che abbiamo di fronte, che ultimamente facciamo un po’ pagare al comparto turistico, a tutti quei cittadini che non possono più abitare in alcuni luoghi centrali della città e si spostano. Spostandosi, indirettamente pagano una quota di rendita fondiaria urbana.
  Uno dei punti che la Commissione non ha è quello della fiscalità urbanistica. Vi dico dal profondo del mio cuore, e dal profondo del mio cuore di professore universitario e di tecnico, che la fiscalità urbanistica è l'unico elemento che abbiamo non dico per affermare l'interesse pubblico, perché sarei troppo ottimista e anche un po’ ipocrita ad affermare una cosa di questo genere, ma quello della maggioranza, ma mi sentirei di dire l'interesse di tutti. Fino al 1942, giustificata dalla legge urbanistica, c'era una tassazione, che aveva un suo significato simbolicamente molto forte, ed era il «contributo di miglioria». Sembra molto sciocco, ma invece era un tentativo di partecipare da parte dei privati all'investimento pubblico nella costruzione della città pubblica. Il fatto che in una strada prima passava l'autobus su ruote e ora passa la tranvia, il treno, la macchina elettrica senza autista, contribuisce a riformulare, a riposizionare i valori urbani: non si può godere esclusivamente dell'investimento pubblico perché è stato concentrato lì per una decisione politica senza contribuire. Secondo me, questo è uno dei temi fondamentali che fosse questa Commissione, parlando delle periferie, potrebbe far tornare in auge. Mi rendo conto che questo significa andare verso altri tipi, ambiti di decisione, quelli del Ministero dell'Economia, ma quello è il termine di riferimento. Abbiamo ancora un patrimonio edilizio vuoto, dormiente, valori urbani totalmente ingiustificati, che «dormono». Mi rendo conto e vi rendete conto, penso, che il fatto che non riusciamo a chiudere la questione del catasto è una delle spie di questo meccanismo.
  Detto questo, a nostro modo di vedere bisogna far tornare nuovamente a una riflessione comune verso un pensiero competente, come l'abbiamo definito qui dentro, e cioè al fatto che intelligenze tecniche rielaborino completamente assetti possibili, partendo dall'altra branca che non vi ho citato e che vi dico ora e dal fatto che la politica urbanistica senza una politica fiscale, da una parte, ed economica, dall'altra, è una politica urbanistica che non serve un po’ a nulla. Definisce, cioè, assetti che nella maggior parte dei casi finiscono sulle carte. Tengo a precisare che molti piani regolatori di una volta, molti piani strutturali, vivono tempi lunghissimi, proprio perché sono disegni che creano assetti territoriali e ridefiniscono rendite fondiarie urbane, quindi anche interessi economici, che si coagulano in lobby anche forti, le quali però non determinano l'interesse pubblico, e cioè la definizione completa di assetti urbani, città pubblica e città privata.
  Per questo, lanciamo tre grandi temi. Uno è il superamento degli standard urbanistici, nel senso di un loro forte ritorno a una dotazione territoriale vera, aggiornandola. Vi do solamente un dato, che forse può sembrare molto ridicolo, ma è significativo: nel 1968, quando sono stati emanati questi standard temporanei, abbiamo classificato nel comparto scuola un certo quantitativo di metri quadri per abitante, e ora le nostre classi sono vuote e lo spazio per questi 4,5 metri quadrati non è più giustificabile. Dall'altra parte, avevamo solamente 2,5 metri quadrati per parcheggi, e Pag. 8invece abbiamo un problema drammatico, che si coglie in maniera molto evidente di notte. Di giorno, le macchine, transitando per unità di tempo in sezione della strada, si disperdono; di notte, no, e quindi di notte c'è l'ingorgo. Questo è un problema che qualsiasi pubblica amministrazione seria si pone. Il fatto che per aumentare l'introito delle pubbliche amministrazioni, abbiamo introdotto il parcheggio a pagamento, pone problemi: abbiamo sottratto una quota di città pubblica a uno degli elementi fondamentali, che è appunto la mobilità, peraltro in assenza di mobilità pubblica rilevante.
  Il secondo problema è quello della fiscalità, come vi ho detto prima.
  Il terzo, per noi rilevante, è di ristabilire una filiera corta nella progettazione. Non è possibile che i tempi di definizione delle politiche pubbliche siano lunghissimi. Personalmente, sto facendo un piano strutturale in un comune del sud, che non vi dico per motivi di correttezza, ma sono sei anni che stiamo facendo il piano strutturale per un comune di 20.000 abitanti e un dimensionamento di piano del 1999 che, alla fine, poteva ospitare 115.000 abitanti. Voi capite che c'è qualcosa che non funziona.
  Da una parte, ci sono piani sovradimensionati per includere interessi più o meno ampi e, dall'altra, il fatto che gli interessi più o meno ampi non generano valore. La proposta è quello di ridurle del 90 per cento, forse arriveremo a ridurle a 60, ma siamo fuori mercato, si potrebbe parlare di aree non bancabili. È un po’ come i giovani, a cui, non avendo un reddito sicuro, quando vanno a chiedere un mutuo, rispondono di portare una fideiussione, perché non c'è da agganciarlo su quest'altra parte.
  Che cosa significa filiera corta? Secondo noi, può significare solo una riflessione comune, l'idea che ci possa essere una pianificazione generale di livello strategico molto corta, ma non conformativa, cioè non conformativa degli usi dei suoli, ma conformativa delle scelte strategiche generali, un po’ come mutatis mutandis è scritto nella legge Delrio per quanto riguarda le città metropolitane. D'altra parte, la legge Delrio – mi permetto di dirlo, vi chiedo scusa della citazione – ha fatto come si faceva col nostro vecchio maiale: non ha buttato fuori nulla. Accanto alla pianificazione strategica si fanno anche il piano territoriale di coordinamento, i piani intercomunali, i piani strategici, alla fine non si fa nulla.
  Altro è quello spirito del doppio livello: un livello strategico tendenziale, magari a valenza medio-breve, 10-15 anni, che dà alcune direttive, alcuni corridoi, alcune strutture di riferimento, cui poter agganciare davvero una decisione politica e magari discuterla; un livello di progettualità a raggiera via via che se ne presentano le opportunità, quindi una pianificazione operativa. Questo dovrebbe significare, innanzitutto, un ripensamento globale degli uffici tecnici locali, «falcidiati» dalla diminuzione delle piante urbane, di cui spesso sono rimasti sguarniti, ma pensiamo che le politiche pubbliche debbano fare gli uffici pubblici. Il fatto che nella nostra attuale legislazione ci siano figure omnibus (al mattino architetti, al pomeriggio urbanisti, il giorno dopo nuovamente architetti), che quindi possono lavorare in maniera contestuale nell'agorà pubblico e nell'agorà privato, può costituire elemento di, involontaria spero, inconcludenza. I due ambiti di riferimento richiedono e si vestono di habitus mentali completamente differenti. Spero che almeno qui possa dire con molta forza che l’habitus pubblico ha un interesse pubblico, l’habitus privato ha un interesse squisitamente economico. Le due cose possono convivere se sono due strumenti effettivamente rilevanti. La pubblica amministrazione, spesso anche con bandi bassissimi, su cui pretende anche con la nuova legge, seppur con la congruenza e abbassamento dei costi, non è sinonimo di qualità. Filiera corta in campo urbanistico significa rapporti di cooperazione e di condivisione tra le pubbliche amministrazioni e tra elementi di progettazione.
  Quello che chiediamo e vi chiediamo proprio in questa Commissione è di tentare di rendere economicamente praticabili e sostenibili gli interventi della progettualità minuta. La riqualificazione è uno di questi. Non sto parlando di rigenerazione, che ha anche bisogno del comparto economico produttivo. Pag. 9 Lo potete vedere in molte città d'Italia. Quando studiavo urbanistica a Venezia, ci facevano quasi imparare a memoria che il motore economico del tessuto di una città era quello industriale, dunque i poli di sviluppo e il lavoro erano elemento fondamentale. Ora, la riscrittura globale di una politica di globalizzazione, che riposiziona il lavoro, il modo di fare reddito, il modo di avere redditività con l'impresa, se, da una parte, ha reso giustizia a territori interni, marginali, piccoli, perché attraverso Internet è stato possibile vendere sul mercato diversi prodotti squisitamente locali, dall'altra parte, ha avuto il ritorno all'indietro a una riscrittura globale delle regole: questo cambia completamente il sistema. In molte città e molti paesi che vivevano su industrie, chiusa l'industria, urbanisticamente parlando si chiude anche il rapporto.
  Ho poi tre sottolineature, per poi parlare del progetto Paese. Quanti minuti avrò? Non vorrei essere invadente. Ho dieci minuti ancora?

  PRESIDENTE. Ce li ha.

  GIUSEPPE DE LUCA, presidente di Inu Edizioni. Anzitutto, non stiamo facendo i conti e dovremmo fare i conti – vorrei parlare del punto 7, che mi avete chiesto in maniera esplicita, mi pare – con quello che chiamiamo il grande spreco edilizio.
  Per politiche di attenzione verso il costruito, forse anche per una debole politica della conservazione (conservare tutto e comunque), abbiamo un patrimonio edilizio pubblico e, soprattutto, privato vuoto e non bancabile, specialmente nelle aree interne, quelle che oltretutto al vuoto hanno aggiunto anche lo spopolamento per trasferimento verso i centri più grandi. Se si parla di riqualificazione, di rigenerazione, in una Commissione di questo genere, che parla di periferia, non possiamo non parlare del vuoto, non solo delle periferie, ma di paesi, anche prossimi alle città, che però pongono problemi di capitale fisso sociale, come si diceva una volta – anche la casa privata è una parte del capitale fisso sociale. È un luogo che può essere depatrimonializzato di fatto, ma può esserlo semplicemente per abbandono. Un progetto Paese non può non porsi questi problemi.
  Su una delle decisioni che avete preso in Parlamento, quella del decreto-legge n. 47 del 2014, che citate in maniera specifica («all'Inu chiediamo di...»), la legge di conversione n. 80 del 2014, il programma di recupero e razionalizzazione degli immobili e degli alloggi di ERP per la vendita, esprimiamo delle perplessità. La vendita esclusiva del patrimonio edilizio pubblico semplicemente per attivare forme di manutenzione e, secondariamente, edilizia nuova, forse depotenzia la possibilità degli enti pubblici di rispondere allo stock più debole della domanda, cioè quello specialmente di anziani e giovani o immigrati, senza i quali non potremmo nemmeno vivere. Secondo il dato che abbiamo visto sul rapporto sul territorio, ufficialmente ci sono in Italia 340.000 badanti, dati INPS del 2014, che rispondono a una domanda improcrastinabile della nostra popolazione anziana, e che spesso vive con il cosiddetto assegno di accompagnamento, poco più di 500 euro, e che appunto attraverso questi badanti riesce a sussistere: è un problema drammatico.
  Vendere patrimonio pubblico a prezzi molto bassi semplicemente perché alienato a quelli che ci vivono dentro, quindi a prezzi di mercato che variamente sono più bassi nell'ordine tra 20 e 35 per cento, secondo i casi, significa forse manutenere una parte del patrimonio, ma depauperare completamente il resto. Su questo – mi permetto di dirlo a nome dell'istituto, ve l'ho anche scritto qui – esprimiamo forti perplessità su questo meccanismo messo in atto tra alienazione, recupero dei fondi per la manutenzione. Secondo noi, la manutenzione dovrebbe essere predisposta con fondi ordinari da parte degli enti pubblici. Quella dell'Inu è una proposta che alcuni Paesi all'estero hanno già fatto, come Inghilterra o Germania – se volete, vi posso dare alcuni riferimenti specifici – ovvero poter affidare parte del patrimonio pubblico a imprese private o pubblico-private, cooperative, che gestiscono l'intero ciclo, dalla riqualificazione alla gestione, alla manutenzione Pag. 10 e al controllo. Si può fare anche business d'impresa nel senso nobile del termine, anche senza dover rifondere capitale, perché il capitale è pubblico in quanto tale, gli edifici sono pubblici, sono un capitale fisso sociale. Si può fare business anche su questo meccanismo, e dunque affrancarci dalla vecchissima idea, anche dicendo addio al Novecento – la vecchia legge Luttazzi, del 1903, che pur ha avuto un ruolo bellissimo e fortissimo – di avere istituti autonomi, quelli che divennero istituti autonomi di case popolari, che effettivamente hanno risposto a una logica molto forte.
  Non possiamo nemmeno aderire al concetto che l’housing sociale sia solamente uno standard urbanistico, inserito «alla chetichella». Intanto, crea una riproduzione di edilizia nuova – lo si può fare solo se si fa del nuovo o interventi di grande manutenzione – e poi probabilmente il ciclo economico non ha una forza tale da generare una quota di edilizia residenziale sociale. È una Commissione, mi pare di capire, molto aperta e ringrazio chi l'ha pensata e chi l'ha decisa, perché permette di affrontare i temi in maniera finalmente integrata, anche se sovrapponibili.
  Per concludere, ve l'ho scritto, ma vorrei giustificare che, a giudizio dell'Istituto nazionale di urbanistica, dovremmo riuscire a cercare di rendere accessibile un territorio. Accessibile significa finalmente cominciare a pensare all'accessibilità universale, che non è solo barriere architettoniche, ma proprio il fatto di poter godere di beni pubblici. La città è un bene pubblico, nel suo complesso. Noi pensiamo che forse la distinzione tra centri, periferie, centri storici, non dovrebbe più esistere. Noi viviamo in territori urbanizzati, punto. Viviamo, nella maggior parte dei casi, in città. Viviamo in territori che dovrebbero essere protetti dalla città. La «periferia» per noi è il territorio agricolo che deve essere difeso, cioè tutto quell'ambito di riferimento dentro il quale probabilmente c'è buona parte della nostra storia e buona parte delle nostre risorse alimentari.
  Forse, questa Commissione potrebbe cercare di inoltrarsi in una battaglia culturale, di riflessione nuova verso un superamento del concetto dell'urbanistica come edilizia e della decisione pubblica, nel campo urbanistico, come decisione di aggiunta o sostituzione di qualcosa edilizia, un elemento culturale per cui urbanistica è soprattutto costruzione della città pubblica. Noi contribuiamo nella maggior parte dei casi a viverla. Per spostarci da privato a privato, utilizziamo la città pubblica. Non definiamo la nostra qualità della vita all'interno del nostro appartamento o del nostro edificio, ma rispetto al nostro contesto in cui viviamo: questa è città pubblica. Per definire il valore dentro il quale il nostro edificio è collocato, non lo rapportiamo ai rubinetti d'oro che abbiamo nel nostro appartamento, ma lo identifichiamo rispetto al valore del contesto dove il nostro appartamento è collocato: quella è città pubblica.
  La fiscalità, il concetto di città pubblica, l'idea che la progettualità appartiene per definizione all'ente locale – ciò fin dal Medioevo, quando i comuni hanno identificato l'agire pubblico come agire coordinato e agire cooperativo – diventano elementi fondamentali. Accanto a questo, progetto Paese significa alcune decisioni, non dico tutte, come quelle di corridoi. Immagino prendiate il treno quanto me in giro per l'Italia: il fatto che le Ferrovie dello Stato lancino lo slogan per identificare l'alta velocità come la metropolitana d'Italia – molto bello secondo me, ma anche coprente, parzialmente bugiardo – significa che il vero nodo che abbiamo sono le relazioni di collegamento tra i luoghi. Abbiamo ancora una mobilità su gomma drammatica e una mobilità individuale all'interno delle nostre città drammatica. Non facciamo altro che addossare alle famiglie i costi dell'assenza della città pubblica in luoghi dispersi. Comprare un giornale abitando nella periferia di Mestre ha costi più alti che non per chi lo compra andando a piedi sotto casa sua. Penso che possa essere un'immagine altamente significativa.
  L'ultimo elemento che vi chiedo, almeno come Inu, accanto a questa semplificazione di collegamento generale e particolare, è una ridefinizione completa dei codici. Questa Pag. 11 idea che le regioni siano pseudo-autonome – alla fine infatti un federalismo non è mai nato – e che ogni volta che si cambia ragione si debba cambiare la cassettina degli attrezzi, e ogni volta che si cambia comune si debba cambiare anche la cassettina delle argomentazioni e linguisticamente anche i significati: non sto parlando di modello unico, non sto parlando di regolamento unico, ma proprio di problemi tecnici e problemi politici, contestualmente. Chiediamo anche in questa Commissione che si possa investire in tecnologia che è uno dei modi per poter aggredire il concetto di semplificazione dall'altra parte, non da quella argomentativa e procedurale, ma da quella sostanziale e visiva delle persone che se ne occupano.
  Vi ringrazio davvero tanto.
  Abbiamo anche un centro, insieme a Legambiente, sul consumo di suolo, un database dal 2009 presso il Politecnico di Milano: vi lascio anche questo. Ora lo estendiamo all'Istat. Ieri, c'è stata una conferenza dell'Istat, cui abbiamo preso parte: è stato prodotto un eBook per la prima volta pubblico così finalmente i dati si possono commentare anche dal divano di casa.

  PRESIDENTE. Ringraziamo il professor De Luca. Ho deciso di prolungare i tempi dell'audizione, ma il tema che ha posto è assolutamente interessante, soprattutto perché incrocia quella che a noi sembra, a mano a mano che andiamo avanti, l'esigenza di adottare una strategia di carattere generale. Il piano Paese va assolutamente nella direzione di interesse che la Commissione ha focalizzato negli ultimi tempi.
  Do la parola agli onorevoli colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  DANIELA MATILDE MARIA GASPARINI. La ringrazio veramente di cuore. Abbiamo fatto tante audizioni, ma tutte su pezzi di realtà territoriali o singoli problemi: lei ha messo insieme nella sua relazione un'immagine, una visione, ma anche una strumentazione. Tra parentesi, sono stata assessore ai servizi sociali per cinque anni, poi sindaco, e mi sono tenuta la delega all'urbanistica, perché ho capito che quello era il modo di fare sociale.
  Mi sembra molto interessante questo tema della fiscalità urbanistica. Quello che è venuto fuori dalle audizioni in Commissione è il problema casa, il concetto più ampio di abitare, non soltanto la casa fisica, ma anche la casa come quartiere, come sistema di servizi, e poi ovviamente la mancanza di soldi.
  Mi domandavo, mentre lei parlava, se rispetto al tema di una fiscalità diversa si può pensare di sperimentare, almeno per le città metropolitane, una possibilità di valutare diversamente gli oneri di urbanizzazione, da destinare alla riqualificazione edilizia, in un progetto – concordo con lei sugli attuali progetti presentati – all'interno di una necessaria visione strategica. A mio avviso, la visione strategica di fatto manca. Da sindaco ho constatato e continuo a constatare che diciamo che le aree dei privati, dei servizi, hanno bisogno di volano, che può essere una piazza, un servizio, una scuola, un sistema di servizi, ma c'è una grande difficoltà da parte degli stessi ministeri, in particolar modo di Roma, di collocare funzioni di eccellenza su scala nazionale fuori dai confini storici delle città più importanti d'Italia, dando nessun aiuto alle realtà perché si possa costruire attorno a un'idea di cambiamento una serie di relazioni diverse, economiche, sociali, culturali.
  Le cose che lei ha proposto sono particolarmente interessanti e abbiamo molto poco tempo, ma il tema fiscale mi interessa, credo possa interessare tutti. Penso a Milano, da dove arrivo, e ho vissuto da vicino le aree Falck, comprate da Pasini a 254 miliardi di lire, messe nel bilancio di Rinascimento a 800 milioni di euro, comprate da Brizzi a 400 milioni. In pratica, in vent'anni hanno giocato partite finanziarie senza nessuna ricaduta pubblica, nessun interesse. Il pubblico, sostanzialmente, continua a permettere questo gioco e poi si accontenta di pochi oneri di urbanizzazione, senza calcolare la ricaduta sul bilancio dei comuni, che ha poi quell'arrivo di popolazione e di funzioni. Pag. 12
  Sarebbe utile, credo anche per quanto riguarda la Commissione, capire se, partendo dal tema casa e collocandolo nell'ambito delle città metropolitane, si possa provare a sperimentare un modello fiscale finalizzato agli obbiettivi suddetti.

  ROBERTO MORASSUT. La ringrazio per questa comunicazione e anche per i materiali che ci vorrete lasciare o trasmettere, che penso potranno essere molto utili.

  GIUSEPPE DE LUCA, presidente di Inu Edizioni. Se avete bisogno di altro, basta chiedercelo.

  ROBERTO MORASSUT. Penso che potranno essere molto utili per il rapporto che dovremo stendere da qui a poco per dare a questo tema delle periferie la visione dell'approccio organico che merita, superando il rischio di una visione troppo settoriale, appunto, o per pezzi. Vorrei soltanto sottolineare due aspetti dell'introduzione, rapidamente, senza spendere troppe parole.
  Mi pare che nelle condizioni attuali ancora non esista la possibilità di pensare a un provvedimento legislativo organico di riforma urbanistica. Purtroppo, le condizioni politiche ci dicono questo. Immagino che anche il prossimo futuro ci impedirà di affrontare nel suo insieme il problema. Permarremo, presumibilmente ancora per molto tempo, in questo limbo che si è aperto dagli anni ’50-’60 in poi, con questi provvedimenti ponte, che poi sono ponti a campata unica, lunghissimi.
  Qualcosa, però, si è fatto e si può fare. Questi provvedimenti parziali, nella loro parzialità e specificità, possono essere messi relazione se le forze politiche, le istituzioni e i rappresentanti più alti del pensiero e della disciplina urbanistica riescono a trovare delle relazioni tra questi elementi di riforma urbanistica, due in particolare.
  Si è accennato al tema della fiscalità. Ora, nella finanziaria del 2015 abbiamo introdotto un emendamento al decreto 380, anche improprio, perché il 380 è il testo unico sull'edilizia, ma come sappiamo ormai è diventato un «Arlecchino», in cui ognuno mette la sua pezza a colore. In quel provvedimento è stato poi accolto dal Governo un emendamento, che all'articolo 16 d-ter introduce il contributo straordinario. Si rende legge quello che già molte città sporadicamente facevano, naturalmente limitandolo soltanto alle valorizzazioni. Laddove intervengano valorizzazioni urbanistico-immobiliari con varianti, deroghe, cambi di destinazione d'uso che mutano la destinazione delle aree in positivo, l'amministrazione è tenuta a effettuare un prelievo pari almeno al 50 per cento del maggior valore.
  Faccio notare incidentalmente che la regione Veneto, da parte del presidente Zaia, ha promosso un ricorso alla Corte costituzionale contro quest'emendamento, tuttavia respinto, perché la Corte costituzionale ha poi deciso certificando la piena costituzionalità di quel principio.
  Credo, ma forse ho informazioni sporadiche e incomplete, che gran parte delle regioni non abbia legiferato, recependo la norma. Credo che questo sia un punto che anche come Commissione dovremmo sottolineare. C'è nella legislazione italiana già da due anni un principio di introduzione di fiscalità, che è insufficiente, perché si riferisce, dentro il regime degli oneri concessori, soltanto alle valorizzazioni. Diversamente, invece, il tema dovrebbe essere trattato organicamente, sulla base di una semplice valutazione statistica, che è la seguente. Quanto nei grandi Paesi europei, grandi civiltà degli Stati europei avanzati, viene tassata la rendita? Mediamente, la tassazione oscilla tra il 25 e il 30, con punte anche del 50 per cento del valore di rendita, cioè di quello che è stato descritto nell'introduzione. La valorizzazione di un'area che dipende dal contesto e dagli investimenti che la mano pubblica apporta a un certo quadrante urbano determina una crescita del valore di rendita dei terreni o dei soprassuoli, che, messi in gioco, producono un plusvalore. Questo plusvalore, nella gran parte dei casi, viene tassato in un range che varia tra il 20 e il 50 per cento. In Italia, questo range, questa tassazione fiscale attraverso gli oneri concessori o quote minimali Pag. 13 di oneri contributivi straordinari, oscilla tra il 5 il 15 per cento...

  GIUSEPPE DE LUCA, presidente di Inu Edizioni. Spesse volte i comuni li cancellano.

  ROBERTO MORASSUT. ... cosa che lascia alla rendita mano libera. E sappiamo bene che il plusvalore in campo edilizio è nettamente superiore a quello che si realizza nella manifattura industriale, che non arriva mai oltre il 10-15 per cento. C'è quindi un principio da far valere.
  C'è poi il tema dell'uso coordinato sul piano dei princìpi dello strumento perequativo compensativo incentivante, che consente di rimettere in fila le politiche urbanistiche regionali fatte dalle varie regioni un po’ per loro conto nell'uso di tale strumento. Lo strumento perequativo, cioè acquisizione gratuita delle aree in cambio di attribuzione di edificabilità, consente di uscire dalle incertezze che sono state descritte, il doppio regime dei suoli, la decadenza dei vincoli ablativi sull'appropriazione dei suoli per i servizi pubblici, che dal 1954 e poi con la «legge Ponte» sono limitati, anzi con la «legge Ponte» del 1968 e il decreto ministeriale sugli standard, sono limitati nel tempo, e quindi decadono e comportano oneri per le amministrazioni che non realizzano i servizi. Questo strumento compensativo deve però essere normato sul piano nazionale con due paletti. Il primo è che si deve evitare un eccessivo consumo di suolo, cioè si compensa su aree già edificate, senza espandere ulteriormente il perimetro delle città realizzate. Inoltre, la valutazione del concambio (quanto ti do in cambio di quell'area che mi dai per fare i servizi, per fare l'edilizia residenziale...), il «quanto ti do» va valutato da una struttura pubblica terza che fa le valutazioni immobiliari. Diversamente, come spesso succede, queste valutazioni del «quanto ti do» sono fatte da un accordo tra pubblici e privati. Occorre che le regioni si dotino di strumenti scientifici di valutazione tecnico-immobiliare estimativa, che sono un servizio ai comuni per usare bene la perequazione e la compensazione, che altrimenti diventa un flagello divino. È chiaro che è uno strumento complesso, ma se uno lascia galoppare, fa dei disastri.
  Quindi, fiscalità urbana, prelievo della rendita e uso dello strumento perequativo ai fini pubblici per superare la scadenza dei vincoli ablativi. Con questi due princìpi, senza pensare a una riforma organica, che sembra impossibile visti i tempi e le fragilità del sistema politico italiano, si può far camminare una nuova politica pubblica per le città e anche per le periferie e fare quella che oggi viene chiamata ricucitura, che significa connettere con servizi, opere, infrastrutture, qualità urbana, parti slabbrate di città.
  Sul doppio livello di pianificazione, sono d'accordissimo, ci sono proposte di legge, e una di queste l'ho presentata anch'io, ma ritengo che in questo momento, in questi tempi, in questa stagione, purtroppo le condizioni politiche ci impediscono di affrontare questa discussione organica, perché finiremmo in una Beresina, avrebbe detto Napoleone, che non ci porterebbe da nessuna parte.

  CLAUDIA MANNINO. Ringrazio per i contributi e i documenti che ci verranno consegnati, che ovviamente tutti studieremo.
  Sinceramente, credo di accettare e anche di apprezzare la definizione che ha dato sul concetto di periferia, che dovrebbe essere quello di salvaguardare tutto quello che è agricolo, ma anche alla luce di quello che ha detto il collega Morassut, la mia impressione è che, mentre il dottore studia, il malato se ne va. Mi pare tanto che di suolo agricolo ne abbiamo ormai ben poco da difendere. Allora, aggiungerei due tasselli che vi chiedo come Istituto competente.
  Uno è quello degli indici edificatori. Possiamo fare tutti questi ragionamenti, ma credo che un ulteriore tassello che deve avere un capitolo apposito sia quello degli indici edificatori. Se vogliamo salvaguardare l'agricolo, dovremmo anche avere il coraggio di mettere per iscritto che l'agricolo non ha indice edificatorio, a meno di determinate pianificazioni a medio o a lungo Pag. 14periodo o, immagino, standard su ampia scala. Se in una zona agricola tutti ci mettiamo a fare capannoni per il supporto all'attività agricola e poi facciamo il cambio di destinazione urbanistica, abbiamo solo aggirato l'ostacolo. Secondo me, una valutazione va fatta e chiedo se, oltre al concetto di standard, anche il concetto di indice edificatorio debba essere rivisto.
  Ovviamente, non sono d'accordo sul fatto che non siamo nel momento politico per fare delle valutazioni, soprattutto all'interno di questa Commissione, che ha una durata limitata proprio per raggiungere qualche obiettivo concreto, quantomeno una presa di posizione da parte degli organi politici.
  Un'altra valutazione gliela chiedo in merito agli sportelli SUAP, gli sportelli unici sulle attività produttive, che si intrecciano sia col concetto di suolo agricolo sia con il concetto di indice edificatorio. Temo che lo sportello SUAP, che nasceva come uno strumento per semplificare l'attività al privato, si stia sovrapponendo all'attività pianificatoria e gestionale da parte del pubblico, perché negli sportelli SUAP mi pare che si presenti qualsiasi attività, che poi richiede varianti di piano regolatore, che poi richiedono pareri sia da parte degli enti locali sia da quelli a livello superiore. Forse, allora, anche questo meccanismo, che condivido – ovviamente, il privato deve avere un unico punto di riferimento, e questo era l'obiettivo del SUAP... ma mi pare che si stia divagando.
  Vorrei qualche chiarimento in più, che magari ci propone sotto forma di documentazione, su quello che intende per utilizzo della tecnologia per unificare le attività dei vari territori. Le tecnologie si stanno utilizzando a macchia di leopardo su tante cose, a volte in maniera virtuosa. Penso alla gestione delle informazioni territoriali che sta facendo, ad esempio, la città di Vicenza, che secondo me sta facendo un buon lavoro, con l'obiettivo anche di gestire bene il territorio. È però un esperimento che ha fatto dieci anni fa quella realtà e che oggi sta portando avanti in maniera autonoma. Forse, dovremmo ripensare agli standard come livelli di strumenti base per la pubblica amministrazione.

  GIUSEPPE DE LUCA, presidente di Inu Edizioni. Tendenzialmente, mi trovo d'accordo, perché toccate dei temi rilevanti.
  Preciso che nella storia urbanistica, almeno quella d'Italia, anche con la legge del 1942, fatta in pieno agosto e semplicemente per un'impellente necessità, una legge che «dormiva» da molti anni nel Parlamento, da tre anni... La legge del 1942 è stata approvata semplicemente perché c'era un'impellente necessità di approvare il piano regolatore di Tripoli, che fu il primo piano regolatore approvato di fatto con la legge del 1942, e non avevamo uno strumento per far applicare la legge d'Italia nei territori d'Oltremare, come si diceva allora. Passò il 24 agosto semplicemente perché c'era un'impellente necessità. Bloccata da tre anni da un dibattito molto lungo, paradossale letto con gli occhi di oggi, aveva portato nel 1939 alle leggi sulla tutela del paesaggio, anche quelle nate casualmente, semplicemente perché l'allora Ministro Bottai si arrabbia dopo aver visitato la casa di Curzio Malaparte sui Faraglioni di Capri e dice che non è possibile, che a fare tutte le case sugli scogli, addio Paese. Il paradosso vuole che nel 1953, cioè in età repubblicana, quella stessa casa, del 1938, diventa casa tutelata dalle leggi del 1939, nate per dire no a quella casa. Questo per dire come cambiano le mode, i nostri atteggiamenti, ma fa parte del dinamismo culturale, quindi non mi meraviglia.
  Perché ho parlato della fiscalità? Secondo me, c'è da cambiare completamente regime. Avete accennato alla fiscalità: nella maggior parte dei casi si accetta la fiscalità perché la si collega solamente al dominus, cioè alla proprietà, perché è quella più semplice e anche quella più indistinta: sei proprietario, paga. Nell'Istituto stiamo cominciando a riflettere su questo e pensiamo che se ne può uscire valorizzando qualcosa che già c'è. Dalla fiscalità di scopo alla fiscalità di contributo, alla fine è solamente sul dominus. In Istituto stiamo pensando a recuperare una vecchissima idea di Fuà di un po’ di anni fa, secondo cui la tassazione è fatta sull'uso. È una condizione Pag. 15 totalmente differente, perché fatta sull'uso significa che è una fiscalità di natura urbanistica. Lei vuole usare quest'edificio per costruire scarpe? Non mi importa nulla se l'edificio è bello, brutto – semplifico, vi chiedo davvero scusa, non vorrei sembrare all'interno di una discussione un po’ libera – ma se l'edificio è valutato dall'ente locale un milione di euro e il valore mi genera un tanto, la tassazione è di questa natura, sul valore d'uso, perché solamente il valore d'uso può far riprendere il concetto di tassazione riguardante l'investimento di natura pubblica. Qualsiasi tipo di investimento pubblico sulla città pubblica ridetermina la rilocalizzazione dei servizi e delle attività. Allora, per quale malaugurata sorte questa rilocalizzazione deve essere solo a vantaggio di chi sceglie di fare questa rilocalizzazione in termini di reddito di impresa? Perché un ente locale non può farlo? Perché ci si deve solamente limitare a controllare il dominus? D'altronde, c'è un dibattito molto lungo nel nostro Paese sull'IMU, che oltretutto siamo arrivati a cancellare. Ci sono poi alcuni significativi personaggi politici ed economisti che dicono che l'unico modo è quello della patrimonializzazione per pagare tutto e uscire da questa crisi economica rilevante.
  Non ne usciamo da qui, come non ne usciamo sul catasto, sulla legge urbanistica, perché l'abbiamo sempre collegata al dominus, cioè alla proprietà, che è più semplice. Potremmo ricollocarla sugli usi, e la partita diventerebbe intanto nuova e ovviamente, richiederebbe una finalità strategica molto chiara, altrimenti mi vengono in mente quei cinque minuti, che vi chiedo di vedere se ne avete voglia, del film Lola di Fassbinder, un film molto bello. Berlino, 1953, inizia con una sala più grande di questa, un bellissimo assessore all'urbanistica parla sul plastico di Berlino, tutti gli architetti discutono su come pianificare Berlino dopo l'accordo tra le quattro Nazioni vincitrici e su come definire l'assetto urbanistico. A un certo punto, in questa scena irrompe una bellissima ragazza vestita da sposa, che va dall'assessore e gli dice che devono andare, che la funzione li aspetta. Per farla molto breve, questa ragazza bellissima, che l'assessore all'urbanistica aveva incrociato in un bordello di Berlino, era in realtà pagata dalle agenzie immobiliari di Berlino per capire in anticipo i luoghi in cui l'ente locale avrebbe investito, in città pubblica, quindi anche in distribuzione di servizi e di indici e quindi comprare prima. C'è stato anche un bellissimo sketch di Benigni ultimamente su questo: lo vendo, non lo vendo.
  Questo è il problema. Se affidiamo solo alla rendita fondiaria urbana la definizione della relazione tra le parti e le relazioni economiche, non ne usciamo, perché nessuna amministrazione ce la fa a gestire le compravendite di terreni, soprattutto non ha la forza. Se, invece, la pubblica amministrazione cambia completamente il concetto e comincia a riflettere sui valori d'uso, allora probabilmente può investire e cambiare. Questa è una delle ipotesi di lavoro.
  Tengo a precisare che spesso le leggi urbanistiche sono state fatte nei periodi in cui uno era distratto, come la legge del 1967 fu fatta da Mancini, che era considerato il più debole ministro dei lavori pubblici di quel periodo della storia repubblicana. In realtà, l'ha fatta in agosto, anche quella – tutto ad agosto avviene! – quindi vi chiederei agosto 2017!
  Conosco molto bene la Corte costituzionale, che ovviamente ha difeso quel contributo di scopo, che alla fine tale è, ma dovrebbe essere normale in una famiglia economica, e invece per noi normale non è. Abbiamo ancora negli occhi quei cinque minuti del film di Rosi La mani sulla città, in cui all'inizio qualcuno dice che c'è bisogno di un piano regolatore, «no, a che serve il piano regolatore? portami l'acqua, la luce, il gas, portami la città pubblica». Se mi porti la città pubblica, riesco formalmente ad attivare le forme della redditività. Forse, è questo che nel concetto di periferia dovremmo riconsiderare.
  Poc'anzi, mi chiedeva se è possibile lavorare sugli indici edificatori. Nel 1968, ci fu un dibattito molto rilevante se dare o meno un indice al territorio agricolo. Quando si arrivò a 0,03 metri cubi su metro quadro – questo era l'indice – in Pag. 16realtà era un indice semplicemente per salvaguardare tecnicamente... La legge dice che per qualsiasi tipo di attività che comporti una trasformazione edilizia, compreso il muro di cinta, si debba chiedere l'autorizzazione, poi queste cose cascano in disuso. Si potrebbe anche arrivare alla cancellazione. Il problema non è solamente quello. Il problema è avere un'idea strategica – ecco il sistema Paese – che alcune opzioni non si possono scegliere. Un'idea strategica rilevante che va nella direzione che lei diceva potrebbe essere questa. Al di fuori del territorio urbanizzato, così come identificato da ISPRA 2014 – mettiamo – non si costruisce più, per dieci anni l'Italia decide aggiunta zero, un po’ come in maniera piccola e anche ingarbugliata ha fatto la regione Toscana, che poi ha dimostrato di essere un po’ più debole, e i comuni stanno svincolando.
  Ha più forza una decisione politica di questo genere che non un indice. Anche se noi cancellassimo l'indice 0 in agricoltura, dovremmo fare i conti con tutte le trasformazioni dei piani di miglioria o piani di miglioria agricola aziendale, che necessitano di questi meccanismi. Nel Veneto hanno chiesto addirittura la cancellazione delle aree verdi.
  Le realtà sono molto diversificate: questo Paese è fatto mi sembra di 62.000 centri abitati, di cui solamente 21.000 sono centri abitati con una densità. Questo significa che abbiamo uno sprawl urbano, di fatto storico, perché un insediamento di questa natura funziona sostanzialmente dalla centuriatio romano. Se dovessimo formalmente attivare un procedimento davvero di difesa del settore agricolo, certo forse non lo faremmo con quella proposta di legge cosiddetta Catania, nata fuori dal nostro perimetro culturale e tecnico. Potremmo farlo con una decisione molto forte. Al di fuori del centro abitato, delimitato d'obbligo – l'articolo 17 della legge 765 e la 285 sul codice della strada mi obbligano: fuori o dentro si fanno le multe, fuori o dentro c'è l'illuminazione pubblica, fuori o dentro c'è la spazzatura nelle vie pubbliche – non si costruisce più. Questo è un elemento molto forte. Forse, un Governo temporaneo non potrebbe farlo, ma un grande patto sociale e tra le forze politiche e culturali forse si potrebbe fare.
  Perché mi chiede della SUAP, che era nata con un'altra prospettiva. La SUAP è un elemento di gestione, punto. Se poi alcuni privati l'hanno voluto utilizzare come grimaldello, è un elemento improprio. Noi ci abbiamo anche speso molto come Istituto, nel senso di certezza del diritto. Ho negli occhi, perché ci partecipavo qualche anno fa mentre lavoravo al piano territoriale della regione Toscana, un incontro con un investitore olandese in Toscana. Compravano una struttura di caravan. A quel tavolo, a un certo momento uno disse che bisognava tener conto del vincolo idraulico. Questo signore si gira e mi fa: «Vincolo idraulico? E lo viene chiederà a me, un olandese, che convivo con l'acqua più alta rispetto al territorio? Per noi, il vincolo idraulico è fondamentale». Non posso chiedere che il SUAP venga gestito anche da questo punto di vista come uno sportello per chiedere varianti in corso d'opera. È improprio chi lo fa, è improprio chi lo accetta ed è improprio anche l'uso dello strumento. Il SUAP è un modello burocratico, viceversa. La nostra indicazione è che il SUAP viene gestito in maniera burocratica, nel senso che raccoglie le indicazioni dei pareri che devono venire e formalmente li dà, ma li dà in maniera non integrata, sovrapponibile. E quando i pareri si danno in maniera sovrapponibile, spesso si fanno degli errori clamorosi. Mi sento di difenderlo, però, come idea. È un problema di cattiva gestione.
  Vorrei concludere semplicemente con un'indicazione mi sembra dell'onorevole Gasparini sugli oneri di urbanizzazione. Abbiamo fatto una frittata con gli oneri di urbanizzazione. Erano nati con un'intuizione molto bella, nel 1977, di Bucalossi, sindaco di Milano tra le altre cose, e che portava un'operatività. Per giustificare la separazione tra ius aedificandi e diritto di proprietà, devo pagare qualcosa. Se pago qualcosa, significa che è una concessione; se non pago, significa che è un diritto. Su questo ci siamo scontrati con una votazione di 7 a 6 in Corte costituzionale, che Pag. 17ha dichiarato illegittima una parte di quella legge, con la sentenza n. 5 del 1980, che in Inu abbiamo classificato come urbanistica incostituzionale n. 2, perché la n. 1 era appunto sulla decadenza del vincolo ablativi del 1967. Fu presa a maggioranza, ma in quella sentenza c'era scritto quello che la Corte costituzionale ha detto sull'emendamento alla legge finanziaria del 2015: è potere discrezionale pubblico di livello nazionale il poter definire i parametri e i confini dentro i quali costruire forme di controllo e di tassazione, purché generalizzate. Forse, si potrebbe lavorare in quel senso. Non l'abbiamo mai risolto per un semplice fatto, a mio modo di vedere, ma anche l'Istituto se n'è reso conto, nonostante abbiamo come missione la divulgazione della produzione edilizia. Siamo nati nel 1929-30. Abbiamo collegato tutta la pratica della trasformazione pubblica sul territorio alla casa, come elemento globale. In realtà, la casa è solo un segmento della decisione pubblica, e la decisione pubblica più rilevante non è la casa, ma l'accesso alla casa, che è un'altra cosa. Nella città pubblica, se non ho la strada non posso abitarci, se non ho l'acqua non posso viverci, se non ho la rete, la qualità non esiste. Perché devo essere solamente interessato al lotto e non all'accesso al lotto? Questo è il problema. Ecco perché parlavo prima, a nome dell'Istituto, di elemento culturale differente. È nella debolezza che forse gli argomenti tendono a essere alcune volte impostati con categorie ideologiche e non con categorie di appartenenza. Forse, uno è esattamente questo, interessarsi delle relazioni più che del costruito, non la casa, ma l'accesso. Questo cambia un po’ le cose. La casa non è costruita dall'ente locale. Anche quando la costruisce l'ente locale attraverso l'edilizia residenziale pubblica, si comporta alla fine come operatore privato, certo con compatibilità un po’ diverse rispetto alla redditività, ma la redditività di bilancio deve essere a costo zero.
  Allora, che senso ha? Vi chiedo scusa se sono stato molto alto, ma ci piaceva, vista la quantità di argomenti che avete posto sul tappeto, essere un po’ globalisti e generalisti. Solo aggredendo l'argomento in quel modo si può scendere un poco, non il contrario. Comunque, siamo disponibili, per quanto siamo capaci, di essere davvero al vostro fianco.

  PRESIDENTE. Ringrazio il professor De Luca e dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione di rappresentanti dell'Anes,
Associazione nazionale edilizia sociale.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione di rappresentanti dell'Anes, Associazione nazionale edilizia sociale.
  È presente la consigliera di Anes, architetto Maristella Babuin, che ringrazio per aver accolto l'invito della Commissione.
  Do la parola all'architetto Babuin, con riserva per me e per i colleghi di rivolgerle, al termine del suo intervento, domande e richieste di chiarimento.

  MARISTELLA BABUIN, consigliere di Anes. Ringrazio la Commissione parlamentare e l'onorevole Milena Santerini, che ci ha rappresentato sensibilità, a dimostrazione della nostra esistenza.
  L'Anes è un'associazione nata a gennaio di quest'anno. Ha già compiuto diverse attività. Si sta occupando, in questo momento, delle affrancazioni per il problema di 2.300 famiglie a Roma, che hanno fatto domanda di affrancazione per liberarsi dal prezzo massimo di cessione di vendita per l'edilizia convenzionata. Si tratta di convenzioni per costruire stipulate con il comune di Roma. Nella fattispecie, relativamente ai punti ai quali la Commissione è interessata, ci occupiamo soprattutto delle possibili modalità di recupero e riqualificazione del patrimonio edilizio degli enti che costruiscono e gestiscono le abitazioni sociali nonché l'edilizia sociale e l'edilizia residenziale pubblica, possibili forme di collaborazione e prospettive dell’housing sociale.
  La nostra attenzione è soprattutto per il microcosmo dell'attività edilizia. Nella fattispecie, parliamo del condominio, come cellula sociale. Nonostante l'associazione sia nata da pochi mesi, abbiamo all'attivo esperienze professionali, da parte del presidente Pag. 18 Gianluca Proietti Toppi, da parte dell'avvocato Daniele Ricciardi, da parte mia, che sono architetto, e presenza sul territorio, come politicamente si dice. Ho dimenticato di dirvi che sono architetto, faccio parte dell'ordine di disciplina del consiglio dell'ordine degli architetti di Roma e faccio parte del consiglio dell'Anes.
  Torno al condominio come cellula sociale. Perché il condominio? Perché ha un microcosmo che rappresenta il tessuto sociale. Ci siamo messi in contatto anche con le associazioni e gli amministratori di condominio, come UNAI e ANACI, e abbiamo in programma di intraprendere una sorta di censimento per individuare all'interno del tessuto sociale condominiale i punti deboli di questa realtà.
  Esistono molte persone anziane che vivono da sole. Le persone che vivono da sole e l'età media in Italia sono in aumento. È vero che sto dicendo cose forse non troppo originali, ma è proprio su quello che vorremmo lavorare e, per esempio, proporre forme di aggregazione tra gli anziani, che potrebbero essere insieme, nello stesso appartamento. Nel caso in cui si riesca a individuare, dall'amministratore di condominio, appartamenti molto grandi, si potrebbero unire questi anziani, che potrebbero poi affittare la loro seconda casa, se sono due o tre persone che si uniscono.
  Come è stato fatto a Parigi, l'idea è quella di creare un portierato di quartiere, anch'esso organo di controllo di questo tessuto sociale. L'idea dell'economista Charles-Edouard Vincent è quella di creare il chiosco di quartiere, che vende soluzioni ai problemi. Vengono citati, per esempio, il montaggio delle tende, aiutare i bambini a fare i compiti, preparare cene, riparare rubinetti, portare la spesa per cinque piani dove non ci sono gli ascensori e cose di questo genere. Tra le figure professionali che potrebbero essere interessate c'è l'infermiere condominiale, che si occupa della somministrazione di farmaci e cure di prima necessità e primo livello; c'è la casetta dell'acqua, che ci consente di avere l'acqua a domicilio, non dovendola trasportare; chi si occupa della spesa, chi del dog-sitting, del baby-sitting. Queste sono le cose che ci interessano.
  A livello urbanistico, che cos'è che ci può interessare all'interno dell'edilizia agevolata, sovvenzionata o convenzionata? Il recupero dei locali condominiali. Esistono molti locali condominiali, quindi beni comuni non censibili, che potrebbero essere suscettibili di cambi di destinazione d'uso. Potremmo occuparci di semplificare nello specifico questi cambi di destinazione d'uso e gli ambienti potrebbero essere utilizzati per un risvolto sociale, in quanto potrebbero essere ambienti di supporto di prima necessità, di accoglimento di persone che hanno problemi.
  Altra cosa importante è il defibrillatore ovunque. Abbiamo un arresto cardiaco ogni 1000 persone all'anno, 70.000 persone ogni anno muoiono per arresto cardiaco, che non è l'attacco cardiaco, per cui è sufficiente rianimarle con defibrillatore per poterle portare nuovamente in vita.
  Non posso dire nient'altro che questo. Le attività dell'Anes sono a 360 gradi solidi. Per ora, possiamo focalizzare – non abbiamo fondi, non abbiamo interessi, non abbiamo chi si interessi a queste attività – altri progetti che possono essere urbanistica. Possiamo parlare del recupero delle caserme? Benissimo, parliamo del recupero delle caserme ai fini sociali per i senzatetto, per gli immigrati, ma quelle sono operazioni che richiedono un impegno economico non indifferente. Noi parliamo più di un'organizzazione che potrebbe mettere in moto anche un'economia. Si possono creare cooperative e associazioni che si occupino di tutte le cose che vi abbiamo elencato e che, se avete voglia e interesse, potremo esplicitare in una nota che potremmo inviarvi.
  Non vi voglio nascondere che ho un'esperienza personale che ho vissuto proprio un mese fa. Organizzando una pizza tra compagni di scuola attraverso i social network, ho ripescato un mio amico, che ho scoperto essere tossicodipendente nonché alcolista e che viveva sotto gli archetti del Mandrione. Ho ripescato una persona che avevo lasciato compagno di scuola, l'ho ritrovata – scusate il momento di commozione Pag. 19 – e mi sono attivata per poterlo collocare, ma non ci sono riuscita. Adesso è ospite in casa mia. Possono essere forse poco pertinenti le cose delle quali ho parlato.

  PRESIDENTE. No assolutamente. Anzitutto, è interessante avere una nota sulle attività e sulle proposte che fate. In secondo luogo, una delle questioni che abbiamo sollevato rispetto al bando delle periferie è che è sempre stato molto focalizzato dalle città sulle infrastrutture fisiche, dei servizi e poco su quelle sociali. Anche un'attività, una testimonianza come la vostra secondo me può essere molto utile per la relazione finale, per offrire suggerimenti di orientamenti a Governo e Parlamento.

  MARISTELLA BABUIN, consigliere di Anes. Sì, e vi ringrazio per questa sensibilità.

  PRESIDENTE. Ringrazio l'architetto Babuin e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 14.10.