XVII Legislatura

Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro

Resoconto stenografico



Seduta n. 98 di Mercoledì 27 luglio 2016

INDICE

Comunicazioni del presidente:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 3 

Sulla pubblicità dei lavori:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 3 

Audizione di Francesco Maria Biscione:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 3 ,
Biscione Francesco Maria  ... 4 ,
Corsini Paolo  ... 6 ,
Biscione Francesco Maria  ... 6 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 7 ,
Biscione Francesco Maria  ... 7 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 7 ,
Biscione Francesco Maria  ... 7 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 8 ,
Biscione Francesco Maria  ... 8 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 8 ,
Grassi Gero (PD)  ... 8 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 8 ,
Biscione Francesco Maria  ... 9 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 9 ,
Biscione Francesco Maria  ... 9 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 9 ,
Biscione Francesco Maria  ... 9 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 9 ,
Biscione Francesco Maria  ... 9 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 9 ,
Biscione Francesco Maria  ... 9 ,
Grassi Gero (PD)  ... 10 ,
Biscione Francesco Maria  ... 10 ,
Grassi Gero (PD)  ... 10 ,
Biscione Francesco Maria  ... 10 ,
Grassi Gero (PD)  ... 10 ,
Biscione Francesco Maria  ... 10 ,
Grassi Gero (PD)  ... 10 ,
Biscione Francesco Maria  ... 10 ,
Bolognesi Paolo (PD)  ... 10 ,
Biscione Francesco Maria  ... 10 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 10 ,
Biscione Francesco Maria  ... 10 ,
Grassi Gero (PD)  ... 10 ,
Biscione Francesco Maria  ... 10 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 10 ,
Biscione Francesco Maria  ... 11 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 11 ,
Biscione Francesco Maria  ... 11 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 11 ,
Biscione Francesco Maria  ... 11 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 11 ,
Biscione Francesco Maria  ... 11 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 11 ,
Biscione Francesco Maria  ... 11 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 11 ,
Biscione Francesco Maria  ... 11 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 11 ,
Biscione Francesco Maria  ... 11 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 12 ,
Biscione Francesco Maria  ... 12 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 12 ,
Biscione Francesco Maria  ... 12 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 12 ,
Biscione Francesco Maria  ... 12 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 12 ,
Biscione Francesco Maria  ... 12 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 12 ,
Biscione Francesco Maria  ... 12 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 13 ,
Corsini Paolo  ... 13 ,
Grassi Gero (PD)  ... 14 ,
Corsini Paolo  ... 14 ,
Biscione Francesco Maria  ... 14 ,
Corsini Paolo  ... 14 ,
Biscione Francesco Maria  ... 14 ,
Corsini Paolo  ... 14 ,
Biscione Francesco Maria  ... 14 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 15 ,
Biscione Francesco Maria  ... 15 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 15 ,
Biscione Francesco Maria  ... 15 ,
Grassi Gero (PD)  ... 15 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 15 ,
Grassi Gero (PD)  ... 16 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 16 ,
Grassi Gero (PD)  ... 16 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 16 ,
Grassi Gero (PD)  ... 16 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 16 ,
Grassi Gero (PD)  ... 16 ,
Biscione Francesco Maria  ... 16 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 16 ,
Biscione Francesco Maria  ... 16 ,
Grassi Gero (PD)  ... 16 ,
Biscione Francesco Maria  ... 16 ,
Bolognesi Paolo (PD)  ... 17 ,
Biscione Francesco Maria  ... 17 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 17 ,
Bolognesi Paolo (PD)  ... 17 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 17 ,
Bolognesi Paolo (PD)  ... 17 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 17 ,
Bolognesi Paolo (PD)  ... 17 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 17 ,
Bolognesi Paolo (PD)  ... 17 ,
Grassi Gero (PD)  ... 17 ,
Bolognesi Paolo (PD)  ... 17 ,
Grassi Gero (PD)  ... 17 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 17 ,
Bolognesi Paolo (PD)  ... 17 ,
Grassi Gero (PD)  ... 17 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 17 ,
Grassi Gero (PD)  ... 17 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 18 ,
Bolognesi Paolo (PD)  ... 18 ,
Biscione Francesco Maria  ... 18 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 18 ,
Bolognesi Paolo (PD)  ... 19 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 19 ,
Bolognesi Paolo (PD)  ... 19 ,
Grassi Gero (PD)  ... 19 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 19 ,
Grassi Gero (PD)  ... 19 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 19 ,
Bolognesi Paolo (PD)  ... 19 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 20 ,
Grassi Gero (PD)  ... 20 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 20 ,
Bolognesi Paolo (PD)  ... 20 ,
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 20

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
GIUSEPPE FIORONI

  La seduta comincia alle 14.15.

Comunicazioni del presidente.

  PRESIDENTE. Comunico che, nel corso dell'odierna riunione, l'Ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, ha convenuto di:

   richiedere al Ministero dell'interno di fornire documentazione relativa all'ufficio di collegamento insediato dalla Polizia criminale tedesca (BKA) presso le strutture della Polizia italiana nel corso del sequestro Moro;

   incaricare il colonnello Pinnelli di identificare due persone citate nelle dichiarazioni a suo tempo rese da Francesco Fonti;

   richiedere al Ministero della giustizia il certificato del casellario generale completo di Giustino De Vuono;

   incaricare il dottor Donadio, il dottor Salvini e il colonnello Pinnelli di acquisire sommarie informazioni testimoniali da una persona informata dei fatti.

   Comunico inoltre che:

   il 21 luglio 2016 il dottor Salvini ha depositato una proposta operativa, riservata, relativa a accertamenti sulle dichiarazioni a suo tempo rese da Francesco Fonti;

   il 27 luglio 2016 il generale Scriccia ha depositato una nota, riservata, sulla sorveglianza di polizia svolta nei riguardi del CERPET nell'aprile 1978;

   nella stessa data il generale Scriccia ha altresì depositato una nota, di libera consultazione, sull'identikit dell'autista della Renault 4 agli atti del processo Moro uno;

   nella stessa data il dottor Donadio ha depositato una proposta operativa, riservata, relativa a una possibile escussione;

   nella stessa data il colonnello Occhipinti ha depositato un compendio di documentazione, riservata, acquisita dalla Guardia di finanza su tematiche di interesse dell'inchiesta parlamentare.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori sarà assicurata anche mediante l'attivazione dell'impianto audiovisivo a circuito chiuso.

Audizione di Francesco Maria Biscione.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del professor Francesco Maria Biscione, che ringraziamo per la cortese disponibilità con cui ha accolto l'invito a intervenire oggi in Commissione.
  Il professor Biscione ha dedicato diversi importanti studi alla vicenda Moro. Ricordo, in particolare, una pionieristica edizione del Memoriale Moro nel 1993 e nel 1998 una complessiva ipotesi ricostruttiva nel volume Il delitto Moro. Strategie di un assassinio politico, a cui sono seguiti, in anni più recenti, altri studi e approfondimenti, come Il delitto Moro e la deriva della democrazia.
  Nei suoi studi il professor Biscione ha particolarmente valorizzato due elementi. In primo luogo, pur senza tralasciare la Pag. 4dimensione strettamente brigatista, ha insistito sulla dimensione politica e internazionale della vicenda Moro e sulla pluralità di forze che in diverso modo ne gestirono gli esiti. Ricordo il riferimento a fattori esterni (i «poteri terzi» evocati da Signorile nella sua recente audizione). In secondo luogo, ha insistito sul fatto che l'azione del vertice brigatista, non riuscendo a saldarsi con un movimento rivoluzionario di massa, seguì logiche che aprirono al rapporto con forze criminali italiane o con attori e apparati che operarono per la tragica conclusione.
  La Commissione è particolarmente interessata ad acquisire, oltre a eventuali esiti di nuove ricerche compiute dal professor Biscione, una sua presentazione di alcune tematiche che furono già oggetto della Commissione stragi, quali, in particolare: il coinvolgimento della criminalità organizzata nel sequestro Moro; i collegamenti internazionali delle Brigate Rosse, anche attraverso la controversa scuola di lingue Hypérion; il rapporto tra l'Autonomia e alcuni suoi esponenti, come Piperno e Pace, e le Brigate Rosse durante il sequestro Moro e nella successiva crisi che portò Morucci e Faranda a tentare un'autonoma strada verso la lotta armata.
  Rispetto a questi punti le chiedo anche se ritiene che ci siano state acquisizioni che hanno arricchito o hanno messo in discussione il quadro interpretativo presentato nei suoi studi. Ciò anche alla luce del fatto che lei stesso nel suo principale studio sulla vicenda Moro ha sottolineato che la sua ricostruzione «spiega una serie di episodi che non troverebbero altrimenti collocazione logica, essa però contiene molte connessioni a carattere ipotetico; e l'abbondanza di ipotesi indica che le conoscenze sono ancora insufficienti» (Il delitto Moro, pagina 233).
  Prima di passare a una serie di quesiti specifici di nostro interesse, le lascio la parola per un inquadramento generale sul tema la cui cornice ho appena delineato.

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. Grazie, signor presidente. Quando, la scorsa settimana, sono stato invitato a quest'audizione, devo confessare che, oltre che sentirmi onorato, sono rimasto un po’ sorpreso, perché negli ultimi anni non ho avuto quell'accesso diretto e sistematico alla documentazione che sola permette di entrare con cognizione di causa nei mille rivoli della complessa vicenda giudiziaria. Sono stato, però, e sono tuttora, un lettore attento e appassionato della vicenda storica degli anni Settanta e, in particolare, del delitto Moro. Ho, dunque, ritenuto che il contributo maggiore che potessi dare ai lavori della Commissione in questo primo intervento fosse di sintetizzare brevemente il percorso di ricerca e di riflessione che ha coinvolto non solo me, ma un'intera generazione di studiosi da circa vent'anni a questa parte.
  Nel 1993, come ricordava cortesemente il presidente, spinto da una curiosità che in parte esulava da quelli che erano i principali filoni di ricerca e di studio, pubblicai per una piccola casa editrice romana Il memoriale di Aldo Moro rinvenuto in via Monte Nevoso a Milano. Il libro ebbe una certa risonanza, anche per motivi in parte impropri: un accenno al fatto che anche il secondo ritrovamento delle carte di via Monte Nevoso sarebbe potuto essere incompleto e la connessione, del tutto estrinseca, tra quella pubblicazione e il processo che si stava aprendo a Palermo contro Andreotti.
  Ciò che mi interessava era soprattutto altro. Da un lato, il libro dimostrava che il pensiero di Moro era, anche in quelle drammatiche circostanze, perfettamente lucido. Tutta l'argomentazione sulla «sindrome di Stoccolma» si mostrava, cioè, falsa e strumentale. Da un altro, quegli scritti mostravano un'interpretazione robusta della storia della Repubblica, in coerenza con la traiettoria politica di Moro, da cui discendeva una lettura conseguente delle circostanze del sequestro e della sua gestione politica.
  Nel 1994, allorché fu ricostituita la Commissione terrorismo e stragi per la XII legislatura, il presidente Pellegrino mi invitò a far parte della cerchia dei consulenti. Potei, dunque, proseguire la ricerca nel maggiore archivio che uno studioso avesse allora a disposizione. Ne venne un secondo Pag. 5libro, Il delitto Moro, che uscì nel 1998. Intendendo fare il punto sul significato storico del caso Moro, mi trovai costretto a una scelta metodologica impegnativa, descritta nell'introduzione del libro: se si voleva prendere in esame l'intera vicenda del sequestro, non era possibile isolare i tre principali protagonisti, cioè le Brigate Rosse, Moro e lo Stato.
  Né le Brigate Rosse né lo Stato avevano mostrato una traiettoria lineare e riconoscibile. Le presenze anomale nell'agguato di via Fani, la vicenda tormentosa e non ancora chiarita del Lago della Duchessa o di via Gradoli, l'assenza di una relazione ampia ed esaustiva della sconfitta dello Stato in quella circostanza, il vuoto di memoria rilevato a suo tempo dalla Commissione stragi in relazione alla documentazione del Ministero degli interni, la presenza al vertice delle Brigate Rosse di una componente – mi riferisco a Hypérion – difficilmente riconducibile alla tradizione rivoluzionaria da cui la stessa organizzazione delle Brigate Rosse proveniva, tutto ciò indicava che il caso Moro era da collocare all'interno di un conflitto più ampio.
  Ritenni allora, ancora come ipotesi di lavoro, che, per continuare a studiare il caso Moro, si dovesse mettere in conto l'esistenza di un partito non brigatista nell'omicidio e che all'intera vicenda si dovesse guardare come a una sorta di doppio delitto, un delitto cioè compiuto dalle Brigate Rosse, a cui però non erano estranee altre forze.
  Anche questo secondo libro ebbe risonanza, ma fu accompagnato da polemiche molto dure, a cominciare da un editoriale del Corriere della Sera del 16 marzo 1998 che interpretava la mia impostazione come una complicità morale con le Brigate Rosse. Per ragioni connesse con l'interpretazione della storia del Paese nella fase della cosiddetta seconda Repubblica la tensione su questi temi fu fortissima e durò diversi anni. Non mi dilungo sulle posizioni dei miei interlocutori di allora, peraltro alla Commissione già noti.
  Le cose presero a cambiare nella seconda metà del primo decennio del secolo. Incisero sui cambiamenti alcune pubblicazioni che ebbero un ruolo nel modificare il quadro di riferimento nel quale ci si era mossi. Tra queste segnalerei l'intervista di Steve Pieczenik del 2006, che, ancorché non priva di problematicità, mostrava che esisteva effettivamente un partito non brigatista orientato all'eliminazione dell'ostaggio a opera delle Brigate Rosse al fine di scongiurare l'avvicinamento del PCI all'area di governo. Altro libro importante fu quello di Miguel Gotor del 2008, che non solo produceva una buona edizione delle lettere di Moro dalla prigionia, ma approfondiva per primo il tema della trattativa che si svolse attorno al «carcere del popolo», mostrando la vastità delle forze e degli interessi che la vicenda Moro ebbe a mobilitare.
  In quegli anni iniziava, però, anche la percezione che la cosiddetta seconda Repubblica non fosse in grado di mantenere le promesse fatte e che la lunga transizione italiana fosse, in realtà, non altro che un'inarrestabile deriva. Il caso Moro tendeva così a trasformarsi da un cold case poliziesco in un dramma che chiude non tanto la politica della solidarietà, ma l'intera fase della storia nazionale che si era aperta con il 25 aprile 1945, cioè la fase più espansiva della storia d'Italia, quella che aveva costruito la democrazia attorno al progetto costituzionale repubblicano.
  Il piano di Moro, all'atto del suo rapimento, costituiva il tentativo di risolvere la crisi politica del Paese nel quadro del progetto costituzionale repubblicano. Questa era, del resto, la traiettoria strategica di Moro, sia in quanto membro autorevole della Costituente, sia soprattutto nel periodo in cui egli fu tra i primi attori della politica nazionale, dall'elezione alla segreteria della Democrazia Cristiana nel 1959 fino alla fine.
  Questa era la partita in corso e su questa partita incisero il rapimento, il sequestro e l'omicidio. Credo che siamo nel pieno di questa fase di ripensamento, tra i cui maggiori autori, se dovessi fare una rapida rassegna, indicherei l'ultimo Pietro Scoppola, che rifletteva sulla Repubblica dei partiti, e il lavoro storiografico di Piero Craveri.

Pag. 6

  PAOLO CORSINI. Chiedo scusa, quale volume di Craveri? Quello su De Gasperi?

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. Sì, soprattutto a partire dal volume su De Gasperi.
  Naturalmente, queste considerazioni aprono la strada a una rilettura complessiva del caso Moro, tale da polverizzare le polemiche precedenti. Il caso Moro diviene, cioè, il punto dirimente – potremmo dire il redde rationem – di una lotta per la disarticolazione della nostra democrazia iniziata con la strage di piazza Fontana del 1969 e continuata per un intero decennio con un'evoluzione di tattiche e di strumenti che, purtroppo, non possiamo descrivere qui.
  Se dovessimo dare un giudizio complessivo sull'esito di questa lotta, diremmo che essa ha sì disarticolato il progetto originario repubblicano-costituzionale, ma senza riuscire a sostituire ad esso un nuovo progetto, ovvero, come forse avrebbe detto uno storico e filosofo tedesco dell'Ottocento che in giovinezza ho studiato con passione, Carlo Marx, diremmo che quel movimento si è concluso con la comune rovina delle parti in lotta, cioè con la rovina del Paese. Di fatto l'Italia non ha più prodotto né trovato una classe dirigente in grado di assumere il tema della complessità italiana come orizzonte dell'azione politica, come, del resto, aveva previsto con precisione Moro, specie in una lettera a Zaccagnini, scrivendo che dopo la propria morte la DC avrebbe attraversato una crisi che non aveva più strumenti per fronteggiare – l'espressione «il mio sangue ricadrà su di loro», più che un'invettiva, ha un prevalente significato politico – e come intuì, forse per primo, un anziano storico liberale, Arturo Carlo Jemolo, che nel 1978 scrisse: «Quando rievoco i molti che divisero con me le grandi speranze del 1945 e degli anni immediatamente seguenti, penso che sono stati amati da Dio quelli che hanno chiuso gli occhi in tempo per non vedere l'Italia del 1978».
  La conseguenza di tutto ciò è che la stessa figura di Moro ha subìto e sta subendo un profondo rivolgimento. Negli ultimi anni sono state pubblicate decine e decine di studi che, su fonti documentarie, affrontano i molteplici aspetti della politica interna, della politica internazionale, della formazione e del pensiero di Moro. So di almeno quattro libri di robusta lena critica e storiografica che saranno nelle librerie nei prossimi mesi. Il caso Moro tende, cioè, a diventare l'ultimo capitolo di un percorso biografico che coincide largamente con la storia viva e vitale della nostra democrazia, e di questa storia Moro è un riferimento essenziale.
  Ma se il caso Moro ha questa importanza, e io ne sono certo, il tema principale è individuare come quell'evento fu inteso dal complesso della società, come le forze sociali si divisero. Intendo qui proporre telegraficamente tre temi di riflessione, se il presidente me ne dà tempo, in pochi minuti.
  La Chiesa: sappiamo ormai per certo che vi furono più iniziative a carattere umanitario volte alla ricerca di un canale di mediazione per ottenere la liberazione di Aldo Moro. Più di una di queste iniziative fu attivata da ecclesiastici, anche di rilievo, ma, quando il giornalista Giulio Anselmi annunciò al cardinale Siri, antico avversario del centrosinistra moroteo, l'avvenuto rapimento di Moro, si sentì rispondere, forse come voce dal sen fuggita: «Ha avuto quel che merita».
  Non fu certo questa la posizione della Chiesa, ma ci si può chiedere se o in qual misura posizioni ostili a Moro, indubbiamente presenti, abbiano avuto un peso nel dialogo asimmetrico che si sviluppò tra il prigioniero e il Pontefice. Moro aveva chiesto al Papa di spendersi in favore della trattativa. Paolo VI rispose con il famoso messaggio agli uomini delle Brigate Rosse, che però, contenendo l'espressione «senza condizioni», si prestò a essere utilizzata contro il prigioniero, come lo stesso Moro ebbe a rilevare. Non saprei – e personalmente non lo credo – se, come fu sostenuto, la lettera del Pontefice fosse stata piegata alle direttive del Presidente del Consiglio. Permane però l'interrogativo di quali fossero nella Chiesa le forze politicamente ostili a Moro. Pag. 7
  Secondo tema: la mafia. Nelle settimane del sequestro, su sollecitazione di Stefano Bontate, Tommaso Buscetta si rese disponibile a farsi trasferire nel carcere di Torino per intavolare un dialogo con i brigatisti prigionieri. L'iniziativa nasceva dalle sollecitazioni che da ambienti politici erano pervenute a «cosa nostra» perché si attivasse per la ricerca del carcere di Moro. La cosa non ebbe esito, ma se ne parlò in una riunione al vertice di «cosa nostra», ancora durante il sequestro. Pippo Calò disse a Bontate: «Stefano, ma non ti rendi conto che neanche esponenti del suo partito lo vogliono libero?». Calò viveva a Roma e poteva avere più informazioni di quante ne avesse Bontate, ma l'episodio è indicativo di aspetti che riguardano proprio la storia di «cosa nostra», se si mettono in conto due circostanze. La prima è che l'episodio prelude a quella sanguinosa guerra di mafia per cui i corleonesi, cioè gli amici di Calò, massacrarono Bontate e i suoi alleati, per aprire poi quella fase di attacco allo Stato che si sarebbe conclusa soltanto nel 1995. Il colloquio tra Bontate e Calò mostra due differenti ideologie mafiose, la prima più tradizionale e subalterna al potere politico, l'altra, destinata a prevalere, più aggressiva e autonoma. La seconda circostanza è nel fatto che «cosa nostra» e, con essa, l'intera galassia del crimine organizzato perdono, dopo il caso Moro e forse in seguito ad esso, il loro prevalente carattere di forze regionali, espandendosi e divenendo elementi stabili degli equilibri di potere, come se l'esito del caso Moro fosse il risultato della pressione di un blocco sociale al quale i poteri criminali non erano estranei.
  Terzo esempio, ma che ha più il carattere di una domanda a me stesso, come le precedenti: qual era lo stato formale della presenza di Pieczenik a Roma nei mesi del sequestro? Conosciamo le ragioni per le quali il Governo degli Stati Uniti era restio a inviare personale all'estero qualora non fossero in gioco interessi americani e conosciamo le insistenze da parte italiana. L'esperto statunitense, come ho già detto, fa alcune affermazioni chiarissime, che però non sembrano affatto uniformarsi alla linea di non indifferenza e non interferenza che era la cifra dell'ambasciatore Gardner, anzi egli critica Gardner, credo a torto, accusandolo di non essere un diplomatico di razza. Pieczenik sembra piuttosto uniformarsi a un costume di intervento brutale più coerente con il passato che con l'amministrazione Carter. Anche su questo credo che sarebbe importante saperne di più.
  Vi ringrazio dell'attenzione.

  PRESIDENTE. Grazie, professore. Adesso passiamo a una serie di domande che ci interessano.
  Una delle ipotesi principali della sua ricostruzione della vicenda Moro è che ci sia stata – ce l'ha ricordato anche ora – una sorta di doppio delitto. Lei ha scritto: «Ad esso concorsero – con motivazioni originariamente diverse ma con una crescente interdipendenza operativa – tanti suoi nemici dichiarati (le Brigate Rosse) quanto quello che abbiamo connotato come il partito non-brigatista dell'omicidio, nascosto tra le maglie dello Stato» (Il delitto Moro, pagina 118). Secondo questa interpretazione, la gestione del sequestro Moro, lei scrive: «adombra un patto di potere che avrebbe caratterizzato la vicenda politica nazionale per larga parte degli anni Ottanta» (pagina 214). Protagonista del sequestro sarebbe, dunque, anche un partito non brigatista dell'omicidio. Può esplicitare un po’ di più questa ipotesi interpretativa? Questa è una tesi, senza nomi, cognomi, indirizzi, qualifiche. Siccome noi siamo una Commissione d'inchiesta...

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. È giusto. Io ho premesso...

  PRESIDENTE. Quello che lei ha detto dal punto di vista dell'impostazione lo abbiamo capito. Ma, al di là dei nomi, quando lei parla di un nuovo blocco di potere, intende un nuovo blocco di potere tra i partiti, dentro i partiti, nella struttura di sicurezza dello Stato?

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. Questa è «la» domanda. Questa è la domanda Pag. 8sul conflitto politico che c'è in Italia dal 1945. Questo è il tema, in sostanza, della democrazia in Italia. Il progetto democratico, il progetto costituzionale repubblicano, è egemone per i primi trent'anni della storia repubblicana, ma non è l'unica forza presente. Ci sono non soltanto gli avversari, gli sconfitti, del 25 aprile, che sono sul campo. La stessa Democrazia Cristiana – che, come diceva un vecchio libro di Sylos Labini, aveva dentro di sé il meglio e il peggio della società italiana – svolgeva un ruolo di contenimento del conflitto per cui veniva a essere il luogo privilegiato nel quale le diverse ipotesi si fronteggiavano.
  Si tratta del discorso che fa Moro sull'interpretazione del ruolo della destra in Italia e lo fa diverse volte negli anni Sessanta e negli anni Settanta. Vale a dire, la destra non è il Movimento Sociale Italiano. Il nemico della democrazia sono anche i fascisti, ma non sono solo o tanto loro. L'operazione compiuta nel 1948 da De Gasperi è fondamentale per l'equilibrio democratico del Paese, ma l'avversario è anche interno. La linea di divisione non passa solo o tanto fra destra e sinistra, proprio per il ruolo che ha la Democrazia Cristiana. Per questo l'unità del partito rimane fino all'ultimo giorno della vita di Moro un elemento centrale. Se si perde l'unità del partito, si rompe il sistema. Questo è l'aspetto più generale.
  C'è poi l'aspetto della guerra fredda; credo che gli elementi che colleghino per alcuni aspetti i primi anni della strategia della tensione alla guerra fredda non siano assolutamente arbitrari...

  PRESIDENTE. Questo è abbastanza chiaro.

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. ... fino al 1974. Dopo, non credo. Per questo poi mi ponevo il problema di Pieczenik e di che cosa rappresentasse effettivamente.
  I nomi e i cognomi. Io credo, per studi che sto facendo e per letture che mi stanno impegnando, che la fase cruciale del conflitto su questo terreno inizi verso il 1973-74, nel momento in cui decolla la proposta del compromesso storico, al quale Moro è contrario, ma alla quale sa di dover rispondere. Moro non vuole il compromesso storico. Moro vuole una reciproca legittimazione delle forze politiche per uscire dal reciproco assedio, un dialogo che legittimi le forze a governare indipendentemente l'una dall'altra. Ecco, mentre prevalentemente dalla fine del 1973 si crea una polarità «di sinistra» e un dialogo che si apre allora diventa più cogente, si costituisce anche un'opposta polarità. Io su questo sto lavorando e non ho le idee chiarissime. Ho, però, la sensazione che l'altra polarità si costruisca attorno ad Andreotti e che sia il dialogo Andreotti-Sindona. È quella vicenda per cui si sviluppa il dialogo con settori criminali, per cui la corrente andreottiana di Sicilia appariva negli anni Settanta-Ottanta la più vicina alla mafia. È il periodo nel quale Andreotti assume, quando è Ministro della difesa, nel quinto Governo Rumor, il controllo pressoché completo, per la prima volta, del servizio segreto, controllo che poi manterrà successivamente come Presidente del Consiglio dei ministri. È più difficile da ricostruire questa seconda polarità, perché non passa per canali politici. In gran parte passa attraverso rapporti di altro genere e di altro tipo.
  Credo di aver risposto.

  PRESIDENTE. Sì.

  GERO GRASSI. Presidente, posso dire una cosa? Professore, non mi sembra che lei abbia risposto. Ha tentato, attraverso una circumnavigazione, di darci un quadro, ma alla domanda del presidente io le chiederei un supplemento di risposta più specifico. Non che io contesti la risposta, però, se ci potesse dire qualche cosa in più...

  PRESIDENTE. Io faccio una serie di domande che forse aiutano il professore a esprimere, al di là delle opinioni, alcuni fatti.
  Vorrei chiedere, prima di tutto, una riflessione sul progressivo consolidarsi, soprattutto nei primi anni Novanta, di un'interpretazione della vicenda Moro basata Pag. 9sulle parziali ammissioni dei brigatisti. Lei ha sottolineato come il cosiddetto memoriale Morucci-Faranda risponda a un'esigenza di alcuni brigatisti e dei settori della Democrazia Cristiana di consolidare un'interpretazione della vicenda Moro che attribuisse ai soli brigatisti l'operazione e, insieme, escludesse responsabilità di apparati dello Stato o negligenze dello stesso o di fattori esterni. Ha, tuttavia, evidenziato che il memoriale raggiunse solo in parte lo scopo, tanto che si dovette arrivare alle ammissioni di Moretti e altri del 1993-94. Nel giugno del 1990 fu trasmesso alla magistratura questo memoriale. Ricordo che poco dopo, in ottobre, vi fu anche il ritrovamento di via Monte Nevoso.
  Può fornirci su questi elementi alcuni dati che ci aiutino a ricostruire in questi elementi quelle presenze del partito non brigatista?

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. No.

  PRESIDENTE. Gliela dico più brutalmente. Lei usa un taglio storiografico, ma diciamo che, se uno fa un memoriale, deve rispondere alla narrazione della verità, senza “se” e senza “ma”. Se invece risponde alle esigenze di taluni brigatisti e di taluni altri interessi, significa che quel memoriale è un memoriale aggiustato, che non risponde alla verità.
  La domanda è: se il memoriale Morucci non risponde alla verità, ma risponde a quegli interessi, evidentemente qualcuno ha creato una sintonia e una sinergia per cui questo avvenisse. Se questo avviene, significa che il partito brigatista e quello che lei chiama il partito non brigatista hanno interagito. Quindi, ritorniamo al solito discorso: secondo lei, chi è che ha interagito e come?

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. Dunque, su questa vicenda sono stati pubblicati alcuni mesi fa ben due libri con una documentazione ampia, che mi sembra confermino quello che io scrissi diciotto anni fa.

  PRESIDENTE. Soprattutto hanno rettificato la linea di chi aveva scritto cose diverse prima su quei temi.

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. Sì, certo, ma io credo di poter difendere quel brano anche alla luce di ciò che è stato scritto dopo. In questo senso qui non c'entra più il partito non brigatista dell'omicidio, qui c'entra il problema della gestione della memoria.
  Morucci e Faranda immaginano un'operazione che nasce alla metà degli anni Ottanta ed è un dialogo che passa per suor Teresilla Barillà, per Remigio Cavedon e probabilmente per Cossiga, che è il destinatario del memoriale completo. Qual è l'accordo implicito? Poi la posizione di Morucci, che all'inizio non è la posizione delle Brigate Rosse, ma è solo la posizione di Morucci, diventa la posizione delle Brigate Rosse, perché ci si...

  PRESIDENTE. Accomodano tutti.

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. Ci si accomodano tutti, perché è intelligente, peraltro. È una soluzione che dovrebbe chiudere il cerchio con la memoria: «Noi siamo dei rivoluzionari che sono stati sconfitti sul campo, il nemico ci fa l'onore delle armi» – di questo si trattava, si vedano i riconoscimenti di Cossiga e di Piccoli in quel periodo – «e si ricompone in questo modo la memoria storica del Paese». Questo successe e questo mi sembra, nel complesso, il senso di questa operazione.
  Il problema qual è? Che, poco dopo il momento in cui il memoriale viene consegnato, vengono fuori le carte di via Monte Nevoso, su cui il memoriale mi pare non dicesse assolutamente nulla, anche se alcuni brigatisti...

  PRESIDENTE. Chi l'ha scritto forse non sapeva neanche che esisteva.

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. Però, dal 1982, dalle prime udienze del processo Moro, si diceva delle carte di via Monte Nevoso. Spuntano soltanto, a sorpresa, otto anni dopo. Alcuni brigatisti al processo, dicono: «Le carte, lì ci sono gli originali».
  Viene fuori la questione del quarto uomo di via Montalcini. Anche questa fa saltare il disegno. È un tentativo modesto e, Pag. 10in fondo, fallimentare di ricostituire la coscienza storica del Paese. Le motivazioni di Morucci sono chiare. Le motivazioni da parte democristiana sono sospette.

  GERO GRASSI. Professore, scusi, non dica «democristiana». Dica le persone.

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. Sì, va bene.

  GERO GRASSI. Io voglio capire a chi si riferisce.

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. Ha ragione.

  GERO GRASSI. «Democristiana» è un termine sbagliato.

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. Ha perfettamente ragione. Mi dispiace.

  GERO GRASSI. La ringrazio.

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. Io ho fatto due nomi: Piccoli e Cossiga, certamente.

  PAOLO BOLOGNESI. Sicuramente anche Andreotti.

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. Non lo so. Nell'operazione, Cossiga compare. Piccoli compare a lato per la questione del perdono. Andreotti non mi pare compaia.

  PRESIDENTE. Vado avanti. Nei suoi studi lei ha tematizzato il valore periodizzante del 18 aprile 1978. In sostanza, con la scoperta del covo di via Gradoli e il falso comunicato del Lago della Duchessa le Brigate Rosse perderebbero il reale controllo della vicenda e finirebbero in un vicolo cieco in cui, chiusa la possibilità di trattativa, rimaneva solo la possibilità di uccidere l'ostaggio o di dichiarare la sconfitta. Moro, da parte sua, sarebbe stato pienamente consapevole di ciò che accadeva e avrebbe fatto il possibile, tra fine aprile e inizio maggio, per riannodare la trattativa.
  Può aiutarci a capire gli elementi di fatto che danno sostanza a questa sua ricostruzione?

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. Dunque, questo a me sembrò l'unico modo per dare un senso a una dinamica nella quale c'è un momento di frattura, un momento di crisi. I comunicati delle BR prima del 18 aprile e i comunicati successivi a quella data indicano che i due episodi del 18 aprile sono significativi. L'impressione era che questo spartiacque fosse dato dalla concomitanza dei due episodi, via Gradoli e il Lago della Duchessa, e che quella fosse una condizione di assedio, nella quale le Brigate Rosse si trovarono.
  Naturalmente, questa restava l'ipotesi forse più azzardata del libro. Io rimasi, però, sbalordito e sconcertato quando lessi la ricostruzione di Pieczenik, che era perfettamente speculare. Vale a dire: «Noi dobbiamo far credere alle Brigate Rosse che la trattativa è possibile; sappiamo noi se la facciamo o non la facciamo. Da un momento in poi dobbiamo bombardare le Brigate Rosse di messaggi contrari, in modo da costringerle ad andare verso l'omicidio dell'ostaggio». Aggiunge Pieczenik: «Il rischio dell'operazione è che, se le Brigate Rosse scoprono la logica di questo intervento, liberano l'ostaggio e vincono tatticamente questa partita».

  GERO GRASSI. Ma questo presupporrebbe che le Brigate Rosse su questa dinamica fossero concordi. Invece erano divise.

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. Il conflitto interno si apre alla fine di aprile, per quel che ne sappiamo. Che ci fossero linee diverse all'interno delle Brigate Rosse questo è noto, ma è anche comprensibile e anche fisiologico.

  PRESIDENTE. Adesso finisco le domande. Poi facciamo magari una ricapitolazione finale.
  Relativamente alla questione del ruolo della criminalità organizzata lei ha valorizzato sia la tematica relativa alla mafia che alla banda della Magliana e alla ’ndrangheta. Pag. 11 Tuttavia, nella sua ricostruzione la pista ’ndranghetista viene maggiormente approfondita sia in relazione alla vicenda Morabito-Nirta, sia alla vicenda Cazora, sia anche ai viaggi di Moretti in Calabria tra il 1975 e il 1976. Ritiene che il ruolo della ’ndrangheta fu maggiore di altri sodalizi criminali e, se sì, perché?

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. Questo non potrei dirlo in nessun caso, perché diciotto anni fa gli indizi che si avevano del coinvolgimento della criminalità organizzata erano questi. Queste erano le forze che si muovevano. Sapere poi effettivamente il ruolo che ciascuna di queste forze o tutte insieme hanno avuto non è una cosa possibile, se non con degli approfondimenti analitici, di cui non mi pare ci siano neanche evidenze.
  Dal punto di vista documentario sappiamo da qualche mese per certo che il nipote di Nirta era lì. Questo conferma che il nodo c'era. Quale sia lo spessore, l'importanza di questo nodo...

  PRESIDENTE. Vi è solo un'elencazione di dati preesistenti. Non c'è un elemento di novità. O non ho capito bene?

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. Sì.

  PRESIDENTE. Un altro elemento che si coglie nei suoi studi è l'importanza relativamente minore assegnata al tema dei rapporti tra terroristi e Stati del Patto di Varsavia rispetto a quella attribuita al tema delle forze interne ed esterne riconducibili a una dimensione atlantica.

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. A me pare che allora gli elementi indiziari fossero di questo tipo. Abbiamo saputo successivamente, attraverso ad esempio la vicenda del dossier Mitrokhin, di un'ostilità sovietica nei confronti di un eventuale successo della politica del compromesso storico. Questo può alimentare, naturalmente, dei dubbi.
  Tutta la vicenda di Hypérion indica qualcosa di molto complicato. Io so che questa ipotesi è stata contraddetta qui da Berio in un'audizione che mi è parsa – l'ho letta – reticente. Cioè, tutti i dubbi sulla reale portata di Hypérion e tutti i sospetti restano ancora perfettamente in piedi. Non mi sembra, però, che ci sia una documentazione nuova a comprovare un rapporto fra Brigate Rosse e – genericamente – Patto di Varsavia.

  PRESIDENTE. La vicenda palestinese?

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. Questo è uno degli aspetti più tormentosi. Io credo che andrebbe ricostruita con attenzione e sulla base di materiale documentario. Adesso comincia a essere possibile conoscere la politica italiana verso il Medio Oriente, perché questa è una politica che riguarda sia il Ministero degli affari esteri sia l'attività di intelligence dei servizi segreti, per cui gli scambi che possono essere avvenuti in quest'ambito sono di grande rilevanza.
  La stessa questione è emersa a proposito di un episodio come la strage di Bologna. È evidente che sono nodi che possono essere affrontati e risolti tutti insieme in un quadro di ricostruzione storica.

  PRESIDENTE. E dei rapporti con le BR?

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. Tra palestinesi e BR? C'è il traffico d'armi successivo di Moretti.

  PRESIDENTE. Successivo o...

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. O concomitante.

  PRESIDENTE. ... che ha fatto seguito a più antichi rapporti.

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. Per carità, ci fu anche un libro che uscì sotto pseudonimo nella prima edizione, I giorni del diluvio, che era proprio in questa chiave. Non è un libro che consente un giudizio storico. Certo, in parte è un libro di fantasia, in parte assorbe alcune suggestioni (come certe volte succede in letteratura) Pag. 12 per nulla banali. Sul piano documentario bisognerebbe riprendere la documentazione specifica.

  PRESIDENTE. Da un punto di vista storico, che idea si è fatto sul processo del 7 aprile e sull'idea che il partito armato fosse composto da una variegata presenza di soggetti plurali, ma che avevano stesse finalità e differenti funzioni, e che, quindi, il rapporto tra le Brigate Rosse e i capi di Potere Operaio o di Autonomia, cui è stato giudiziariamente negato il riconoscimento di appartenenza a banda armata fosse organico?

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. A questo punto, allarghiamo un po’ il discorso: non soltanto Potere Operaio e l'Autonomia, ma anche Lotta Continua. Il rapporto Autonomia-Brigate Rosse è un rapporto problematico, ma c'è tutto un contributo che dà l'estrema sinistra alla demolizione pratica della democrazia italiana ed è un contributo non irrilevante. L'idea di mettere l'omicidio nella cultura dell'estrema sinistra comincia con l'omicidio Calabresi. L'idea dell'antifascismo militante da contrapporre all'antifascismo democratico-repubblicano, l'idea della fascistizzazione dello Stato: direi che sono tutti filoni che poi ci portano all'agguato di via Fani.
  Vi è un contributo della cultura di sinistra, diciamolo. C'è un atteggiamento spirituale volto alla rottura della democrazia. Questa è una cosa sulla quale io credo che la cultura, anche la cultura democratica, non abbia riflettuto a sufficienza. La vicenda terrificante, orribile, dei fratelli Mattei, nel 1973, nasce da qui. Nel conto delle cose da studiare, secondo me, c'è anche questa.
  Vale a dire: i disegni, le tattiche, le strategie e anche le culture possono essere diverse; c'è però un filone che influenza un'intera generazione; c'è un antistato di sinistra nella mia generazione (ho 62 anni).
  Per il resto, il rapporto Autonomia-Brigate Rosse...

  PRESIDENTE. Piperno, Morucci, Faranda: è difficile dire che quel rapporto sia solo un tramite per innescare una trattativa.

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. Certamente. Vengono da Potere Operaio.

  PRESIDENTE. Vengono da Potere Operaio. Uno era il capo e l'altro era l'esecutore. Poi si scioglie Potere Operaio.
  Io ho letto con particolare interesse le varie sentenze. Insomma, la ricostruzione giudiziaria è una ricostruzione che dice, sì, che hanno messo in piedi un progetto con aspetti eversivi, ma non sono una banda armata delle BR.
  Una cosa che ha molto a che vedere con le indagini che stiamo facendo: se il rapporto fosse stato sempre tra il capo di Potere Operaio e il responsabile del nucleo armato di Potere Operaio, cioè tra Piperno e Morucci, noi avremmo detto: «Uno pensa e l'altro l'aiuta a pensare ed esegue».
  Quando però divengono uno ordinario di fisica a Cosenza e uno BR, quel rapporto cosa diventa? È questa la domanda intorno alla quale noi ci interroghiamo. Se lei avesse un'idea, ci aiuterebbe, perché nei poteri del partito non brigatista c'è pure tutta questa roba.

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. Certo.

  PRESIDENTE. A meno che lei non lo consideri partito brigatista e allora ritiro l'osservazione.

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. Io non so se sia proprio il partito non brigatista dell'omicidio, nel senso che poi c'è sia il tramite socialista Landolfi...

  PRESIDENTE. Al di là di Landolfi e Mancini, poniamo la domanda in altro modo: siamo certi che Piperno e Pace parlassero con Morucci e Faranda solo perché avevano notizie da dare loro (notizie che magari avevano a loro volta ricevuto da Signorile, Landolfi o Mancini), oppure era un dialogo che c'era comunque?

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. Io condivido la domanda, presidente.

Pag. 13

  PRESIDENTE. Vorremmo solo sapere se lei ha una risposta. Nella partita non sono spettatori, sono in gioco; quindi o sono il partito brigatista, o sono una parte del partito non brigatista, o sono una cerniera tra qualcosa, ma di certo non sono personaggi di passaggio, a mio avviso, in questa vicenda.
  Mi sono soffermato su questo perché è uno dei nodi. Pensare che il CERPET e coloro che lo hanno finanziato il CERPET finanziassero le ricerche della fame nel mondo... Dopo aver letto che cosa era il CERPET secondo i documenti delle riunioni di Potere Operaio, qualche dubbio mi viene. Per carità, i magistrati fanno bene il loro lavoro, sono io tardo e loro hanno capito meglio, però, insomma, io ho letto cose che mi hanno lasciato un po’ perplesso.
  Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  PAOLO CORSINI. Innanzitutto ti ringrazio, Francesco, di questa lezione – chiamiamola pure così – perché evoca temi storiografici e interpretazioni che, come tu sai, largamente condivido. Ti vorrei, però, chiedere se la mia lettura falsa un po’ la tua interpretazione o se, invece, è abbastanza aderente.
  Nello schema interpretativo che tu proponi ci si avvale sicuramente di elementi fattuali, indiziari, però credo che la lettura storico-politica dell'intera vicenda assuma un peso preponderante rispetto al paradigma indiziario.
  Mi trovo molto interessato a questa lettura che tu fai e a questa interpretazione del partito non brigatista, ma che si propone e si prefigge l'eliminazione come minimo politica di Aldo Moro. Mi pare che giochino sostanzialmente due fattori e che questo partito possa far leva su due riferimenti.
  Il primo è completamente esterno. Il riferimento esterno sta nel fatto che la strategia politica della terza fase – che non coincide affatto, come giustamente tu dici, con la strategia del compromesso storico, però le due cose vanno di pari passo, in qualche misura sono sintonizzate: l'una prevede l'alternanza, l'altra prevede un periodo di consociazione poi da superare – questa strategia di Moro e di Berlinguer è profondamente eversiva dello stato di cose esistente, perché fa saltare completamente gli equilibri di Yalta e quindi trova volontà che vogliono minare questa impostazione sia a Est che a Ovest. L'Unione Sovietica non accetta la politica del compromesso storico e gli Stati Uniti non accettano la politica della terza fase.
  Questo è il versante esterno del partito che è interessato all'eliminazione politica di Aldo Moro. Se poi fosse interessato alla sua eliminazione fisica, è un altro passaggio, successivo. Non escludo che elementi di questa dimensione fossero interessati anche all'eliminazione fisica.
  C'è poi l'altro versante, quello interno, che va letto su tutti e due i fronti. Non so se sto lavorando di accetta anziché di bisturi, quando leggo le cose che scrivi. Quali sono queste due componenti? Sono, sul versante della sinistra, quelli che danno continuità a una teorizzazione che già nella degenerazione del 1968 trova i suoi germi. Cioè, hai detto tu, l'antifascismo è rosso e non è democristiano, lo Stato si abbatte e non si cambia, Calabresi e le cose che un attimo fa hai rievocato. C'è tutta una componente della sinistra che è consequenziale quando vuole far fuori politicamente – non so se anche fisicamente – Aldo Moro, perché Aldo Moro è la legittimazione, in qualche misura, di quell'odiatissimo Partito Comunista che ormai è completamente inserito nello schema del gioco democratico-repubblicano.
  Oltre alla componente di sinistra, c'è la componente di centro e di centrodestra. Tu hai fatto alcuni nomi. Io, che non sono particolarmente interessato agli aspetti giudiziari-investigativi della vicenda, ma più all'interpretazione storiografica, condivido con te, però, l'idea che sia sul versante dell'estrema destra, sia sul versante dalla destra moderata, sia sul versante della destra democristiana ci fosse un interesse a eliminare..., perché subito dopo abbiamo il “preambolo”, abbiamo il CAF (Craxi-Andreotti-Forlani), abbiamo la politica che è la negazione sostanziale...

Pag. 14

  GERO GRASSI. Il CAF è sei o sette anni dopo.

  PAOLO CORSINI. Sì, nei primi anni Ottanta. Questo è sostanzialmente il rovesciamento della politica di Aldo Moro.
  Quindi, vedo, insomma, coagularsi attorno a questa vicenda nuclei di forze che, per finalità anche diverse, però giungono sostanzialmente alla stessa conclusione.
  Allora io dico questo: se noi riuscissimo, ammesso e non concesso che questa interpretazione sia fondata e legittima – legittima lo è sicuramente, fondata è da dimostrare, però io sono convinto lo sia – non c'è dubbio che il nostro compito potrebbe e dovrebbe essere quello di trovare riscontro in quegli elementi indiziari che le analisi investigative e le sanzioni giudiziarie portano alla luce.
  Mi pare di poter dire che, anche alla luce delle acquisizioni dei lavori di questa Commissione – che se non altro ha un grandissimo merito, quello di aver riaperto una serie di problemi e di interrogativi – quegli elementi indiziari che io qui ho ascoltato in qualche misura vadano a confermare la validità di questa interpretazione generale che tu proponi, ammesso che io l'abbia interpretata correttamente.

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. Dunque, la domanda è molto complessa, nel senso che in politica, nella storia di un Paese, il nodo è sempre come si formano le maggioranze, sapendo che le maggioranze sono sempre qualcosa di fragile...

  PAOLO CORSINI. Di aleatorio.

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. Di aleatorio. Tanto più quando il quadro è definito, ma non universalmente accettato, no? Come dire, la Gran Bretagna ha un rapporto diverso rispetto a quello che abbiamo noi con le istituzioni.
  Io ho l'impressione che con il delitto Moro si rompa la molla interna che aveva dato vitalità alla democrazia italiana. Pur con tutti i problemi relativi al mancato ricambio della classe dirigente, era possibile una nuova fase espansiva. Viceversa, la rottura della molla ha come contraccolpo quasi immediato proprio non tanto il CAF, quanto il «preambolo», la fine della solidarietà in qualche modo sancita dal «preambolo».

  PAOLO CORSINI. Il CAF è l'evoluzione del «preambolo».

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. Sì, insomma il Partito Comunista rompe con Mosca e viene a mancare, diciamo, quell'elemento caratterizzante dell'anomalia politica italiana, per cui il maggior partito di opposizione è solidale col blocco mondiale avversario. Ancora più dura si fa la chiusura nei confronti del PCI. Questo mi lascia pensare, peraltro, che le opposizioni interne fossero più forti delle obiezioni internazionali a Moro.
  Voglio dire, io non credo che la politica italiana dipenda direttamente dagli equilibri mondiali: ha una sua autonomia. Per questo poi torno sulla questione di Pieczenik e di che cosa rappresentasse effettivamente. Io ho l'impressione che non rappresentasse molto più che se stesso. Altrimenti dovremmo pensare che c'era un gioco delle parti.
  Inoltre, vi sono anche dei limiti interni nella stessa strategia di terza fase o di compromesso storico, dei limiti interni dovuti al fatto che innanzitutto il linguaggio non era comune. Non era del tutto comune, c'era una tendenza comune. Poi dal punto di vista tattico le previsioni di Moro, per quel che ne sappiamo, costituivano una strategia la cui tattica era in fieri; non era ancora del tutto definita. La visione del Paese che ha, però, Aldo Moro a me sembra la più forte che ci sia, la più convincente. Se uno legge Moro e legge Berlinguer, insomma, è più interessante Moro. È più ricca di sfumature e più profonda la sua interpretazione del 1968, è di grandissimo fascino. È forse l'unico uomo politico italiano di alto livello che coglie questi elementi di novità e di fragilità.
  Voglio dire che la stessa cultura che potremmo chiamare complessivamente dell'antifascismo, che era tradizionalmente la cultura del progetto repubblicano- Pag. 15democratico, non ha moltissimi elementi. Cioè, la partita si poteva anche perdere. Il problema è che perdere la partita della solidarietà non sarebbe stato necessariamente un dramma. Quello che si perde, invece, è qualcosa di molto di più: si perde il progetto per il quale il Paese si era ricostruito nel dopoguerra. Questo è l'elemento che modifica in modo sostanziale la situazione.
  Non so se l'avete notato, ma a me ha colpito molto il film di Veltroni su Berlinguer. C'è una cosa che forse non era voluta, ma si vede che dopo la morte di Aldo Moro Berlinguer smette di sorridere. Per tutto il film non sorride più. Come dire, sa che lì finisce il PCI.

  PRESIDENTE. Lì inizia la fine dei due grandi partiti.

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. Inizia la fine dei due grandi partiti.

  PRESIDENTE. Perché finisce il progetto e si inizia il vivacchiare... Questo mi sembra che sia un dato.

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. Ma lì finisce anche la storia dei partiti, non solo dei due grandi partiti.

  GERO GRASSI. Professore, io le farò una domanda; prima però mi consenta di sottolineare due o tre cose, ma non in contraddittorio. Io non credo che sia giusto usare il termine «egemonia» per il periodo dopo il 1948 – mi riferisco al trentennio 1948-1978 – perché il termine «egemonia» nel caso di specie era la vittoria della Democrazia Cristiana, la vittoria elettorale che consentiva a quel partito di perpetuare il Governo.
  Credo anche che, quanto alla differenza, come giustamente ha detto lei, tra Moro e Berlinguer sul compromesso storico, l'operazione di Moro fosse molto più ampia di quella di Berlinguer, perché Berlinguer voleva portare il PCI al Governo e capiva bene che, senza la Democrazia Cristiana, non ce l'avrebbe fatta. Moro voleva fare una cosa più grande. Moro, che era un profondo conoscitore della storia del Paese, dei partiti e della Democrazia Cristiana, voleva consentire che il PCI diventasse forza di governo, ma per tre obiettivi: il primo evitare la democrazia bloccata in Italia, il secondo rendere democratico il Partito Comunista staccandolo da Mosca, il terzo consentire alla DC di rigenerarsi per evitare che morisse, come poi è morta, non avendo alternativa se non al proprio interno.
  Storicamente, chi indica Andreotti come Presidente del Consiglio di quel Governo che si vota il 16 marzo 1978 è Moro. All'interno della DC molti vogliono che sia Moro a guidare il primo Governo di solidarietà nazionale, ma Moro capisce che non può farlo, perché chi tranquillizza gli americani è Giulio Andreotti. È Moro stesso, per l'ampiezza dell'obiettivo, a indicare Andreotti.
  Ecco perché io, che pure sono molto critico nei confronti di quello che non ha fatto il Governo Andreotti per la liberazione di Moro, sono un po’ scettico nell'interpretazione della polarizzazione, per come lei l'ha descritta, all'interno della Democrazia Cristiana. Credo che sia, seppure in perfetta buona fede e con molto realismo, un'interpretazione riduttiva rispetto alle forze in campo.
  Non so se lei ne è a conoscenza, ma Moro, quando ha fatto il centrosinistra – Nenni, per capirci – ha fatto il giro di tutti i vescovi d'Italia a spiegare le ragioni per le quali doveva fare il centrosinistra: ragioni sociali, culturali, politiche ed economiche. Quel prelato che lei ha prima nominato disse, in un'intervista radiofonica poi trascritta, che ebbe un momento di sbandamento mentre Moro gli parlava e si trattenne dal dargli un pugno, pensando che le sue mani erano consacrate; aggiunse che non gli venne in mente che i piedi non erano consacrati, altrimenti l'avrebbe preso a calci. È quello stesso prelato che poi disse: «Ha avuto la fine che si meritava», una cosa assurda.

  PRESIDENTE. Siri era, per memoria storica, all'interno della Chiesa, nettissima minoranza già allora.

Pag. 16

  GERO GRASSI. Non c'è dubbio. Guai se Siri fosse stato la Chiesa. D'altra parte, per questo non fu mai eletto Papa.
  Quello che Moro fece negli anni Sessanta rispetto alla Chiesa lo fece anche rispetto al Paese, perché capiva che la DC, che era una realtà composita, doveva giustamente, come ha detto lei, portarla tutta. Doveva portare De Carolis all'incontro con i comunisti. Doveva portare su una posizione unitaria un partito di cui Martinazzoli diceva: «C'è tutto e il contrario di tutto». Non era un'operazione facile, ma Moro ci riuscì.
  Detto questo, io credo – e questa è la domanda che le faccio – che intorno alle BR, che certamente sono state soggetto centrale nella vicenda, si sia creata una sorta di collateralismo attivo e omissivo, nel quale c'era dentro di tutto e di più.

  PRESIDENTE. Vi vedo appassionati al dibattito storico.

  GERO GRASSI. C'è il professor Biscione, che ha scritto un libro e ha appena fatto una relazione di quel tipo.

  PRESIDENTE. Infatti, ringrazio il professor Biscione, che ci consente uno splendido dibattito storico e politico, però poi facciamo due minuti di vera Commissione d'inchiesta, se no viene meno la ragione sociale.

  GERO GRASSI. La domanda è questa, ed è anche molto brutale: in base ai suoi studi lei ha elementi, anche sensitivi, non giudiziari...

  PRESIDENTE. Qualche seduta spiritica anche lei?

  GERO GRASSI. No, lasciamo perdere le sedute spiritiche; elementi sensitivi nel senso buono, per suffragare l'ipotesi che Aldo Moro, a un certo punto sia passato di mano, negli ultimi giorni del rapimento, e che di fatto non sia stato materialmente ucciso dalle Brigate Rosse, ma da soggetti terzi?
  Non so se sono stato...

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. ...chiaro, sì.
  Dunque, quando io parlavo di egemonia, parlavo di egemonia culturale, che non è soltanto la prevalenza numerica di un partito. Parlavo di egemonia nel senso del ruolo che ha avuto l'antifascismo nella cultura del dopoguerra, che è stato importante, ma certamente non esclusivo.
  Io credo – e vengo alla domanda – che, quando le cose sono molto complesse, in fisica come in storiografia, la soluzione di un problema composto da un numero eccezionalmente elevato di incognite sia di tipo probabilistico. Scientificamente, io so che il dato dimostra, che il documento è una prova, ma se mettiamo insieme decine di migliaia di documenti e di dati la soluzione dell'equazione è ancora di tipo probabilistico. Ci sono alcune cose che si possono escludere radicalmente, alcune cose che si possono affermare, ma la zona della domanda rimane ancora molto ampia, infinita.
  Io la sensazione che ci sia stato un passaggio di mano ce l'ho.

  PRESIDENTE. Un passaggio di mano con soggetti terzi?

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. Brigate Rosse e non Brigate Rosse. Non Brigate Rosse può essere qualunque cosa. Può essere anche il crimine organizzato. Possono essere anche strutture dell’intelligence. Questa sensazione che non ci sia corrispondenza fra il possesso del prigioniero e il possesso della documentazione per gli ultimi giorni ha dei riscontri oggettivi, insieme al fatto che è difficile pensare che Moro sia stato per 55 giorni in via Montalcini.

  GERO GRASSI. Ove ci sia mai stato.

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. Ammesso che ci sia mai stato. È difficilissimo pensare che abbia avuto un solo luogo di detenzione. Ci sono anche degli indizi della sua scrittura che dicono questo. Noi della vicenda abbiamo soltanto quello che ci Pag. 17dicono i brigatisti, la cui disponibilità alla menzogna è quantomeno accertata.

  PAOLO BOLOGNESI. Anch'io la ringrazio, della lezione. Io poi non sono professore e non sono storico.
  Nell'ambito della trattazione si è insistito molto sul discorso del partito non brigatista, e si sono toccate alcune parti, ma non si è mai toccato il discorso del ruolo che ha giocato il Vaticano all'interno di questa vicenda, che, per quello che ne sappiamo, è un discorso per la trattativa.
  Il personaggio che si diceva prima, al limite, se ha giocato, ha giocato una partita di freno ... Almeno sembra. All'interno di questo partito non brigatista, il Vaticano può aver giocato una parte attiva, o almeno alcuni elementi del Vaticano, anche di rilievo, possono aver giocato una partita importante?

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. Non saprei. Ho l'impressione di no. Cioè, al di là della posizione di Siri...

  PRESIDENTE. Non romperei le relazioni con uno Stato estero.

  PAOLO BOLOGNESI. No, alcuni elementi.

  PRESIDENTE. Ecco, alcuni elementi in senso generale.

  PAOLO BOLOGNESI. Aspetti: quando parliamo di Siri, non è che parliamo del Vaticano. Mi spiego?

  PRESIDENTE. Ci riferiamo ad alcuni elementi.

  PAOLO BOLOGNESI. Il discorso è chiaro. Mi riferisco allo IOR, a Marcinkus e a tutta questa banda incredibile, eccetera. Allora, la domanda è non tanto come Stato del Vaticano in sé. Come Stato del Vaticano noi sappiamo che il Papa ha operato in un certo modo. C'era una trattativa in corso.

  PRESIDENTE. Era solo una precisazione.

  PAOLO BOLOGNESI. Va bene. Vaticano inteso in senso molto largo.

  GERO GRASSI. Vorrei sottolineare una cosa. Lo dico all'onorevole Bolognesi: nel caso Moro terminologie come «Democrazia Cristiana», «Partito Comunista», «Stato» e «Vaticano» sono inammissibili, perché sono entità tanto grandi che contengono tutto e il contrario di tutto. Quindi, bisogna dire non «il Vaticano», bensì dire: padre Morlion, lo IOR, Marcinkus, il vescovo tal dei tali, perché poi noi abbiamo una serie di soggetti, iniziando dal Papa, di cui sappiamo – lo abbiamo anche sentito qui da monsignor Fabbri a proposito di don Curioni – tutto quello che hanno fatto per salvare Moro. Quindi, noi dobbiamo sempre personalizzare.

  PAOLO BOLOGNESI. Ha ragione, però...

  GERO GRASSI. Lo dico perché chi ascolta o chi legge dice «il Vaticano». Non è il Vaticano, perché il Vaticano era Siri, era Benelli, era Pappalardo, era Nicodemo...

  PRESIDENTE. Per essere precisi, nella Chiesa, è il Papa che conta.

  PAOLO BOLOGNESI. Sono d'accordo che parlare del Vaticano non va bene, però, nel momento in cui noi parliamo dello IOR, che è lo strumento finanziario del Vaticano...

  GERO GRASSI. No, lo IOR non entra perché strumento finanziario del Vaticano. Lo IOR entra perché il cardinale che gestisce lo IOR, Marcinkus, è un uomo della CIA. È una cosa diversa. Entra per la CIA, non per il Vaticano. Come padre Morlion è un sacerdote, ma non entra per la tonaca.

  PRESIDENTE. Per precisione, Marcinkus non era cardinale. Non diventò mai cardinale.

  GERO GRASSI. Va bene, vescovo. Pag. 18
  Padre Morlion è un sacerdote, ma è il capo degli agenti della CIA, tant'è che padre Morlion con chi flirta? Con Conforto, che è uno degli agenti del KGB. Quindi, è prevalente l'aspetto investigativo-spionistico su quello ecclesiastico.

  PRESIDENTE. Io devo fare un'ultima domanda al professore.

  PAOLO BOLOGNESI. Aspetti che mi risponda. Avevo chiesto che cosa ne pensa, se può essere...

  FRANCESCO MARIA BISCIONE. Vedo che l'onorevole Grassi ha fatto all'onorevole Bolognesi la stessa obiezione che ha fatto a me: «Non si può generalizzare», e ha perfettamente ragione. Io ho la sensazione che questo aspetto, del circuito Gelli-Calvi-Sindona-Marcinkus in relazione alla vicenda Moro, avrebbe bisogno di una dilatazione un po’ particolare, cioè di un approfondimento degli studi. In ogni caso, ho la sensazione che non sia Marcinkus la figura chiave in questa dinamica. Però, di nuovo, come dire, le mie sono le sensazioni di un lettore, prive di elementi analitici.

  PRESIDENTE. Mi dica una cosa, dal punto di vista storiografico. Oggi abbiamo discusso di ipotesi e non di fatti. Dai fatti che abbiamo, abbiamo costruito delle ipotesi. Nel periodo del 1978, lei giustamente dice che con la morte di Moro c'è l'attentato alla democrazia repubblicana com'era nata, con il patto costituente. La strategia della tensione, le bombe, le stragi hanno un'interpretazione, per analogia con altri fatti, come tentativo di imprimere una sterzata di tipo più o meno autoritario o più o meno di riduzione della democrazia repubblicana costituente, che in altri Paesi ha vista attiva sicuramente l’intelligence americana pre-Carter e che, quindi, potrebbe benissimo aver avuto rapporti anche con le nostre vicende della strategia della tensione. Quando Moro perde due anni per tentare il compromesso storico... Era pronto a cooperare con Berlinguer... Già dal 1976 avevano maturato l'ipotesi, capendo che la fine del sistema politico era imminente. La fine era imminente, secondo me, anche se Moro non fosse morto. Magari ci sarebbe voluto più tempo, ma che non reggeva più quel sistema dei partiti senza uno shock di cambiamento profondo era chiaro.
  Questa naturalmente è una mia ipotesi. Però, è indiscusso che Moro arriva al governo delle larghe intese perché quei due anni gli servono per tessere una rete di alleanze che porti gli Stati Uniti e la NATO – non Pieczenik, ma la nuova amministrazione Carter – alla convinzione che alle soglie della seconda guerra fredda l'eurocomunismo sia utile... tant'è vero che il documento del PCUS del gennaio del 1978, quando dice che bisogna fermare con ogni mezzo l'eurocomunismo... vuol dire che comprendono che è un uno a zero per la strategia, come si diceva allora, della libertà nel mondo. Poi ognuno l'interpreta come gli pare. Comunque questa cosa si realizza.
  Non è pensabile, visti gli atteggiamenti che il PCUS aveva avuto nei riguardi del Partito Comunista Italiano che alcuni Paesi dell'Est o i loro Servizi, se con una parte hanno interagito, abbiano fatto delle BR un uso per loro utile in chiave non solo anti-PCI italiano, ma anche in chiave autonoma rispetto all'URSS? Perché dico questo? Perché io ho avvertito nei dibattiti svoltisi fino a tempi recenti, quando c'era una maggiore preoccupazione ideologica per affetto ai partiti che non ci sono più, una preoccupazione, che anche oggi esiste, anche se siamo tutti molto più liberi. Da una parte c'era la preoccupazione dell'onorabilità della linea della fermezza e dello Stato. Ricordiamoci che la DC ha incarnato la linea della fermezza e il PCI altrettanto. Se si fosse appreso che questa onorabilità era stata incrinata da trattative, da tentativi da mediazione o quant'altro, ne avrebbe pagato. Dall'altra parte, c'era un'onorabilità della distinzione tra PCI e BR, che andava difesa.
  Allora, io credo che queste due onorabilità abbiano portato – parlando del memoriale Morucci-Faranda e delle verità giudiziarie – a un seppellimento di diversi elementi. Cioè, se usciva fuori il coinvolgimento Pag. 19 di un servizio segreto dell'Est avrebbe creato l'apprensione dell’«Ecco, sono loro. È una costola loro». Dall'altra parte si sarebbe invece detto: «Ma non c'era solo quello, c'erano anche quelli occidentali».
  Questo, secondo me, è un altro degli elementi che hanno pesato sulla ricostruzione. Lei dice che sono usciti una serie di testi importanti che mettono in discussione finalmente il memoriale Morucci-Faranda, però, diciamo la verità, giusto per rivendicare il lavoro di questa Commissione: il memoriale Morucci-Faranda entra in crisi in maniera precisa da quando noi incominciamo a dimostrare che dal tamponamento a una serie di altre cose, che adesso è inutile elencare, nel memoriale sono state dette cose che servivano e non sono state dette cose che non servivano. Su questo noi abbiamo visto che molti stanno, fortunatamente, cambiando idea.

  PAOLO BOLOGNESI. Per capirci, presidente, lei ritiene possibile che, nel momento in cui è stato costruito il memoriale, ci sia stata anche la mano del PCI in qualche modo?

  PRESIDENTE. No, è una cosa diversa. Il memoriale l'hanno scritto quelli che lo dovevano scrivere. Si sono tenute due linee. Oggi noi discutiamo più liberamente, ma nel passato, a mio avviso, c'è stata una grande preoccupazione da parte del PCI per sancire che non c'entrava niente con le BR e per evitare la strumentalizzazione politica. Da parte della DC, c'è stata la tendenza a dire: «Noi abbiamo sposato la linea della fermezza, anche se era uno di noi, senza “se” e senza “ma”, senza cedimenti alla trattativa».
  Molto probabilmente la preoccupazione che quelle onorabilità potessero venire minimamente incrinate dall'irruzione di qualche elemento ha prevalso sulla voglia di fare chiarezza appieno. Ognuno ha difeso la propria linea e questo ha gravato pure, secondo me, sugli accertamenti. Morucci e Faranda l'hanno scritto loro il memoriale...

  PAOLO BOLOGNESI. D'accordo, ma, nella legge sulla dissociazione, che è servita anch'essa per chiudere bene tutto il pacchetto, molto probabilmente sono intervenute più forze – giusto? – non soltanto la DC.

  GERO GRASSI. Il gioco lo hanno condotto i due partiti maggiori, DC e PCI. Come dice il presidente, ognuno dei due partiti ha tentato di salvare il proprio punto di debolezza, ma la gestione del caso Moro, dagli atti, l'hanno fatta due persone in quei due partiti, uno da parte e uno dall'altra.
  Non facciamo finta di non ricordare il documento della Fondazione Spadolini, la telefonata Cossiga-Spadolini, le nomine dei Servizi fatte prima del giugno 1976 e soprattutto non dimentichiamoci il decreto-legge del 21 marzo 1978, che un PCI normale non avrebbe fatto passare nemmeno con i carri armati. Invece, quel decreto fu approvato all'unanimità ed era il decreto che «sospendeva» l'autorità giudiziaria romana.

  PRESIDENTE. Io non parlo di attribuzione di responsabilità. Io dico che, se noi fossimo stati commissari di quella Commissione, con la libertà che abbiamo oggi, la messa in discussione di Morucci e Faranda, della loro verità, l'avremmo fatta. Allora invece si è disquisito dell'ultroneo e dei massimi sistemi.

  GERO GRASSI. La DC offre Remigio Cavedon per fargli scrivere il memoriale. Il vicedirettore del Popolo va a scrivere il memoriale con Morucci e Faranda. A voi sembra normale una cosa del genere? C'è qualcosa che non quadra.

  PRESIDENTE. Allora c'è anche da capire: perché Morucci e Faranda accettano di scriverlo? Va bene, ne parliamo a relazione finita, ma forse era un percorso che era nato da tempo.

  PAOLO BOLOGNESI. C'è da chiedersi questo: come mai nella precedente Commissione Moro queste cose non sono emerse?

Pag. 20

  PRESIDENTE. L'ho spiegato fino adesso. È cambiato il mondo.

  GERO GRASSI. Vorrei dire all'onorevole Bolognesi che la Democrazia Cristiana, partito nel quale io ho militato, proibì ai deputati pugliesi di far parte della prima Commissione d'inchiesta sul caso Moro. La Democrazia Cristiana, dopo la fine della prima Commissione Moro, non ricandidò il proponente di quella Commissione, il senatore Vittorio Cervone. Se noi non riusciamo a capire che nel cambio del mondo quello era tutto un messaggio... Lì giocavano, nella prima Commissione, gli uni e gli altri, e ci hanno dato un prodotto che è sostanzialmente artefatto.

  PRESIDENTE. Se noi abbiamo un memoriale nel quale ci sono una serie di lacune, la domanda a cui dobbiamo dare una risposta è: siccome chi c'era allora era rispetto a me sicuramente più competente, più capace e anche più padrone della materia, visto che si trattava di avvenimenti molto recenti, se non ha avuto i miei dubbi e i miei sospetti, ci deve essere un motivo...
  Io ho cercato di farmi questa domanda e mi sono risposto che oggi noi, fortunatamente, abbiamo solo l'interesse, se ci si riesce, di illuminare una pagina di storia che ha chiuso trent'anni di storia repubblicana (come ha detto il professor Biscione). Siccome la mancanza di verità è una sottrazione di futuro, in parte mia, ma sicuramente per i miei figli e i miei nipoti, mi sono domandato: perché? Credo che, se riuscissimo a tornare indietro di trent'anni, troveremmo che c'erano preoccupazioni di fondo, rispetto al corpo elettorale, per due anni i più grandi partiti popolari e di massa avevano convinto i propri elettori e cittadini che quella era la soluzione per rilanciare e rifondare la seconda fase della Costituzione italiana. Nel momento in cui questa cosa viene meno, non c'è solo la morte di Moro, ma c'è lo smarrimento del dopo.
  Già mentre Moro viene rapito, tenuto e poi ammazzato, c'è la costruzione del futuro e nella costruzione del futuro il dibattito – io lo chiamo così perché non mi viene un altro termine – sul patrimonio reputazionale delle forze politiche, sull'onorabilità della coerenza, sul tributo di sangue pagato e sulla netta separazione e scissione tra le responsabilità delle BR e quelle dall'altro partito. Tutto ciò ha fatto sì che anche la minima incrinatura sembrasse un dramma. Questo, secondo me, ha gravato sul modo in cui sono state lette e approfondite le carte.
  Faccio questo ragionamento perché ogni giorno che andiamo avanti troviamo cose che non funzionano. I magistrati non hanno guardato? No, è che semplicemente è cambiato il mondo e oggi siamo più liberi. Invece che vederlo al buio, lo vediamo con un po’ di luce. Non è che siamo più bravi, siamo solo più liberi dai condizionamenti.

  PAOLO BOLOGNESI. Forse non si poteva neanche, allora.

  PRESIDENTE. Bravo, hai usato la parola giusta.
  Ringrazio il professor Biscione e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 16.