XVII Legislatura

Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro

Resoconto stenografico



Seduta n. 58 di Mercoledì 4 novembre 2015

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 2 

Audizione di Gianremo Armeni:
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 2 
Armeni Gianremo  ... 4 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 4 
Armeni Gianremo  ... 4 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 14 
Armeni Gianremo  ... 15 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 15 
Armeni Gianremo  ... 15 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 15 
Armeni Gianremo  ... 15 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 15 
Armeni Gianremo  ... 15 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 15 
Armeni Gianremo  ... 15 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 15 
Armeni Gianremo  ... 15 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 15 
Armeni Gianremo  ... 15 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 15 
Armeni Gianremo  ... 16 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 16 
Armeni Gianremo  ... 16 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 16 
Armeni Gianremo  ... 16 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 17 
Corsini Paolo  ... 17 
Armeni Gianremo  ... 17 
Grassi Gero (PD)  ... 17 
Armeni Gianremo  ... 17 
Grassi Gero (PD)  ... 17 
Armeni Gianremo  ... 17 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 17 
Armeni Gianremo  ... 17 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 17 
Grassi Gero (PD)  ... 17 
Piepoli Gaetano (PI-CD)  ... 17 
Grassi Gero (PD)  ... 17 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 17 
Grassi Gero (PD)  ... 17 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 17 
Grassi Gero (PD)  ... 18 
Armeni Gianremo  ... 18 
Grassi Gero (PD)  ... 18 
Armeni Gianremo  ... 18 
Grassi Gero (PD)  ... 18 
Armeni Gianremo  ... 18 
Grassi Gero (PD)  ... 18 
Armeni Gianremo  ... 18 
Grassi Gero (PD)  ... 18 
Armeni Gianremo  ... 18 
Grassi Gero (PD)  ... 18 
Armeni Gianremo  ... 18 
Grassi Gero (PD)  ... 18 
Armeni Gianremo  ... 18 
Grassi Gero (PD)  ... 18 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 18 
Grassi Gero (PD)  ... 18 
Armeni Gianremo  ... 19 
Grassi Gero (PD)  ... 19 
Armeni Gianremo  ... 19 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 19 
Lavagno Fabio (PD)  ... 19 
Grassi Gero (PD)  ... 19 
Lavagno Fabio (PD)  ... 20 
Grassi Gero (PD)  ... 20 
Lavagno Fabio (PD)  ... 20 
Armeni Gianremo  ... 20 
Lavagno Fabio (PD)  ... 20 
Gotor Miguel  ... 21 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 21 
Gotor Miguel  ... 21 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 22 
Gotor Miguel  ... 22 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 22 
Gotor Miguel  ... 22 
Lavagno Fabio (PD)  ... 23 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 23 
Armeni Gianremo  ... 23 
Gotor Miguel  ... 24 
Armeni Gianremo  ... 24 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 24 
Grassi Gero (PD)  ... 25 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 25 
Grassi Gero (PD)  ... 25 
Armeni Gianremo  ... 25 
Grassi Gero (PD)  ... 25 
Armeni Gianremo  ... 25 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 25 
Grassi Gero (PD)  ... 25 
Gotor Miguel  ... 25 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 25 
Gotor Miguel  ... 25 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 25 
Gotor Miguel  ... 25 
Armeni Gianremo  ... 25 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 25 
Armeni Gianremo  ... 25 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 26 
Armeni Gianremo  ... 26 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 26 
Armeni Gianremo  ... 26 
Gotor Miguel  ... 26 
Armeni Gianremo  ... 26 
Gotor Miguel  ... 26 
Armeni Gianremo  ... 26 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 26 
Armeni Gianremo  ... 26 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 26 
Gotor Miguel  ... 26 
Armeni Gianremo  ... 26 
Gotor Miguel  ... 26 
Armeni Gianremo  ... 26 
Gotor Miguel  ... 26 
Armeni Gianremo  ... 26 
Gotor Miguel  ... 27 
Armeni Gianremo  ... 27 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 27 
Armeni Gianremo  ... 27 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 27 
Armeni Gianremo  ... 27 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 27 
Armeni Gianremo  ... 27 
Gotor Miguel  ... 27 
Armeni Gianremo  ... 27 
Gotor Miguel  ... 27 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 27 
Armeni Gianremo  ... 27 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 28 
Armeni Gianremo  ... 28 
Fioroni Giuseppe , Presidente ... 28

Testo del resoconto stenografico
Pag. 2

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIUSEPPE FIORONI

  La seduta comincia alle 14.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori sarà assicurata anche mediante l'attivazione dell'impianto audiovisivo a circuito chiuso.

Audizione di Gianremo Armeni.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del dottor Gianremo Armeni, che ringraziamo per la cortese disponibilità con cui ha accolto il nostro invito a intervenire oggi nella seduta della Commissione.
  Il dottor Armeni ha dedicato numerosi studi all'approfondimento del fenomeno del terrorismo, con particolare riferimento alla storia delle Brigate Rosse e alle iniziative adottate per contrastarne l'azione. Su queste tematiche ha pubblicato nel 2004 il volume La strategia vincente del generale Dalla Chiesa contro le Brigate Rosse e la mafia. Successivamente, nel 2009 ha dato alle stampe Romanzo brigatista, un'opera narrativa definita dallo stesso Armeni come «un amalgama di fatti storici ed elementi mitologici scaturiti dalla pura fantasia dell'autore», che trae spunto dalle dichiarazioni di Alberto Franceschini. Nel 2010 ha pubblicato Buone regole. Il vademecum del brigatista, che si sofferma sulle norme di comportamento degli appartenenti alle Brigate Rosse.
  Per quanto concerne più direttamente la materia oggetto della nostra inchiesta, nel 2015 il dottor Armeni ha pubblicato Questi fantasmi. Il primo mistero del caso Moro, che riguarda principalmente la nota vicenda della motocicletta Honda con a bordo due persone vista transitare da alcuni testimoni il 16 marzo 1978 subito dopo l'agguato.
  Ricordo, inoltre, che il 25 ottobre scorso il dottor Armeni ha inviato al deputato Lavagno, che l'ha trasmessa alla Commissione, una relazione basata su atti giudiziari dell'istruttoria del 1978 concernente alcuni manoscritti di Valerio Morucci rinvenuti presso l'abitazione di Leonarda Faggioli, con cui Morucci aveva intrattenuto una relazione fino al 1973, e presso il covo di viale Giulio Cesare.
  Nella relazione si prendono in considerazione due spunti di indagine. Il primo riguarda la frequentazione da parte di Morucci delle zone limitrofe a via Fani in un periodo ben precedente al marzo 1978, come testimonierebbero appunti di nominativi e indirizzi e l'episodio di un furto d'auto.
  Il secondo spunto d'indagine muove dall'elenco di nomi e indirizzi e da uno schizzo planimetrico che riconducono all'area del Portico d'Ottavia. Su tale circostanza invito il dottor Armeni a fornire maggiori dettagli, se ne ha, e a soffermarsi anche sul tema – che, come ricorderete, ci venne segnalato già nell'audizione del senatore Pellegrino – delle simpatie che soprattutto nella prima fase della loro attività le Brigate Rosse riscuotevano presso alcuni ambienti dell'alta borghesia romana e milanese.
  Chiedo, inoltre, al dottor Armeni di riferire alla Commissione ogni eventuale elemento di novità emerso nel corso delle Pag. 3sue ricerche, prescindendo tuttavia dalla nota questione dell'integrità del parabrezza del motoveicolo dell'ingegner Alessandro Marini, con riferimento alla quale la Commissione, sulla base di un autonomo percorso, ha acquisito evidenze documentali analoghe a quelle da lui segnalate.
  In modo particolare, vorrei che rispondere ad alcuni quesiti.
  Sulla base dei suoi studi, le Brigate Rosse nell'agguato di via Fani e nella gestione del sequestro Moro seguirono le loro abituali modalità operative, oppure si possono rilevare aspetti di discontinuità rispetto alla loro prassi quale risulta dalle altre azioni compiute in quegli anni ?
  La ricostruzione dell'agguato di via Fani contenuta nel cosiddetto memoriale Morucci è attendibile, secondo i risultati delle sue ricerche, o presenta aspetti poco credibili, ed eventualmente quali ?
  Nel distinguere tra il «cospirazionismo a oltranza», che impedisce la piena comprensione degli eventi, e la «dietrologia di valore», che invece aiuta a riscontrare ogni ipotesi, lei non esclude che nella vicenda del sequestro e dell'omicidio di Aldo Moro vi siano aspetti ancora da chiarire. Può dirci, a suo giudizio, quali sono ?
  Alcune delle pagine del suo volume Questi fantasmi sono dirette a dimostrare il carattere non genuino della nota lettera anonima recapitata al quotidiano La Stampa nel 2010. In proposito, ritiene che la missiva sia opera di un mitomane che «ha spedito la lettera quando era ancora in vita» e che «voleva si cercasse se stesso»; formula, inoltre, la previsione – con la quale conclude il suo libro – che «altri mitomani continueranno a proliferare, proprio perché hanno fiutato la sensazionalità e il clamore che orbitano da sempre attorno a questo pezzo di storia italiana; hanno anche imparato che è sufficiente un livello di ingegnosità alquanto mediocre per ottenere udienza».
  Da queste sue parole sembrerebbe che lei attribuisca la paternità dell'anonimo allo scomparso Antonio Fissore. Conferma questa nostra impressione ? Le risultano altri scritti anonimi ? In caso affermativo, da quale area geografica provengono ?
  Dalle sue ricerche quali eventi sono emersi con riferimento alla figura del Colonnello Camillo Guglielmi e alla sua presenza in prossimità del luogo della strage del 16 marzo ?
  Il fatto che il parabrezza del motociclo dell'ingegner Marini non sia stato colpito da colpi d'arma da fuoco non esclude necessariamente la possibilità che gli occupanti della moto Honda abbiano partecipato all'agguato di via Fani. Nel suo libro del 2015 sul caso Moro, invece, lei esclude che la motocicletta abbia avuto un qualunque ruolo attivo nella strage. Può illustrare sinteticamente le ragioni di questa sua convinzione ?
  Si immagini se io, per vivacizzare, le dicessi che le moto erano due. Qui si aprirebbe un dibattito folcloristico. Purtroppo, dalle dichiarazioni a verbale – leggo solo quelle – le moto sono descritte come se fossero due, ma questo sarà oggetto di una specie di incidente probatorio che, me ne vado convincendo, insieme con la Procura di Roma dovremo fare sul posto con i sopravvissuti.
  Come valuta l'ipotesi che gli occupanti della motocicletta Honda fossero due militanti del Comitato proletario di Primavalle Giuseppe Biancucci e Roberta Angelotti, conosciuti anche con gli pseudonimi di Peppo e Peppa ?
  Con riferimento all'uccisione dell'agente Iozzino, a pagina 250 del suo volume del 2015 sul caso Moro lei afferma: «Credo che Moretti e Morucci la storia l'abbiano raccontata in modo puntuale, ma soltanto con riferimento alla prima parte, quella in cui Bonisoli spara con la sua pistola. Qualora non esistesse un uomo in più rispetto ai dieci del commando già noti in sede giudiziaria, resterebbe in piedi un'unica spiegazione: il solo ad aver fatto fuoco contro il poliziotto potrebbe essere stato unicamente Alessio Casimirri (sceso dalla 128 bianca proprio in diagonale dietro l'Alfetta ?), e uno dei due mitra FNA 43 era in suo possesso, sconfessando in tal modo sia Moretti che Morucci».Pag. 4
  Può chiarire le ragioni di questa sua valutazione ? Più in generale, qual è stato, sulla base degli elementi a sua disposizione, il ruolo di Casimirri e Lojacono nella strage di via Fani e nelle fasi preparatorie e poi di gestione del sequestro ?
  Con riferimento alla Austin Morris parcheggiata in via Fani, a pagina 45 del suo volume del 2015 sul caso Moro lei esclude che l'autovettura, in quella posizione, potesse costituire un ostacolo per un'eventuale manovra di fuga della Fiat 130 con a bordo Moro. Può illustrarci le ragioni di questa sua valutazione ?
  Le do la parola. Alle domande mi sembra che abbia tempo per rispondere. Poi ci sono tutti i colleghi che vorrebbero fare qualche domanda. Sia sintetico, per favore.

  GIANREMO ARMENI. Grazie a lei, signor presidente. Buonasera, signor presidente e gentili membri della Commissione. In merito ai quesiti che lei mi ha rivolto io ho redatto una relazione che consta di 13 pagine in cui ci sono le risposte alla maggior parte dei suoi quesiti. Qualora ne dovessi dimenticare qualcuno, perché non ho l'elenco sottomano, la pregherei di ricordarmelo.
  Le volevo anche dire che la relazione che ho portato oggi non si basa unicamente sul testo che ho pubblicato ad aprile di quest'anno. Vi sono contenute nuove analisi, relative sia a scoperte che ho fatto in merito alla Honda, sia a una mia – forse – suggestione sulla Renault 4 rossa.
  Chiederei di leggerla con calma, perché vi sono spiegati molti dei quesiti.

  PRESIDENTE. La acquisiremo.

  GIANREMO ARMENI. Grazie innanzitutto per avermi concesso l'onore di esporre in una sede istituzionale i risultati della mia ricerca, contenuta nel saggio dal titolo Questi fantasmi. Il primo mistero del caso Moro, pubblicato da Tra le righe libri. Lo considero un grande traguardo.
  Vorrei iniziare con un breve incipit sulle insidie che nasconde il monumentale complesso informativo accumulato sul caso Moro e su una certa didattica che ho tratto da questa esperienza, allo scopo di stimolare una dialettica che possa contribuire a favorire maggiori conoscenze.
  Dagli anni della tesi di laurea, periodo in cui per la prima volta mi sono imbattuto nel groviglio dell’affaire, è trascorso un arco temporale durante il quale con passione ho studiato e analizzato tutto il patrimonio documentale, faldone per faldone, dalle Commissioni d'inchiesta alle monografie, dalla documentazione relativa ai cinque processi Moro ai cosiddetti processi «7 aprile» e «Metropoli», forieri anch'essi di informazioni rilevanti. Questa visione omogenea mi ha insegnato che le carte, sterminate, possono nascondere indicazioni che potrebbero di volta in volta rimettere in discussione teoremi più o meno condivisi e, in alcuni casi, persino le sentenze giudiziarie.
  Tutti gli organi inquirenti – magistratura, Commissioni parlamentari e forze dell'ordine – e tutti gli studiosi che si sono cimentati in questo dedalo della storia d'Italia hanno contribuito ad accrescere il livello del sapere e a gremire gli archivi di carteggi imponenti. Frammenti di realtà disseminati nei diversi registri e schedari potrebbero acquistare un valore probatorio eccezionale, qualora si riuscisse a metterli in congrua comunicazione con contesti di indagine dotati di maggiore organicità e soprattutto a ricongiungerli con l'evoluzione delle conoscenze in materia.
  Risulta assai ardua l'operazione di inquadrare in determinate categorie tutte le informazioni di cui un settore di indagine necessita per offrire agli inquirenti un quadro sistematico, al fine di aprire nuovi scenari, ma anche per demolire definitivamente tesi incontrollate e fantasiose, scarsamente incisive sotto il profilo della fondatezza e, per questo, agevolmente confutabili.
  L'inchiesta sulla moto Honda e sul teste Marini è consistita principalmente proprio nella ricerca ossessiva e dettagliata di tutte le nozioni che potessero rendere il lavoro il più organico possibile. Pag. 5Una trattazione basata sull'apporto parziale delle fonti avrebbe condotto inesorabilmente a conclusioni nebulose, un po’ come edificare una casa sulle sabbie mobili. Se io avessi limitato l'apprendimento allo studio degli atti giudiziari o dei volumi prodotti dalle Commissioni, non avrei trovato il documento connesso all’iter del parabrezza, che nega senza appello la presenza di indagini peritali sul famoso reperto.
  Il caso Moro viene trattato prevalentemente dal punto di vista investigativo ed è chiaro che non si possa prescindere anche da quegli elementi isolati che potrebbero inficiare o avvalorare una determinata ipotesi di lavoro. Un paio di esempi potranno rappresentare la cartina di tornasole di ciò che io ho inteso sostenere con questa introduzione, che considero propedeutica alla discussione che seguirà.
  La prima dimostrazione è possibile rintracciarla nell'indagine svolta dall'ispettore di Polizia Enrico Rossi in merito alla famosa lettera anonima. In questa sede egli ha espressamente fatto riferimento alle difficoltà incontrate nel reperimento della documentazione e ha detto di aver sopperito a tale impedimento attraverso il supporto del web. Sono scogli tangibili, non riconducibili al suo operato o alle sue volontà, e ha tutta la mia comprensione, come ho avuto modo già di sottolineare nel testo. Qualora il signor Enrico Rossi avesse avuto la possibilità di avere un accesso privilegiato non dico a tutto il complesso informativo, perché gli ci sarebbero voluti comunque anni di studio, ma proprio a quei dati strutturati, omogenei ed esaustivi di una stessa area di interesse, avrebbe acquisito due informazioni cruciali che avrebbero smascherato le reali intenzioni di un anonimo, indaffarato evidentemente a schernire un pezzo sacro della storia del nostro Paese.
  In primo luogo, avrebbe intuito, da buon poliziotto qual è, che le dichiarazioni del teste Marini presentavano un tale livello di confusione e ambiguità da lasciar presagire che l'appendice del tentato omicidio ai suoi danni potesse essere stata soltanto una suggestione. Per citare solo un esempio, le inversioni della posizione dei due passeggeri della moto da parte di Marini non sono mai state due, come sostenuto dall'ispettore Rossi e, prima di lui, da altri osservatori che hanno rimarcato questa anomalia, bensì un minimo di cinque. Già questo mi pare indicativo.
  Oltre a ciò, l'ispettore si sarebbe reso conto che nella missiva era contenuta una locuzione che più di ogni altra avrebbe confutato tutta la costruzione dell'apparato scenico allestito dall'anonimo, ossia: «Il nostro compito era quello di proteggere le BR da disturbi di qualsiasi genere». La moto non ha protetto nulla e nessuno. L'anonimo ha semplicemente rimodellato a suo gradimento non il dato reale, che evidentemente non poteva conoscere, non essendo mai stato presente in via Fani quel 16 marzo, ma quello distorto.
  La documentazione, difatti, sconfessa le tesi più diffuse sulla posizione occupata dalla moto durante l'attacco e sulla funzione attiva che avrebbe avuto. Nelle varie ricostruzioni possiamo trovare le seguenti ipotesi sul ruolo della Honda: funzione di controllo, di protezione, di staffetta e via dicendo. Stando alle dichiarazioni degli unici due testimoni che notarono il passaggio della motocicletta, Intrevado e Marini – nel prosieguo spiegherò perché non contemplo né Luca Moschini né Bruno Barbaro – mentre l'azione era in corso, il mezzo non era presente nella zona interessata. Sopraggiunse soltanto a sequestro concluso, dalla parte alta di via Fani, dopo che le auto del commando avevano già preso la via di fuga.
  Un secondo punto fermo delle loro dichiarazioni è costituito dal leggero ritardo, forse un minuto, con cui la moto giunse all'incrocio rispetto all'allontanamento del convoglio brigatista. Questi sono dati di fatto e solo all'interno di queste evidenze io ho ritenuto di dover svolgere le mie analisi.
  Se la moto avesse avuto un ruolo di copertura, perché non coprire settori più Pag. 6strategici ? Con buona probabilità la moto si trovava a una distanza superiore a 100 metri dall'incrocio, perché, se avesse orbitato nel segmento compreso tra l'edicola e le auto coinvolte nella sparatoria, molto probabilmente sarebbe stata notata da tutti quei testi oculari che riporto integralmente nel saggio. Restando lontano dalla scena, non avrebbe potuto assolvere a questa funzione, tra l'altro già ampiamente ricoperta dai due «cancelletti».
  A maggior ragione sarebbe stato più indicato piazzare la moto di sotto, dalla parte dell'incrocio, visto che c'era da controllare un quadrivio e non due sensi di marcia, che in realtà poi erano soltanto una direzione, perché dal basso il flusso era già bloccato dalla Balzerani.
  Se avesse dovuto presidiare la parte altissima di via Fani, in aggiunta al «cancelletto», creando quindi una doppia impermeabilizzazione, alla stessa stregua avrebbero dovuto piazzarne un'altra in basso e una nelle vie adiacenti. Faccio notare che oltre il cancelletto superiore non c'erano comandi di polizia da tenere sotto controllo o settori strategici da piantonare.
  I brigatisti iniziano a sparare, i mitra si inceppano e la moto non c’è. L'agente Iozzino esce dall'auto di scorta, spara due colpi e la moto non c’è. L'appuntato Domenico Ricci riesce a fare alcune manovre per tentare la fuga e la moto non c’è. Quale funzione, quindi, avrebbe potuto avere ? Ma soprattutto, cosa avrebbe protetto ?
  I due centauri giungono comodamente alla fine, quando non c’è più alcun contributo attivo da dare, e non esercitano neanche il ruolo di staffetta, perché restano dietro. Non si armonizza con gli elementi a disposizione nemmeno l'eventualità che volessero fornire protezione dalla parte posteriore, perché arrivarono dopo la fuga delle auto con a bordo l'onorevole Moro, con un leggero ritardo, consentendo ad Antonio Buttazzo di porsi all'inseguimento. Lo stesso Buttazzo alle sue spalle vide soltanto la 128 blu.
  La moto non venne mai notata dai passanti che si ritrovarono nelle zone interessate dal percorso di fuga, i quali videro le auto e gli avieri, ma nessuno si accorse di una moto che seguiva il convoglio. Le auto utilizzate per la fuga vennero ritrovate. Della motocicletta nessuna traccia.
  Peraltro, qualora il piano avesse previsto l'ingresso in scena della moto solo alla fine, magari per accodarsi alle auto del commando, cosa che non è comunque avvenuta, visto il ritardo temporale con cui è giunta – faccio notare che in quei frangenti, con le auto che partirono sgommando ad alta velocità, anche dieci secondi di ritardo avrebbero rappresentato un tempo enorme per poter fornire un supporto in coda – comunque questo momento conclusivo dell'azione i motociclisti avrebbero potuto soltanto presumerlo dalla cessazione degli spari, sperare che tutto fosse andato a buon fine senza il loro contributo, calcolare poi il tempo del trasbordo e arrivare con un tempismo perfetto, perché, venendo da un punto oltre l'edicola (non saprei dire dove esattamente), la visuale non era ottimale per seguire le dinamiche.
  Insomma, se questa moto avesse avuto un ruolo, quale sarebbe stato ? Non spara, non fa da vedetta, non fa da battistrada, non partecipa all'agguato, non protegge le BR, non viene mai individuata. Su una ventina di testimoni oculari la notano soltanto in due e in trentasette anni non si sono mai fatti passi in avanti nell'acquisizione di maggiori conoscenze, tranne illazioni e l'ipotesi della presenza dei due autonomi romani.
  Al riguardo voglio spiegare perché questa tesi, almeno per il sottoscritto, presenta tracce di plausibilità, ma anche qui voglio cercare di ragionare, non di persuadere. Non voglio buttare giù dalla sella in modo arbitrario altri due potenziali complici per farci salire a tutti i costi Biancucci e Angelotti. I miei studi sono sempre alla ricerca della massima obiettività, in linea con la bontà del metodo storiografico, anche se non ho la presunzione di focalizzarla sempre.
  Presso l'Archivio di Stato ho trovato un rapporto dei Carabinieri in cui erano presenti Pag. 7i dati anagrafici dei suddetti. Abitavano entrambi in via Stresa, a poca distanza l'uno dall'altra. Alcune fonti, che io ritengo attendibili, – ma sarebbe auspicabile farlo in forma ufficiale e definitiva presso il PRA – mi assicurano che il famoso Peppo nel 1978 possedesse una moto Honda di grossa cilindrata, non saprei dire di quale colore. Questo potrebbe spiegare perché nessun altro testimone vide il mezzo dopo aver svoltato all'incrocio, compreso Buttazzo, che si pose all'inseguimento delle auto. Corrisponde la moto, corrispondono gli indirizzi di casa. È un po’ difficile immaginare che non fossero loro.
  A maggior ragione la moto non sarebbe passata inosservata se a bordo ci fosse stato un uomo con il passamontagna. Questo personaggio, che i testimoni non vedono sparare un solo colpo – altro che super killer – viene notato da una testimone, la signora Fantasla Marcelina, nella 128 bianca durante la fuga.
  Tornando alla questione che ho lasciato in sospeso riguardo il medico Luca Moschini, dissento da una frase che ha fatto storia: «Una moto è stata vista prima, durante e dopo l'agguato». Concordo sul fatto che una moto, non la moto, sia stata vista prima e concordo sul fatto che la moto sia stata vista dopo. Escludo nel modo più assoluto che la moto, non una moto, sia stata vista durante l'azione stragista. Vederla dopo non aumenta comunque le probabilità di un suo coinvolgimento, anzi le riduce, come ho già commentato.
  Sono poi in disaccordo sul fatto che la moto vista prima sia la stessa di quella notata dopo l'allontanamento delle auto. Nel mio saggio non ho ritenuto congrua l'operazione di accomunare la moto vista dal medico a quella avvistata da Marini e Intrevado. Mentre questi ultimi convergono sulla cilindrata, il colore, la marca, la direzione di provenienza della motocicletta e il leggero ritardo temporale con cui si affacciò in quella che fino a un attimo prima era stata una scena del crimine, Moschini riferisce una serie di dettagli in netto contrasto: diverso il colore (bordeaux metallizzato), diversa la cilindrata (125, massimo 350), diversa la posizione (accanto al bar Olivetti), diverso l'orario (prima che iniziassero a sparare). Inoltre, egli è certo che fosse una marca giapponese, meno che si trattasse di una Honda.
  Questa mia impostazione ha suscitato un dibattito tra alcuni studiosi. Tuttavia, a chi legittimamente sostiene opinioni differenti vorrei chiedere di spiegare a me, attraverso argomentazioni solide e convincenti, non supposizioni, perché avrei dovuto optare per l'altra tesi. Non posso associare due mezzi che in comune hanno soltanto due ruote. Il fatto che Moschini abbia aggiunto che la moto si trovasse accanto a due avieri per me nulla toglie e nulla aggiunge, in primo luogo perché il termine «accanto» è troppo generico – non si capisce a che distanza fosse e se i due si fossero messi casualmente di fianco a una moto qualsiasi – e soprattutto perché accanto ai due avieri io dovrei posizionare una moto di cilindrata inferiore rispetto all'altra, ma soprattutto di colore bordeaux e non blu. Attenzione, perché il teste specificò che era metallizzata, sintomo del fatto che il particolare cromatico lo mise bene a fuoco, altro che potesse essersi confuso con il colore blu.
  Lo sforzo di associare le due moto non si esaurisce qui. Esiste un altro scoglio imponente, perché poi, per farla coincidere con quella proveniente dalla parte alta di via Fani ad azione conclusa, io sarei costretto a immaginare che, a un certo punto, la moto si fosse tolta dall'incrocio, avesse fatto il giro mentre gli altri sparavano e fosse poi nuovamente transitata per l'incrocio per farsi notare, nel caso in cui qualcuno non si fosse fin lì accorto del suo coinvolgimento, peraltro senza essere utile alla causa.
  Per potermi rappresentare queste proiezioni dovrei deformare il buon senso e la logica, nonché stravolgere le parole di un testimone. Come giustifico il comportamento così scriteriato dei due motociclisti, che, mentre i complici sterminano la Pag. 8scorta, fanno il giro del quartiere ? Mi sfuggono proprio lo scopo e la funzione di supporto.
  Suppongo che la magistratura abbia considerato la testimonianza di Luca Moschini poco rilevante, perché il teste è stato sentito solo in due occasioni, una prima volta dalla polizia giudiziaria, la seconda dal giudice istruttore; nella seconda occasione si è limitato a confermare quanto già reso in precedenza. A differenza di Intrevado e Marini, non fu chiamato a testimoniare al Moro uno, ma soltanto al quinquies, dove egli non si presentò. Il presidente della Corte disse che l'avrebbero risentito. Tuttavia, non esiste nella documentazione un'altra udienza in cui compare il suo interrogatorio e, per averne certezza, ho chiesto al cancelliere, Paolo Musio, di fare una verifica più approfondita, che ha dato esito negativo.
  Se un giorno dovesse emergere una nuova realtà basata su elementi probatori tali da accomunare verosimilmente questa moto con quella transitata dopo la fuga dei brigatisti, ne prenderò atto e sarò pronto a rivedere le mie posizioni. Allo stato attuale sono costretto a sviluppare analisi con i dati di cui dispongo.
  Lo stesso discorso vale, più o meno, per Bruno Barbaro, il quale si limitò a raccontare di aver visto una macchina scura seguita da una moto. Qui siamo proprio nel campo della massima genericità. Quale metodo storiografico dovrei adottare in questa circostanza ? Dovrei forse dire che Barbaro vide la nostra moto ? Su quali basi dovrei fare quest'associazione, visto che sono assenti tutti gli elementi geografici, caratteristici del mezzo e temporali ? A parte il fatto che poi, se avesse visto la Honda che interessa a noi, l'avrebbe notata al momento della fuga, perché egli si trovava in via Stresa, quindi nulla toglie e nulla aggiunge a quanto già si sapeva.
  Si è anche sostenuto che la moto fosse stata vista da Paolo Pistolesi, ma il figlio dell'edicolante si limitò a riferire come tra gli aggressori ci fosse un individuo che indossava una specie di passamontagna di lana, uno di quei sottocaschi da motociclista che servono a ripararsi dal freddo. Aggiunse che qualche giorno dopo i fatti vide passare davanti alla sua edicola per tre o quattro volte nell'arco di una mezz'ora un vespone, non una moto, e di colore grigio, non blu. Alla domanda secca e diretta se avesse visto una moto durante l'agguato rispose con un laconico «no».
  Per poter affermare che la moto abbia svolto un ruolo attivo ci vogliono altre prove che smontino la realtà documentale di cui ho parlato, perché l'unica prova regina che avrebbe costituito una ghigliottina a tutti i dubbi era rappresentata dal tentato omicidio ai danni di Alessandro Marini, evento che non si è mai verificato.
  Nella mia ricerca, per ragioni riconducibili unicamente al fatto che le informazioni che avevo scovato erano più che sufficienti a sostenere le tesi centrali, ho deliberatamente omesso alcune contraddizioni e singolarità che presentano le dichiarazioni di Giovanni Intrevado, il poliziotto a cui si inceppò l'arma di ordinanza. Credo, invece, che sia utile sviscerarle in questa sede.
  Com’è noto, della sua presenza in via Fani si ebbe notizia soltanto tre settimane dopo i tragici fatti, il 5 aprile, quando si presentò al suo superiore per raccontare di aver assistito agli ultimi frammenti dell'evento criminoso. Naturalmente, era già a conoscenza di notizie riguardo una moto con funzioni operative nell'attacco alla scorta.
  Non entrerò più di tanto nel merito della relazione redatta dal capitano, perché non si tratta comunque di dichiarazioni rese da Intrevado sotto giuramento. Faccio però notare, tornando al discorso di Moschini, che in questo rapporto si sostiene che Intrevado si fosse accorto di una moto ferma al centro bordo, appena venne fermato allo stop dalla Balzerani. Io confesso che non ho capito cosa significhi «centro bordo» dalla posizione in cui era lui.
  Questo significa che probabilmente c'era un'altra moto nei dintorni, ma soprattutto che avrebbero potuto essercene Pag. 9altre tre, quattro o cinque nei paraggi. Ciò non dimostra assolutamente nulla, se non la si riesce ad associare all'altra vista dopo la fuga dei brigatisti.
  Intrevado arriva al termine, quando stanno già caricando l'onorevole Moro sulla 132 e dopo qualche istante vede un'altra moto giungere dalla parte alta, perché dice che gli passò accanto mentre lui si avviava verso le auto e che si fermò a passo d'uomo per vedere meglio all'interno delle stesse.
  L’escalation informativa di Giovanni Intrevado è insolita. Testimonia dopo venti giorni dall'accaduto, per ragioni che tutti conosciamo, e personalmente non gliene faccio una colpa, né metto in dubbio la sua buona fede. Tuttavia, nel primo verbale, sottoscritto al cospetto del sostituto procuratore Infelisi, il 5 aprile, stessa data della relazione del suo superiore, sono assenti alcuni particolari fondamentali di cui dirò.
  Il verbale contiene solo una frase riguardo la moto: «Mentre io, ancora stravolto, uscivo dalla macchina e correvo verso le tre macchine ferme, mi sfrecciò vicino una moto di grossa cilindrata con due persone a bordo». Nient'altro.
  Quattro anni dopo, all'udienza del Moro uno, aggiunse che la moto gli passò accanto a una distanza di circa tre metri, facendo intuire che provenisse dalla parte alta di via Fani, perfettamente in linea con la testimonianza di Alessandro Marini. Alla domanda del presidente Santiapichi, volta a capire se egli fosse in grado di descrivere i due potenziali assassini, il teste rispose, lodevolmente, che quel giorno non era interessato a questi dettagli, bensì ai suoi colleghi, agonizzanti nelle auto, e di non poter fornire alcun elemento descrittivo dei due centauri, nemmeno il colore dei capelli, segno che questa moto la vide per decimi di secondo e in uno stato d'animo in preda al terrore, come da lui stesso confermato in più di un'occasione. Difatti, non fece neanche gli identikit. Gli vennero mostrate soltanto foto di donne perché raccontò di essere stato fermato e minacciato dalla donna in mezzo all'incrocio.
  Un testimone che non riesce a scorgere nemmeno un impercettibile dettaglio fisionomico di due soggetti che egli ritenne parte integrante nell'attacco, che non è in grado di acquisire un paio di numeri di targa perché comprensibilmente scosso dalla carneficina, e la cui unica preoccupazione sono le condizioni di salute degli agenti di scorta come può, quattordici anni dopo – e sottolineo quattordici anni dopo – all'udienza del Moro quinquies, affermare di aver notato il particolare del caricatore che fuoriusciva dall'ascella del passeggero ? E perché un dettaglio così basilare è stato omesso nelle precedenti dichiarazioni ? Vorrei porre l'accento su quest'anomalia perché è proprio da questo dato, non da altri, che il teste ritenne che la moto seguisse il corteo, e lo disse apertamente al giudice Marini.
  Ma ci sono altre circostanze singolari di cui dibattere. Tra la dichiarazione del 5 aprile 1978 e quella del febbraio 1996 esiste un'ulteriore discrepanza degna di attenzione. In un primo momento il teste sostenne che la moto gli sfrecciò accanto, mentre successivamente rilasciò questa dichiarazione: «Quasi a passo d'uomo si sono sincerati della cosa, diciamo, che non c'era nessuna reazione, hanno preso la stessa direzione che ha preso il corteo e si sono dileguati».
  Questo è un altro particolare che lui aggiunge soltanto nel 1996, quattordici anni dopo. Ma allora la moto la vide sfrecciargli accanto, oppure andare a passo d'uomo per sincerarsi dei corpi esanimi ?
  E ancora, se un caricatore che fuoriesce leggermente da un'ascella rappresenta veramente un dettaglio, una minuzia a cui prestare attenzione, e se veramente la moto si fosse fermata nei pressi delle auto, a tre metri da lui, com’è possibile che egli non riuscì nemmeno ad avere una visione d'insieme sulla fisionomia dei due passeggeri – che so io – capelli corti o mori, alti o bassi, magri o paffuti, con la maglietta o col giubbotto ?
  In buona sostanza, dacché nel 1978 si limitò a dire al magistrato che gli era passata accanto una moto dobbiamo attendere Pag. 10diciotto anni affinché aggiunga degli elementi che accreditino la presenza attiva di quel mezzo nel commando terroristico; ma perché non riferirli nel 1982 al Moro uno ?
  Le curiosità non si esauriscono qui. Se, da una parte, Intrevado aggiunge notizie in modo progressivo, dall'altra, sempre nel periodo compreso tra il 1994 e il 1996, Alessandro Marini è impegnato nel procedimento opposto, rettificando alcune sue convinzioni.
  Il primo cambiamento di rotta avvenne nel 1982, quando in un verbale inedito, che ho allegato al testo della relazione, stranamente mai reso noto da nessuno, alla domanda: «A lei chi sparò, quelli della Honda ?», l'ingegnere, dopo che per almeno quattro dichiarazioni sotto giuramento aveva accusato il passeggero della Honda, tornò sui suoi passi, fornendo questa inaspettata risposta: «Posso ipotizzare che venisse da una direzione piuttosto che da un'altra, da un'arma piuttosto che da un'altra. Mi sono trovato lì».
  Questo documento non è singolare soltanto per la risposta, ma anche perché qualcuno – potrebbe forse trattarsi del presidente della Corte o del pubblico ministero – a suo tempo, rileggendo il verbale, sottolineò con la penna rossa alcuni brani che più di altri catturarono una certa attenzione, compreso il passaggio appena riproposto. Eppure di questa curiosa risposta non esiste traccia nemmeno nella sentenza e le autorità giudiziarie non ritennero, stranamente, di applicare il principio dell'oralità del dibattimento.
  A questo primo ravvedimento del 1982 ne faranno seguito altri due molto sintomatici, proprio in quel periodo a cui facevo cenno prima. Nel 1996 Marini negò che dal mitra di uno dei due motociclisti fosse caduto un caricatore, come invece aveva affermato in tutti i verbali redatti nel 1978, e nel 1994 fornì un'ulteriore conferma del fatto che nella sua memoria si erano affacciati bagliori di realtà diversi, dichiarando: «Adesso non sono più sicuro che uno dei due individui a bordo della moto Honda avesse un passamontagna, se dovessi ricostruire la scena in questo momento, dovrei dire che tutti e due erano a viso scoperto».
  Comprenderete che i due testimoni hanno avuto negli anni non soltanto un comportamento controverso, ma anche opposto. Quando l'uno aggiungeva notizie, l'altro ridimensionava l'accaduto. Perché questo ? Io una mezza idea ce l'avrei, ma, trattandosi di una semplice ipotesi, per giunta allo stato embrionale, non merita alcuna attenzione, anche se poi, quando iniziai l'inchiesta, contro le mie intuizioni avevo una sentenza giudiziaria e le opinioni di autorevoli osservatori che nei miei studi ho preso ad esempio.
  Eppure la tesi che nega il tentato omicidio non solo è stata corroborata da tutti i documenti allegati nel saggio, ma anche dalle ultime indagini della DIGOS e da una foto inequivocabile del motorino pubblicata sul sito Insorgenze. Non sono bravo io, sono le carte a essere eccezionali e a fornire il sostegno probatorio di cui necessitiamo. Non escludo, quindi, che in futuro qualche studioso più attento di me e meno scoraggiato possa dare una risposta anche al quesito precedente.
  È doveroso aprire una parentesi sul passaggio contenuto nella sentenza relativo al tentato omicidio e sulle ragioni che mi hanno spinto ad affermare che ciò che fino a qualche mese fa era considerato un pilastro giudiziario oggi non è altro che un sintomatico indicatore dell'evidente confusione che regnava anche all'interno delle aule di tribunale.
  Se non potessimo mettere in discussione le sentenze, allora non ci sarebbe nemmeno la necessità di istituire nuove Commissioni d'inchiesta e dovremmo tutti accettare altri pilastri processuali, come il seguente, tratto dalla sentenza della prima sezione della Corte d'assise di Roma, presidente Severino Santiapichi, del 24 gennaio 1983 (Moro uno e bis riunificati): «Non era mai stato registrato nulla di così anormale da lasciare intuire che qualcosa stesse maturando e consigliare, quindi, maggiore prudenza. E se qualche volta il percorso era stato cambiato, ciò si era Pag. 11verificato non per ragioni di sicurezza, ma per non rimanere bloccati nel traffico. Si deve, per onestà, riconoscere che quella mattina né Oreste Leonardi, né Domenico Ricci avevano messo in bilancio emergenze da fronteggiare con la massima prontezza ed erano, quindi, persuasi di svolgere un compito di routine fine a se stesso, tanto che non si premurarono nemmeno di sistemare le armi che avevano in dotazione a portata di mano».
  Probabilmente l'autorità giudiziaria non aveva il sentore di ciò che avrebbe comportato negli anni a venire la sottovalutazione di questi aspetti, perché su quella moto è stato piazzato di tutto, dai servizi segreti di qualunque nazione alla criminalità organizzata, fino ai super killer. Questo è un paradosso, perché tutti i sostenitori a oltranza del complotto hanno sempre accusato gli organi giudiziari e gli inquirenti di aver fatto di tutto per occultare la presenza di questo disegno, quando invece con quella moto l'hanno senz'altro favorito.
  Non si è poi mai tenuto conto degli elementi probatori del tutto assenti che determinarono quella sentenza, perché il reato di tentato omicidio ai danni di Alessandro Marini non è un fatto acclarato dalla magistratura, è una circostanza scritta nella sentenza direttamente dal testimone. La prima Corte d'assise ha fatto passare in giudicato sostanzialmente le parziali – perché non ha tenuto conto dell'udienza del 1982 – dichiarazioni di un solo testimone, in assenza di un assoluto riscontro. Il parabrezza del motorino non fu mai esaminato da un esperto balistico.
  Quello che nel libro io definisco «il primo mistero di via Fani» vanta senza dubbio un triste, tristissimo primato, che non trova eguali sul palcoscenico dell’affaire. È la diapositiva condita con il maggior numero di distorsioni e omissioni rispetto ai dati reali. In una relazione parlamentare della Commissione stragi il senatore Granelli affermò che la perizia sul famoso parabrezza aveva identificato l'arma che aveva sparato a Marini. Nessuna indagine peritale era, invece, mai stata eseguita. Per quasi quarant'anni abbiamo cercato due centauri che avevano attentato alla vita di un civile, quando invece si era trattato soltanto di una leggenda proliferata grazie anche all'accettazione acritica del pilastro processuale.
  È falso anche il fatto che la moto fosse presente nel quadrivio al momento della strage. A mistificare la realtà è intervenuto ultimamente anche l'anonimo desideroso di ripulirsi la coscienza.
  Ci sono poi i paradossi che le dichiarazioni di Intrevado e di Marini contengono e alcune poco convincenti conclusioni di alcuni consulenti della Commissione stragi che ritenevano di avere in mano nuovi documenti inoppugnabili sulla Honda, mentre quelli che avevo io, gli stessi, nulla aggiungevano alle dichiarazioni di Alessandro Marini del 16 marzo 1978.
  Quel parabrezza era stato visionato da numerosi magistrati appartenenti alle forze dell'ordine, eppure non è mai trapelata la notizia che quei due pezzi di plastica non presentavano fori di proiettile, anche se poi, per correttezza, credo che, in questo caso, si debba concedere un alibi a queste figure istituzionali: vedendo quei due pezzi tenuti insieme dallo scotch, immagino abbiano pensato che il parabrezza fosse stato diviso in due dai colpi, quando invece solo nel 1994, sedici anni dopo, Alessandro Marini dirà al giudice Antonio Marini che quello scotch l'aveva apposto prima del 16 marzo, in seguito a una caduta del motorino dal cavalletto. Certo, però, che una perizia avrebbe sgombrato il campo da ogni dubbio.
  Probabilmente non sapremo mai come sia stato possibile che un senatore della Repubblica abbia scritto una cosa inesatta di quella importanza in una relazione parlamentare. Si tratta di una notizia che gli è stata riferita in modo maldestro dai consulenti ? Non lo so. So di certo che sono state proprio determinate forzature che mi hanno insospettito, perché alcuni fatti storici sono irrefutabili e smentiscono alla radice molte teorie. Pag. 12Alcuni osservatori hanno sospettato dei periti e della magistratura perché il caricatore caduto dalla moto non si era mai ritrovato, senza mai porsi il dubbio che non fosse mai esistito. Lo stesso Alessandro Marini nel 1996, anche in questo caso diciotto anni dopo, tornò sui suoi passi anche su ciò.
  Si è indagato su un libero cittadino come Bruno Barbaro, l'uomo con la giacca color cammello etichettato dal teste Marini come «soggetto misterioso che teneva una paletta in mano», quando invece non l'aveva lui, ma Intrevado, e non si sono valutate le copiose distorsioni che presentavano le dichiarazioni dell'ingegner Marini su tutta la faccenda.
  Allo stesso modo, non essendo stati repertati i bossoli che sarebbero stati espulsi dal mitra del passeggero della moto, i sostenitori delle tesi più ardite si sono affrettati a ipotizzare la presenza dei Servizi, che avrebbero fatto pulizia, la complicità della magistratura e dei periti, senza domandarsi per quale ragione i due motociclisti avrebbero dovuto attentare alla vita di un civile inerme, totalmente inoffensivo, ad azione già terminata e andata a buon fine.
  Troppo affaccendati a dimostrare queste tesi, non hanno avuto la possibilità di considerare un'altra anomalia del comportamento di Marini, quando nel corso del primo interrogatorio del 16 marzo, alle 10.15, non fece alcun cenno al parabrezza colpito, al fatto di essersi accucciato e quant'altro, limitandosi a dire che gli avevano sparato addosso.
  La parte relativa al parabrezza compare solo venti giorni dopo, ma nel 1994, avanti il giudice Antonio Marini, il teste fornì ancora un'altra versione, sostenendo che quella mattina stessa il parabrezza venne prelevato dalla Polizia, quando invece soltanto nel settembre del 1978 quei due reperti vennero acquisiti da parte della DIGOS e consegnati al giudice Imposimato il giorno successivo.
  Se si guarda sempre e soltanto in una direzione, le informazioni genuine che vanno nell'altra non si vedono nemmeno se sono a portata di mano. Io non accuso di nulla il signor Alessandro Marini e, come ho sottolineato nel testo, sono convinto della sua buona fede. Credo si sia trattato di una pura suggestione. Mi auguro anche che non abbia alcuna ripercussione, perché chi deve pagare per quel delitto sono altre persone, che hanno pagato e stanno pagando, e non un testimone che si è trovato lì suo malgrado e ne è uscito terrorizzato. Credo, però, anche che sia giunto il momento di fare piena luce su una vicenda offuscata per decenni, per non proseguire in questa direzione per altri trentasette anni.
  Noi dovevamo cercare gli assassini dei cinque agenti di scorta, agenti che sono stati anche miei colleghi, avendo io svolto il servizio di leva nei Carabinieri. Dovevamo assicurare alla giustizia gli autori di tanti delitti e sgominare un'organizzazione armata che ha insanguinato il nostro Paese per più di un decennio. In questa dedizione non c'era alcuna necessità di ricorrere a simili forzature e distorsioni in merito al singolo episodio. Non mi riferisco, ovviamente, al signor Marini.
  L'opinione che mi sono fatto durante lo studio delle carte è certamente quella della presenza di zone grigie nella dinamica del sequestro Moro e, più in generale, all'interno di tutta la storia del partito armato. Tranne qualche pentito, neppure troppo eccellente rispetto ai personaggi di maggior calibro, i militanti delle Brigate Rosse hanno sempre spiccato per reticenza e segretezza, caratteristiche che ne hanno favorito una certa longevità. Del resto, i componenti del commando di via Fani sono stati resi noti a rate, prima sette, poi nove, poi dieci. Sia nel caso di sette, che di nove, che del quarto uomo di via Montalcini, nessun BR ha ritenuto di dover rettificare il dato numerico a sostegno di una realtà più autentica.
  Un altro indicatore significativo va rintracciato nel fatto che dai brigatisti del nucleo storico non ci è mai stato raccontato chi fosse il BR fuggito dalla cascina Spiotta. È, quindi, plausibile che mantengano tuttora lo stesso atteggiamento in linea con il vademecum adottato durante la lotta armata.Pag. 13
  Essendo verosimile questa riflessione, non è tuttavia automatica l'ipotesi di complotto, come qualche osservatore ribadisce da almeno tre decenni. La messa in discussione della veridicità del memoriale Morucci non dimostra la sostenibilità di alcuni teoremi, ma autorizza a scandagliare alcune aree sino ad oggi trascurate a causa dell'esasperata ricerca di un connubio tra il commando di via Fani e misteriosi e indefiniti apparati statali.
  Io credo che ci voglia ben altro per infangare le istituzioni di questo Paese. Credo che, a fronte di grandi accuse, ci vogliano immense prove, che sino ad oggi, se non alterate, sono sempre state assenti, sebbene abbiano indagato in questa direzione tre Commissioni parlamentari e un numero imprecisato di magistrati, carabinieri e poliziotti. Considero assolutamente legittimo indagare in tutte le direzioni, anche a sostegno della cospirazione, anche a fronte di sospetti e di poche intuizioni, anche sulla base di elementi scarni e poco plausibili. Ciò che trovo inverecondo è proseguire nelle accuse avendo solo sospetti dopo aver indagato.
  Vorrei riproporre le parole dell'onorevole Aldo Moro, il quale, in un discorso alle Camere, ha inserito questo illuminante passaggio, che dovrebbe rappresentare per tutti noi un momento aulico di civiltà giuridica: «Ebbene, proprio in questo caso, con riguardo alla posizione del senatore Gui, del quale particolarmente mi occupo, non solo le prove non esistono, ma gli stessi indizi sono così labili, così artificiosamente costruiti, così arbitrariamente interpretati da ritrarne la sensazione amara di una decisione pregiudiziale. In una società democratica, come è la nostra, non si può essere irretiti e soffocati da sottili e arbitrari accostamenti, da indizi insignificanti, ma utilizzati con fredda determinazione».
  Io sono fermamente convinto delle falle contenute nel cosiddetto memoriale Morucci. Del resto, è stato il capo brigatista Mario Moretti a sostenere che le conoscenze dell’affaire avessero raggiunto un livello molto alto, ma non definitivo. Anche Bonisoli nel corso del processo Metropoli rilasciò una dichiarazione che va sostanzialmente nella stessa direzione: «Ci sono tanti compagni che potrebbero parlare e chiarire tante cose. Non capisco cosa aspettino a farlo».
  Personalmente sono convinto della possibilità di immaginare la presenza di altri brigatisti oltre ai dieci già identificati. Ipotizzare, per esempio, che ci fosse una vedetta in grado di tenere sgombro dai passanti il lato destro della strada non è un'idea peregrina, perché dopo una preparazione così maniacale dell'attentato è difficile pensare che abbiano salvaguardato Spiriticchio e non presidiato quel tratto di marciapiede per evitare che ci si immettessero dei passanti. Eufemia Evadini riesce ad arrivare a dieci metri dall'Alfetta. Non avrebbero mai rischiato di uccidere un civile, perché ciò avrebbe rappresentato una catastrofe.
  Io sono sempre più persuaso del fatto che ci fosse uno sparatore in più. Nell'ultimo capitolo del mio saggio fornisco elementi su cui discutere tutti insieme.
  Sarebbe anche interessante che qualcuno, magari della Commissione, domandasse a Franco Bonisoli di chiarire alcuni particolari di una sua affermazione curiosa durante un'intervista che credo si possa ascoltare su Radio Radicale, alla voce «terrorismo, Brigate Rosse». Chiedo scusa se non do certezza sulla fonte perché ho ritrovato un vecchio appunto e per motivi tecnici dovuti al sito della radio non ho potuto fare le giuste verifiche. Ad ogni modo sono certo del contenuto delle parole.
  Il brigatista fece un esplicito riferimento agli inconvenienti che ebbero quella mattina, tra cui un'auto che si ruppe prima della strage, costringendoli a spingere. Io immagino la scena di quattro brigatisti a spingere una macchina e allora mi pongo la questione: di quale macchina si tratta e come arrivarono in via Fani ? Forse si tratta di una suggestione, ma vorrei citare le seguenti date: la FIAT 132 blu venne rubata il 23 febbraio 1978, la FIAT 128 bianca con targa diplomatica venne rubata il giorno 8 marzo, il furto della FIAT 128 blu Pag. 14venne denunciato il 13 marzo e l'altra 128 bianca, con funzione di «cancelletto» superiore, venne rubata anch'essa il 23 febbraio. La Renault 4 rossa in cui venne ritrovato il corpo straziato dell'onorevole Moro venne rubata il 1o marzo 1978, in un periodo equidistante tra il furto della 132 e della 128 blu da una parte e della FIAT 128 bianca guidata da Moretti dall'altra, esattamente una settimana.
  È così assurdo pensare che, al pari delle altre auto, tutte utilizzate in via Fani, anche la Renault 4 fosse stata rubata per quel tipo di operazione ? Questa macchina non è mai stata individuata nella zona circostante l'eccidio. Potrebbe essere l'auto di cui parla Bonisoli ?
  Avrei poi una richiesta da rivolgere al presidente di questa Commissione, utile a far luce su un'altra vicenda, che non è limpidissima. Vorrei domandarle, signor presidente, se la Commissione abbia mai acquisito il verbale del colonnello D'Ambrosio, perché ci sono almeno un paio di aspetti in questa vicenda che mi danno da pensare.
  In primo luogo, l'ho cercato presso l'Archivio storico del Senato, dove è consultabile la documentazione della Commissione stragi, ed è presente soltanto quello del colonnello Guglielmi, così come non se ne riscontra traccia presso l'archivio della Corte d'assise. Anche il giudice De Ficchy, durante la sua audizione, a un certo punto non ha più mostrato le certezze iniziali sull'effettiva escussione del D'Ambrosio. Queste sono le sue parole: «Chiedo scusa. Acquisiamo questo fascicolo e vediamo se l'ho sentito».
  Nell'eventuale assenza di questo interrogatorio, da dove arriverebbero tutte le smentite del colonnello che circolano da anni ? Se veramente D'Ambrosio avesse negato di fronte all'autorità giudiziaria le circostanze verbalizzate da Guglielmi, avrei trovato più logico che la magistratura li avesse riconvocati entrambi e avesse disposto un confronto tra i due. Dobbiamo aspettarci che anche questa vicenda rientri a pieno titolo nelle tante supposizioni ?
  In questa relazione io non posso, naturalmente, affrontare tutti i temi contenuti nella ricerca, ma nel testo, per chi avesse interesse, sono presenti valide argomentazioni che inficiano una buona fetta di misteri e sospetti che possono sopravvivere soltanto perché non vengono messi in relazione con la globalità delle informazioni. Sono tipici esempi il percorso delle auto presidenziali, la richiesta dell'auto blindata, il contenuto delle borse, il sabotaggio delle linee telefoniche, il mistero di Radio Città Futura e potrei andare avanti di questo passo.
  Per dirla con le parole del presidente Fioroni: «Andiamo a vedere cosa c’è e lasciamo stare cosa non c’è». Questa Commissione ha la possibilità storica di mettere un punto definitivo sui falsi misteri, ma, allo stesso tempo, di esplorare orizzonti più aderenti alla realtà. Il mio auspicio, da cittadino, è che non vi lasciate sfuggire questa opportunità, perché a ringraziarvi sarà proprio la collettività, snervata dalle notizie clamorose e fantasiose che spuntano come fili d'erba. Se vogliamo giocare tutti la stessa partita e indossare la stessa casacca, alla ricerca di quel pezzo o pezzone di verità mancante, non dobbiamo più permettere che si deformi la storia, specie quella sacra. L'amor di verità dovrebbe rappresentare un valore assoluto e un pilastro del nostro ordinamento giuridico e sociale.
  Concludo dicendo che in data 26 ottobre 2015 ho inviato all'onorevole Lavagno una relazione a cui ho allegato un documento inedito per quanto riguarda il campo della pubblicistica, un autografo di Valerio Morucci rinvenuto in casa della sua ex compagna Leonarda Faggioli, che potrebbe contenere notizie rilevanti. Non ne ho discusso nella relazione che ho appena letto per il solo motivo che credo sia già agli atti della Commissione.
  Grazie a tutti.

  PRESIDENTE. Grazie, dottor Armeni. Ha risposto a quasi tutte le domande. Quanto all'unica che ha posto lei sul verbale dell'interrogatorio di D'Ambrosio, il dottor De Ficchy, che, lo rammento a Pag. 15tutti noi per amore di verità, è stato sottoposto dalla Commissione a una serie di domande abbastanza ruvide, anzi anche troppo ruvide, ci ha aiutato a trovarlo. Adesso è desecretato e lo può consultare anche lei. È agli atti della Commissione.
  Delle domande fatte ne restano fuori tre rispetto a quelle che le avevo posto. Io non le chiedo di entrare sulla relazione di Lavagno, che avremo poi modo di approfondire noi per quanto riguarda le vicende relative all'area del Portico d'Ottavia o quelle di Olivetti, ma le chiedo, nell'ambito delle sue conoscenze, della contiguità con i rappresentanti dell'alta borghesia romano-milanese.

  GIANREMO ARMENI. Sinceramente non sono preparato.

  PRESIDENTE. Volevo sapere se aveva qualcosa in più.

  GIANREMO ARMENI. Infatti nella relazione ho messo un punto interrogativo, proprio per questo.

  PRESIDENTE. Rispetto alle modalità dell'attentato, ossia dell'omicidio degli uomini della scorta e del sequestro, in base alle sue ricerche e ai suoi studi, ha ravvisato elementi di discontinuità o è stato utilizzato lo stesso schema ?

  GIANREMO ARMENI. Gli elementi di discontinuità sono evidenti, perché non era mai stato eseguito un sequestro di quella portata. Cambiano, ovviamente, le dinamiche, la preparazione, l'inchiesta, il numero di uomini approntato per fare l'inchiesta, i preparativi (comprare le divise e i berretti e rubare le auto). Hanno rubato cinque auto, se non sbaglio.
  Detto questo, io non credo che si discosti molto da quella che era la loro ideologia e da quelli che erano i loro punti fermi, come, per esempio, come ho ricordato, cercare di fare l'attentato in una zona...

  PRESIDENTE. Senza terzi.

  GIANREMO ARMENI. Senza terzi.

  PRESIDENTE. Fermo restando che poi sparano a casa di De Chiara.

  GIANREMO ARMENI. Sì, quello è vero, ma per impreparazione.

  PRESIDENTE. Mi sembra che ci sia qualcosa di diverso lì. C'erano tre bossoli dentro, il che non era possibile con la sventagliata, che sarebbe andata in alto e non in basso. Questa è una mia considerazione.

  GIANREMO ARMENI. L'accetto.

  PRESIDENTE. Che ruolo hanno avuto, secondo lei – do per scontata la parte del libro in cui lei ne scrive – Casimirri e Lojacono ?

  GIANREMO ARMENI. Sinceramente è la parte del «cancelletto» superiore che più mi dà da pensare. Innanzitutto uno dei due suppongo fosse incappucciato. Non ho certezze in questo, ma, riportando le testimonianze, tutti descrivono un uomo incappucciato a ridosso della 128 bianca che faceva da «cancelletto». Non lo vedono sparare un solo colpo. Considerato che l'altro, quello che secondo il teste Marini somigliava a Eduardo De Filippo, a mio avviso assomiglia molto a Casimirri, per esclusione, ma anche per un confronto che ho fatto sull'altezza, l'altro mi sembrava appunto Loiacono.
  Sono due figure misteriose, anche perché uno, secondo me, ha il passamontagna. In un interrogatorio del 1994 a Morucci viene chiesto: «Lei quella mattina vide qualcuno col passamontagna ?». Morucci rispose che, quando arrivò, erano tutti a volto scoperto. Se l'ha calzato in quel momento... io questo non lo so. Comunque è la questione, secondo me, più sospetta di tutta la dinamica, anche perché potrebbe essere che uno dei due abbia sparato in direzione obliqua. Vedasi il proiettile all'incrocio.

  PRESIDENTE. Scendendo dalla 128.

Pag. 16

  GIANREMO ARMENI. Esattamente. Anzi, vorrei precisare che nella ricostruzione che ho fatto Lojacono era già fuori. Casimirri era all'interno, ma potrebbe essere sceso proprio...

  PRESIDENTE. Speriamo che, se parliamo finalmente con Lojacono, almeno quello che ha fatto lui ce lo possa raccontare, visto che, bontà sua, gli ergastoli li ha presi e non ne ha scontato nessuno. Potrebbe non mettere in mezzo gli altri, ma magari se stesso.
  Perché, secondo lei, l'Austin Morris, a prescindere dal fatto che ciò fosse intenzionale o no – nella nostra ricostruzione abbiamo visto la non intenzionalità – non impediva un'eventuale manovra di fuga della 130 ?

  GIANREMO ARMENI. Innanzitutto a me sembra strano che dieci uomini del commando preparino l'azione di via Fani – sono loro che devono sparare alla scorta – e poi chiedano a un servizio segreto o comunque al titolare di un'Austin Morris di piazzarla lì per impedire un'eventuale manovra dell'appuntato Ricci. A questa Austin, signor presidente, si assegna un ruolo dopo che si conoscono già le dinamiche. Non voglio offendere nessuno, ma è un po’ come giocare la schedina di lunedì. Nessuno poteva prevedere che ai brigatisti si inceppassero i mitra. L'appuntato Domenico Ricci riesce a fare manovra soltanto...
  Io innanzitutto considero l'indagine assolutamente legittima, anzi do merito a chi l'ha fatta. Magari l'avessi fatta io. Mi è sfuggita. Dopodiché, però, devo prendere anche atto del fatto che l'Austin Morris non ha una posizione strategica, perché, se i mitra non si fossero inceppati, l'appuntato Domenico Ricci non avrebbe potuto fare manovra. Se io devo chiedere l'aiuto di un servizio segreto, allora gli chiedo cortesemente di fornirmi quattro mitra funzionanti e non dei residuati bellici. Inoltre, dalle foto si vede che lo spazio per fuggire c'era. A maggior ragione, l'auto avrebbe occupato una posizione più strategica, più a ridosso dell'incrocio, perché lì avrebbe – sì – impedito qualsiasi tipo di fuga.

  PRESIDENTE. Lei ha parlato di Radio Città Futura. Poiché questo è un argomento di cui ci siamo interessati – risulta dalle varie dichiarazioni di Rossellini – ha qualche elemento particolare per cui l'ha citata oppure no ?

  GIANREMO ARMENI. Sì, perché, come dicevo prima, sostengo l'importanza della globalità delle informazioni. Per esempio, la documentazione pubblicata dalla prima Commissione Moro contiene – credo – tre o quattro volumi quasi tutti dedicati all'argomento. Se si potessero leggere attentamente, come ho fatto io, ci si accorgerebbe che anche lì le distorsioni sono all'ordine del giorno.
  Per esempio, con riferimento al mistero che mancasse il nastro della registrazione, non è vero. Posta così, la questione non è vera. L'ha spiegato bene il dottor Improta all'epoca. A Monterotondo c'era un centro di ascolto del Ministero dell'interno, o dell'UCIGOS – ora non ricordo – che aveva l'ordine non di registrare, ma di ascoltare ed eventualmente di registrare. Il fatto che sia presente un nastro di quella mattina con la registrazione di Radio Città Futura si spiega semplicemente perché alle ore 8 la radio parlò di temi legati al mondo palestinese, e i funzionari di quel centro d'ascolto ritennero importante procedere con la registrazione.
  Non è vero, quindi, che oltre a quello non ne esistano altri, facendo intendere che manchi proprio quello che avrebbe suffragato la testimonianza della signora Giannettino. Esiste soltanto quella perché conteneva un ascolto di tipo strategico, ma ne esistono altri registrati in giornate diverse.
  Rileggendo il verbale della signora Giannettino, ci si accorge che lei stava facendo avanti e indietro con la manopola delle frequenze alle ricerca di quelle che il dottor Improta definì «canzonette». Non era solita ascoltare Radio Città Futura, stava facendo il giro con la manopola. A un certo punto raccontò di aver udito la Pag. 17frase che conosciamo. Se fosse stata reale l'affermazione di Rossellini, l'avrebbero ascoltata non soltanto altre migliaia di radioascoltatori, ma lo speaker non si sarebbe limitato a proferire quattro parole. Avrebbe fatto un discorso più organico e nell'ambito di quel discorso organico avrebbe detto: «Questa mattina rapiscono Moro». Nessuno ha sentito quella dichiarazione. Ad ogni modo, nei volumi della Commissione Moro che ho precedentemente citato ci sono le risposte a tutti i dubbi.

  PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  PAOLO CORSINI. Qual è la valutazione che lei dà sull'ipotesi della presenza di un super killer ?

  GIANREMO ARMENI. Secondo me, non c'era. Non c’è mai stata la presenza di un super killer. Sparano non più di 90 colpi, se non erro. Come diceva il presidente, alcuni vanno dritti nelle case degli abitanti. L'agente Iozzino riesce a uscire dall'auto. L'appuntato Ricci riesce a fare manovra. Se non sbaglio, anche l'agente Zizzi è arrivato vivo in ospedale.

  GERO GRASSI. Soltanto perché non gli hanno dato il colpo di grazia.

  GIANREMO ARMENI. Onorevole, io per colpo di grazia intendo – magari sono ignorante – che è indispensabile un ulteriore colpo d'arma da fuoco, o più colpi, per accertarsi che la persona sia morta. Non c’è stato il colpo di grazia. C’è stata una carneficina. L'agente Iozzino presenta nel corpo non solo i sette colpi del mitra FNA 43 di quel famoso – non so se lei ha letto il libro e, in particolare, l'ultimo capitolo, dove io lo ipotizzo – quinto sparatore (io sono convinto che ci sia un quinto sparatore), ma un totale, credo, di quindici.

  GERO GRASSI. Diciassette.

  GIANREMO ARMENI. Diciassette. Esattamente.

  PRESIDENTE. In pratica, sostiene che la quantità di fuoco è tale che... Da un super killer ci si aspetterebbe un colpo e via.

  GIANREMO ARMENI. Esatto.

  PRESIDENTE. Come è successo per Leonardi, per cui ne sono bastati due.

  GERO GRASSI. Questa non è una domanda, ma è per la storia. In quel discorso che lei ha citato, Moro disse anche: «Non ci faremo processare nelle piazze».

  GAETANO PIEPOLI. Sono circa quindici pagine.

  GERO GRASSI. Onorevole Piepoli, non ho capito l'osservazione.

  PRESIDENTE. Parlava della lunghezza del discorso di Moro.

  GERO GRASSI. Ho capito. Poiché è stato citato un passaggio di Moro, per la storia, o per la damnatio memoriae – ho detto che non è una domanda – io aggiungo che il titolo di quell'intervento era «Non ci faremo processare nelle piazze», perché lì ci fu un processo in Parlamento. Moro non disse quelle cose così. Ci fu un processo, inopportuno e sbagliato. Moro rispose così e l'interessato poi fu assolto. Questo, per la storia, non c'entra niente con l'audizione di oggi. Poiché noi siamo abituati a dimenticare la storia, lo dico a me stesso. Tutto qui.
  Detto ciò, passo alla moto. Io dico subito che sono iscritto al partito della moto che c'era, nella stessa misura in cui lei è iscritto al partito della moto che non c'era, o che non sparava.

  PRESIDENTE. Vi metteremo d'accordo, perché dimostreremo che ce ne sono due e così sarete felici tutti e due.

Pag. 18

  GERO GRASSI. Io sono iscritto a questo partito.

  GIANREMO ARMENI. Io non ho un partito.

  GERO GRASSI. Ognuno ha il suo partito, senza tessera, nel caso di specie.

  GIANREMO ARMENI. Io no. Non ho un partito.

  GERO GRASSI. In Commissione c’è un autorevole rappresentante, che oggi manca, che sostiene ironicamente che io fossi uno dei due guidatori della moto. Il suo partito della moto che non c’è equivale al mio che c’è.
  Faccio questa premessa per dirle...

  GIANREMO ARMENI. Chiedo scusa, ma io non ho un partito sulla moto. Io leggo le carte e quello che viene fuori...

  GERO GRASSI. Anch'io leggo le carte e non ho un partito, esattamente come le legge lei.
  Attenzione, però: la moto non è strettamente da mettere in relazione con le Brigate Rosse. Non si evince da nessuna parte che la moto sia correlata alle Brigate Rosse, anzi si evince in molti interrogatori e in molti atti giudiziari che la moto è sconnessa dalle Brigate Rosse, nel senso che le Brigate Rosse non hanno mai fatto riferimento alla presenza della moto. Da ciò si potrebbe evincere che la moto non sia correlata alle Brigate Rosse, ma può essere un soggetto terzo rispetto alle stesse Brigate Rosse.

  GIANREMO ARMENI. Con funzione operativa ? È importante.

  GERO GRASSI. Questo lasciamolo stabilire agli atti. Noi oggi non possiamo in alcun modo correlare le due cose, ma della moto ne parla per primo l'equipaggio della prima volante, che dice: «Auto in fuga seguita da una moto Honda blu».

  GIANREMO ARMENI. Sì, ma glielo dice Marini.

  GERO GRASSI. Un attimo, dottore. Lei ha parlato un'ora.

  GIANREMO ARMENI. Chiedo scusa, ma non lo dice...

  GERO GRASSI. Tenga presente che qui le domande le facciamo noi. Mi dia la possibilità di parlare non un'ora, ma dieci secondi.

  GIANREMO ARMENI. Sto in silenzio.

  GERO GRASSI. Dell'auto in fuga e della moto Honda è l'equipaggio della volante che parla, in primo luogo.
  In secondo luogo, noi abbiamo la dichiarazione del vigile del fuoco Leonardo che in via Gradoli, quando sta sul balcone, parla di un'altra moto Honda, di colore diverso da quella di via Fani. Ricordiamocelo, perché Leonardo dice che, a un certo punto, mentre sta entrando dal balcone...

  PRESIDENTE. Anche i due col casco che vivevano a via Gradoli arrivavano con moto di grossa cilindrata.

  GERO GRASSI. A un certo punto quella moto fece inversione a U in una zona a senso unico e scomparve.
  Perché io dico questo ? Perché è vero che c’è anche un magistrato che ha detto qui, e che lo dice anche nella presentazione di libri, che io devo dimostrare la presenza della moto Honda – lo dice inopportunamente – ma della moto Honda noi abbiamo cognizione perché, per quello che può valere, e fino a prova contraria per me vale, in una sentenza i partecipanti all'agguato di via Fani furono condannati anche, in concorso con i due della moto Honda, per il tentato omicidio dell'ingegner Marini. Sentenza di Marini vengono condannati all'ergastolo anche i due della moto Honda. Lasciamo stare se Pag. 19hanno sparato o meno, questo ci interessa poco, ma quella sentenza ci dice che la moto c’è.
  Sui colpi io sarei un tantino più prudente, perché Franceschini, che non c'era, ovviamente, in via Fani, ci dice che i quattro poliziotti e carabinieri hanno subìto un colpo di grazia ed esclude Zizzi, quello che muore al Policlinico un'ora dopo.
  Anche qui c’è un particolare da ricordare. Non le faccio una domanda e non mi può rispondere. Zizzi è l'unico che non ha mai lavorato con Moro e che quel giorno lavora per il primo giorno. Franceschini spiega il colpo di grazia e, quindi, la mancata esecuzione di Zizzi con il fatto – dice Franceschini – che il maresciallo Leonardi e gli altri avrebbero riconosciuto chi sparava.
  Dopodiché, e concludo, c’è un'audizione di un vigile notturno che la mattina del 16 marzo 1978 alle 6.30 passò sotto via del Forte Trionfale 79 e che, udito nella prima fase del rapimento, dice: «Io sono passato da via del Forte Trionfale alle 6.30 di mattina e ho visto la giardinetta di Moretti. Con Moretti c'erano tre persone che non mi sembravano riconducibili ai visi dei brigatisti accertati in via Fani. Ho riconosciuto la macchina di Moretti perché sulla portiera sinistra aveva un segno particolare». La macchina di Moretti lasciata in via Fani aveva questo segno particolare sulla portiera sinistra.
  Questo episodio ci potrebbe lasciar intendere che Moretti la mattina del 16 marzo sia andato a controllare sotto la casa di Moro se tutto era a posto. Sarebbe interessante capire e sapere chi fossero quelle tre persone, visto che il testimone dice di non averle riconosciute nei brigatisti. Lo dice il testimone. Io non c'ero.
  Queste cose, che non sono un contraddittorio con lei, ci dovrebbero indurre ad avere un approccio maggiormente prudente, perché è chiaro che le diverse angolazioni dalle quali noi vediamo lo stesso episodio possono indurci in un errore. Personalmente, leggendo esattamente gli stessi atti che ha letto lei, io non dico che la moto sia un fantasma.

  GIANREMO ARMENI. Neanche io.

  GERO GRASSI. Non lo dico. Io non sono in grado di accertare giudiziariamente se dalla moto qualcuno abbia sparato, ma nel contesto generale del caso Moro, o dell’affaire Moro, perché mi piace di più la tesi sciasciana, la moto c’è e, guarda caso, della stessa marca c’è più volte. Ciò mi suggerisce una domanda strana: a lei e a me è impossibile fare questo, ma nel 1978 o nel 1979 non sarebbe stato difficile a qualcuno accertare se in taluni settori della pubblica amministrazione ci fossero delle moto Honda a disposizione. Questo lei sa benissimo, come me, che non è mai stato accertato.

  GIANREMO ARMENI. Posso rispondere ?

  PRESIDENTE. Raccogliamo prima le domande e poi risponderà.

  FABIO LAVAGNO. Faccio alcune considerazioni generali. Non torno sulle questioni appena trattate. Io non appartengo né al partito della moto, né al partito della non moto. Credo che questo non ci aiuti molto nella discussione.
  Mi preme segnalare che, quando noi facemmo una seduta serale e ascoltammo gli esiti dei rilievi della polizia scientifica, nella Sala del Mappamondo, più di uno di noi, tra coloro che avevano letto il saggio del dottor Armeni, constatò una certa corrispondenza tra le tesi sostenute dal dottor Armeni e quello che ci veniva descritto. Ricordo in maniera piuttosto chiara il senatore Fornaro, non foss'altro perché era seduto vicino a me in quell'occasione, dire proprio: «Questa stessa tesi è sostenuta da Armeni in Questi fantasmi». Lo segnalo perché mi sembra abbastanza rilevante in uno studio serio come questo.

  GERO GRASSI. Ti riferisci a quello della DIGOS ?

Pag. 20

  FABIO LAVAGNO. Sì, a quello della DIGOS. Ricordo che forse eravamo in una delle parti secretate.

  GERO GRASSI. Io e Fornaro l'abbiamo smontata tutta quella tesi.

  FABIO LAVAGNO. Segnalo solo che c'era una certa attinenza tra quello che ci dice la DIGOS, che io ritengo essere oggettivo, e quello che il dottor Armeni scrive nel suo libro. Che poi l'onorevole Grassi e il senatore Fornaro abbiano tesi differenti e contrastanti con quel rilievo credo sia agli atti e che non ci sia bisogno di discuterne.
  Mi collego, a questo punto, a una delle ultime cose dette dall'onorevole Grassi. Egli suggerisce di verificare se parti dell'amministrazione statale avessero a disposizione delle moto, magari delle moto Honda, e di che colore. Io segnalo che avevo già richiesto in audizione, e poi ho fatto pervenire la richiesta per iscritto, di verificare se Biancucci e Angelotti possedessero una moto. Se è plausibile la tesi dell'onorevole Grassi, mi sembra ancor più plausibile quella del collegamento con personaggi appartenenti all'area dell'Autonomia romana che vivevano in via Stresa. Potremmo verificare questo, cosa che mi risulta non essere ancora stata fatta lungo questi anni. Mi sembra un po’ più facile che gente che rientrava a casa si trovasse, suo malgrado, in un contesto tanto tragico come quello di via Fani in quel momento.
  Faccio un altro rilievo, visto che si è fatto cenno alla relazione che mi è stata inoltrata dal dottor Armeni un paio di settimane fa, che io ho consegnato alla Commissione. Invito i colleghi a leggerla perché è di un certo interesse e di una certa rilevanza riguardo alla figura di Morucci.
  Segnalo che in questa relazione il dottor Armeni fa riferimento a una contiguità, o a una conoscenza degli ambienti di via Fani e limitrofi, in anni ben precedenti rispetto al rapimento. Ci tornerò dopo. Un'altra parte è quella a cui il presidente all'inizio ha fatto riferimento, ossia a una più generica collusione o simpatia di ambienti altolocati borghesi romani nei confronti di alcuni esponenti della lotta armata in generale.
  Su questo tema io segnalo un passaggio, e lo pongo come domanda. Io immagino – mi può rispondere immediatamente con un «sì» o con un «no» – che il manoscritto di Morucci, quello con la cartina della zona del Portico d'Ottavia, abbia destato un certo interesse perché conteneva un nome in particolare e che il nome sia Olivetti. Me lo conferma ?

  GIANREMO ARMENI. Sì.

  FABIO LAVAGNO. Olivetti noi tutti lo colleghiamo al bar Olivetti. Io, invece, segnalo alla Commissione che esiste una relazione dei Carabinieri, se non sbaglio del 1998, in cui Olivetti è, invece, Roberto Olivetti, figlio di Adriano, capitano d'industria. In quella relazione esistono altri nomi di un certo rilievo, come Luisa Spagnoli e il regista Sergio Corbucci. In merito io invito anche il dottor Armeni a indagare magari in maniera più approfondita e non sulla suggestione del bar Olivetti, ma su un ambiente ben chiaro e ben preciso.
  La domanda che mi interessa porre è su una questione che non abbiamo evidenziato in questa fase. Si suppone nella relazione che lei mi ha mandato una certa attinenza... Vorrei sapere quali fatti inducono a ritenere che Morucci, in buona sostanza, conoscesse, praticasse o frequentasse le zone limitrofe a via Fani in anni precedenti rispetto al 1978. Questo è un fatto abbastanza interessante, secondo me, riguardo a come si costruiscano la colonna romana e anche a un dato ambiente, e a come questo ambiente dialoghi o abbia un rapporto abbastanza complesso con la direzione più generale delle Brigate Rosse.
  Io credo che, visto che lei è studioso attento, che va a leggere le carte e frequenta gli archivi, forse questa sia la sede opportuna per farle un invito: se lei ha un terzo, un quarto o un quinto elemento che sta sottoponendo a indagine, forse vale la Pag. 21pena che ce lo dica in questa sede, in modo che evitiamo di andare a rincorrere notizie di pubblicistica che, ovviamente, seguono legittimamente il loro corso. Visto che questa è una Commissione d'inchiesta, sarebbe bene sapere se esistono altre piste d'indagine che lei sta seguendo.

  MIGUEL GOTOR. Intervengo su due questioni.
  Quanto alla prima, vorrei provare a sintetizzare le ragioni che militano a favore della presenza di una moto, o di più moto, in via Fani la mattina del 16 marzo. La prima è una sentenza della magistratura passata in giudicato. Si presume che dei magistrati, nel formulare una sentenza con delle condanne, abbiano avuto la possibilità di accedere a documenti, di ascoltare testimoni e di farsi un convincimento che ha superato i diversi vagli processuali. La sentenza lascia aperta un'enorme questione: ci sarebbero due condannati presenti, secondo questa sentenza, sullo scenario dell'agguato di via Fani che a tutt'oggi sono sottratti alla giustizia.
  Passo alla seconda questione. Non ricordo con esattezza il numero, perché sono passati tanti anni da quando mi sono concentrato su queste cose, ma direi che non sono lontano dal vero se affermo che ci sono due o tre testimoni oculari che, in momenti diversi e in situazioni diverse, hanno testimoniato di aver visto quella motocicletta, persone che si sono trovate lì quella mattina il 16 marzo.
  C’è poi una terza ragione, direi, ossia la deposizione dell'ingegner Marini. È vero che il dottor Armeni ne fa un'analisi molto interessante sul piano anche della metodologia storica e di come le fonti giudiziarie debbano essere trattate con grande cautela. È vero che le deposizioni di Alessandro Marini subiscono nel corso dei mesi o degli anni delle variazioni, impercettibili o grandi, che Armeni con perizia passa a vaglio critico. Tuttavia, io mi sentirei di dire che la sostanza delle deposizioni di Alessandro Marini non nega il fatto che egli abbia percepito di essere stato oggetto di una raffica di mitra e anche che si assuma la responsabilità, in mesi e in anni molto difficili e pericolosi, di fornire un identikit di una delle due persone sedute su questa moto. Fornì, infatti, l’identikit di una figura che corrispondeva al volto, allora estremamente noto e caratteristico, di Eduardo De Filippo.
  C’è poi un quarto aspetto. Marini è stato oggetto di minacce telefoniche anonime reiterate negli anni. Io direi che sono queste le ragioni che fanno pensare che quella moto, o più moto, fossero presenti sullo scenario.
  Io chiederei – non ricordo com’è la situazione – di audire l'ingegner Alessandro Marini per sentire la sua voce.
  Registro, inoltre, che una delle acquisizioni nuove, secondo me, di questa Commissione, acquisizioni che vengono pubblicate negli stessi giorni, o forse nello stesso mese, in cui esce anche il libro del dottor Armeni, è il fatto che effettivamente, grazie a una foto, noi siamo in grado con certezza di dire che non è vero, cioè che è falso, che il parabrezza del signor Alessandro Marini sia stato attinto da colpi di mitra. Ciò si vede visibilmente in quella foto.
  Certo, sorprende che siano dovuti passare trentasette anni perché un elemento così semplice sia stato preso in considerazione. Non solo effettivamente uno scotch teneva insieme il parabrezza, a confermare ciò che Marini aveva detto, cioè che quel parabrezza era rotto e che lui lo teneva insieme con uno scotch, ma si vede anche il motorino parcheggiato, integro.
  Poiché io ho il vago ricordo che nei verbali quel parabrezza sia percepito come rotto...

  PRESIDENTE. Qualcuno l'ha rotto di sicuro, perché dalla polizia scientifica viene acquisito spaccato in due.

  MIGUEL GOTOR. Ho questo ricordo anch'io. Mi dovete scusare, ma sono passati 8-9 anni da quando ho visto questi documenti. Non dobbiamo escludere l'ipotesi più semplice, cioè che quel parabrezza, che era già rotto e letteralmente Pag. 22tenuto insieme con dello scotch, nel momento in cui è stato trasportato o in questura, o nel garage della questura, o dovunque fosse, ed è stato messo sul cavalletto, possa essersi rotto. Secondo me, è importante dare per definitivo che non è vero che Marini sia stato colpito.
  Motivazioni anche di carattere psicologico, nervoso, neuropsichiatrico – stiamo parlando di un uomo che ha subìto un trauma gravissimo e indimenticabile – possono spiegare questa sua défaillance nel ricordo. Tuttavia, da qui a dire che allora la moto non c'era, secondo me, c’è un salto logico che dovrebbe essere meglio indagato.
  Io registro piuttosto, a distanza di trentasette anni dalla vicenda, che c’è una grande volontà o di negare la presenza della moto, o di metterci sopra un morto. Questo mi sentirei di dirlo: meglio un morto che appartiene ai servizi segreti, italiani o stranieri non importa. O c’è una tendenza negazionista, cioè quel fatto è negato in radice, e poi si sviluppano centinaia di ragionamenti, che possono portare a negare questo fatto, oppure ci si mette un morto sopra.
  Secondo me, la verità è più semplice. Evidentemente poi è difficile chiarirla, perché le implicazioni sono grandi. Si tratterebbe di capire chi c'era lì sopra. Probabilmente la grande reticenza da parte delle Brigate Rosse su questo tema – alle origini del negazionismo sulla moto ci sono testimonianze sia di Morucci sia di Moretti, i quali hanno sempre negato questa esistenza alla radice – dipende dal fatto che capire chi stava sopra quella moto probabilmente indurrebbe ad avere un'idea diversa delle dinamiche di funzionamento e di organizzazione delle Brigate Rosse e del ruolo delle Brigate Rosse nel cosiddetto partito armato.
  Questo è un primo punto. Anch'io lo metto agli atti. Bisogna continuare a indagare e a tenere acceso il fuoco dell'attenzione.
  La seconda questione riguarda Olivetti. Io ho avuto modo di leggere la relazione che è stata inviata dal dottor Armeni all'onorevole Lavagno. Anch'io vorrei sgombrare immediatamente il campo dalla suggestione che ci possa essere un rapporto di identità, di conoscenza o di parentela tra il Tullio Olivetti gestore del bar Olivetti e il Roberto Olivetti figlio di Adriano Olivetti. Uno è umbro e l'altro è piemontese di Ivrea. Sono proprio storie diverse.
  Quel documento è del 1973. Provo a dare una spiegazione. È un documento effettivamente interessante perché concentra una serie di rapporti. In quel documento del 1973 noi abbiamo un nome, quello dello scrittore Goffredo Parise, che riporta allo scenario di via Fani, perché abitava in via della Camilluccia, a qualche centinaio di metri.

  PRESIDENTE. Al numero civico 201; conviveva con una signora che si chiamava Fioroni.

  MIGUEL GOTOR. C’è effettivamente uno schizzo della zona del Portico d'Ottavia e, quindi, c’è la suggestione che la vicenda iniziale e la vicenda finale del sequestro Moro siano condensate in quell'appunto del 1973. Inoltre, tutte le persone citate, che sono effettivamente dell'alta borghesia romana e italiana, hanno a che fare con il mondo dell'arte. Sono collezionisti, appassionati, commercianti.

  PRESIDENTE. Con alcune acquisizioni proletarie...

  MIGUEL GOTOR. Vengo al punto. Nel 1973 Potere Operaio – questo è pubblico e notorio – si finanziava (facendosi regalare, estorcendo, rubando, i limiti sono difficili da definire) con il mercato dell'arte. È vero che c'erano fior di artisti – penso a Schifano – che regalavano le loro opere. Quelle opere servivano a finanziare le attività di Potere Operaio.
  Io ho l'impressione, ma non vorrei essere minimalista, che quell'appunto del 1973 sia relativo a quella stagione. Contiene i nomi di una decina di persone che a Roma bazzicano ad alto livello nel mondo dell'arte e che si possono contattare per fare scambi, per rubare loro, per vendere e comprare.Pag. 23
  Magari – concludo con una suggestione – sarebbe interessante tirare questo filo per scoprire se abbia a che vedere, e in che misura, con Toni Chichiarelli, il falsario d'arte, uno dei protagonisti di questa storia, che in quegli anni bazzicava a sua volta quello stesso mondo e si muoveva tra criminalità organizzata e contatti con chi poi quelle opere le vendeva, le rivendeva e le ricomprava. Questo si potrebbe fare, ma è soltanto una suggestione.

  FABIO LAVAGNO. Sarò brevissimo, presidente. Intervengo solo in risposta al senatore Gotor. È vero che l’humus comune, il minimo comune denominatore tra tutti questi personaggi è quello del mondo dell'arte e del collezionismo, ma alcuni personaggi qualche legame con l'eversione, con il terrorismo e con la lotta armata in generale ce l'hanno, e in maniera anche evidente. Cito solo il tesserino di Corbucci trovato nella tipografia Triaca. Alcuni elementi sono altrettanto veri.
  Torno solo un attimo sulla moto, non per gettare nuovamente benzina sul fuoco su questo elemento. A me non interessa molto sapere se la moto ci fosse o non ci fosse, quanto la sua funzione. Io credo che potessero essercene una, due, tre o nessuna, ma l'importante ai fini della nostra indagine è capire la funzione che ebbe quella moto. Credo che questo dovrebbe interessare tutti. Una volta capita la funzione, poi possiamo interrogarci su chi c'era, chi non c'era e chi la guidava o se andava da sola.

  PRESIDENTE. Prima di dare la parola al dottor Armeni per alcune rapide risposte, io condivido l'opinione che dovremmo prima individuare se le moto c'erano, per quanto possibile, e poi capire a che cosa siano servite.
  Senza inficiare le riflessioni del dottor Armeni e degli onorevoli Grassi, Lavagno e Gotor, ricordo che la lettura delle dichiarazioni dei soggetti auditi offre uno spaccato un po’ più coerente e persistente di quello dell'ingegner Marini, ma che non è assolutamente sovrapponibile, sia per il verso, sia per la descrizione.
  Se un teste descrive che uno porta il fermacapelli in testa, lo chiama anche con il nome giusto, che io nella mia ignoranza non so dire, e descrive il modo in cui era portato un mitra e il modo in cui era portato un altro, può essere tutto e il contrario di tutto, ma io credo che noi, ancora prima di capire a che cosa serva la moto – non so se ci arriveremo – dobbiamo finire di mettere le dichiarazioni a confronto. Se la moto c'era, non era una.
  Il «se c'era» è dovuto al fatto che, per quanto mi riguarda, io leggo solo le carte. Non abbiamo la possibilità di fare altro.
  Perché fare questo ? Perché è come il rullino di Infelisi. Noi abbiamo parlato sempre di uno, ma sicuramente sono tre e c’è un dubbio sul quarto. Teniamo presente che noi siamo riusciti a interrogare persone che non erano state mai interrogate e che anche a trentasette anni di distanza ricordano alcune cose. Questo non vuol dire che noi abbiamo scoperto l'uovo di Colombo o l'acqua calda, me lo dico da solo, ma, per precisione, le dichiarazioni, così com'erano e come sono, ci consegnano questo.
  Poi c’è domandarci perché, come e chi fossero. Io mi accontento di fermarmi alla prima domanda. Ciò che esiste di registrato evidenzia che i testi vedono due cose diverse, per quanto riguarda la moto, e ci sono rullini diversi, per quanto riguarda i rullini. Il di più lo vedremo. Siamo ancora all'inizio, ma sono questioni che io credo meritino un discreto approfondimento.
  Do la parola al dottor Armeni.

  GIANREMO ARMENI. Rispondo a lei, presidente, all'onorevole Grassi e al senatore Gotor. Innanzitutto sono d'accordo con lei. Io l'ho letto nella relazione: le moto sono più di una. Le carte dicono questo. Io l'ho precisato e sono d'accordissimo con lei.
  La seconda parte della risposta è per l'onorevole Grassi e il senatore Gotor. Io non faccio parte di nessun partito. Per quanto riguarda il senatore Gotor, non Pag. 24sono un negazionista. Non so se si riferisse a me, ma io non ho la tendenza negazionista sulla moto.
  Preciso: le carte dicono che la moto c’è stata e che ce n'era più di una, ma nessuna era associabile con gli elementi caratteristici della moto, geografici e temporali, che vedono Marini e Intrevado. Questo lo dicono le carte, non lo dice un negazionista.
  Detto questo, la moto è passata, perché non possono averlo inventato, ma non ha avuto alcuna funzione. Questo non si evince da nulla. Io non escludo la presenza di una moto. Dico, però: dimostratemi che funzione ha avuto la moto. È solo questo il discorso che faccio.

  MIGUEL GOTOR. Vorrei fare una precisazione. L'espressione «negazionista», che non è un insulto, ma è il negare un fatto, io l'attribuisco alle posizioni di Morucci e Moretti, che in diverse situazioni hanno negato alla radice questo fatto, con la volontà di negarlo. Non hanno assunto, per esempio, la sua posizione, che, come lei sta dicendo, non è una posizione negazionista. Lei non nega il fatto. Lei dice che la moto c'era. Se ha svolto un'altra funzione, lei dice, me la dovete spiegare. Benissimo.
  Mi ha sempre colpito il fatto che sia Morucci sia Moretti non abbiamo assunto la sua posizione, che è quella più ragionevole. Invece, si sono assunti la responsabilità di negare l'esistenza della moto in quello scenario, mentre sarebbe bastato dire: «Con la coda dell'occhio ho visto qualcosa, ma io non c'entro nulla e noi non c'entriamo nulla. Non era delle Brigate Rosse», o che so io. Invece dicono: «Ve la siete inventata». Di contro, però, al di là della sentenza della magistratura, ci sono dei testimoni oculari.

  GIANREMO ARMENI. Sul «negazionista» io le ho risposto perché lei sa che per chi fa ricerca sociale o storica essere tacciati di negazionismo... Poi lei l'ha spiegato. Io mi sono permesso di risponderle perché non ho alcun interesse in questa vicenda. Non conosco Mario Moretti e non mi paga nessuno.
  Le volevo dire, riguardo alla moto, così siamo tutti più chiari, che, quando lei ha detto che bisognerebbe trovare una verità più semplice, io mi trovo d'accordo con lei. Perché lei, però, non ipotizza che la verità più semplice sia quella di due autonomi romani che abitano a cento metri dall'incrocio ? Tutti e due abitavano lì. Lavoravano nel garage poco distante da via Fani del padre di Biancucci e «staccarono» dal lavoro quella mattina. Probabilmente sapevano anche dell'attentato, io questo non lo posso sapere, ma non è questa forse la verità più semplice ?
  Glielo chiedo con eleganza. Non voglio contraddirla. Qui ragioniamo, perché anch'io posso imparare. Gli elementi nuovi ci sono per scagionare Peppo e Peppa non di un delitto, ma di un passaggio e per metterci sopra altre ipotesi che, in realtà, sono, secondo me, un po’ più contrastanti rispetto a quello che ci dicono le carte. Secondo me, dovremmo mettere dei punti fermi. Io e lei su questo ci troviamo d'accordo. La moto c'era, ce n'era più di una, i testimoni le vedono, ma dobbiamo anche concordare sul fatto che quella moto non ha avuto una funzione, perché nessun testimone ce lo dice.
  Su Intrevado ho precisato che per me è anomalo e io una mezza idea ce l'ho sul perché egli soltanto diciotto anni dopo inizi ad aggiungere due elementi che accreditano la presenza attiva della moto. Perché non dirlo quattro anni dopo al Moro uno ? Io, da cittadino, poiché il nostro sistema giuridico si fonda comunque sulla bontà delle testimonianze e vengono sottoscritti verbali, capisco che dopo trentasette anni chiunque potrebbe anche dire che si è sbagliato, che si è confuso, che è suggestionato. Tuttavia, lei concorderà con me che, se io devo fare una ricerca e non ho comunque tessere di partito – non me ne importa niente – devo ragionare su un criterio che possa avere aderenze con la realtà.

  PRESIDENTE. Grazie, dottor Armeni. Solo per precisazione nostra, a noi non è mai venuto in mente – parlo per me – che la tessera di partito sia un prerequisito, Pag. 25né un requisito per ragionare con la propria testa.

  GERO GRASSI. Nel caso Moro ci sono tessere più negative di quelle dei partiti.

  PRESIDENTE. Ha ragione, ma stiamo a quello che ha detto.

  GERO GRASSI. Il dottor Armeni ci ha insultato. Io ce l'ho la tessera.

  GIANREMO ARMENI. Come, ho insultato ? Non ho insultato nessuno ! Io ho detto che non appartengo ad alcun partito. Lei ha detto che c’è il partito della moto e c’è il partito della non moto. Io ho detto che non sono di quel partito. Guardi che è un'offesa per gli studiosi sentirsi dire che fanno parte di un partito.

  GERO GRASSI. Io gliel'ho detto in contrapposizione al partito mio.

  GIANREMO ARMENI. Io non so come spiegarglielo.

  PRESIDENTE. Probabilmente, dottor Armeni, noi parliamo con un'accezione. Lei sta dicendo che, se a uno che fa lo storico o fa ricerche storiografiche di approfondimento si dice che ha un partito della moto, è come se aprioristicamente avesse una convinzione e piegasse le capacità di indagine o la verità alle cose dette, trasformando il vero in verosimile. Questa è una cosa che lede la dignità del ricercatore.

  GERO GRASSI. Certo, ci mancherebbe altro.

  MIGUEL GOTOR. A me interessava mettere in luce – questo è importante – che l'aver scoperto che il parabrezza di Marino non è stato attinto da colpi non esclude...

  PRESIDENTE. Le foto sono tante.

  MIGUEL GOTOR. L'aver scoperto questo non inficia la presenza di una o più moto, come abbiamo detto. Volevo sottolineare questo aspetto, perché c’è un'onda che tende...

  PRESIDENTE. Senatore Gotor, possiamo anche riascoltare l'ingegner Marini, ma, se uno la mattina esce da casa con il motorino quieto e tranquillo, si ritrova in mezzo a una carneficina con i proiettili da tutte le parti e non rammenta bene se l'hanno colpito al parabrezza o no... Ha pensato di essere morto. Si sarà detto: «Per fortuna, non mi hanno ammazzato». È questa la verità.

  MIGUEL GOTOR. Io mi riferivo a quello.
  La seconda cosa che lei sottolinea come una suggestione, è quella verso cui anch'io mi indirizzo. Secondo me, intorno alla moto c’è un problema che riguarda il rapporto tra le Brigate Rosse e il partito armato a Roma, che sono due concetti diversi. Lei ha parlato di due esponenti di Autonomia operaia. Devo dire che mi ha colpito che uno di questi due recentemente, quando gli è stato chiesto di testimoniare per quanto riguarda la vicenda dell'anonimo Fissore e della lettera che arriva a Roma, si sia avvalso della facoltà di non rispondere. Tutto qui.
  Anch'io sono d'accordo con lei. Secondo me, quella è la strada – quella o altre – ossia il rapporto con le Brigate Rosse, che negano quando potrebbero tranquillamente non negare. In questo caso e in questo senso sono negazionisti. In questo senso lo sono. È chiaro che si tratta di un senso restrittivo e legato all'uso della lingua italiana, cioè negano una cosa. Poi, invece, c’è il rapporto con il partito armato a Roma.

  GIANREMO ARMENI. Sempre in merito al senatore Gotor, lei intendeva dire che io nella relazione ho associato i due Olivetti, o ho capito male io ?

  PRESIDENTE. No, ha detto che poteva essere evocativo.

  GIANREMO ARMENI. Era chiara comunque la mia relazione.Pag. 26
  Lei parla del parabrezza rotto perché potrebbe essere caduto durante il trasporto in questura o altro. No, non può essere, perché c’è un verbale DIGOS del 26 settembre. Vanno a casa di Marini e lui ce l'ha...

  PRESIDENTE. C’è il verbale di sequestro.

  GIANREMO ARMENI. Esatto. Poi in una relazione lo spediscono al giudice Imposimato.

  PRESIDENTE. Dichiara che l'ha cambiato.

  GIANREMO ARMENI. Esatto. Il giorno dopo, il 27 settembre, il giudice Imposimato lo manda all'ufficio reperti.

  MIGUEL GOTOR. È ancora più semplice. È verosimile che a lui questo parabrezza si sia rotto mentre...

  GIANREMO ARMENI. Lo dice Marini, che afferma: «Mi cadde dal cavalletto».

  MIGUEL GOTOR. Ecco, mi ricordavo. C'era questa caduta dal cavalletto.

  GIANREMO ARMENI. Infatti, l'ho citata nella relazione.

  PRESIDENTE. È così. Con il trauma che ha vissuto non si ricorda più quello che dice subito e quello che dice dopo. Gli è capitato di trovarsi in mezzo a quelli che sparavano e ha pensato di morire.

  GIANREMO ARMENI. Anche secondo me, anche perché diceva di aver perso urina. È sintomatico del trauma.
  Senatore Gotor, per quanto riguarda le minacce al teste Marini, io non ne sarei così convinto. Ho dedicato un capitolo al tema. Anche lì ci sono tante cose che non tornano. L'ex procuratore generale Ciampoli...

  PRESIDENTE. Ha ascoltato le intercettazioni e ha detto che si trattava di pressioni diverse, connesse...

  MIGUEL GOTOR. Dovete partire dal presupposto che io ho letto le cose di Ciampoli e ho letto anche il suo libro, dottor Armeni. Non è un problema. Le cose esterne le conosco bene e non è il caso di soffermarci su di esse pubblicamente.
  C’è, però, la questione che quest'uomo riceve alcune telefonate – ne ricordo una durante una partita dei Mondiali del 1978 – in cui vengono fatte allusioni molto pesanti, che hanno un carattere ricattatorio. A tutta prima io non le direi che quelle telefonate vengono da esponenti del partito armato a Roma, ma questa è una mia illazione.

  GIANREMO ARMENI. Dove non so io non arrivo.

  MIGUEL GOTOR. Tuttavia, che intorno a Marini da subito ci sia un problema...

  GIANREMO ARMENI. No, è proprio quello il problema, in realtà: non è da subito. Marini inizia a dire che lo minacciano quattro mesi dopo e, poiché lui aveva già fatto...

  MIGUEL GOTOR. Con «da subito» intendo dire che viene portato in questura e riferisce. Non è un testimone che esce fuori quattro mesi dopo. Viene ascoltato il 16 marzo.

  GIANREMO ARMENI. Viene ascoltato il 16 marzo, il 5 aprile e poi a giugno, ma in quei verbali Marini dice già tutto quello che aveva da dire. Se fosse stato pericoloso per qualcuno, per i servizi segreti, per lo Stato, per le Brigate Rosse, per la malavita, per chiunque, perché minacciarlo dopo quattro mesi ? Il discorso è questo: se io ho già detto tutto, l'ho verbalizzato, l'ho sottoscritto e non ho più altro da dire, tu mi minacci dopo quattro mesi ?

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  MIGUEL GOTOR. Lo sappiamo. Il giornalaio Pistolesi è stato minacciato nei giorni successivi. Queste non sono motivazioni di carattere logico che, a distanza di trentasette anni, possono servire o essere utili per comprendere la realtà degli avvenimenti. In questo caso questo Marini ha subìto minacce, che arrivano a distanza di tempo e sono particolarmente ricattatorie, in base a quello che io so.

  GIANREMO ARMENI. Posso chiederle una cosa ? Nel baracchino c’è una sola telefonata registrata.

  PRESIDENTE. Non...

  GIANREMO ARMENI. Non se ne può parlare ? Va bene.
  Riguardo agli spari a Marini, lei dice che, nella sostanza, comunque, anche in assenza del riscontro peritale sul parabrezza, è convinto... Io le dico: mancano i bossoli, senatore Gotor. L'ha detto la DIGOS, non lo dico io. Non vennero repertati nel 1978. La foto l'ha vista anche lei. Io ho ricostruito – se lei ha letto il libro, che le ho dato io, lo sa – la colonna sonora di via Fani: 21 testimoni oculari non sentono gli spari contro Marini e tutti riferiscono nei verbali delle sommarie informazioni rilasciati alla polizia giudiziaria, senza che venisse loro chiesto, tutti i suoni che hanno ascoltato quella mattina, dai colpi singoli, alle raffiche, a quando sono cessati, al rumore dei freni, allo stridio delle gomme e quant'altro. Non c’è un solo elemento.
  Mi riallaccio – non so se l'ha detto lei; credo che l'abbia detto anche l'onorevole Grassi – al discorso della sentenza. Voi dite che c’è comunque una sentenza. Io dico che non c’è un solo elemento che confermi l'attentato a Marini, nemmeno la sentenza. Io ho letto la sentenza. Sono non so quante pagine.

  PRESIDENTE. Questo è un concetto che ha già espresso. Diciamo che noi in questa sede non le commentiamo.

  GIANREMO ARMENI. Dico solo una cosa. Non era per commentare. L'ho scritto nel libro, è pubblico.

  PRESIDENTE. Lei dice che la sentenza si fonda sulla testimonianza di Marini.

  GIANREMO ARMENI. Non c’è altro.

  MIGUEL GOTOR. A me di questa vicenda quello che interessa non è tanto se Marini sia stato o meno attinto da colpi. Anzi, certamente il parabrezza non è stato attinto. Se poi ci sono stati dei colpi che non l'hanno attinto direttamente, ma che sono stati sparati al suo indirizzo, mi interessa relativamente. Mi interessa invece l’identikit che Marini fornisce nei riguardi di una delle due persone che sono sulla moto. Quello, secondo me, è stato meritevole di attenzione nell'immediato. Lo è stato, nel senso che furono fatte delle indagini. Marini fornisce un'indicazione specifica. È questo l'aspetto su cui bisogna, secondo me, concentrarci.

  GIANREMO ARMENI. Posso dire un'altra cosa ? In merito a questo punto, però, Marini dice anche che c'era un uomo col passamontagna e nel 1994 ritratta tutto.

  MIGUEL GOTOR. Vorrei dire una cosa a proposito delle ritrattazioni, perché forse è una mia ingenuità. Le ritrattazioni, o anche le testimonianze a distanza di molti anni, secondo me hanno una spiegazione semplice nella paura di morire che c'era nel fare delle deposizioni pubbliche in Italia tra il 1978 e tutti gli anni Ottanta. Lei non si deve meravigliare, secondo me, del fatto che a distanza di diciotto anni un testimone finalmente... Si sparava in quegli anni. Tra il 1978 e il 1982 soprattutto si sparava, e tantissimo.

  PRESIDENTE. È interessante, ma ormai entriamo nel dibattito. Se ha una ultima risposta da dare, poi devo concludere la seduta, altrimenti non stiamo più nei tempi.

  GIANREMO ARMENI. Volevo dire soltanto all'onorevole Grassi, che però è andato via, che ha detto...

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  PRESIDENTE. L'onorevole Grassi legge tutto quello che lei dice, stia tranquillo.

  GIANREMO ARMENI. L'onorevole Grassi ha detto che è l'equipaggio della volante, la prima che interviene, che parla della moto. Io l'ho scritto nel libro e gli volevo far notare che non è l'equipaggio delle volante. Gli agenti della volante lo fanno perché hanno la ricetrasmittente, ma è Marini che va da Sapuppo e Di Berardino e dice loro che ha visto una moto, tant’è vero che gli agenti gli chiedono il documento e riportano i dati anagrafici. È sempre, solo e soltanto Marini che promuove la sua versione. Non ci sono altri testimoni.

  PRESIDENTE. Ringraziamo il dottor Armeni. Ci scusiamo per la fretta di concludere, ma dobbiamo andare in Aula.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 16.